Cercò di svegliarsi, poi si concentrò ancora più profondamente per non farlo, per tornare in quel buio fitto e confuso. Ma era troppo tardi: aveva già avvertito il dolore, le ammaccature che sembravano lame di rasoio contro la sua spina dorsale.
— Gesù… Cristo… — Sentì il suono delle proprie parole, un sussurro distante, al di là del rombo che aveva nelle orecchie. Qualcosa dentro di lui, che era stata parte di lui, ma che in quel momento lui non riconosceva, voleva vomitare; sentiva la nausea salirgli dalla radice della lingua. E avrebbe vomitato volentieri se solo avesse saputo in che posizione si trovava. Se fosse stato capovolto, probabilmente non sarebbe stata una buona idea; ricordava alcuni avvertimenti che gli avevano dato molto tempo prima su tremende lavande gastriche… si poteva morire in quel modo.
Aveva già capito di essere ancora vivo. La sincronia dei suoi dolori con il pulsare del sangue e i sussulti all’interno della sua testa… ecco cosa glielo aveva fatto capire: se fosse stato morto non si sarebbe sentito così male.
Aprì gli occhi. La palpebra destra non si sollevò subito, ma, infine, si aprì come una lampo difettosa. Il cielo era rosa intorno ai bordi delle nuvole lontane. Viste attraverso il groviglio dei suoi capelli, avevano macchie nere, di sudore o sangue. Scosse la testa, cauto: sentiva delle punte di spillo alla base della nuca. Le linee scure fluttuavano sullo sfondo delle nubi. Sono rivolto verso l’alto. Quello era riuscito a capirlo.
La sua giacca e la sua camicia erano strappate; guardandosi con il mento appoggiato al petto, notò dei lividi, le costole segnate di blu e un’abrasione rossa su un fianco. Vedeva il proprio petto sollevarsi a ogni respiro che corrispondeva a una ritmica staffilata al cuore. Sì, era decisamente vivo; quella conferma quasi gli dispiacque. I sussulti gli correvano lungo la schiena. Era davvero stupito, in mezzo a quella nebbia protettrice.
Ricordava di aver colpito il muro mentre si trovava alla fine del cavo. Poi era caduto, il grande passo. Altrimenti quei folli avrebbero portato a termine il loro lavoro. Sollevò un braccio dal gomito scricchiolante e si passò una mano sulla faccia, scostandosi i capelli rossi dal viso per vedere più luce. Anche il palmo della mano era rosso, rosso con strisce nere di grasso e sporco. Il sudore appiccicoso gli unse il viso.
Grasso… quello lo fece pensare. A un altro dei poveri viaggiatori, un suo compagno di viaggio, che aveva colpito il muro con un rumore di metallo contro metallo. Quello che aveva sulle mani era probabilmente il grasso della Norton — si era forse aggrappato a lei mentre scivolava nel vuoto, in parte per attaccarsi a qualcosa di familiare e in parte per salvare la sua moto? — non riusciva a ricordarlo. La rivide solo rotolare via, un arco piatto verso il margine dell’atmosfera, con le ruote trasformate in ovali e le corde che vibravano inutilmente intorno ai mozzi mentre il motore perdeva tutti i pezzi. Nel petto già sanguinante, provò tristezza anche per quell’ultima vista. Pezzo d’idiota… Con le lacrime agli occhi, si rese conto di non aver provato altro se non dolore e tristezza da quanto aveva scoperto di essere ancora vivo.
— È ora di andare — Axxter aprì di nuovo gli occhi. Probabilmente c’era un sacco di roba di cui occuparsi, se doveva continuare a vivere. Sapeva bene di non potersi limitare a stare aggrappato al muro.
Per la prima volta si chiese esattamente cosa lo tenesse attaccato alla parete. La sua solita nausea — un altro sintomo di vita — gli serrò la gola quando guardò verso il basso e vide la barriera di nuvole stagliarsi contro la curva dell’edificio, molto più sotto di lui. Le corde dei suoi stivali gli avevano saldamente fissato i fianchi e le caviglie al metallo, mentre i piedi non toccavano la superficie. Le corde gli bloccavano anche la vita e gli appiattivano il sedere contro il Cilindro; il freddo dell’acciaio gli gelava il retro delle cosce e il coccige.
Ma c’era qualcos’altro, molto meno vivo di quanto lo fossero le sue corde. E più spesso: una corda di plastica e tela intrecciate con fili colorati i cui capi d’ottone spuntavano fuori da quella fune rozza. Si accorgeva solo ora che gli attraversava il petto: in alcuni punti gli dava fastidio sui lividi e c’era una specie di nodo sulla spalla da cui partivano fili colorati che sembravano volerglisi infilare nelle orecchie. Qualcuno l’aveva legato là sopra e aveva intrecciato quella grezza fune come una specie di culla che reggesse il suo peso; qualcuno che non aveva avuto fiducia nelle sue sottili corde, che non sapeva quanto fossero forti… in realtà, se queste non avessero retto, egli dubitava che quello strano intreccio l’avrebbe tenuto fissato al muro, impedendogli di cadere a capofitto verso le nuvole. Gli sembrava che solo chinando il capo per guardarla, quella corda si rompesse.
Quella fune di fortuna proseguiva dalla sua spalla fino a una specie di cappio al polso che gli teneva la mano destra sollevata sopra la testa. Axxter guardò in alto per rendersi conto se poteva liberarla. Fu allora che la vide, mentre lo stava osservando.
— Ciao. Ciao. — Lahft gli sorrise, con gli occhi un po’ addormentati, come se la sua precipitosa caduta l’avesse svegliata da un pisolino. — Ciao, Ny, ciao. — Il sorriso dell’angelo divenne ancora più radioso.
Axxter girò il capo per vederla meglio. Era seduta con le gambe a penzoloni in una specie di nicchia triangolare scavata nella superficie metallica. — Ciao, ehi lassù. — Egli annuì e cercò di imitare debolmente il suo sorriso. Ora sapeva chi gli aveva intrecciato intorno quella corda. Per impedirgli di cadere di nuovo.
Riuscì a liberarsi la mano e la mosse per riattivare la circolazione sanguigna. Ora cominciava a ricordare qualcosa di più. La caduta, la moto e il sidecar che svanivano nel vuoto, i guerrieri della Folla Devastante che volavano verso le nuvole sottostanti…
Le nuvole. Il grande sorriso dell’angelo scomparve per un istante; tutto quello che Axxter vedeva in quel momento erano quei grandi banchi bianchi e grigi, il lento oceano di colline e crepacci che si avvicinavano a lui ad altissima velocità.
Aveva visto degli angeli. Ricordò anche quello. File e file di angeli, in ogni direzione, nell’ombra del crepuscolo sotto la barriera delle nubi. Le membrane gonfie che avevano sulle spalle sembravano pallidi soli, attraversate dalle morbide vene blu che in quella penombra sembravano grigio cenere. Mentre cadeva a braccia aperte con il vento che gli correva sul petto e il fiato corto, intorno a lui, in qualunque direzione si girasse, non vedeva altro che angeli.
Era l’ultima cosa che ricordava. Nient’altro. Poi si accorse nuovamente di Lahft, che si sporgeva in avanti con le mani aggrappate al bordo del metallo e aspettava pazientemente.
— D’accordo — Axxter annuì. — Ho capito. Sei tu che mi hai afferrato. Mentre stavo cadendo. È esatto?
Lei distolse lo sguardo, riflettendo su quella frase. Sembrava quasi di vedere le rotelline del suo cervello muoversi velocemente.
— Afferrato — Lahft si morse le labbra, fissando nel vuoto. — Cadere… — Improvvisamente spalancò gli occhi, allarmata, e si precipitò ad afferrare il polso di Axxter, tenendolo saldo nella sua presa.
— No… no — gentilmente, Axxter si liberò la mano. — Non sto cadendo adesso. Stavo cadendo prima. Ti ricordi?
— Prima… — Per lo sforzo che faceva concentrandosi, il suo viso si rabbuiò. — Afferrare. Afferrato! — L’angelo si abbracciò, come stringendo un invisibile corpo a se stessa. — Ti ho afferrato prima!
Di nuovo quell’elastico senso del tempo che aveva l’angelo: non sarebbe mai riuscito a svilupparlo del tutto. Axxter si tolse quella corda di fortuna dal petto. — Bene… — quello spiegava un sacco di cose. L’angelo doveva trovarsi vicino all’accampamento della Folla, l’aveva visto spesso, anche se a distanza di sicurezza, quando tutta quella merda era letteralmente precipitata giù. O forse si trovava insieme a tutti i suoi amici, quei felici angeli che abitavano sotto le nuvole. Ed era stata solo la fortuna a farlo cadere sul soffice tetto del loro mondo, decisamente il miglior luogo possibile. A ogni modo, lei era là per lui; l’aveva afferrato saldamente… avrebbe tanto desiderato ricordarsi di quella parte. Malgrado fosse stanco e provato, il corpo nudo dell’angelo che lo guardava con i piedi che penzolavano vicino al suo viso, gli risvegliava strani istinti. Incorreggibile: sospirò e scosse il capo. La corda si ruppe e Axxter ne buttò via i due capi. Si girò, e le corde di sicurezza dei suoi stivali si sistemarono nella nuova posizione. Ora aveva il viso e il petto rivolti verso il muro; allentò le corde della vita in modo da potersi spostare un po’ all’indietro per essere più comodo e guardare Lahft.
— Mi hai afferrato, esatto. D’accordo… — A poco a poco tutti i pezzi stavano andando al loro posto. — Cristo, devo averti colpito con la forza di una tonnellata di mattoni.
Lei girò il capo e sorrise stupita.
— Quando ti ho colpita — e con un pugno colpì il palmo dell’altra mano per farle capire. — Quando tu mi hai afferrato. Bum! È questo che è successo? — Stava perdendo tempo, lo sapeva. C’era un sacco di roba di cui avrebbe dovuto occuparsi invece, di indagare a fondo sulla meccanica del suo salvataggio. Per esempio, avrebbe potuto cercar di capire dove diavolo si trovasse e se era ancora troppo vicino a quelli che volevano fargli la pelle. Quello doveva avere priorità assoluta. Eppure…
— Bum! — Lahft annuì saggiamente, ancora con le braccia strette intorno a sé. — Poi. La caduta… vero?
— Caduto — Egli poteva immaginarsela: il suo peso morto che trascinava con sé l’angelo che lo teneva stretto.
— Una lunga, lunga caduta. — Lei indicò le nuvole e qualunque cosa ci fosse al di sotto. — Così io divento grande — la membrana traslucida che aveva sulle spalle si espanse per dargli una dimostrazione; si sollevò un po’ dal suo sedile di metallo, mentre i gas gonfiavano la membrana. — Allora. Basta caduta — ancora il suo sorriso.
— Niente più caduta… bene. E poi? Ci siamo spostati?
— Spostati — lei annuì. — Io grande, e il vento… — e con una mano spinse l’altra, per fargli capire — spostava, spostava. Un lungo viaggio. Alla fine, qui.
Lahft non sarebbe stata di grande aiuto per stabilire la sua posizione. Lo spazio era probabilmente un concetto tanto confuso quanto lo era quello di tempo. Non faceva alcuna differenza nell’aria. Era possibile che si fossero spostati per interi settori di muro, un angelo con la membrana gonfiata al massimo e il suo carico incosciente; fino a quando qualche raffica li aveva spinti verso il muro dell’edificio, abbastanza vicino per aggrapparvisi. Le sue corde si erano agganciate, attirate dalla vicinanza dell’acciaio, e lei aveva intrecciato quella fune di fortuna usando qualunque cosa avesse trovato nelle vicinanze. Poi aveva aspettato.
Axxter guardò dalla parte opposta, spingendosi indietro contro la tensione delle corde. Un muro tetro, senza futuro fu tutto ciò che vide. Decise che doveva assolutamente trovare una presa per la comunicazione. Doveva essercene una da qualche parte. Così avrebbe potuto chiamare la sua banca… doveva farlo prima di qualunque altra cosa. Probabilmente il suo conto era stato prosciugato dalla multa per aver tagliato il cavo di transito. Forse era già in rosso in quel momento; e avrebbe dovuto lavorare ancora per anni per saldare il debito. Però, se il Dipartimento dei Lavori Pubblici gli avesse lasciato qualcosina, avrebbe potuto cominciare a cercare ciò che aveva bisogno di sapere. Per esempio dove si trovava e quanta gente lo stava cercando. La Chiedi Ricevi… avrebbe potuto chiedere una linea protetta e fare una chiamata anonima all’agenzia: quando la Folla Devastante avesse trovato le sue tracce, lui sarebbe già stato lontano. Se aveva il denaro per pagare l’informazione. Axxter si morse le labbra, lasciando che i suoi pensieri turbinassero senza freni. Devo trovare una presa per fare la chiamata; è la prima cosa…
Si fermò, qualcosa aveva di colpo interrotto i suoi pensieri. La luce intorno a lui era diventata rossa e stava avvolgendo il muro dell’edificio. Senza capirne il motivo, ne fu molto stupito. Se non per il fatto che durante il giorno, quando era rinvenuto e si era trovato lì appeso, tutto era luminoso e brillante. La luce rossa diventava sempre più scura; lo notava dal dorso delle proprie mani. Era come se il tempo avesse deciso di scorrere all’indietro; anche per lui era diventato ininfluente e arbitrario come per gli angeli. L’alba arrivava dopo la luce del giorno invece che viceversa…
Sapeva che Lahft lo stava guardando, stupita del suo smarrimento. Lo fissava, mentre lui fissava il cielo, verso le nuvole lontane. Là, dove vedeva qualcosa che non aveva mai visto.
Le nuvole erano tutte dorate e rosse e mentre lui le guardava diventavano sempre più scure, addirittura nere.
Il sole stava tramontando, scomparendo sotto la barriera di nubi.
Axxter continuò a fissare il sole, che divenne prima uno spicchio, poi un puntino rosso. Non aveva mai visto il tramonto prima. Nessuno l’aveva mai visto.
Ebbe parecchio tempo per pensarci. Tutta una lunga e fredda notte, aspettando con ansia la poca luce grigia che proveniva dalla zona del giorno del Cilindro, quella dove sorgeva il sole.
Da solo; a Lhaft doveva essere venuta fame, oppure si era solo annoiata e se n’era andata. Axxter era certo che l’avrebbe vista ancora. Nella culla verticale formata dalle corde, era molto vicino al muro; rabbrividiva al vento freddo della notte e rifletteva.
Si trovava sull’altra parte del Cilindro. La parte oscura… almeno quello era molto chiaro. Dove nessuno — nessuno di cui lui avesse mai sentito parlare — era mai stato. La sua solita fortuna… un mondo interamente nuovo si apriva davanti a lui in tutte le direzioni ed egli vi era atterrato con nient’altro se non i suoi vestiti. Tutto intero, perlomeno; questo doveva ammetterlo. Il dolore che gli procuravano i lividi era diminuito e gli sembrava che il sangue avesse ricominciato a scorrere normalmente. Gli restava solo una forte fitta al fianco, dove si era toccato con un dito, ma si era ripromesso di non farlo mai più.
Doveva essersi spostato là fuori per… per quanto? Un giorno, forse due? Quanto ci aveva impiegato a raggiungere un posto simile? Axxter scrutò nell’oscurità, pensando. A meno che spostarsi non fosse l’espressione esatta: forse Lahft, con lui tra le braccia e la sua membrana dilatata al massimo, era stata afferrata da una corrente vicino al margine dell’atmosfera. Una corrente che li aveva trasportati a gran velocità su tutti i settori della zona conosciuta, proprio sopra le Fiere Equatoriali, quella di Sinistra o di Destra. E poi… spang… li aveva lasciati cadere su un territorio sconosciuto.
Un nuovo pensiero gli attraversò la mente. Forse lei l’aveva fatto apposta. Fluttuare là in giro come aveva fatto; non era tanto stupida da non sapere che si trovava nei guai. Era tempo di muoversi, prima che altri guerrieri della Folla comparissero sulla scena. E più lontano fosse riuscita a portarlo, meglio sarebbe stato. E non c’era posto più lontano di quello.
— Cristo onnipotente! — Gli era venuto un crampo alla gamba. Merda! — Si massaggiò la coscia. Senza la sua fascia da bivacco — che era sparita tra le nuvole con tutta l’altra roba che si trovava nel sidecar — per la prima volta nella sua carriera verticale, capì esattamente cosa fosse il freddo della notte. Si poteva morire congelati… lasciò che gli passasse il crampo e si abbracciò, unendo il più possibile i lembi della sua giacca lacera. Sarebbe stato felice di vedere la prima luce grigia filtrare lungo il muro: avrebbe significato che il sole era sorto sopra la barriera di nuvole sull’altra parte del Cilindro — e allora avrebbe potuto essere in grado di muoversi, sapendo dove andare, e sentendo scorrere di nuovo il sangue nelle vene. Inoltre avrebbe potuto cercare una presa per chiamare la Chiedi Ricevi. E rovistare negli archivi, tentando di scovare qualunque notizia ci fosse sulla zona della notte. Qualsiasi brandello d’informazione avrebbe potuto essere utile. E del cibo… come diavolo avrebbe fatto per il cibo? Il suo cervello era inarrestabile: le preoccupazioni si susseguivano una dopo l’altra al tempo del brontolio dello stomaco. Non appena il dolore delle contusioni era diminuito, si era reso conto di quel nuovo male, che diventava sempre più profondo.
Era impossibile dormire: era sempre stato piuttosto difficile, anche con la tenda di bivacco che lo avvolgeva, una specie di piccolo utero in cui rifugiarsi. La prima volta che era arrivato sul muro, gli ci era voluta un’intera settimana di esaurimento e occhi rossi prima di abituarsi a dormire in quel modo. Ora, attaccato al metallo solo grazie alle corde degli stivali e della cintura… solo il cielo sapeva quanto fosse lontano dal suo mondo, e il suo culo stava gelando… Abbassò il più possibile la testa. Probabilmente aveva dormito più che a sufficienza mentre veniva trasportato dalle correnti tra le braccia dell’angelo.
Ancora una fitta allo stomaco. Avrebbe dovuto mangiare al banchetto di Cripplemaker; ma allora non sapeva che sarebbe stata la sua ultima possibilità di cibarsi per un lungo periodo. Chiuse gli occhi e attese la luce.
La individuò, una piccola increspatura sulla superficie dell’edificio; un’ondata di gioia lo sopraffece, tanto da fargli venire le lacrime agli occhi. La linea diritta che divideva il Cilindro dal cielo vacillò per un momento.
Ansimando dei ringraziamenti, Axxter si sollevò verso la presa. I muscoli delle gambe e delle braccia gli tremavano a causa delle ore passate a muoversi come un ragno sulla superficie dell’edificio. Era già mezzogiorno, il mezzogiorno del Cilindro; non appena il sole raggiunse quella posizione, la semioscurità grigiastra di quel luogo si trasformò in una luce brillante. Non aveva mai visto niente di simile, ma era troppo stanco per girarsi e godersi quella strana alba. Si muoveva lentamente, attanagliato dai morsi della fame e del panico che lo esaurivano. Già a bordo della sua moto e del sidecar, il Cilindro gli era parso enorme. Ora doveva affrontarne tutta l’immensità a mani nude.
— Dolce cosuccia. Forza, vieni verso di me. — Lentamente, quanto permettessero le corde che aveva legate alla vita e alle caviglie, scivolò verso la presa.
— Arrivato! — Intorno alla presa c’era una serie di cerchi concentrici gialli. Axxter si sfregò le lacrime dagli occhi poi tastò il buco con un dito. Polvere e ragnatele: le grattò via con le unghie. Vi infilò nuovamente il dito, muovendolo avanti e indietro per attivare il contatto. — Forza, figlia di puttana…
Una paura snervante che non gli aveva permesso di pensare fino a quel momento gli seccò la bocca. Forse le linee del Sindacato delle Comunicazioni, le reti pre-Belliche che aveva ereditato, forse non arrivavano fino a quella parte dell’edificio. Chi poteva saperlo? Forse non era possibile stabilire alcun contatto, forse il suo dito si stava muovendo in un buco vuoto e non c’erano linee che potessero metterlo in comunicazione con il mondo in grado di aiutarlo in cambio di denaro… — Forza… — Il metallo brillante che ricopriva la punta del suo dito grattò la superficie del buco. Socchiuse gli occhi. — Per favore…
Davanti ai suoi occhi comparve una parola luminosa.
NUMERO?
Avrebbe potuto scoppiare in lacrime. — Ho bisogno di parlare con la mia banca. — Sbatté gli occhi sul suo schermo, mentre ne scorreva l’elenco dei numeri. — E subito.
NUMERO? Quella stupida parola continuava a illuminarsi ad intermittenza.
Si trattava di una vecchia linea. Ogni tanto se ne incontrava qualcuna nei settori meno frequentati. Dio solo sapeva quando quella presa fosse stata usata per l’ultima volta. Forse ancora prima della Guerra — Dannazione! — Axxter fissò quella parola stampata nel cielo. Che cosa diavolo volevano?
— Il mio numero?
NUMERO? Ancora quella parola a intermittenza.
Aveva il numero di registrazione della defunta Norton e la sua licenza professionale. Avrebbe potuto recuperarli da qualche parte, ma non riusciva a capire perché il circuito volesse conoscerli.
Ebbe un’intuizione. Il numero del conto corrente. Lo comunicò.
LO STIAMO TRASMETTENDO. Tirò un gran sospiro. ATTENDERE, PREGO.
Comparve il simbolo del Sindacato delle Comunicazioni e poi quello della banca. Grazie a Dio avevano prelevato solo la tariffa per una chiamata informativa. — Datemi il mio bilancio — Voleva conoscere il peggio.
Ci volle più tempo del solito; il fatto lo rese nervoso. Forse qualcuno si era già inserito sul suo conto e lo stava prosciugando. Cristo, a quanto diavolo ammontava la multa per aver tagliato quel cavo? Il sudore gli colò agli angoli della bocca.
Davanti agli occhi gli comparve un grande quadrato rosso. Non aveva mai visto nemmeno quello. E in quel momento non voleva sapere cosa fosse. Significava problemi.
CONTO CHIUSO. Rosso, nero, rosso; quelle parole non scomparivano.
— Cosa? — Si aspettava uno zero; quello non aveva senso.
CONTO CHIUSO. CLIENTE DECEDUTO.
Qualcosa di gelido, denti di ghiaccio freddi come diamanti, gli strinse il cuore. — Cosa… Cosa vuole dire? — Chiese senza neanche rendersene conto.
CLIENTE AXXTER (NY) DECEDUTO. Rosso, Nero. CONTO CHIUSO.
— Ma… ma sono io! Io sono Ny Axxter…
DECEDUTO. INCHIESTA TERMINATA.
E non vide più nulla.