15. Si colora un ritratto

Per Baley era un brutto colpo. Cercò di non farlo vedere.

Vivendo come vivevano, era presumibile che i solariani considerassero sacrosanta la vita privata altrui. Domande riguardanti i bambini e il matrimonio erano di cattivo gusto. Suppose allora che potesse esistere benissimo un litigio permanente tra marito e moglie e che questa fosse una questione in cui fosse egualmente proibita la curiosità.

Ma anche quando fosse stato commesso un omicidio? Nessuno avrebbe mai commesso il crimine sociale di chiedere alla persona sospettata se aveva mai litigato con suo marito? O di parlare della faccenda, se fosse accaduto loro di saperlo già?

Be', Leebig l'aveva fatto.

«Su che cosa vertevano le liti?» chiese Baley.

«Farà meglio a chiederlo a lei, penso.»

Sì, sarebbe stato meglio, pensò Baley. Si alzò rigido. «Dottor Leebig, la ringrazio per la collaborazione. È possibile che anche in seguito possa aver bisogno del suo aiuto. Spero che continuerà ad essere disponibile.»

«Visione terminata» disse Leebig, e la sezione della sua stanza svanì all'improvviso.

Per la prima volta Baley si trovò a non badare a un aereo che viaggiava nello spazio aperto. A non badarci affatto. Era come se fosse quasi nel proprio elemento.

Non pensava nemmeno alla Terra né a Jessie. Era partito dalla Terra solo da poche settimane, eppure gli sembravano anni. Non era su Solaria neanche da tre giorni e gli sembrava di esserci da sempre.

Quanto alla svelta un uomo poteva adattarsi a un incubo?

O era Gladia? Presto l'avrebbe vista, non visionata. Era questo che gli dava sicurezza e questa strana sensazione di apprensione e attesa insieme?

Avrebbe resistito lei?, si chiese. O, dopo qualche minuto, se ne sarebbe fuggita implorando, come aveva fatto il dottor Quemot?

Quando entrò, lei stava all'altra estremità di una lunga sala. Sembrava quasi che avesse voluto dare un'immagine impressionistica di se stessa, tanto si era ridotta all'essenziale.

Aveva le labbra leggermente rosse, gli occhi appena ritoccati, i lobi delle orecchie blu pastello e, a parte questo, il volto non truccato. Sembrava pallida, un po' spaventata e molto giovane.

I capelli castano chiari erano pettinati all'indietro e gli occhi grigio-azzurri avevano uno sguardo timido. L'abito era di un blu tanto scuro da sembrare nero, con un piccolo bordo bianco che si arricciava ai lati. Aveva maniche lunghe, guanti bianchi e babbucce senza tacco. L'unica zona di pelle scoperta era il volto. Anche il collo era coperto da una specie di risvolto dell'abito.

Baley si fermò dov'era. «È troppo vicino, Gladia?»

Lei respirava con un po' di affanno. Disse: «Avevo dimenticato che cosa aspettarmi. È un po' come visionare, no? Voglio dire, se uno non pensa che sta vedendo».

«Per me è del tutto normale» disse Baley.

«Sì, sulla Terra.» Lei chiuse gli occhi. «Qualche volta cerco di immaginarmelo. Solo folla, dovunque. Cammini per una strada e ci sono altri che camminano al tuo fianco e altri che camminano in direzione opposta. Decine…»

«Centinaia» corresse Baley. «Non hai mai visto scene della Terra in qualche librofilm? O visionato un romanzo ambientato sulla Terra?»

«Non ne abbiamo molti, ma ho visionato romanzi ambientati sugli altri Mondi Esterni, dove tutti si vedono in continuazione. È diverso in un romanzo. Sembra solo una multivisione.»

«Si bacia mai la gente nei romanzi?»

Lei arrossì molto a disagio. «Non leggo quella roba.»

«Mai?»

«Be'… C'è sempre in giro qualche film sporco, lo sai, e qualche volta, così, per curiosità… È disgustoso.»

«Davvero?»

Parlò con improvvisa animazione. «Ma la Terra è tanto diversa. Tanta gente. Quando cammini, Elijah, immagino che t… tocchi la gente. Per caso, voglio dire.»

Baley fece un mezzo sorriso. «Puoi arrivare a stenderle a terra, per caso.» Pensava alla folla sulla Linea celere che si dava strattoni e spintoni, balzando su e giù dai nastri mobili, e per un istante sentì l'inevitabile morso della nostalgia.

«Non c'è bisogno che tu stia laggiù» disse Gladia.

«Allora posso avvicinarmi un poco?»

«Credo di sì. Ti dirò io quando devi fermarti.»

Un passo dopo l'altro Baley cominciò ad avvicinarsi, mentre Gladia lo fissava con gli occhi spalancati.

«Non ti piacerebbe» disse lei all'improvviso «vedere un po' delle mie coloriture di campo?»

Baley era arrivato a un paio di metri. Si fermò a guardarla. Aveva un'aria piccola e fragile. Cercò d'immaginarsela con qualcosa in mano (che cosa?) che abbatteva furiosamente sulla testa del marito. Cercò d'immaginarsela pazza d'ira, omicida per odio e per rabbia.

Dovette ammettere che avrebbe potuto essere. Anche una donna di cinquanta chili avrebbe potuto rompere un cranio, se avesse avuto l'arma adatta e fosse abbastanza infuriata. Baley aveva conosciuto assassine (sulla Terra, naturalmente) che, rilassate, erano dei coniglietti.

«Che cosa sono le coloriture di campo, Gladia?»

«Una forma d'arte» disse lei.

Baley ricordò quello che aveva detto Leebig a proposito dell'arte di Gladia. Annuì. «Mi piacerebbe vederle.»

«Allora vieni.»

Baley continuò a mantenere una distanza prudenziale di due metri tra loro. Almeno era un terzo della distanza che aveva preteso Klorissa.


Entrarono in una stanza fiammeggiante di luce. Brillava in ogni angolo di ogni colore.

Gladia aveva l'aria compiaciuta, padrona. Alzò gli occhi, pieni di attesa, su Baley.

La risposta di Baley doveva essere quella che lei si aspettava, anche se non disse nulla: si girava lentamente, cercando di capire quello che vedeva, perché c'era solo luce, non un oggetto materiale.

Le masse di luce riposavano su piedistalli avvolgenti. Erano geometria vivente, linee e curve di colore che si fondevano in un insieme unico, pur mantenendo identità distinte. Non ce n'erano due nemmeno remotamente uguali.

Baley annaspava in cerca delle parole appropriate, infine disse: «Dovrebbe significare qualcosa?».

Gladia rise con la sua piacevole voce di contralto. «Significa qualunque cosa ti piace che significhi. Sono solo forme-luce che potrebbero farti sentire adirato, o curioso, o felice, o qualunque altra cosa provavo io quando le ho costruite. Potrei farne una per te, una specie di ritratto. Però potrebbe anche non venire tanto bene, perché dovrei improvvisare.»

«Lo faresti? Mi interesserebbe molto.»

«Va bene» disse lei e fece una piccola corsa fino a una figura in un angolo, passandogli vicina qualche centimetro. Sembrò che non lo notasse.

Toccò qualcosa sul piedistallo della figura-luce e lo splendore al di sopra morì senza un tremolio.

Baley annaspò e disse: «Non farlo».

«Va tutto bene. Comunque mi aveva stancato. Abbasserò temporaneamente le altre, in modo che non mi distraggano.» Aprì un pannello su un muro liscio e spostò un reostato. I colori svanirono in qualcosa di scarsamente visibile.

«Non hai un robot per fare questo?» chiese Baley. «Che chiuda i contatti?»

«Zitto, ora» disse lei con impazienza. «Non tengo robot, qui. Tutto questo sono io.» Lo guardò fremendo. «Non ti conosco abbastanza, è questo il guaio.»

Non guardava il piedistallo, ma le dita posavano leggere sul ripiano, tutte e dieci curve, tese, in attesa.

Un dito si mosse, descrivendo una mezza curva sulla superficie liscia. Una sbarra di luce giallo cadmio sciabolò obliquamente nell'aria al di sopra. Il dito s'inclinò un po' indietro e la luce diventò meno profonda nell'ombra.

Lei lo guardò un istante. «Immagino che sia così. Una specie di forza senza peso.»

«Giosafatte.»

«Ti sei offeso?» Sollevò le dita e la linea obliqua di luce rimase stazionaria in alto.

«No, niente affatto. Ma che cos'è? Come fai?»

«È difficile a spiegarsi,» disse Gladia, mentre guardava pensierosamente il piedistallo, «tenendo conto che in realtà non lo capisco neanch'io. È una specie di illusione ottica, mi hanno detto. Componiamo campi di forza a diversi livelli di energia. In realtà sono espulsioni dell'iperspazio e non hanno affatto le proprietà dello spazio ordinario. A seconda del livello d'energia, l'occhio umano vede luci di tonalità diverse. Le forme e i colori sono controllati dal calore delle mie dita contro punti adatti del piedistallo. Dentro ogni piedistallo ci sono tutti i tipi di controlli.»

«Vuoi dire che se ci mettessi su un dito…» Baley avanzò e Gladia gli lasciò il posto. Mise esitando un polpastrello sulla superficie e avvertì una leggera pulsazione.

«Va' avanti. Muovi il dito, Elijah» disse lei.

Baley lo fece e una frastagliatura di luce grigio sporco apparve nell'aria ad attraversare la luce gialla. Baley ritirò il dito di scatto e Gladia rise per poi prendere subito un'aria contrita.

«Non avrei dovuto ridere» disse. «È proprio difficile a farsi, perfino per gente che ci ha provato per lungo tempo.» Mosse la mano leggermente e troppo in fretta perché Baley potesse seguire il movimento e la mostruosità che lui aveva fatto sparì, lasciando la sola luce gialla.

«Come hai imparato a farlo?» chiese Baley.

«Continuando a provare. È una nuova forma d'arte, sai, e solo uno o due sanno davvero come…»

«E tu sei la migliore» concluse Baley tetro. «Su Solarìa tutti sono i migliori o gli unici in qualche campo.»

«Non mi prendere in giro. Ho fatto mostre dei miei piedistalli. Ho dato spettacoli.» Alzò il mento. Il suo orgoglio era inequivocabile.

«Fammi andare avanti con il tuo ritratto» continuò lei. Mosse ancora le dita.

Nella forma-luce apparvero alcune curve che crebbero e si modificarono alle sue direttive. Ora era tutta angoli acuti. E il colore dominante era il blu.

«Quella è la Terra, in un certo senso» commentò lei, mordendosi il labbro inferiore. «Ho sempre pensato alla Terra come blu. Tutta quella gente che vede, vede, vede. Visionare è più rosa. Come ti sembra?»

«Giosafatte, non riesco a immaginarmi le cose come se fossero dei colori.»

«Ah, no?» disse lei distratta. «Ora, tu ogni tanto dici “Giosafatte” e questo vuol dire una pallina viola. Una piccola pallina netta, perché di solito lo esclami all'improvviso, così.» E la pallina viola apparve brillando da un lato.

«E poi,» disse lei «posso finire così.» E un grande cubo grigio-ardesia, liscio e opaco, salì a rinchiudere ogni cosa. Le luci all'interno vi brillavano attraverso, ma attenuate, imprigionate, in un certo senso.

Nel vederlo Baley provò tristezza, come se ci fosse qualcosa che lo tenesse rinchiuso e lontano da quello che voleva. «E quest'ultima cosa, cos'è?» chiese.

«Be',» spiegò Gladia «i muri intorno a te. È quello che c'è di più in te, il modo in cui non riesci ad andar fuori, il modo in cui devi a tutti i costi stare dentro. Là dentro ci sei davvero. Non vedi?»

Baley vedeva e in un certo senso disapprovava. «Quei muri» disse «non sono permanenti. Oggi sono stato fuori.»

«Davvero? E ti dava fastidio?»

Non riuscì a reprimere una ritorsione. «Come a te dà fastidio vedere me. Non ti piace, ma riesci a sopportarlo.»

Lei lo guardava pensierosa. «Vuoi venire fuori, ora? Con me? A fare una passeggiata?»

Baley ebbe l'impulso di esclamare: Giosafatte, no.

Lei proseguì: «Non ho mai camminato con qualcuno, vedendoci. È ancora giorno, e il tempo è piacevole».

Baley guardò il suo ritratto astratto e disse: «Se vengo, toglierai il grigio?».

Lei sorrise. «Dipende da come ti comporterai.»

La struttura di luce rimase così, mentre lasciavano la stanza. Restava lì, tenendo l'anima di Baley imprigionata nel grigio delle Città.

Baley rabbrividì leggermente. L'aria si spostava contro di lui portandogli un brivido.

«Hai freddo?» chiese Gladia.

«Prima non era così» borbottò lui.

«Ora è pomeriggio inoltrato, ma non fa davvero freddo. Vorresti un cappotto? Un robot può portartene uno in un minuto.»

«No, va tutto bene.» Camminavano lungo uno stretto sentiero pavimentato. «È qui che facevi le passeggiate col dottor Leebig?»

«Oh, no. Andavamo per i campi, dove puoi vedere solo qualche robot che lavora, ogni tanto, e udire i rumori degli animali. Noi invece staremo vicino alla casa, non si sa mai.»

«Non si sa mai cosa?»

«Che tu desideri rientrare.»

«O che tu ti stanchi di vedermi?»

«Non mi dà fastidio» disse lei con aria leggera.

Sopra di loro c'era il vago stormire delle foglie e una tonalità giallo-verde permeava ogni cosa. Nell'aria c'erano delle grida lontane e un ronzio stridente. E c'erano le ombre.

Era particolarmente consapevole delle ombre. Una di queste gli stava attaccata sotto, a forma d'uomo, e si muoveva come lui con mimica orribile. Baley aveva sentito parlare delle ombre, naturalmente, e sapeva che cos'erano, ma nella indiretta luce diffusa delle Città non ne era mai stato particolarmente conscio.

Sapeva di avere il sole solariano dietro di lui. Stava attento a non guardarlo, ma sapeva che c'era.

Lo spazio era grande, lo spazio era solitario, eppure scoprì che lo attirava. Con la mente immaginava se stesso che camminava a grandi passi sulla superficie di un mondo con migliaia di chilometri e anni luce di spazio tutt'intorno a lui.

Perché avrebbe dovuto provare attrazione per questa sensazione di solitudine? Non voleva la solitudine. Voleva la Terra, e il calore e la compagnia delle Città piene zeppe di uomini.

L'immagine l'abbandonò. Cercò di rimettere insieme New York nella sua mente, tutto il suo rumore e la sua pienezza, e scoprì di rimanere solo conscio del quieto brivido dell'aria che si muoveva sulla superficie di Solaria.

Senza volerlo veramente, Baley si spostò più vicino a Gladia fino ad essere a mezzo metro, per poi accorgersi del volto sorpreso di lei.

«Domando scusa» disse immediatamente, ritirandosi.

Lei annaspò. «Tutto bene. Passiamo di qua? Abbiamo delle aiuole di fiori che dovrebbero piacerti.»

La direzione che indicava portava lontano dal sole. La seguì in silenzio.

«In seguito sarà meraviglioso» spiegò Gladia. «Col tempo caldo posso correre giù al lago a nuotare, o solo correre per i campi più veloce che posso finché sono felice di cadere e restare immobile.»

Si guardò addosso. «Ma questo non è il costume adatto. Con su tutto questo, devo camminare per forza. Tranquillamente.»

«Come preferiresti vestirti?» chiese Baley.

«Prendisole e shorts, al massimo» gridò lei, sollevando le braccia come se percepisse fisicamente la libertà nella sua immaginazione. «Qualche volta di meno. Qualche volta solo sandali, in modo da sentire l'aria su ogni centimetro di… Oh, scusa, ti ho offeso.»

«No, va tutto bene. Era quello il tuo costume, quando facevi le passeggiate con il dottor Leebig?»

«Variava. Dipendeva dal tempo. Qualche volta indossavo ben poco, ma era solo visione, sai. Capisci, spero.»

«Capisco. Ma il dottor Leebig? Anche lui si vestiva poco?»

«Jothan che si veste poco?» Gladia ebbe un lampo di sorriso. «Oh, no. È molto solenne, sempre.» Torse il volto in un'espressione grave, con una palpebra mezzo abbassata, cogliendo l'essenza di Leebig e strappando a Baley un grugnito di apprezzamento.

«E parla così» aggiunse. «Mia cara Gladia, considerando gli effetti di un potenziale di prim'ordine su una corrente positronica…»

«È questo di cui ti parlava? Robotica?»

«Quasi sempre. Oh, la prende molto seriamente, sai. Cercava sempre d'insegnarmela. Non si è mai arreso.»

«Hai imparato nulla?»

«Nulla di nulla. Nulla. Per me è solo un gran pasticcio. Qualche volta si arrabbiava con me ma, quando mi sgridava, mi tuffavo nell'acqua, se eravamo vicini al lago, e lo schizzavo tutto.»

«Lo schizzavi? Credevo che vi visionaste.»

Lei rise. «Sei proprio un terrestre. Io facevo gli spruzzi verso di lui, ma lui stava nella sua stanza o nella sua tenuta. Solo che lui cercava di schivarli lo stesso… Guarda.»

Baley guardò. Avevano aggirato una zona alberata per giungere a una radura con al centro un laghetto ornamentale. Sentieri pavimentati entravano nella radura e vi si disperdevano. I fiori crescevano a profusione e in ordine. Baley li riconobbe come fiori per i librifilm che aveva visionato.

In un certo senso i fiori erano come gli schemi luminosi che Gladia costruiva e Baley immaginò che li costruisse secondo lo spirito dei fiori. Ne toccò uno con cautela, poi si guardò in giro. Predominavano i rossi e i gialli.

Nel voltarsi per guardare in giro intravide il sole.

«Il sole è basso nel cielo» disse a disagio.

«È tardo pomeriggio» gli gridò Gladia da dietro. Era corsa verso il laghetto e si era seduta su un sedile di pietra in riva ad esso. «Vieni qui» gridò ancora agitando la mano. «Puoi stare in piedi, se non ti piace sederti sulla pietra.»

Baley avanzò lentamente. «Arriva così in basso tutti i giorni?» chiese, e fu immediatamente dispiaciuto di averlo chiesto. Se il pianeta ruotava, il sole doveva essere basso sull'orizzonte, sia di prima mattina che di tardo pomeriggio. Solo a metà giornata poteva essere alto.

Dire questo a se stesso non poteva cambiare tutta una vita di pensieri basati sul sentito dire. Sapeva che c'erano cose come la notte, e l'aveva anche sperimentata, con tutto lo spessore di un pianeta che s'interponeva rassicurante tra un uomo e il sole. Sapeva anche che c'erano nuvole e un grigiore protettivo che nascondeva il peggio dell'esterno. Eppure, quando pensava a superfici planetarie, aveva sempre in mente l'immagine di uno splendore di luce con un sole alto nel cielo.

Voltò il capo a guardare sopra la spalla, molto rapidamente per avere solo una rapida immagine del sole e si chiese quanto fosse lontana la casa, nel caso che avesse deciso di tornare.

Gladia indicava l'altra estremità del sedile di pietra.

«È piuttosto vicino a te, no?» chiese Baley.

Lei tese le piccole mani a palme in su. «Mi ci sto abituando. Davvero.»

Sedette, guardando lei per evitare il sole.

Lei si chinò verso l'acqua e colse un piccolo fiore a forma di coppa, giallo fuori e screziato di bianco dentro, tutt'altro che appariscente. «Questa è una pianta locale» disse. «La maggior parte dei fiori di qui è originaria della Terra.»

Dal gambo spezzato sgocciolava l'acqua, mentre lei lo tendeva cautamente a Baley.

Baley si allungò a prenderlo, altrettanto cautamente. «L'hai ucciso» disse.

«È solo un fiore. Ce ne sono altre migliaia.» Improvvisamente, prima che le dita di lui giungessero a toccare la coppa gialla, la ritrasse con gli occhi fiammeggianti. «O vuoi implicare che potrei uccìdere un essere umano, solo perché ho colto un fiore?»

«Non volevo implicare nulla» disse Baley conciliante. «Posso vederlo?»

In realtà Baley non desiderava affatto toccarlo. Era cresciuto nella terra umida e aveva ancora gli effluvi del fango. Come poteva questa gente, tanto schizzinosa nei contatti con i terrestri e perfino tra di loro, essere così noncurante nei contatti con lo sporco comune?

Ma tenne lo stelo saldo tra pollice e indice e lo guardò. La corolla era formata di tanti piccoli pezzi simili a carta che s'incurvavano, partendo da un centro comune. In mezzo c'era un gonfiore bianco convesso, umido e orlato di peli neri che tremavano leggermente alla brezza.

«Annusalo» disse lei.

Improvvisamente Baley fu consapevole dell'odore che emanava. Vi si chinò sopra e disse: «Odora come il profumo di una donna».

Deliziata Gladia batté le mani. «Quant'è terrestre! Quello che in realtà avresti dovuto dire era che il profumo di una donna odora come questo.»

Baley annuì triste. Era sempre più stanco dell'esterno. Le ombre diventavano sempre più lunghe e il terreno sempre più scuro. Eppure era deciso a non arrendersi. Voleva che fossero tolte quelle mura grigie che offuscavano il suo ritratto. Era donchisciottesco, ma era così.

Gladia prese il fiore di Baley, che lo lasciò andare senza riluttanza. Gli strappò lentamente i petali. «Suppongo» disse «che ogni donna abbia un profumo diverso.»

«Dipende dal profumo» disse Baley indifferente.

«Immaginarsi l'essere tanto vicino da poterlo dire. Io non porto profumi, perché nessuno è abbastanza vicino. Tranne ora. Ma immagino che tu percepisca profumi spesso, in continuazione. Sulla Terra tua moglie sta sempre con te, non è vero?» Era completamente concentrata sul fiore, fremendo mentre lo faceva accuratamente a pezzi.

«Non è sempre con me» chiarì lui. «Non ogni minuto.»

«Ma la maggior parte del tempo. E ogni volta che tu voglia…»

Baley disse improvvisamente: «Puoi immaginarti perché il dottor Leebig cercava tanto di insegnarti la robotica?».

Ormai il fiore smembrato si era ridotto allo stelo e al gonfiore centrale. Gladia lo fece roteare tra le dita per poi gettarlo a galleggiare per qualche istante nel laghetto. «Credo che mi volesse come sua assistente» rispose.

«Te lo ha detto lui?»

«Verso la fine, Elijah. Credo che cominciasse a diventare impaziente. Comunque mi chiese se non pensassi che sarebbe stato eccitante lavorare nella robotica. Naturalmente gli risposi che non riuscivo a immaginare nulla di più noioso. Si arrabbiò molto.»

«E dopo quella volta non avete più fatto passeggiate insieme.»

«Sai,» disse lei «credo che sia andata proprio così. Immagino di aver ferito i suoi sentimenti. Tuttavia, che cosa avrei potuto fare?»

«Però è stato prima di allora che gli hai raccontato dei tuoi litigi con il dottor Delmarre.»

Le mani le si serrarono a pugno e lei continuò a tenerle così, in uno stretto spasmo. Il corpo si era irrigidito nella sua posizione, con il capo un po' piegato da un lato. La sua voce era innaturalmente acuta. «Che litigi?»

«I litigi con tuo marito. So che l'odiavi.»

Lo fissava con il volto distorto e chiazzato. «Chi te l'ha detto? Jothan?»

«Sì, ne ha accennato il dottor Leebig. Credo che sia vero.»

Era scossa. «Stai ancora cercando di provare che l'ho ucciso io. Continuo a pensare che tu sia mio amico, e invece sei solo… solo un detective.»

Alzò i pugni, con Baley che aspettava.

«Sai che puoi toccarmi» disse lui.

Le mani le caddero e incominciò a piangere in silenzio. Voltò il capo da un'altra parte.

Anche Baley piegò il capo e serrò gli occhi, chiudendo fuori le disturbanti ombre lunghe. Disse: «Il dottor Delmarre non era un uomo molto affettuoso, vero?».

«Era sempre molto occupato» disse lei con voce soffocata.

«D'altra parte tu sei affettuosa» proseguì Baley. «Tu trovi interessante un uomo. Capisci?»

«Non p… posso farci nulla. Lo so che è disgustoso, ma non posso farci nulla. E disgustoso perfino p… parlarne.»

«Però ne hai parlato con il dottor Leebig.»

«Dovevo fare qualcosa, e Jothan era disponibile, e sembrava che non gliene importasse, e mi faceva star meglio.»

«Era questo il motivo per cui litigavi con tuo marito? Perché era freddo e poco affettuoso e tu te ne risentivi?»

«A volte lo odiavo.» Scrollò impotente le spalle. «Era proprio un buon solariano e non eravamo programmati per … per…» S'interruppe.

Baley aspettava. Aveva lo stomaco freddo e l'aria aperta gli premeva pesantemente addosso. Quando i singhiozzi di Gladia si acquietarono, le chiese, più gentilmente che poté: «L'hai ucciso tu, Gladia?».

«No… No.» Poi, improvvisamente, come se la resistenza in lei fosse dissolta: «Non ti ho detto tutto».

«Be', allora fallo ora.»

«Stavamo litigando quella volta, quella volta che è morto. Il solito litigio. Io gridavo contro di lui, ma lui non mi rispondeva nemmeno. Diceva a malapena qualcosa, e così era anche peggio. Ero furiosa, furiosissima. E poi non ricordo più nulla.»

«Giosafatte!» Baley barcollò lievemente, con gli occhi fissi sulla neutrale pietra del sedile. «Come sarebbe, non ricordi?»

«Voglio dire che lui era morto, e io gridavo, e i robot sono venuti…»

«L'hai ucciso tu?»

«Non ricordo, Elijah, lo ricorderei se potessi, no? Solo che invece non ricordo nient'altro ed ero spaventata, tanto spaventata. Aiutami, ti prego, Elijah.»

«Non ti preoccupare, Gladia. Ti aiuterò.» La mente di Baley continuava a tornare all'arma del delitto. Che cosa ne era successo? Doveva essere stata portata via. Se era così, solo l'assassino poteva averlo fatto. Poiché Gladia era stata trovata immediatamente dopo sulla scena del delitto, non poteva essere stata lei. L'assassino doveva essere qualcun altro. Non importava come tutti la pensassero su Solaria, doveva essere qualcun altro.

Rifletté nauseato: devo tornare alla casa.

«Gladia…» cominciò.

E si trovò a fissare il sole. Era vicino all'orizzonte. Aveva dovuto voltare il capo per guardarlo, con gli occhi incatenati da un fascino morboso. Non l'aveva mai visto così. Largo, rosso, in un certo senso sbiadito, così che uno poteva guardarlo senza restare accecato e vedere in linee sottili nuvole sanguinanti sopra di lui, con una che lo attraversava diventando nera.

«Com'è rosso il sole» borbottò.

Udì la voce scossa e desolata di Gladia: «È sempre rosso al tramonto. Rosso e morente».

Baley ebbe una visione. Il sole scendeva in basso verso l'orizzonte perché la superficie del pianeta si allontanava da lui, a migliaia di chilometri all'ora, roteando sotto quel sole nudo, roteando senza proteggere i microbi chiamati uomini che si agitavano sulla sua superficie roteante, pazzamente roteante per sempre, roteando… roteando…

Era la sua testa che stava girando e il sedile di pietra s'inclinava verso di lui, e sopra il cielo era pesante, blu, blu scuro, e il sole se n'era andato, e le cime degli alberi, e il terreno s'innalzava e Gladia gridava lontana e un altro suono…

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