10. Si delinea una cultura

Baley non poté fare a meno di gridare: «Cosa?».

Per qualche momento Quemot lo fissò in silenzio al di sopra della spalla. Infine disse: «Non l'attuale cultura della Terra. No».

«Oh» disse Baley.

«Ma nel passato sì. La storia antica della Terra. Come terrestre la conosce, naturalmente.»

«Ho visionato dei libri» disse cauto Baley.

«Ah. Allora capisce.»

Baley, che non capiva, cominciò: «Mi lasci spiegare quello che voglio con esattezza, dottor Quemot. Voglio che mi dica quello che può sul perché Solaria sia tanto diversa dagli altri Mondi Esterni, perché ci sono tanti robot, perché vi comportate come fate. Mi scusi se sembra che voglia cambiare discorso».

In effetti Baley il discorso voleva decisamente cambiarlo per davvero. Qualunque discussione su una somiglianza o una dissimiglianza tra la cultura di Solaria e quella della Terra avrebbe potuto diventare troppo coinvolgente. Avrebbe potuto passare là tutta la giornata senza ottenere nessuna delle utili informazioni che andava cercando.

Quemot sorrise. «Lei vuole paragonare Solaria con gli altri Mondi Esterni e non con la Terra.»

«La Terra la conosco, signore.»

«Come vuole.» Il solariano diede un leggero colpo di tosse. «Non le importa se le volto del tutto la schiena? Sarebbe più… Più comodo.»

«Come vuole, dottor Quemot» rispose Baley rigido.

«Bene.» A un ordine dato a voce bassa da Quemot un robot gli voltò completamente la sedia e il sociologo vi risedette, in pratica nascosto dallo schienale agli occhi di Baley. La voce prese più vita e perfino si rafforzò e si approfondì nel timbro.

«Solaria» cominciò Quemot «è stata colonizzata circa trecento anni fa. I coloni originari erano nexoniani. Ha presente Nexon?»

«Temo di no.»

«È vicino a Solaria, solo a due parsec di distanza. Infatti Solaria e Nexon rappresentavano il paio di pianeti disabitati più vicini della galassia. Anche quando non era abitata dall'uomo Solaria ospitava la vita ed era particolarmente adatta per l'occupazione umana. Rappresentava un'ovvia attrazione per gli agiati di Nexon, che trovavano difficile mantenere un tenore di vita adatto, man mano che il pianeta si riempiva.»

Baley lo interruppe: «Si riempiva? Credevo che gli spaziali praticassero il controllo delle nascite».

«Lo fa Solaria, ma negli altri Mondi Esterni in genere è stato piuttosto trascurato. Nel periodo di cui sto parlando, Nexon aveva raggiunto il secondo milione di abitanti. C'era già sufficiente affollamento per rendere necessaria la regolamentazione di quanti robot potesse possedere una certa famiglia. Così quei nexoniani che lo potevano, stabilirono la loro seconda casa su Solaria, che era fertile, dal clima temperato e senza una fauna pericolosa.

«I residenti di Solaria potevano raggiungere Nexon senza particolari problemi, e intanto potevano vivere su questo pianeta come più piaceva loro. Potevano usare tutti i robot che erano in grado di permettersi o di cui sentivano la necessità. Le tenute potevano essere grandi quanto si voleva, visto che con un pianeta vuoto lo spazio non era un problema e che, con un numero illimitato di robot, anche lo sfruttamento non era un problema.

«I robot divennero tanto numerosi da rendere necessario dotarli di un'interradio, e questo fu l'inizio delle nostre famose industrie. Cominciammo a sviluppare nuovi modelli, nuovi accessori, nuove capacità. La cultura detta l'invenzione: una frase che credo di aver inventato io.» Quemot ridacchiò.

Rispondendo a qualche stimolo che Baley non poteva vedere a causa dello schienale della sedia, un robot portò a Quemot un drink simile a quello che Baley aveva avuto prima. A Baley non ne venne portato nessuno ed egli decise di non chiederne.

Quemot proseguì: «I vantaggi della vita su Solaria erano ovvii per qualunque osservatore. Solaria divenne di moda. Vi costruirono case altri nexoniani e Solaria divenne quello che mi piace chiamare “il pianeta della villeggiatura”. Sempre più coloni rimanevano su Solaria tutto l'anno, mandando avanti i loro affari su Nexon servendosi di procuratori. Sul pianeta vennero impiantate le fabbriche di robot. Fattorie e miniere cominciarono ad essere tanto sfruttate da rendere possibile l'esportazione.

«In breve, mister Baley, divenne ovvio che Solaria, nello spazio di un secolo o anche meno, sarebbe diventata affollata quanto Nexon. Sembrava ridicolo e dispendioso scoprire un nuovo mondo con quelle qualità e poi perderlo per imprevidenza.

«Per risparmiarle un sacco di politica complicata, basterà dire che Solaria riuscì a conquistare e a mantenere la propria indipendenza senza bisogno di guerre. La nostra utilità per i Mondi Esterni come fonte produttiva di robot specializzati ci procurò naturalmente amici e aiuti.

«Una volta indipendenti, la prima cura che ci prendemmo fu di assicurarci che la popolazione non sarebbe cresciuta al di là dei limiti ragionevoli. Regolammo sia l'immigrazione che le nascite e sopperimmo a ogni necessità aumentando e diversificando i robot che usavamo.»

«Perché i solariani sono contrari all'idea di vedersi?» chiese Baley che si irritava sempre più per il modo in cui Quemot aveva scelto di divulgare la sua sociologia.

Quemot si voltò un istante a sbirciare oltre l'angolo dello schienale per ritrarsi immediatamente. «È una conseguenza inevitabile. Abbiamo tenute enormi. Una tenuta con un'area di quattromila chilometri quadrati non è eccezionale, anche se le più grandi comprendono considerevoli zone improduttive. La mia tenuta, per esempio, è di trecentosettanta chilometri quadrati, ma è tutta costituita da buona terra.

«In ogni caso è la dimensione di una tenuta, più di ogni altra cosa, a determinare la posizione di un uomo nella società. E la proprietà di una grande tenuta significa questo: che si può vagare quasi senza meta, senza pericolo di entrare nel territorio del vicino e così d'incontrare il proprio vicino. Capisce?»

Baley scrollò le spalle. «Suppongo di sì.»

«In breve, un solariano trae il suo orgoglio dal fatto di non incontrare il suo vicino. Nello stesso tempo la sua tenuta è tanto autosufficiente e così ben condotta dai robot che non c'è ragione perché debba incontrare il suo vicino. Il desiderio di non farlo condusse allo sviluppo di perfetti sistemi di visione, e con l'aumento dei sistemi di visione c'era sempre minore necessità di vedere il proprio vicino. Era un ciclo rinforzato, una specie di autoalimentazione. Capisce?»

«Senta, dottor Quemot» interloquì Baley. «Non è necessario che cerchi di rendermi tutto questo così semplice. Non sono un sociologo, ma nel college ho fatto a suo tempo i corsi elementari. Era solo un college della Terra, naturalmente,» aggiunse con una sorta di riluttante modestia tendente a schivare lo stesso commento, ma in termini più insultanti, da parte dell'altro, «ma la matematica so seguirla.»

«Matematica?» chiese Quemot, con la voce che prese un tono acuto sulla “i”.

«Be', non la roba che usano in robotica, che non sarei in grado di seguire, ma le relazioni sociologiche, che invece so usare. Per esempio la Relazione Teraminale mi è familiare.»

«Prego?»

«Forse qui la chiamate con un altro nome. Il differenziale tra scomodità sopportate e privilegi garantiti: “di” sotto “i lungo” elevato alla nona…»

«Ma di che cosa parla?» Il tono dello spaziale era tanto tagliente e perentorio da far tacere Baley per lo sbalordimento.

Certo la relazione tra scomodità sopportate e privilegi garantiti faceva parte delle cose essenziali da sapere per controllare la gente senza esplosioni. Un box privato assegnato per validi motivi a una sola persona in un bagno comune avrebbe tenuto x persone in paziente attesa che la cosa capitasse anche a loro, con il valore di x che variava secondo un rapporto conosciuto rispetto a date variazioni dell'ambiente e del carattere umano, come descritto quantitativamente nella Relazione Teraminale.

D'altra parte, in un mondo in cui tutto era privilegio e nulla scomodità, la Relazione Teraminale avrebbe potuto ridursi a una semplice banalità. Forse aveva scelto l'esempio sbagliato.

Provò ancora. «Guardi, è molto interessante ricevere informazioni qualitativamente complete sulla crescita dei pregiudizi contro il vedersi, ma per il mio scopo non è affatto utile. Quello che voglio conoscere è un'analisi esatta dei pregiudizi, in modo che possa combatterli con efficacia. Voglio persuadere la gente a vedermi, come lei fa ora.»

«Mister Baley,» rispose Quemot «non può trattare le emozioni umane come se fossero state costruite dentro un cervello positronico.»

«Non dico che si possa. La robotica è una scienza deduttiva e la sociologia è una scienza induttiva. Ma in entrambi i casi si può applicare la matematica.»

Per un istante vi fu silenzio. Poi il dottor Quemot parlò con voce tremante. «Lei ha ammesso di non essere un sociologo.»

«Lo so. Ma mi avevano detto che lo era lei. Il migliore del pianeta.»

«Sono l'unico. Si potrebbe quasi dire che questa disciplina l'abbia inventata io.»

«Ah.» Baley esitava a porre la domanda successiva: sembrava impertinente anche a lui. «Ha mai visionato libri sul soggetto?»

«Ho guardato alcuni libri di Aurora.»

«Non ha guardato libri della Terra?»

«Della Terra?» Quemot rise a disagio. «Non mi è stato necessario leggere nulla della produzione scientifica terrestre. Senza offesa.»

«Be', mi dispiace. Avevo pensato di poter avere dati specifici che mi avrebbero reso possibile parlare con gli altri faccia a faccia, senza dover…»

Quemot aveva emesso uno strano e raschiante suono inarticolato e la sua grande sedia si piegò all'indietro per poi cadere con fracasso.

Baley colse un attutito «Le mie scuse».

Ebbe una momentanea immagine di Quemot che a notevole andatura guadagnava la porta e spariva.

Baley alzò le sopracciglia. Che diavolo aveva detto questa volta? Giosafatte! Quale pulsante sbagliato aveva premuto?


Cominciò ad alzarsi per tastare il terreno, ma si fermò a metà, mentre entrava un robot.

«Padrone» disse il robot. «Mi è stato dato l'ordine di informarla che tra qualche momento la visionerà il mio padrone.»

«Mi visionerà, ragazzo?»

«Sì, padrone. Nel frattempo può chiedere altri rinfreschi.»

Di fianco al gomito di Baley era apparsa un'altra tazza con il liquido rosa, e questa volta era stato aggiunto un piatto di pasticcini freschi e fragranti.

Baley si risedette, assaggiò il liquore con cautela e lo rimise giù. I pasticcini erano al tocco duri e caldi, ma la crosta si rompeva con facilità in bocca e la parte interna era considerevolmente più calda e più morbida. Non riuscì a identificare i componenti dal sapore e si chiese se non fossero un prodotto delle spezie e dei condimenti nativi di Solaria.

Poi pensò all'alimentazione limitata e derivata da lieviti della Terra e si chiese se non ci sarebbe stato un mercato per pasticceria che imitasse i gusti dei prodotti dei Mondi Esterni.

Ma questo filo di pensieri si ruppe di botto con il sociologo Quemot che dal nulla appariva davanti a lui. Davanti a lui, questa volta! Sedeva in una sedia più piccola in un locale i cui muri e pavimento stonavano clamorosamente con quelli che circondavano Baley. E ora stava sorridendo, così che le rughe del volto gli si approfondivano e gli davano paradossalmente un aspetto più giovanile, accentuandone la vivacità degli occhi.

«Mille scuse, mister Baley» disse. «Credevo che avrei resistito bene alla sua presenza personale, ma è stata una delusione. Ero al limite e la sua frase me l'ha fatto oltrepassare, per così dire.»

«Di che frase parla, signore?»

«Lei ha detto qualcosa a proposito di intervistare la gente faccia a…» Scosse il capo, con la lingua che gli inumidiva rapidamente le labbra. «Preferirei non dirlo. Credo che lei sappia che cosa intendo. La frase ha evocato l'immagine scioccante di noi due che respiravamo… respiravamo ciascuno il fiato dell'altro.» Il solariano rabbrividì. «Non lo trova repellente?»

«Non credo di averci mai pensato.»

«Sembra un'abitudine così antigienica… E quando lei l'ha detto e l'immagine mi è balzata in mente, mi sono reso conto che dopo tutto eravamo davvero nello stesso locale, e, anche se non eravamo uno di fronte all'altro, sbuffi d'aria che erano stati nei suoi polmoni mi raggiungevano ed entravano nei miei. Con la natura sensibile della mia mente…»

«Nell'atmosfera di Solaria» disse Baley «ci sono molecole che sono state in migliaia di polmoni. Giosafatte! Sono state anche nei polmoni di animali e nelle branchie di pesci.»

«Questo è vero,» disse Quemot con un soprassalto della guancia «e neanch'io ci avevo mai pensato. Comunque c'era un senso d'immediatezza nella situazione, con lei che era effettivamente presente e con noi due che inspiravamo ed espiravamo. È meraviglioso il sollievo che provo nel visionarla.»

«Sono ancora nella stessa casa, dottor Quemot.»

«È questo precisamente che rende tanto meraviglioso il sollievo. Lei è ancora nella stessa casa, eppure basta l'uso del tridimensionale per fare la differenza. Almeno so come ci si sente a vedere uno straniero come lei. Non ci proverò mai più.»

«Sembra che lei stesse sperimentando il vedere.»

«In un certo senso» rispose Quemot «immagino di sì. Era una motivazione minore. E i risultati sono stati interessanti, anche se altrettanto sconvolgenti. È stata una buona prova e potrò registrarla.»

«Registrare che cosa?» chiese Baley incuriosito.

«Le mie sensazioni!» Lo spaziale contraccambiò sguardo incuriosito a sguardo incuriosito.

Baley sospirò. Fraintendimenti. Sempre fraintendimenti. «Lo chiedevo solo perché in un certo senso davo per scontato che lei avesse strumenti di qualche tipo per misurare le reazioni emotive. Forse un elettroencefalogramma.» Si guardò in giro senza risultato. «Ma immagino che lei possa averne una versione tascabile che funzioni senza dirette connessioni elettriche. Non abbiamo nulla del genere sulla Terra.»

«Ritengo» disse con sussiego il solariano «di essere in grado di stimare la natura dei miei sentimenti senza ausilio di uno strumento. Sono pronunciati a sufficienza.»

«Sì, naturalmente, ma per le analisi quantitative…» cominciò Baley.

«Non so quale sia il suo scopo» lo interruppe querulo il sociologo. «E poi sto cercando di dirle qualcos'altro, la mia teoria personale, infatti, qualcosa che non ho mai visionato nei libri, qualcosa di cui sono molto orgoglioso di…»

«Di che si tratta, in pratica?»

«Be', del modo in cui la cultura di Solaria si basa su una che esisteva nel passato della Terra.»

Baley sospirò. Se non permetteva all'altro di liberarsi da quel peso, poi ci sarebbe stata pochissima collaborazione. Quindi disse: «E cioè?».

«Sparta!» esclamò Quemot, alzando il capo in modo tale che per un istante i capelli bianchi gli luccicarono nella luce fin quasi a sembrare un alone. «Certo avrà udito parlare di Sparta!»

Baley si sentì sollevato. Da giovane si era interessato moltissimo al passato della Terra (era uno studio attraente per molti terrestri: una Terra suprema, perché c'era solo la Terra; con i terrestri che erano i padroni, perché non c'erano spaziali), ma il passato della Terra era esteso. Quemot avrebbe potuto riferirsi a qualche fase con cui Baley non avesse avuto dimestichezza, e questo sarebbe stato imbarazzante.

Così come stavano le cose, poté azzardarsi a dire: «Sì, ho visionato dei libri sull'argomento».

«Bene. Bene. Ora Sparta nel suo fulgore consisteva in un numero relativamente piccolo di spartiati, gli unici cittadini a tutti gli effetti, più un numero maggiore di cittadini di seconda classe, i perieci, e un numero veramente grande di schiavi, gli iloti. Gli iloti superavano gli spartiati in numero di venti a uno, e gli iloti erano uomini, con sentimenti umani e debolezze umane.

«Per essere sicuri che una rivolta degli iloti non avrebbe mai avuto successo, malgrado il loro numero preponderante, gli spartani divennero degli specialisti militari. Ciascuno era parte di una grande macchina bellica e la loro società realizzava questo proposito. Non ci fu mai una rivolta riuscita degli iloti.

«Ebbene, in un certo senso noi, esseri umani di Solaria, siamo gli equivalenti degli spartiati. Abbiamo i nostri iloti, però i nostri iloti non sono uomini, bensì macchine. Non possono rivoltarsi né è necessario che ci facciano paura, anche se per numero ci sono mille volte superiori più di quanto gli iloti superassero gli spartiati. Così abbiamo il vantaggio dell'esclusività degli spartiati senza bisogno di sacrificarci a una rigida disciplina. Invece possiamo modellarci sul modo artistico e culturale di vivere degli ateniesi, che erano contemporanei degli spartani e che…»

«Ho visionato anche dei film sugli ateniesi» disse Baley.

Man mano che parlava Quemot andava scaldandosi. «Le civiltà hanno sempre avuto una struttura piramidale. Quando uno si arrampica verso la cima dell'edificio sociale, aumentano i suoi agi, come aumentano le opportunità per una sua ricerca della felicità. Man mano che egli sale, trova sempre meno gente che gode sempre più di tutto questo. Invariabilmente c'è una preponderanza dei defraudati. E ricordi questo: non importa quanto lontano dal fondo si trovino gli scalatori della piramide, in rapporto alla cima saranno sempre defraudati. Per esempio, gli uomini più poveri di Aurora staranno sempre meglio degli aristocratici della Terra, ma saranno sempre defraudati rispetto agli aristocratici di Aurora, ed è con i signori del loro mondo che devono paragonarsi.

«Ecco che quindi nelle società umane c'è sempre attrito sociale. L'azione della rivoluzione sociale e la reazione della prevenzione o della sua repressione sono le cause di tutta la miseria umana di cui è permeata la storia.

«Ora, qui su Solaria, per la prima volta, c'è solo la cima della piramide. Al posto dei defraudati ci sono i robot. Siamo la prima nuova società, la prima davvero nuova, la prima grande invenzione sociale da quando i contadini sumeri ed egiziani inventarono le città.»

Si rilasciò sul sedile, sorridente.

Baley annuì. «Ha mai pubblicato tutto questo?»

«Un giorno» rispose Quemot con affettata noncuranza «forse lo farò. Ancora non l'ho fatto. Questo è il mio terzo contributo.»

«E gli altri due erano vasti come questo?»

«Non riguardavano la sociologia. Prima sono stato uno scultore. I lavori che vede intorno a sé» indicò le statue «sono miei. E sono stato anche un compositore. Ma sto avanzando nell'età e Rikaine Delmarre ha sempre spezzato una lancia contro le belle arti in favore delle arti applicate, così ho deciso di dedicarmi alla sociologia.»

«Ne arguisco che Delmarre fosse un suo buon amico.»

«Ci conoscevamo. Quando uno ha un'età come la mia, conosce tutti i solariani adulti. Ma non c'è motivo di negare che io e Rikaine Delmarre fossimo buoni conoscenti.»

«Che tipo d'uomo era Delmarre?» (Piuttosto stranamente, il nome dell'uomo portò alla mente di Baley un'immagine di Gladia, ed egli fu aggredito da un improvviso e acuto ricordo di lei come l'aveva vista l'ultima volta, furiosa, con la faccia distorta dall'ira contro di lui.)

Quemot sembrava un po' pensieroso. «Era un uomo degno, devoto a Solaria e al suo modo di vivere.»

«Un idealista, in altre parole.»

«Sì, decisamente. Lo si può capire dal fatto che aveva scelto di sua volontà il lavoro che faceva di ingegnere fetale. Era un'arte applicata, vede, e le ho già detto come la pensava in merito.»

«È insolito essere volontari?»

«Non lo direbbe se… Ma dimenticavo che lei è un terrestre. Sì, è insolito. È uno di quei lavori che debbono essere eseguiti, anche se non si trovano volontari. Di solito qualcuno vi dev'essere assegnato per un periodo di molti anni, e non è piacevole essere scelto. Delmarre si era presentato come volontario, e per tutta la vita. Sentiva che la posizione era troppo importante per essere affidata ad arruolati riluttanti e aveva convinto anche me. Eppure io non mi sarei mai presentato come volontario. Non avrei potuto compiere un tale sacrificio personale. E per lui era più che un sacrificio, visto che quanto all'igiene personale era quasi un fanatico.»

«Non sono ancora certo di aver capito la natura del suo lavoro.»

Le vecchie guance di Quemot si arrossarono un poco. «Non sarebbe stato meglio se ne avesse discusso con l'assistente?»

«Lo avrei già fatto senz'altro, signore,» esclamò Baley «se qualcuno prima d'ora si fosse degnato di dirmi che lui aveva un assistente.»

«Mi dispiace per questo» si dolse Quemot. «L'esistenza di un assistente è un'altra misura della sua responsabilità sociale. Chi aveva il suo posto prima di lui non ne aveva. Invece Delmarre sentiva la necessità di trovare una persona giovane adatta e impartirle personalmente l'addestramento necessario per lasciarsi dietro un erede professionale quando per lui sarebbe venuto il momento di ritirarsi o, be', di morire.» Il vecchio solariano sospirò pesantemente. «Gli sono sopravvissuto, e lui era molto più giovane. Spesso giocavamo a scacchi. Molto spesso.»

«E come facevate?»

Le sopracciglia di Quemot si sollevarono. «Nel solito modo.»

«Vi vedevate?»

Quemot sembrò inorridito. «Che razza d'idea! Anche se avessi avuto lo stomaco per sopportarlo, Delmarre non lo avrebbe permesso nemmeno per un istante. L'essere ingegnere fetale non aveva ottuso la sua sensibilità. Era pedante.»

«Allora come…»

«Con due scacchiere, come qualunque coppia che giochi a scacchi.» Il solariano scrollò le spalle con un improvviso gesto di tolleranza. «Be', lei è terrestre. Lui rifaceva le mie mosse sulla sua scacchiera, io le sue sulla mia. È semplice.»

«Conosce la signora Delmarre?» Baley chiese.

«Ci siamo visionati qualche volta. Come sa, lei è una colorista di campo, e ho visto qualcuno delle sue esposizioni. Bei lavori, in un certo senso, ma più interessanti come curiosità che come creazioni. Però sono divertenti, frutto di una mente percettiva.»

«La considererebbe capace di uccidere suo marito?»

«Non saprei. Le donne sono creature sorprendenti. Ma dopo tutto non c'è molto spazio per una discussione, no? Solo la signora Delmarre poteva essere abbastanza vicina a Rikaine per ucciderlo. Rikaine non avrebbe mai permesso a nessun altro, in nessuna circostanza, di vederlo per un motivo qualsiasi. Estremamente pedante. Forse pedante nel mondo sbagliato. Solo che gli mancava qualunque traccia di anormalità o di perversione. Era un buon solariano.»

«Definirebbe perverso il permesso che lei mi ha dato di vederla?» chiese Baley.

«Sì,» rispose il sociologo «credo di sì. Direi che c'è una base di scatofilia.»

«Delmarre non potrebbe essere stato ucciso per motivi politici?»

«Cosa?»

«Ho sentito che lo chiamavano “tradizionalista”.»

«Oh, tutti lo siamo.»

«Vuol dire che non c'è nessun gruppo di solariani che non sia tradizionalista?»

«Oserei dire che c'è qualcuno» disse pensierosamente Quemot «che considera pericoloso essere troppo tradizionalista. Sono estremamente consapevoli della nostra scarsa popolazione, del modo in cui gli altri ci superano di numero. Pensano che siamo senza difesa di fronte a un'eventuale aggressione degli altri Mondi Esterni. Sono stupidi a pensarla così, comunque non ce ne sono molti. Non credo che possano rappresentare una forza.»

«Perché li definisce stupidi? C'è nulla su Solaria che possa influenzare l'equilibrio dei poteri malgrado il grande svantaggio numerico? Qualche nuovo tipo di arma?»

«Un'arma, certo. Ma non nuova. La gente di cui parlo è più cieca che stupida nel non rendersi conto che una tale arma opera in continuazione e che non vi si può resistere.»

Gli occhi di Baley si restrinsero. «Parla sul serio?»

«Certo.»

«Conosce la natura dell'arma?»

«Tutti la conosciamo. Anche lei, se smette di pensarci. Io vedo un po' più in là della maggior parte, forse, perché sono un sociologo. Non è usata come di solito si usa un'arma. Non uccide né ferisce, ma anche così è irresistibile. E la rende anche più irresistibile il fatto che nessuno la nota.»

«E qual è quest'arma non letale?» chiese Baley con irritazione.

«Il robot positronico.»

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