«Il terrestre è pazzo» gridò Leebig, voltandosi verso gli altri. «Non è ovvio?»
Alcuni fissavano Leebig in silenzio, altri Baley.
Baley non diede loro modo di prendere decisioni. Continuò: «Lo sa benissimo, dottor Leebig. Il dottor Delmarre stava per rompere i suoi rapporti con lei. La signora Delmarre pensava che fosse perché non si voleva sposare. Non credo: proprio il dottor Delmarre stava progettando un futuro in cui sarebbe stata possibile l'ectogenesi e quindi il matrimonio non sarebbe stato più necessario. Ma il dottor Delmarre lavorava con lei: poteva essere informato e capire sul suo lavoro più di chiunque altro. Aveva scoperto che lei stava tentando pericolosi esperimenti e avrebbe cercato di fermarla. Raccontò qualcosa di tutto questo all'agente Gruer, ma non diede i particolari, perché dei particolari non era certo. Ovviamente lei ha scoperto che sospettava e l'ha ucciso».
«Pazzo!» ripeté Leebig. «Io non ho nulla a che fare con questo.»
Ma Attlebish lo interruppe. «Ci lasci ascoltare, Leebig!»
Baley si morse un labbro per impedirsi un prematuro sfoggio di soddisfazione per l'ovvia mancanza di simpatia nella voce del capo della Sicurezza. «Nella stessa discussione» proseguì «in cui lei ha menzionato robot con membra distaccabili, dottor Leebig, ha anche parlato di astronavi con cervello positronico incorporato. Quella volta ha proprio parlato troppo. Era perché sono solo un terrestre incapace di capire le implicazioni della robotica? O era perché l'avevo minacciata di presenza personale e poi avevo ritirato la minaccia, e c'era un po' di delirio nel sollievo? In ogni caso il dottor Quemot mi aveva già detto che l'arma segreta di Solaria contro i Mondi Esterni era il robot positronico.»
Quemot, così inaspettatamente tirato in ballo, sobbalzò violentemente e gridò: «Io intendevo dire…».
«Intendeva dire sociologicamente, lo so. Ma ha dato l'avvio a certi pensieri. Consideriamo un'astronave con cervello positronico incorporato e paragoniamola con una fornita di equipaggio umano. In una guerra operativa un equipaggio umano non potrebbe usare i robot. Un robot non potrebbe distruggere esseri umani di una nave nemica o di mondi nemici. Non afferrerebbe la distinzione tra esseri umani amici e nemici.
«Naturalmente a un robot si può dire che la nave nemica non ha esseri umani a bordo. Gli si può dire che c'è un pianeta disabitato che dev'essere bombardato. Ma questo sarebbe difficile farglielo ingoiare. Un robot vedrebbe che la sua nave porta esseri umani; saprebbe che il suo mondo è pieno di esseri umani. Darebbe per scontato che la stessa cosa è vera per le navi nemiche e per i mondi nemici. Ci vorrebbe un vero esperto di robotica, come lei, dottor Leebig, per controllarlo in un caso del genere, e di esperti come lei ce ne sono pochi.»
«Ma mi sembra che un'astronave con un proprio cervello positronico attaccherebbe allegramente qualunque nave dovesse attaccare. Darebbe naturalmente per scontato che tutte le altre navi sono senza uomini. Una nave con cervello positronico potrebbe essere facilmente resa incapace di ricevere messaggi dalle navi nemiche, che potrebbero ingannarla. Con le armi e le difese sotto l'immediato controllo di un cervello positronico sarebbe molto più manovrabile di qualsiasi equipaggio umano. Senza locali per l'equipaggio, per le provviste, per l'acqua, per i purificatori d'aria, potrebbe portare più corazzatura, più armi ed essere più invulnerabile di qualunque altra nave. Una nave con cervello positronico potrebbe distruggere flotte di navi ordinarie. Sbaglio?»
L'ultima domanda era stata sparata al dottor Leebig, che si era alzato e stava dritto, rigido, quasi catalettico per… cosa? Ira? Orrore?
Non ci fu risposta. Nessuna risposta poteva essere data. Si era spezzato qualcosa e ora gli altri gridavano come pazzi. Klorissa aveva il volto di una Furia, e anche Gladia era in piedi, agitando minacciosamente nell'aria il piccolo pugno.
E tutti erano rivolti a Leebig.
Baley si rilassò e chiuse gli occhi. Cercò per qualche istante di sciogliere i muscoli, di scongelare i tendini.
Aveva funzionato. Finalmente aveva premuto il pulsante giusto. Quemot aveva fatto un'analogia tra i robot solariani e gli iloti spartani. Aveva detto che i robot non si sarebbero mai ribellati per cui i solariani potevano rilassarsi.
Ma che cosa sarebbe successo se degli uomini minacciavano d'insegnare ai robot come far del male agli esseri umani, di renderli, in altre parole, capaci di ribellarsi?
Non sarebbe stato l'estremo delitto? A quest'idea ogni solariano non si sarebbe rivoltato ferocemente contro chiunque fosse anche solo sospettato di rendere un robot capace di far del male a un essere umano? Su Solaria, dove i robot sopravanzavano in numero gli esseri umani nella proporzione di ventimila a uno?
Attlebish gridò: «Lei è in arresto. Le è assolutamente proibito toccare i suoi libri e le sue registrazioni finché il governo non abbia modo di ispezionarli…». Continuava a parlare quasi incoerentemente, appena udibile nel pandemonio.
Un robot si avvicinò a Baley. «Un messaggio, padrone, da padron Olivaw.»
Baley prese con gravità il messaggio, lo srotolò per poi gridare: «Un momento!».
La sua voce ebbe quasi un effetto magico. Tutti si voltarono a guardarlo solennemente e in nessun volto (a parte lo sguardo fisso di Leebig) c'era segno di nulla che non fosse una spasmodica attenzione per il terrestre.
Baley disse: «È stupido aspettarsi che il dottor Leebig non tocchi le sue registrazioni in attesa che giunga ad esaminarle un funzionario governativo. Così, prima che incominciasse questa riunione, il mio collega, Daneel Olivaw, è partito per la tenuta del dottor Leebig. È appena atterrato e tra un momento sarà con il dottor Leebig per poterlo mettere in detenzione».
«Detenzione!» ululò Leebig, quasi con terrore animalesco. Gli occhi gli si spalancarono fino all'inverosimile. «Viene qui qualcuno? Presenza personale? No! No!» Il secondo “No” fu un grido acuto.
«Non le verrà fatto del male» disse freddo Baley «se coopererà.»
«Ma io non voglio vederlo. Non posso vederlo.» Il robotista cadde sulle ginocchia senza neanche sembrare conscio del movimento. Unì le mani in un disperato gesto di appello. «Che cosa vuole? Vuole una confessione? Il robot di Delmarre aveva le braccia distaccabili. Sì. Sì. Sì. Ho organizzato io l'avvelenamento di Gruer. Ho organizzato anche la faccenda della freccia. Ho anche progettato le astronavi che ha detto. Non ho avuto successo ma, sì, le ho progettate. Solo, tenga lontano quell'uomo. Non lo faccia venire. Lo tenga lontano!»
Stava farfugliando.
Baley annuì. Un altro pulsante giusto. La minaccia di una presenza personale avrebbe funzionato meglio di una tortura fisica per indurlo a confessare.
Ma poi, a qualche rumore o movimento fuori campo, Leebig torse il capo e spalancò la bocca. Alzò le mani, come per tenere a distanza qualcosa.
«Via» implorava. «Va' via. Non ti avvicinare. Ti prego, non ti avvicinare. Ti prego…»
Arrancava sulle mani e sulle ginocchia, poi la mano gli corse improvvisamente alla tasca della giacca. Ne tirò fuori qualcosa che portò rapidamente alla bocca. Inghiottì due volte, poi cadde prono.
Baley avrebbe voluto gridare: idiota, non è un essere umano quello che sta arrivando; è soltanto uno dei robot che ami tanto.
Daneel Olivaw entrò in campo e per un istante fissò la figura accartocciata a terra.
Baley trattenne il fiato. Se Daneel si fosse reso conto che era stata la sua pseudoumanità a uccidere Leebig, l'effetto sul suo cervello, schiavo della Prima Legge, avrebbe potuto essere drastico.
Ma Daneel si limitò a inginocchiarsi, con le dita delicate che toccavano qua e là. Poi sollevò il capo di Leebig come se fosse infinitamente prezioso per lui, cullandolo, accarezzandolo.
Il suo bel volto scolpito fissava gli altri. Sussurrò: «È morto un essere umano!».
Lei aveva chiesto un ultimo colloquio e Baley la stava aspettando. Ma quando lei apparve gli si spalancarono gli occhi.
«Ti vedo» disse.
«Sì» disse lei. «Come hai fatto a capirlo?»
«Hai i guanti.»
«Oh.» Si guardò confusa le mani. Poi, a voce bassa: «Ti dispiace?».
«No, naturalmente no. Ma perché hai deciso di vedermi, invece di visionarmi?»
«Be'» lei sorrise debolmente. «Dovrò abituarmici, no, Elijah? Voglio dire, se vado su Aurora.»
«Allora è tutto sistemato?»
«Sembra che mister Olivaw abbia dell'influenza. È tutto sistemato. Non tornerò mai più indietro.»
«Bene. Sarai più felice, Gladia. So che lo sarai.»
«Ho un po' di paura.»
«Lo so. Vuol dire che dovrai vedere in continuazione, e poi non avrai tutte le comodità che avevi su Solaria. Ma ci farai l'abitudine e, quel che più conta, dimenticherai tutto il terrore attraverso cui sei passata.»
«Non voglio dimenticare nulla» disse Gladia a bassa voce.
«Lo farai.» Baley guardò la sottile ragazza che gli stava davanti e disse, non senza una punta di sofferenza: «E un giorno ti sposerai, anche. Ti sposerai davvero, voglio dire».
«In un certo senso,» disse lei con tono addolorato «non mi sembra tanto attraente… in questo momento.»
«Cambierai idea.»
E rimasero in piedi a guardarsi per un lungo momento senza parole.
«Non ti ho mai ringraziato» disse Gladia.
«Era solo il mio lavoro.»
«Ora tornerai sulla Terra, vero?»
«Sì.»
«Non ti vedrò mai più.»
«Probabilmente no. Ma non sentirti triste per questo. Tra quarant'anni al massimo sarò morto e tu non sarai cambiata neanche un po' da come sei ora.»
Il volto di lei si contrasse. «Non parlare così.»
«È vero.»
Gladia parlò velocemente, come se si sentisse forzata a cambiare argomento: «Era tutto vero su Jothan Leebig, sai?».
«Lo so. Altri robotisti hanno scorso le sue registrazioni e hanno scoperto esperimenti su astronavi intelligenti senza equipaggio umano. Hanno trovato anche altri robot con le braccia smontabili.»
Gladia rabbrividì. «Ma perché pensi che abbia fatto una cosa tanto tremenda?»
«Aveva paura della gente. Si è ucciso per evitare una presenza personale ed era pronto a distruggere altri mondi per assicurarsi che Solaria e il suo tabù per la presenza personale non sarebbero mai stati toccati.»
«Come poteva essere così,» mormorò lei «quando la presenza personale può essere tanto…»
Ancora un momento di silenzio, mentre si fronteggiavano a dieci passi di distanza.
Poi Gladia gridò all'improvviso: «Oh, Elijah, penserai che sono una dissoluta!».
«Come sarebbe?»
«Posso toccarti? Non ti vedrò mai più, Elijah.»
«Se vuoi.»
Passo dopo passo venne più vicina, con gli occhi che le brillavano, pur sempre apprensiva. Venne avanti fino a un metro di distanza e si fermò. Poi lentamente, come in trance, cominciò a sfilarsi il guanto dalla mano destra.
Baley accennò a un gesto di moderazione. «Non fare stupidaggini, Gladia.»
«Non ho paura» disse lei.
La mano adesso era nuda. Tremava, mentre lei la tendeva.
E così faceva Baley, mentre la prendeva nella sua. Rimasero così per un momento, la mano di lei una piccola timida cosa spaventata che sembrava cercasse rifugio in quella di lui. Lui aprì la sua mano e quella di lei fuggì, saettò improvvisamente verso il volto del terrestre e i polpastrelli riposarono leggeri come piume sulle sue guance in un momento rivelatore.
«Grazie, Elijah. Addio.»
«Addio, Gladia» disse Baley, e la guardò andarsene.
Anche il pensiero che una nave lo aspettava per riportarlo sulla Terra non cancellò via il senso di perdita che provava in quel momento.
Lo sguardo del sottosegretario Minnim aveva un'aria di affettato benvenuto. «Sono contento di rivederla sulla Terra. Naturalmente il suo rapporto è arrivato prima di lei ed è allo studio. Ha fatto un buon lavoro. La cosa risalterà bene nelle sue note personali.»
«Grazie» rispose Baley. In lui non c'era più posto per altra euforia. Tornare sulla Terra; essere al sicuro negli Abissi; avere ascoltato la voce di Jessie (le aveva già parlato): tutto lo lasciava stranamente vuoto.
«Comunque,» disse Minnim «il suo rapporto riguardava soltanto l'investigazione sull'omicidio. C'è anche un'altra faccenda che ci interessa. Di quella posso avere un rapporto verbale?»
Baley esitò e la mano gli corse automaticamente alla tasca interna dove avrebbe di nuovo potuto trovare il caldo conforto della pipa.
«Può fumare, Baley» disse Minnim immediatamente.
Baley fece del procedimento di accensione un complicato rituale. Poi disse: «Non sono un sociologo».
«Ah, no?» Minnim sorrise brevemente. «Mi sembra che questo l'abbiamo già discusso una volta. Un detective di successo dev'essere un sociologo dilettante, anche se non ha mai sentito parlare dell'equazione di Hackett. Dal suo presente disagio direi che ha informazioni sui Mondi Esterni, ma non è sicuro di come le troverò.»
«Se la mette in questo modo, signore… Quando mi ha ordinato di andare su Solaria, mi ha posto un quesito: mi ha chiesto di scoprire quale fosse la debolezza dei Mondi Esterni. La loro forza erano i loro robot, la loro scarsa popolazione, le loro lunghe vite, ma quali erano le loro debolezze?»
«Be'?»
«Credo di conoscere le debolezze dei solariani, signore.»
«Può rispondere al mio quesito? Bene, prosegua.»
«Le loro debolezze, signore, sono i loro robot, la loro scarsa popolazione, le loro lunghe vite.»
Minnim rimase a fissare Baley senza alcun cambiamento d'espressione. Le mani gli lavoravano con le dita che facevano scattanti disegni invisibili sulle carte della scrivania.
«Perché dice questo?»
Durante il viaggio di ritorno Baley aveva passato ore a organizzare i propri pensieri; nell'immaginazione si era misurato con le autorità con argomenti equilibrati e bene esposti. Ora non sapeva che pesci pigliare.
«Non sono sicuro di saperlo esporre con chiarezza» disse.
«Non importa. Mi faccia sentire. Questa è solo la prima approssimazione.»
Baley incominciò: «I solariani hanno rinunciato a qualcosa che l'umanità ha avuto per milioni di anni: qualcosa di più valido dell'energia atomica, della Città, dell'agricoltura, degli utensili, del fuoco, di tutto. Perché è qualcosa che ha reso possibile tutto il resto».
«Non voglio tirare a indovinare, Baley. Che cos'è?»
«La tribù, signore. La cooperazione tra individui. Solaria vi ha rinunciato completamente. È un mondo di individui isolati, e l'unico sociologo del pianeta è deliziato che le cose stiano così. Comunque, quel sociologo non ha mai sentito parlare di sociomatematica, perché la sua scienza l'ha inventata lui. Non c'è nessuno che gli insegni, nessuno che lo aiuti, nessuno a pensare qualcosa che lui potrebbe omettere. L'unica scienza che fiorisce su Solaria è la robotica e ci ha a che fare solo un pugno di uomini, e quando sono giunti a dover analizzare un caso di interazione tra robot e uomini, hanno dovuto chiedere l'aiuto di un terrestre.
«L'arte solariana, signore, è astratta. Qui sulla Terra abbiamo l'arte astratta come una forma di arte, ma su Solaria è l'unica forma. Il tocco umano se n'è andato. Il futuro previsto è basato sull'ectogenesi e sul completo isolamento fin dalla nascita.»
«Tutto questo sembra orribile» commentò Minnim. «Ma è dannoso?»
«Io credo di sì. Senza l'intergioco tra uomo e uomo se ne è andato il principale interesse per la vita; se ne è andata la maggior parte dei valori intellettuali; se ne è andata la ragione di vita. Il visionare non è un sostituto del vedere. Gli stessi solariani sono consapevoli che il visionare è un senso a lunga distanza.
«E se l'isolamento non fosse sufficiente a indurre il ristagno, c'è la questione delle loro lunghe vite. Sulla Terra abbiamo un continuo afflusso di giovani che vogliono cambiare le cose, perché non hanno avuto il tempo di fossilizzarsi in sentieri stabiliti. Suppongo che ci sia un optimum: una vita abbastanza lunga per un compimento effettivo e abbastanza breve per far posto ai giovani a un ritmo che non sia troppo lento. Su Solaria il ritmo è troppo lento.»
Minnim disegnava ancora schemi con le dita. «Interessante! Interessante!» Alzò gli occhi ed era come se gli avessero tolto una maschera. Aveva della gaiezza negli occhi. «Agente, lei ha una mente penetrante.»
«Grazie» rispose Baley tutto impettito.
«Sa perché l'ho incoraggiata a descrivermi i suoi punti di vista?» Era quasi come un piccolo ragazzo che abbraccia la sua soddisfazione. Proseguì senza aspettare una risposta. «Il suo rapporto è già sotto l'analisi preliminare dei nostri sociologi e mi chiedevo se avesse anche qualche sua idea personale, oltre alle eccellenti notizie per la Terra che ha portato con sé. Vedo che ne ha.»
«Ma aspetti» disse Baley. «C'è molto di più.»
«Certo, esattamente» convenne giubilante Minnim. «Solaria non è più in grado di correggere il suo ristagno. Ha passato un punto critico e la sua dipendenza dai robot è andata troppo lontano. Robot individuali non possono disciplinare bambini individuali, anche se la disciplina è possibile che faccia del bene a un bambino. Il robot non può vedere al di là dell'immediato dolore. E collettivamente i robot non possono disciplinare un pianeta, permettendo alle sue istituzioni di crollare, quando le istituzioni sono diventate dannose. Non possono vedere al di là del caos immediato. Così l'unica fine per i Mondi Esterni è il perpetuo ristagno e la Terra sarà libera dalla loro dominazione. Questi nuovi dati cambiano tutto. Non sarà nemmeno necessaria una rivolta fisica. La libertà verrà da sola.»
«Aspetti» disse ancora Baley, più forte. «È solo di Solaria che discutiamo, non degli altri Mondi Esterni.»
«È la stessa cosa. Il suo sociologo di Solaria… Kimot…»
«Quemot, signore:»
«Quemot, allora. Ha detto che anche gli altri Mondi Esterni si muovono nella direzione di Solaria, no?»
«Sì, ma non sapeva nulla di prima mano sugli altri Mondi Esterni e non era un sociologo. Davvero. Credevo di averlo spiegato.»
«I nostri uomini controlleranno.»
«Anche loro non hanno dati. Non sappiamo nulla dei Mondi Esterni veramente grandi. Aurora, per esempio: il mondo di Daneel. A me non sembra ragionevole aspettarci che siano qualcosa di simile a Solaria. Infatti c'è un solo mondo nella galassia che assomiglia a Solaria…»
Minnim si sbarazzò dell'argomento con un piccolo gesto felice della sua mano pulita. «I nostri uomini controlleranno. Sono sicuro che si troveranno d'accordo con Quemot.»
Lo sguardo di Baley divenne tetro. Se i sociologi della Terra erano tanto ansiosi di buone notizie, avrebbero senz'altro finito col trovarsi d'accordo con Quemot. Nelle cifre si può trovare di tutto, se si cerca abbastanza a lungo e abbastanza a fondo e si ignorano o ci si lascia sfuggire le adatte informazioni.
Esitò. Era meglio parlare ora, che disponeva dell'orecchio di un pezzo grosso del governo o…
Aveva esitato troppo a lungo. Minnim aveva ripreso a parlare, mescolando delle carte e tirando fuori sempre più luoghi comuni. «Ancora qualche questione minore riguardante il caso Delmarre e poi potrà andare, agente. Ha cercato di costringere Leebig a suicidarsi?»
«Intendevo forzare la sua confessione, signore. Non avevo previsto che si suicidasse all'arrivo, ironicamente, di qualcuno che era solo un robot e che in realtà non aveva né avrebbe mai violato il suo tabù sulla presenza personale. Ma francamente la sua morte non mi è dispiaciuta. Era un uomo pericoloso. Passerà molto tempo prima che ci sia un altro uomo in grado di provocare tanto malessere con tanta intelligenza.»
«Sono d'accordo» convenne Minnim asciutto «e considero la sua morte una fortuna, ma lei non ha tenuto presente il pericolo che i solariani si rendessero conto che Leebig non poteva assolutamente avere ucciso il dottor Delmarre?»
Baley si tolse la pipa di bocca e non disse nulla.
«Andiamo, agente,» esclamò Minnim «lei lo sa che non può essere stato. L'omicidio richiedeva presenza personale e Leebig avrebbe preferito morire piuttosto che permetterla. È morto piuttosto che permetterla.»
«Ha ragione, signore» rispose Baley. «Contavo sul fatto che i solariani fossero troppo orripilati dell'abuso dei robot per fermarsi a riflettere su questo.»
«Allora chi ha ucciso Delmarre?»
Baley disse lentamente: «Se vuol dire chi ha sferrato effettivamente il colpo, è stata la persona che tutti sapevano essere stata: Gladia Delmarre, la moglie dell'ucciso».
«E l'ha lasciata andare?»
«Moralmente la responsabilità non era sua. Leebig sapeva che Gladia litigava aspramente e spesso col marito. Sapeva come potesse diventare furiosa nei momenti di rabbia. Leebig voleva la morte del marito in circostanze che avrebbero incriminato la moglie. Così rifornì Delmarre di un robot che, immagino, istruì con tutta l'abilità di cui era capace a porgere una delle sue braccia staccabili a Gladia nel momento della sua furia massima. Con un'arma in mano nel momento cruciale, lei agì temporaneamente accecata, prima che il robot o Delmarre potessero fermarla. Gladia è stata un inconsapevole strumento di Leebig quanto il robot.»
«Il braccio del robot» disse Minnim «doveva essere cosparso di sangue e cuoio capelluto.»
«E probabilmente lo era, ma è stato Leebig a prendere in custodia il robot. Poteva istruire con facilità gli altri robot che avessero notato il fatto, a dimenticarlo. Avrebbe potuto notarlo il dottor Thool, ma lui esaminò soltanto il cadavere e la donna svenuta. L'errore di Leebig è stato di pensare che la colpevolezza di Gladia sarebbe stata tanto evidente che l'assenza di un'arma sulla scena del delitto non l'avrebbe salvata. Né avrebbe potuto prevedere che per l'indagine avrebbero chiesto aiuto a un terrestre.»
«Così, con Leebig morto, lei ha fatto in modo che Gladia potesse lasciare Solaria. L'ha fatto per salvarla, nel caso che qualche solariano ci avesse ripensato?»
Baley scrollò le spalle. «Ha sofferto abbastanza. È stata una vittima di tutti: del marito, di Leebig, del mondo di Solaria.»
«E non crede» disse Minnim «di costringere la legge ad adattarsi a un suo capriccio personale?»
Il volto simile a una rupe di Baley s'indurì anche di più. «Non è stato un capriccio. Io non ero limitato dalla legge solariana. Erano superiori gli interessi della Terra e per salvaguardare questi interessi ho dovuto neutralizzare Leebig, che era pericoloso. Per quanto riguarda la signora Delmarre…» Ora si trovava di fronte a Minnim e sentiva di compiere un passo cruciale. Questo doveva dirlo. «Per quanto riguarda la signora Delmarre, l'ho usata come base per un esperimento.»
«Che esperimento?»
«Volevo sapere se avrebbe acconsentito ad affrontare un mondo in cui si permette e si richiede la presenza personale. Ero curioso di sapere se avrebbe avuto il coraggio di affrontare lo smantellamento delle abitudini in lei tanto radicate. Temevo che avrebbe rifiutato di andare, che avrebbe insistito per restare su Solaria, che per lei era un purgatorio, piuttosto che risolversi ad abbandonare il suo distorto modo di vita solariano. Invece ha scelto di cambiare, e sono stato felice che l'abbia fatto, perché mi è sembrato simbolico. Mi è sembrato che ci aprisse le porte della salvezza.»
«Ci?» chiese energicamente Minnim. «Che cosa diavolo vuol dire?»
«Non in particolare a lei o a me,» chiarì Baley gravemente «ma a tutta l'umanità. Lei si sbaglia sugli altri Mondi Esterni. Hanno pochi robot; permettono la presenza personale e hanno investigato su Solaria. Con me c'era R. Daneel Olivaw, lo sa, e anche lui farà un rapporto. C'è pericolo che un giorno possano diventare come Solaria, ma probabilmente riconosceranno il pericolo, lavoreranno per mantenersi in un equilibrio ragionevole e in questo modo rimarranno i leader dell'umanità.»
«Questa è la sua opinione» sbottò Minnim stizzito.
«E c'è di più. C'è un solo mondo come Solaria, ed è la Terra.»
«Agente Baley!»
«È così, signore. Siamo Solaria alla rovescia. Loro si sono ritirati in isolamento uno dall'altro. Noi ci siamo ritirati in isolamento dalla galassia. Loro sono giunti al vicolo cieco delle loro tenute inviolabili. Noi siamo giunti al vicolo cieco delle nostre Città sotterranee. Loro sono leader senza seguaci, hanno solo i robot che non possono ribattere. Noi siamo seguaci senza leader, rinserrati nelle Città per sentirci sicuri.» Baley aveva serrato i pugni.
Minnim disapprovava. «Agente, lei è passato per una dura prova. Ha bisogno di riposo, e ne avrà. Un mese di vacanza, a paga piena, e una promozione subito dopo.»
«La ringrazio, ma questo non è tutto ciò che voglio, voglio che mi ascolti. In un vicolo cieco c'è solo una direzione per uscirne, ed è verso l'alto, verso lo spazio. Lassù ci sono milioni di mondi, e gli spaziali ne possiedono solo cinquanta. Loro sono pochi e hanno una lunga vita. Noi siamo molti e abbiamo una vita breve. Siamo più adatti per l'esplorazione e la colonizzazione. Abbiamo la pressione demografica che ci sollecita e un rapido ricambio generazionale ci mantiene giovani e avventati. Dopo tutto sono stati i nostri antenati a colonizzare i Mondi Esterni.»
«Sì, capisco… Ma temo che il nostro tempo sia scaduto.»
Baley percepiva l'ansietà dell'altro di sbarazzarsi di lui e rimase stolidamente al suo posto. Proseguì: «Quando la prima colonizzazione realizzò mondi con tecnologia superiore alla nostra, siamo scappati dentro degli uteri che abbiamo costruito sotto terra. Gli spaziali ci hanno fatto sentire inferiori, e noi ci siamo andati a nascondere. Questa non è una risposta. Per evitare il ritmo distruttivo di ribellione e repressione, dobbiamo competere con loro, seguirli, se dobbiamo, guidarli, se possiamo. Per far questo dobbiamo affrontare l'aperto: dobbiamo insegnare a noi stessi ad affrontare l'aperto. Se è troppo tardi per insegnare a noi stessi, allora dobbiamo insegnarlo ai nostri figli. È vitale!».
«Agente, lei ha bisogno di riposo.»
«Mi ascolti, signore!» esclamò Baley con violenza. «Se gli spaziali sono forti e noi rimaniamo come siamo, la Terra sarà distrutta entro un secolo. Questo è già stato calcolato, me l'ha detto lei. Se gli spaziali sono davvero deboli e stanno diventando sempre più deboli, allora possiamo scamparla, ma chi ha detto che gli spaziali sono deboli? Lo sono i solariani, sì, ma è tutto ciò che sappiamo.»
«Ma…»
«Non ho finito. C'è una cosa che possiamo cambiare, che gli spaziali siano deboli o forti: possiamo cambiare quello che siamo. Affrontiamo lo spazio aperto e non avremo bisogno di ribellarci. Possiamo disseminarci in altri mondi e diventare spaziali anche noi. Se restiamo ammassati sulla Terra, allora non si potrà evitare un'inutile e fatale ribellione. E sarà peggio se la gente avrà costruito delle false speranze su una supposta debolezza degli spaziali. Lo chieda, lo chieda ai sociologi. Riferisca le mie argomentazioni. E se fossero ancora in dubbio, che trovino un modo di mandarmi su Aurora. Lasciatemi fare un rapporto sugli spaziali veri, poi deciderete che cosa fare.»
Minnim annuì. «Sì, sì. Ora buon giorno, agente Baley.»
Baley uscì con una sensazione esaltante. Non si era aspettato un'aperta vittoria contro Minnim. Vittorie su modi di pensare radicati non si ottengono in un giorno o in un anno. Ma aveva visto dell'incertezza pensosa attraversare il volto di Minnim, offuscando, almeno per un po', l'iniziale gioia acritica.
Sentiva di poter vedere nel futuro. Minnim avrebbe chiesto ai sociologi, e uno o due di loro sarebbero stati incerti. Si sarebbero posti domande. Avrebbero consultato Baley.
Diamogli un anno, pensò Baley, un anno, e sarò partito per Aurora. Una generazione, e saremo di nuovo fuori nello spazio.
Baley camminava sulla Linea celere diretta a nord. Presto avrebbe rivisto Jessie. Avrebbe capito? E poi c'era suo figlio, Bentley, di sette anni. Quando Ben ne avrebbe avuti diciassette, sarebbe stato su un mondo vuoto a costruirsi una vita da spaziale?
Era un pensiero spaventoso. Baley temeva ancora l'aperto. Ma non temeva più la paura! Non era qualcosa da cui fuggire, la paura, ma qualcosa da combattere.
Baley sentiva come se una ventata di follia lo pervadesse. Fin dall'inizio aveva avuto una sconvolgente attrazione per l'aperto: fin da quando aveva indotto Daneel con l'inganno ad aprire il tetto del veicolo per poter stare all'aria aperta.
Allora non aveva capito. Daneel pensava che la sua fosse una perversione. Anche Baley pensava di affrontare l'aperto per una necessità professionale, per risolvere un delitto. Soltanto quell'ultima sera su Solaria, con quelle tende strappate dalla finestra, si era reso conto del suo bisogno di affrontare l'aperto in quanto tale: per l'attrazione che esercitava e per la promessa di libertà che conteneva.
Sulla Terra c'erano milioni di individui pronti ad avvertire lo stesso impulso, se l'aperto fosse stato portato alla loro attenzione, se avessero potuto fare il primo passo.
Si guardò intorno.
La Linea celere andava veloce. Intorno a lui c'era luce artificiale ed enormi strati di appartamenti che scorrevano all'indietro e insegne luminose e vetrine di negozi e rumore e folla e altro rumore e gente e gente e gente…
Tutto quello che aveva amato, tutto quello che aveva temuto di abbandonare, tutto quello a cui aveva tanto pensato su Solaria.
E ora gli era tutto estraneo.
Non riusciva più ad adattarcisi.
Se n'era andato a risolvere un delitto e gli era successo qualcosa.
Aveva detto a Minnim che le Città erano uteri, e lo erano. E qual era la prima cosa che un uomo deve fare per essere un uomo? Deve nascere. Deve lasciare l'utero. E una volta uscitone, non ci può più rientrare.
Baley aveva lasciato la Città e non poteva più rientrarci. La Città non era più sua: gli Abissi d'acciaio erano alieni. Doveva essere così. E sarebbe stato così anche per gli altri e la Terra sarebbe rinata e avrebbe raggiunto lo spazio.
Il cuore gli batteva pazzamente e il rumore della vita intorno a lui si attuti in un mormorio inaudibile.
Ricordò il sogno che aveva fatto su Solaria e finalmente lo capì. Alzò il capo e poté vedere attraverso tutto l'acciaio, il cemento e l'umanità sopra di lui. Poteva vedere il faro posto nello spazio per attirare all'esterno gli uomini. Poteva vederlo brillare. Il sole nudo!