Ducon stava disegnando, al confine della città-ombra. Nelle profondità dei passaggi segreti del palazzo, come una falena perversa, il giovane si era lasciato attrarre verso il posto che nessuna luce poteva penetrare. La porta con un montante di legno danneggiato e l’altro dipinto a strisce arcobaleno conteneva una tenebra così palpabile da sembrare, come il carboncino tra le sue dita, un crogiolo in cui qualsiasi cosa poteva prendere forma. Quando lui aveva proteso una candela accesa oltre la soglia, il nero aveva ingoiato del tutto la fiamma; quando aveva provato ad attraversarla lui stesso, non aveva sentito nulla sotto il piede. A volte udiva la pioggia, il verso di un uccello, il fruscio del vento tra gli alberi; più spesso avvertiva soltanto la presenza dell’immensità e del silenzio, come se fosse sull’orlo del mondo.
Non vedeva niente. Così lasciava che fosse il carboncino a immaginare ciò che poteva esserci al di là della porta. E dal carboncino uscivano facce, fantasie di palazzi fiabeschi, grandi boschi, e mari spumeggianti dove navigavano velieri dal bompresso spiraliforme come lo sperone frontale dell’unicorno. Ma un volto continuava ad apparire negli schizzi più diversi e casuali. Ducon trovò quella persona tra i cavalieri che cavalcavano in un bosco, e tra la gente sulla terrazza di un’alta torre. Un uomo che aveva quel volto camminava nel porto, e nella strada di una città che avrebbe potuto essere Ombria, se Ombria avesse avuto finestre fiorite, o il suo porto avesse ospitato una foresta di alberi di navi. Desideri, pensò lui. Sogni. Questo è tutto ciò che contiene il carboncino: il mondo perfetto immaginato da un bambino, una città d’infinite delizie. Tuttavia quel mondo lo seduceva, lo tratteneva dal tornare nella misera e silenziosa stanzetta logorata dalla pioggia, davanti a quella porta piena di niente.
Aggirandosi nel palazzo aveva dovuto essere molto prudente. Domina Pearl aveva ordinato a due guardie di seguirlo dappertutto, e non per la sua sicurezza, sospettava lui, bensì perché era curiosa di sapere cosa facesse quando spariva nelle viscere dell’edificio. Dal giorno dell’attentato lui non aveva ancora visto Sozon e Kestevan, ma non tutti i congiurati erano stati spaventati dalle nuove misure di sicurezza della reggente. Ogni tanto vedeva qualcuno dei giovani, e sapeva che lo stavano tenendo d’occhio. Poteva eludere la sorveglianza delle guardie quando voleva, ma, se i suoi segreti restavano al sicuro, la sua persona non lo era affatto.
Né lo era, evidentemente, Camas Erl, che al termine di una lezione pomeridiana con Kyel aveva lasciato il palazzo e da allora non era più stato visto.
La Perla Nera si mostrò assai irritata per la sua scomparsa, benché il vecchio cortigiano fosse un semplice tutore.
«Prima sparite voi», sbottò, dopo aver convocato Ducon nella biblioteca per interrogarlo. Kyel e Lydea si tenevano in disparte. Entrambi apparivano indifferenti, come se l’assenza del tutore non li riguardasse, ma Ducon sentiva che la giovane donna frenava a stento l’impulso di mangiarsi le unghie. «E ora, Camas Erl. Dove può essere andato?»
«Non ne ho idèa», rispose lui. Ed era la verità. Fino a poco prima avrebbe giurato che la responsabile di quella sparizione era Domina Pearl.
«Voi gli siete sempre stato vicino. Dove va, di solito? Di cosa si occupa?»
«Trascorre qui tutto il suo tempo libero», rispose lui, stringendosi nelle spalle. «Legge, e lavora alla sua storia di Ombria. Forse è andato a fare altre ricerche.»
«Quando dovrebbe tenere lezione al principe? E senza avvertirmi?»
«Sì, questo è improbabile.»
«Vi risulta che ci sia qualcuno che lo vuole morto?»
«Per quale motivo?» replicò Ducon. «Perché qualcuno dovrebbe voler uccidere un vecchio insegnante? Forse si è recato in qualche quartiere malfamato, anche se non è da lui essere così imprudente. Potrebbe esser stato ferito.»
«Voi conoscete i sobborghi meglio di chiunque altro. Andate a cercarlo. No, un momento.» Chiuse gli occhi e si sfiorò la fronte con le unghie, nere e curve come dorsi di scarafaggi. «Per ora, restate qui col principe. Fategli lezione voi, quando la ragazza avrà finito l’ora di calligrafia. Non voglio lasciarli soli, neppure con la presenza delle guardie. Andrete a cercare Camas più tardi, quando avrete finito. Sono certa che voi conoscete i vicoli più reconditi e i buchi dove si rintanano i topi di fogna più pericolosi. Prendete un’arma, e fatevi scortare da una guardia di palazzo. Cercate di essere prudente.»
Lui annuì, e la guardò uscire come una tromba d’aria, sorpreso che nella sua furia non si risucchiasse dietro un vortice di libri e di fogli sciolti.
KyeL che fissava apaticamente la carta e il calamaio, pronunciò sottovoce il nome di lui in segno di saluto, poi chiamò: «Lydea».
«Mio signore Kyel, sono la maestra Spina.»
Lui sì voltò a guardarla. Quando la speranza fiorì dalla muta e stanca disperazione, il cambiamento del suo volto fece venire un nodo in gola a Ducon.
«Io sono il principe di Ombria», sussurrò Kyel. «E tu sei la mia rosa segreta.»
«Sì, mio signore.» La giovane si lasciò scrutare dal suo sguardo affascinato, ma il bambino non riuscì a vedere nessuna rosa segreta nel volto composto e freddo della maestra Spina. «Nobile Ducon», disse lei, «tu hai qualche idea…»
«Nessuna.»
«Temo che se la reggente indagasse sulla mia istruzione, durante l’assenza di Camas Erl, non ne sarebbe troppo compiaciuta.»
Lui si portò un dito alle labbra. «Anche i calamai hanno orecchi. Sembra che questo non ti preoccupi molto, maestra Spina.»
«Se tu andrai via», disse Kyel alla ragazza, «io verrò con te.»
«Mio signore», rispose cautamente lei, «non ho intenzione di andarmene, prima che tu abbia imparato a scrivere la storia del ventaglio in parecchie lingue.»
«Ci vorrà molto tempo?»
«Moltissimo tempo», annuì lei, «dato che prima dovrò impararle io. E ora, visto che qui c’è tuo cugino, forse faresti meglio a imparare a scrivere il suo nome, nel caso che tu ne abbia bisogno.»
Kyel si mise volonterosamente al lavoro. Ducon restò un poco a guardarlo, godendosi la piccola isola di pace che avevano costruito in quel luogo inquieto e pericoloso. Non sarebbe durata molto. Ma per il momento, almeno, il bambino ricordava di avere un cuore.
Ducon rimase con loro, e insegnò a Kyel ciò che sapeva sugli scorpioni, le onde di marea e altri argomenti a caso, cercando di tenere in vita la luce di vivacità nei suoi occhi.
Quando la Perla Nera tornò a prendere il bambino nel primo pomeriggio, Ducon rientrò nel suo alloggio, seguito dalle guardie assegnate a lui, per munirsi degli attrezzi da disegno e della spada che non si era mai preoccupato di portare, fuorché nelle cerimonie di corte. Uscì da una porta segreta accanto al camino della stanza da letto, e scese da solo nel cunicolo che conduceva alle cantine e in strada, attraverso i giardini posteriori.
La ricerca di Camas Erl era un problema che lo trovava del tutto impreparato. Ma Lydea aveva ragione: se Domina Pearl fosse stata costretta a metterla al posto dell’anziano tutore, l’incantesimo della maga non avrebbe retto a un esame più ravvicinato da parte sua. La ragazza sarebbe stata ritrovata sotto un molo col collo spezzato, e Kyel sarebbe diventato un cadavere vivente. Di conseguenza lui doveva scoprire dov’era finito Camas Erl.
Fece indagini nelle taverne e nei bordelli che conosceva meglio, ma senza risultati. D’altro canto, se Camas fosse stato interessato a quel genere di locali, gli avrebbe chiesto di accompagnarlo. Il vecchio cortigiano era astemio e pudico; l’idea che entrasse da solo in un posto come il Bacio dello Sgombro a tracannare birra e cercarsi una femmina era semplicemente ridicola.
Al tramonto, Ducon ritornò a palazzo, convinto che cercare in città era inutile e che Camas doveva essersi perduto nel labirinto sotto l’edificio. Risalì nel suo alloggio lungo il percorso da cui era uscito, depose la scatola da disegno e mise la testa fuori dalla porta per dare una voce alle sue guardie. I due uomini erano furiosi con lui, ma non avevano ancora trovato il coraggio di riferire a Domina Pearl che si erano lasciati imbrogliare da Ducon Greve. Quando il giovane disse loro che non si era mai mosso da lì, decisero che conveniva fingere di credergli e continuarono a piantonare l’appartamento, mentre lui, tornato in camera da letto, usciva ancora nei passaggi segreti.
Stava seguendo un percorso a caso, nel tentativo di mettersi nei panni di Camas per capire quale direzione il vecchio avrebbe trovato più invitante, quando udì le voci.
Subito si fermò e tese le orecchie.
C’era un tramestio oltre una parete, ogni tanto una parola, il cigolio di un’asse del pavimento. Fu sul punto di chiamare Camas, ma tacque. C’erano troppi piedi. Sembravano muoversi in un corridoio parallelo al suo, o attraverso varie camere adiacenti dall’altra parte del muro. Guardie alla ricerca di Camas? Ma le guardie di Domina Pearl non si muovevano furtive, né bisbigliavano. Ducon strinse i denti.
Per lui fu facile aggirare i giovani cospiratori; essi non avevano idea di dove portavano quei labirinti di stanze e cunicoli dimenticati. Tornò indietro, scivolò oltre un paio di porte e spense la candela. Quasi subito li vide in un corridoio poco più avanti, con le facce illuminate dalle loro candele e concentrati, ansiosi. Aprivano le porte, esaminavano brevemente ogni stanza e proseguivano, cercando di non far rumore, a parte il loro scalpiccio cauto e qualche mormorio di commento.
Ducon li pedinò con prudenza, chiedendosi se lo avrebbero portato fino a Camas. Non riusciva a immaginare cosa stessero cercando. A un certo punto si separarono per esplorare un insieme di locali nei quali, come lui sapeva, non c’era niente, a parte le ragnatele, i topi, e le impronte che lui aveva lasciato nella polvere. Si nascose a pochi passi dal punto in cui prevedeva che si sarebbero di nuovo raggruppati, e riuscì a sentire i loro sussurri.
«Dev’essere in un’altra ala del palazzo. Qui non c’è niente.»
«Ducon potrebbe saperlo.»
«Non possiamo domandarlo a lui; si chiederebbe perché ci interessa. E poi, se ci tradisse con Domina Pearl come ha tradito Hilil Gamelyn?»
«Ancora non l’ha fatto. E credo che non denuncerebbe nessuno a lei. La odia.»
«Lei non gli ha ancora tolto niente.»
«È un bastardo; non ha niente. Non ha terre, non ha titoli di proprietà, non ha nulla da perdere fuorché un letto qui a palazzo e una rendita controllata dalla reggente. A differenza dei nostri padri.»
Un altro disse: «È incredibile fin dove osa spingersi. Ieri ha detto a mio padre che ogni nave che fa scalo a Ombria dev’essere considerata di proprietà del principe di Ombria, compreso il suo carico. Si è già impadronita dei moli e delle tasse portuali, per i suoi pirati. Ora ci sta rubando le navi. Mio padre ne ha una dozzina in navigazione, e non c’è modo di avvertirle».
«Ha confiscato tutte le terre di mio zio, che appartengono alla nostra famiglia da generazioni», aggiunse un altro, con tutta la veemenza che si poteva mettere in un sussurro. «Gli ha mostrato una mappa disegnata secoli fa, quando quelle terre erano della Casa dei Greve. Prima che fossero date alla mia famiglia! Ha detto che furono donate illecitamente, e che avrebbero dovuto essere reclamate cent’anni fa. Secondo mio zio, lei vuole il legname di quei boschi per costruire altre navi.»
«Il motivo è chiaro. Nessuno attraccherà più qui, a parte le sue navi. Ombria dipenderà del tutto dai suoi traffici marittimi e dai prodotti delle terre che lei ha rubato.»
«Non abbiamo molto tempo da sprecare in questa ricerca, e nessuno di noi sa niente di veleni. Io dico di travestirci da guardie e soffocare il bambino nel suo letto.»
«Il veleno è più sottile, e farebbe cadere i sospetti sulla Perla Nera.»
«Potremmo avvelenare lei, invece di Kyel.»
Ducon sentì una morsa allo stomaco, mentre il cuore accelerava le pulsazioni. Posò la fronte contro la porta e si accorse che stava sudando freddo. Il peso della spada che aveva al fianco diventò una feroce tentazione, ma si costrinse ad ascoltare.
«Ne abbiamo già parlato. E ci siamo trovati d’accordo.» I loro sussurri li rendevano anonimi. Lui non riusciva ad accoppiare quelle voci a nessun volto. «Lei è troppo imprevedibile. Ducon è abbastanza informato e astuto da riuscire a ucciderla, ma rifiuta di agire contro di lei. Se pensasse che lei ha ucciso Kyel…»
«La ucciderebbe. Sicuro. Così finirebbe il regno della Perla Nera. E nessuno sospetterebbe di noi.»
«Ma se…»
«Non dev’esserci nessun ‘se’.»
«Lei potrebbe incolparne Ducon.»
«Nessuno le crederebbe. Ormai ne ha fatte troppe.»
«E se fosse lei a uccidere Ducon, quando lui la attaccherà?»
Seguì un breve silenzio. Stringendo l’elsa della spada con tale forza che le sue dita sembravano fondersi col metallo, Ducon trattenne il respiro e aspettò, mentre loro riflettevano.
«Allora avremmo perduto», commentò qualcuno, con un fil di voce. «Non ci resterà che andarcene da Ombria, come i topi abbandonano la nave che affonda.»
«Ma dov’è che quella donna tiene i suoi veleni, in questo labirinto?»
In quel momento Ducon aprì la porta. Aveva sfoderato la spada con ferocia istintiva, e la lunga lama d’argento catturò la luce delle candele mentre si sollevava, in un lungo e strano momento durante il quale ogni viso si girò verso di lui, imprimendosi a fuoco nella sua memoria. Poi la punta dell’arma si appoggiò sul colletto ricamato del più acceso tra i cospiratori, che sbarrò gli occhi. Ducon ebbe l’impressione di guardarsi dall’esterno, e in quel silenzioso intervallo di tensione seppe che se un solo muscolo si fosse mosso sulla gola dell’altro sarebbe stata la lama a decidere per lui. Il giovane che aveva di fronte era immobile, pallido come la sua candela; intorno a lui nessuno osava respirare.
La spada ebbe un fremito nella mano di Ducon; la luce balenò su e giù lungo la lama. La furia che poco prima l’aveva indotto a vedersi dall’esterno, freddamente, ora si accendeva come fuoco nelle sue vene. Il giovane abbassò lo sguardo sulla punta che gli premeva nel collo e aprì la bocca per parlare.
«Stai zitto», lo consigliò Ducon, con voce così bassa che la fiamma della candela non ne avvertì l’alito. A parlare era soltanto la spada, senza parole, e il suo era un silenzio rabbioso che non ammetteva discussioni. Infine lui la ritrasse, e con tutta la sua forza abbatté un fendente di traverso sul muro. La goccia di sangue che aveva raccolto dalla piccola ferita sulla gola dell’altro si sparse sull’intonaco, come un pulviscolo di smeraldi. Il giovane indietreggiò, portandosi una mano al collo, e un conato di vomito lo fece piegare in due.
Ducon rinfoderò la spada, con mano tremante. Nessuno cercò di parlare. Il giovane che si era sentito sfiorare dalla morte si raddrizzò lentamente, dolorosamente, e, appoggiandosi al muro, si voltò verso di lui. La passione che gli bruciava nello sguardo lo aveva abbandonato; i suoi occhi stanchi, disperati, ricordarono a Ducon quelli di Kyel.
Li guardò, tenendo la voce sotto controllo. «Se Kyel muore, vi ucciderò tutti. Uno dopo l’altro. Ho disegnato le vostre facce.»
«Mio signore…» mormorò il giovane, a disagio.
«La Perla Nera, lasciatela a me.»