Raddrizzò il manico che serviva a far girare la trottola e lucidò il metallo prima di tracciare le spirali con una matita e poi si fece prestare un oliatore per macchine da cucire e oliò la spirale del manico, in modo che scorresse facilmente. E poi cominciò a dipingere.
Non era molto esperto in quel genere di lavoro, ma si impegnò con accanimento. Dipinse scrupolosamente, prima con il rosso, poi con il verde, e infine con il giallo, augurandosi che i colori andassero bene, perché non riusciva a ricordare esattamente come fossero. Comunque, probabilmente, non avrebbe avuto molta importanza quali erano i colori, purché fossero molto vivi e disposti a spirale. Se il passaggio nel regno delle fate fosse stato prodotto da una combinazione di colori, tutti i bambini che avevano giocato con le trottole sarebbero finiti là, e lui, invece, non ne aveva mai saputo niente. No, non dovevano essere i colori. Ciononostante, cercò di fare ugualmente un buon lavoro.
Forse, era importante che lui fosse convinto di svolgere un buon lavoro.
Si macchiò di tinta le mani e i vestiti e la sedia su cui aveva posato la trottola e versò un barattolo di rosso sul pavimento, ma lo raccolse in fretta, con una specie di piroetta che rischiò di rovesciare anche tutto il resto del suo armamentario; ma arrivò in tempo, e così sul tappeto finì pochissima vernice.
Poi terminò, e si fermò a esaminare quello che aveva ottenuto.
Adesso era pronto: pronto a vedere cos’avrebbe scoperto facendo girare la trottola. Forse la terra incantata, forse niente. Molto più probabilmente, non avrebbe scoperto niente. Perché doveva esserci ben altro che la trottola che girava… la mente e la fiducia e la pura semplicità di un bambino. E tutte quelle cose erano state molto belle, finché erano durate, ma adesso lui non le possedeva più.
Uscì, chiuse a chiave la porta alle sue spalle, e scese la scala. La cittadina e l’albergo erano troppo piccoli per avere ascensori. Comunque, non era una cittadina piccola come il villaggio della sua infanzia, il minuscolo villaggio dove stavano ancora seduti sulla vecchia panca davanti all’emporio, e sulle casse rovesciate, e ti guardavano di sottecchi e ti rivolgevano domande curiose e impudenti, per ricavarne l’essenziale, e poi tesserne lunghi pettegolezzi, che avrebbero occupato le lunghe serate e le giornate d’inverno e le ore pigre che scorrevano, lentamente, sempre lentamente, come il volgere delle stagioni.
Ridacchiò, pensando a quello che avrebbero detto quando al villaggio sarebbe arrivata la notizia che lui era fuggito da Cliffwood per sottrarsi a un linciaggio.
Perché la notizia sarebbe arrivata. Ann non ne sapeva niente, ed Eb non aveva detto niente, e la notizia non era apparsa sui giornali, ma presto o tardi qualcosa sarebbe filtrato. E allora tutti avrebbero saputo che il ’famoso’ scrittore Jay Vickers era sfuggito per miracolo a un linciaggio, ed era accusato di avere ucciso un uomo. Un delitto fosco e misterioso, con risvolti indefinibili.
E allora la notizia si sarebbe messa in movimento, e sarebbe arrivata anche al villaggio. Lentamente, come accadeva sempre, ma sarebbe arrivata.
E loro avrebbero saputo.
Gli pareva già di sentirli.
«Un ipocrita,» avrebbero detto. «È sempre stato un ipocrita, e un buono a niente. Suo padre e sua madre erano brava gente, però. È strano, come qualche volta un figlio butta male, anche se suo padre e sua madre erano persone come si deve.»
E avrebbero scosso il capo, solennemente.
Attraversò l’atrio, uscì sulla strada. Il vaglia telegrafico era arrivato, tempestivo, e lui si fermò per qualche istante a cambiarlo.
Era stranamente piacevole, sapere di avere qualcosa in tasca.
Raggiunse un ristorante aperto, e la cameriera lo salutò, e gli disse:
«Bella serata, vero?»
«Sì,» fece lui.
«Vuole qualcosa, con il caffè?»
«No,» disse Vickers. «Solo il caffè.» Adesso il denaro l’aveva, grazie alla celerità di Ann, ma si era accorto, senza stupirsene, che non aveva appetito, non se la sentiva di mangiare nulla.
La cameriera tornò al banco, pulì qualche immaginaria macchiolina con lo strofinaccio che teneva in mano.
Una trottola, pensò Vickers. E che c’entrava? L’avrebbe portata a casa, l’avrebbe fatta girare, e avrebbe saputo, una volta per tutte, se esisteva veramente una terra incantata… no, non questo, per l’esattezza. Avrebbe saputo se lui poteva ritornare nella terra incantata.
Che fosse esistita, l’aveva sempre saputo. Ne era stato sicuro, nel profondo della propria mente, anche quando gli era sembrato di dimenticarlo. Fino a quando una bambina di nome Jane non gli aveva chiesto se nella sua vita non ci fosse mai stata una ragazza da sposare.
E tutta la catena era cominciata da lì.
La terra incantata, il regno delle fate, e quella sottile differenza che faceva di lui qualcosa di diverso, qualcosa che gli altri non consideravano allo stesso modo con cui consideravano gli altri uomini. Uno che sfuggiva al normale istinto gregario degli esseri umani, e che aveva dovuto relegare anche questo nelle profondità della propria mente, per non sentirsi troppo profondamente ferito da qualcosa che doveva accettare e subire senza comprendere.
La terra incantata, il regno delle fate, e un uomo che era sottilmente diverso dagli altri, senza saperlo, anche se gli altri lo sapevano, chissà come.
E la casa. Che cosa c’entrava la casa?
Oppure la trottola e la casa c’entravano davvero?
E se non era così, perché Horton Flanders gli aveva scritto: «Torni a passeggiare per i sentieri che percorreva da ragazzo. Forse troverà una cosa che le occorre… o qualcosa che ha perduto.» Forse non erano queste le parole che aveva usato. Chiuse gli occhi, e tentò di concentrarsi, perché gli sarebbe piaciuto ricordare le parole esatte di Flanders, ma non le rammentava più.
Così lui era tornato e aveva trovato una trottola dimenticata, e soprattutto aveva ricordato la terra incantata. E perché, si chiese, in tutto il tempo trascorso da quando lui aveva otto anni, non aveva mai ricordato quella passeggiata nella terra incantata?
Gli aveva fatto un’impressione profonda, a quel tempo, non c’era dubbio, perché non appena l’aveva ricordata gli era parsa nitida e chiara come se fosse appena avvenuta.
Ma qualcosa l’aveva spinto a dimenticarla: forse un blocco mentale. Qualcosa gliel’aveva fatta dimenticare. E qualcosa gli aveva fatto rifiutare, istintivamente, la proposta di Crawford.
Qualcosa.
Che cosa gli stava accadendo?
Che cosa gli stava accadendo, in realtà, dal mattino nel quale la bambina, Jane, aveva bussato alla porta e aveva chiesto di fare colazione con lui?
Quante cose lui sapeva, e aveva dimenticato, e quante altre cose credeva di ricordare, ed erano diverse da com’erano in realtà?
La cameriera ritornò, si fermò, puntellandosi con il gomito sul piano del tavolo.
«Stasera danno un film nuovo, al Grand,» disse. «Mi piacerebbe vederlo, ma non posso smontare presto.»
Vickers non rispose.
«Le piacciono i film?» chiese la ragazza.
«Non lo so,» disse Vickers; «vado al cinema così di rado.»
L’espressione di lei era tutta pietà per coloro che non andavano al cinema.
«Sa, io vivo solo per i film,» disse. «Sono così… grandi! Così reali. Così naturali!»
Vickers alzò gli occhi verso la ragazza, e vide che aveva una faccia qualunque. Un viso che valeva un altro, di una giovane donna che cercava qualcuno per farsi accompagnare al cinema, un’avventuretta che servisse a distrarla della monotonia della vita di ogni giorno. Era il viso delle due donne che chiacchieravano sull’autobus dietro di lui; era il viso della signora Leslie che gli diceva, «Stiamo organizzando un circolo Finzionista…» Era il volto di coloro che non osavano parlare con se stessi, coloro che non potevano rimanere soli neppure per un momento, coloro che erano stanchi senza sapere di essere stanchi, e impauriti senza sapere di che cosa avevano paura. Di ragazze e ragazzi che non volevano essere mai soli, e che andavano in cerca di compagnia per trascorrere poche ore di falsa, stanca intimità, rassicurati nel corso della notte dalla vicinanza di un altro corpo, un fragile paravento per difendere da quella grande solitudine.
E, sì, era la faccia del marito della signora Leslie, che riempiva di donne e di liquori una vita vuota. Era l’ansia struggente divenuta abituale, che spingeva la gente a correre nei rifugi psicologici, per difendersi dalle bombe dell’incertezza.
La gaiezza non bastava più, il cinismo si era esaurito, la disinvoltura non era mai stata altro che una difesa temporanea. Perciò adesso la gente cercava la droga della finzione, e ciascuno si identificava con un’altra vita e con un altro tempo e un altro luogo… al cinema o alla televisione o nel movimento Finzionista. Ed erano quelli che erano più forti, quelli che non cercavano un sollievo nella violenza o nella droga vera. Perché, fino a quando eri qualcun altro, non avevi bisogno di essere te stesso.
Ed era spaventosamente difficile, e sconvolgente, essere se stesso.
Vickers finì il caffè, e uscì nella via silenziosa.
In cielo sfrecciò un reattore, a bassa quota: il borbottio degli ugelli rimbalzò contro i muri. Vickers guardò le sue luci tracciare una doppia linea di fuoco sull’orizzonte buio, e poi voltò le spalle all’orizzonte, e andò a fare una passeggiata.