Isaac Asimov Il sole nudo

1. Viene posta una domanda

Elijah Baley combatteva con ostinazione il panico.

Era due settimane che montava. Forse anche di più. Aveva incominciato a montare fin da quando lo avevano chiamato a Washington per dirgli tranquillamente che i suoi compiti erano cambiati.

La chiamata a Washington era stata di per sé abbastanza sconvolgente. Era giunta senza particolari, una pura e semplice convocazione, e così era già peggio. Conteneva allegato un biglietto d'andata e ritorno per via aerea, e questo era ulteriormente peggio.

In parte dipendeva dal senso d'urgenza implicito nell'ordine di un viaggio aereo. E in parte era il pensiero dell'aereo, semplicemente quello. Eppure quello era solo l'inizio del disagio, ancora facile da soffocare.

Dopo tutto Lije Baley era già stato in aereo quattro volte. Una volta aveva addirittura attraversato il continente. Così, anche se il volo in aereo non è mai piacevole, almeno non sarebbe stato un completo salto nel buio.

E poi il viaggio da New York a Washington sarebbe durato soltanto un'ora. Avrebbero decollato dalla Pista Numero 2 di New York che era, come tutte le piste ufficiali, convenientemente recintata, con un'apertura che si apriva nell'indifesa atmosfera solo quando era stata raggiunta la velocità di decollo. L'atterraggio sarebbe avvenuto sulla Pista Numero 5 di Washington protetta nello stesso modo.

E poi, come Baley ben sapeva, sull'aereo non ci sarebbero stati finestrini. Ci sarebbe stata una buona illuminazione, cibo decente, tutte le comodità necessa rie. Il volo radiocomandato sarebbe stato regolare; e una volta in aria ci sarebbe stata a malapena la sensazione di movimento.

Spiegava tutto questo a se stesso e a Jessie sua moglie, che non era mai stata in aereo e affrontava questo argomento con terrore.

«Ma Lije,» insisteva lei «non mi piace che tu prenda l'aereo. Non è naturale. Perché non prendi le Linee celeri?»

«Perché ci vorrebbero dieci ore» la lunga faccia di Baley aveva assunto tratti aspri «e perché sono membro della Polizia Municipale e devo seguire gli ordini dei miei superiori. Al limite lo faccio per mantenere il mio inquadramento in C-6.»

E su questo non c'era da discutere.


Baley prese l'aereo e tenne gli occhi fissi sulla bobina del giornale che si srotolava con moto regolare e continuo dal distributore a livello degli occhi. Le autorità cittadine erano orgogliose di quel servizio: notizie, programmi speciali, articoli umoristici, brani educativi, ogni tanto un po' di narrativa. Un giorno o l'altro la bobina sarebbe stata convertita in film, si diceva, visto che “catturare” gli occhi con un visore sarebbe stato un modo ancor più efficiente di distrarre i passeggeri dalla loro situazione.

Baley continuava a tenere gli occhi fissi sulla bobina che si srotolava, non solo in cerca di distrazione, ma anche perché lo richiedeva la buona educazione. Sull'aereo c'erano altri cinque passeggeri (non aveva potuto fare a meno di notarlo) e ciascuno di loro aveva diritto a qualunque grado di paura o di ansietà la sua natura e la sua educazione gli facessero provare.

Baley si sarebbe certamente risentito per l'intrusione di chiunque altro nel suo disagio. Non voleva che occhi estranei presenziassero allo sporgere delle sue nocche mentre artigliava i braccioli con le mani, o all'impronta sudaticcia che vi avrebbe lasciato quando le avesse tolte.

Disse a se stesso: sono al chiuso. Questo aereo è solo una piccola Città.

Ma non riusciva ad autoingannarsi. Alla sua sinistra c'era un pollice d'acciaio. Dopo di che nulla…

Be', aria! Ma in realtà non era nulla.

Mille miglia in una direzione. Mille in un'altra. Un miglio di aria, forse due, di sotto.

Quasi quasi desiderava di poter dare un'occhiata in basso, di sbirciare la punta delle Città sepolte, mentre ci passava sopra: New York, Filadelfia, Baltimora, Washington. Immaginava di veder scorrere le distese di sciami di cupole che non aveva mai visto, ma che sapeva esserci. Sotto di loro, per un miglio di profondità e per dozzine di miglia in ogni direzione, c'erano le Città.

I corridoi senza fine, tipo alveare, delle Città, pensava, vivi di gente: appartamenti, cucine comuni, fabbriche, Linee celeri: tutto comodo e caldo della presenza dell'uomo.

Mentre lui era isolato nella fredda aria informe, dentro un piccolo proiettile di metallo che si muoveva nel vuoto.

Gli tremavano le mani, e forzò gli occhi a rimettersi a fuoco sulla striscia di carta e a leggere un po'.

Era un racconto che parlava di esplorazione galattica ed era del tutto ovvio che l'eroe fosse un terrestre.

Baley bofonchiò esasperato, poi trattenne un attimo il fiato per lo sgomento di avere emesso maleducatamente un suono.

Ma era del tutto ridicolo. Era una forma d'infantilismo, questa pretesa che i terrestri potessero invadere lo spazio. Esplorazione galattica! La galassia era chiusa ai terrestri. Era già stata occupata dagli spaziali, i cui antenati erano stati terrestri secoli prima. Quegli antenati avevano raggiunto per primi i Mondi Esterni, si erano messi comodi e i loro discendenti avevano calato le sbarre all'immigrazione. Avevano delimitato la Terra e i loro cugini terrestri. E la civiltà terrestre delle Città aveva completato l'opera, imprigionando i terrestri nelle Città con un muro di paura di spazi aperti che li teneva lontani dalle zone agricole e minerarie, condotte dai robot, del loro stesso pianeta: anche da quelle.

Baley pensò amaramente: Giosafatte! Se non ci piace, almeno facciamo qualcosa in proposito. Non sciupiamo tempo con le favole.

Ma non c'era nulla da fare in proposito, e lui lo sapeva.

Poi l'aereo atterrò. Lui e i suoi compagni di viaggio ne uscirono e si sparpagliarono, senza mai guardarsi l'un l'altro.

Baley diede un'occhiata all'orologio e decise che c'era il tempo per rinfrescarsi un po', prima di prendere la Linea celere per il Dipartimento della Giustizia. Era contento che ci fosse. Il suono e il clamore della vita, le enormi camere blindate dell'aeroporto, con i corridoi della Città che scendevano a numerosi piani, qualunque altra cosa vedesse o udisse, gli davano la sensazione di essere al sicuro, negli intestini caldi e nell'utero della Città. Lavava via l'ansietà, e mancava solo una doccia a completare l'opera.

Gli occorreva un permesso di transito per adoperare un bagno della comunità, ma l'esibizione dei suoi ordini di viaggio eliminarono ogni difficoltà. Ci fu soltanto la punzonatura d'uso, con il diritto a un box privato (la data accuratamente stampata per evitare abusi) e un sottile nastro scorrevole per raggiungere il punto assegnato.

Baley era grato per la sensazione dei nastri sotto i piedi. Era una sensazione quasi di piacere, quella di sentirsi accelerare spostandosi da nastro a nastro verso la Linea celere a piena velocità. Con una piroetta salì agilmente a bordo, occupando il posto a cui il suo inquadramento gli dava diritto.

Non era l'ora di punta e alcuni sedili erano ancora vuoti. Neanche il bagno, quando lo raggiunse, era eccessivamente affollato. Il box assegnatogli era abbastanza in ordine, con una lavatrice che funzionava bene.

Con la sua razione d'acqua consumata per un nobile scopo e con gli abiti rinfrescati si sentiva pronto ad affrontare il Dipartimento della Giustizia. Abbastanza ironicamente si sentiva anche allegro.

Il sottosegretario Albert Minnim era un ometto rubicondo che si andava ingrigendo, con gli angoli del corpo arrotondati e appesantiti. Trasudava pulizia e odorava leggermente di dopobarba. Tutto in lui parlava delle buone cose della vita che accompagnano sempre le razioni generose destinate a quelli che sono in alto nel governo.

Al confronto Baley si sentiva scarno e smorto. Era acutamente conscio delle sue grandi mani, degli occhi infossati e della sensazione generale di essere ossuto.

Minnim parlò con cordialità. «Si sieda, Baley. Fu ma?»

«Solo la pipa, signore» rispose Baley.

Così dicendo la tirò fuori, e Minnim ricacciò dentro il sigaro che aveva estratto a metà.

Baley fu subito dispiaciuto. Un sigaro era meglio che niente e l'altro avrebbe apprezzato il regalo. Anche con le razioni di tabacco aumentate in seguito alla sua promozione da C-5 a C-6 non era che poi potesse permettersi tante pipate.

«Accenda, accenda, prego» disse Minnim e attese con un'aria di pazienza paterna mentre Baley tirava fuori con cura una porzione di tabacco e la cacciava nel fornello della pipa.

«Non mi è stata comunicata» disse Baley con gli occhi fissi alla pipa «la ragione della mia convocazione a Washington, signore.»

«Lo so» rispose Minnim. Sorrise. «A questo rimediamo subito. Lei è stato assegnato temporaneamente a nuovi incarichi.»

«Fuori New York City?»

«Un bel po' lontano.»

Baley aggrottò le sopracciglia e alzò gli occhi con aria preoccupata. «Quanto temporaneamente, signore?»

«Non sono sicuro.»

Baley era consapevole dei vantaggi e degli svantaggi delle riassegnazioni. Come transitante in una Città in cui non era residente, molto probabilmente avrebbe goduto di un tenore di vita migliore di quello a cui la sua condizione ufficiale gli dava diritto. D'altra parte sarebbe stato molto improbabile che avrebbero permesso a Jessie e al loro figlio Bentley di viaggiare con lui. Poteva star certo che là a New York avrebbero preso buona cura di loro, ma Baley era un essere domestico e il pensiero della separazione non lo rallegrava.

Poi, una riassegnazione significava un lavoro specifico, il che era un bene, e una responsabilità più grande di quella che in genere ci si aspetta da un singolo detective, il che poteva essere scomodo. Non molti mesi prima Baley era sopravvissuto alla responsabilità di investigare sull'uccisione di uno spaziale poco fuori New York. Non moriva dalla gioia alla prospettiva di un'altra cosa del genere o di qualcosa che le somigliasse.

«Mi può dire dove vado?» chiese. «La natura del nuovo incarico? Di che si tratta?»

Cercava di soppesare l'«Un bel po' lontano» del sottosegretario e faceva scommesse con se stesso sulla sua nuova base di operazioni. Quell'«Un bel po' lontano» aveva avuto un tono enfatico e Baley pensò: Calcutta? Sydney?

Poi notò che Minnim dopo tutto tirava fuori un sigaro e se lo accendeva con cura.

Baley pensò: Giosafatte! È imbarazzato. Non vuole dirmelo.

Minnim estrasse il sigaro dalle labbra. Osservava pensieroso il fumo. «Il Dipartimento della Giustizia» disse «le assegna un nuovo temporaneo incarico su Solaria.»

Per un istante la mente di Baley cercò a tastoni un'identificazione illusoria: Solaria, Asia; Solaria, Australia…?

Poi scattò in piedi. «Vuol dire sui Mondi Esterni?» esclamò teso.

Minnim non guardava Baley negli occhi. «Proprio così.»

«Ma questo è impossibile» obiettò Baley. «Non permetterebbero a un terrestre di entrare in un Mondo Esterno.»

«Le circostanze mutano le situazioni, agente in borghese Baley. Su Solaria c'è stato un omicidio.»

Le labbra di Baley si contorsero in una specie di sorriso di riflesso. «È un po' fuori dalla nostra giurisdizione, no?»

«Hanno chiesto assistenza.»

«A noi? Alla Terra?» Baley era diviso tra la confusione e l'incredulità. Per un Mondo Esterno prendere un atteggiamento diverso dal disprezzo verso il pianeta madre o, al massimo, da un benevolo paternalismo sociale era impensabile. Portare assistenza?

«Alla Terra?» ripeté.

«Insolito,» ammise Minnim «ma così è. Vogliono che al caso sia assegnato un detective terrestre. La cosa è passata per i canali diplomatici del livello più alto.»

Baley si rimise a sedere. «Perché io? Non sono più tanto giovane. Ho quarantatré anni. Ho moglie e un figlio. Non posso lasciare la Terra.»

«Non è stata una nostra scelta. Hanno specificatamente chiesto di lei.»

«Di me?»

«Agente in borghese Elijah Baley, C-6, del Corpo di Polizia di New York City. Sapevano quello che volevano. E certo lei ha capito perché.»

Baley prese un'aria cocciuta. «Non sono qualificato.»

«Loro pensano che lei lo sia. Sembra che li abbia convinti il modo con cui ha condotto il caso dell'assassinio dello spaziale.»

«Devono aver capito male. Devo essere sembrato migliore di quello che sono.»

Minnim scrollò le spalle. «In ogni caso hanno chiesto di lei, e noi abbiamo acconsentito a mandarla. Lei è riassegnato. Tutta la parte burocratica è stata sistemata e lei deve andare. Durante la sua assenza ci si prenderà cura di sua moglie e di suo figlio a livello C-7, perché questo sarà il suo inquadramento finché sarà in forza a questo incarico.» Fece una pausa significativa. «Una conclusione soddisfacente dell'incarico può rendere l'inquadramento definitivo.»

Tutto stava accadendo troppo rapidamente per Baley. Nulla poteva andare in questo modo. Non poteva lasciare la Terra. Non lo capivano?

Udì se stesso chiedere con un volume di voce che sembrava poco naturale alle sue stesse orecchie: «Che tipo di omicidio? Quali sono le circostanze? Perché non possono occuparsi loro del caso?».

Minnim stava rimettendo a posto con la massima cura piccoli oggetti sulla sua scrivania. Scosse il capo. «Non so nulla dell'omicidio. Non conosco le circostanze.»

«E allora chi le conosce, signore? Non si aspetterà che vada là al buio, no?» E ancora una disperata voce interna: ma non posso lasciare la Terra.

«Nessuno ne sa niente. Nessuno sulla Terra. I solariani non ci hanno detto niente. Sarà compito suo scoprire che cosa c'è di tanto particolare in quel delitto da costringerli a chiamare un terrestre per risolverlo. O, almeno, questo sarà parte del suo compito.»

Baley era abbastanza disperato da esclamare: «E se rifiutassi?». Naturalmente la risposta la sapeva. Sapeva con esattezza che cosa avrebbe significato per lui e, peggio, per la sua famiglia, la declassificazione.

Minnim non parlò affatto della declassificazione. Disse sommessamente: «Non può rifiutare, agente. Ha un lavoro da fare».

«Per Solaria? Che vadano all'inferno.»

«Per noi, Baley. Per noi.» Minnim fece una pausa. Poi riprese: «Lei conosce la posizione della Terra rispetto agli spaziali. Non occorre che glielo ricordi».

Baley conosceva la situazione, e così ogni altro uomo della Terra. Anche se i cinquanta Mondi Esterni avevano tutti insieme una popolazione molto inferiore a quella della Terra, nondimeno mantenevano un potenziale militare forse cento volte maggiore. Con i loro mondi sottopopolati basati su un'economia fatta da robot positronici, la loro produzione di energia pro capite era migliaia di volte più grande di quella della Terra. Ed era l'ammontare di energia pro capite che definiva il potenziale militare, il tenore di vita, la felicità e tutte le cose ad essi collegate.

Minnim proseguì: «Uno dei fattori che cospira a mantenerci in questa posizione è l'ignoranza. Solo questo. L'ignoranza. Gli spaziali sanno tutto di noi. Dio sa se non ci mandano qui sulla Terra abbastanza missioni. Noi di loro non sappiamo nulla, se non quello che ci raccontano loro. Finora nessun uomo della Terra ha mai messo piede su un Mondo Esterno. Ma lei lo farà».

Baley cominciò: «Non posso…».

«Lo farà» ripeté Minnim. «La sua posizione sarà unica nel suo genere. Lei andrà su Solaria su loro invito, a fare un lavoro che loro le hanno assegnato. Quando tornerà, avrà informazioni utili per la Terra.»

Baley fissò il sottosegretario con occhi tetri. «Vuol dire che devo fare la spia.»

«Non c'è bisogno di spiare. Lei non deve far altro che quello che le chiedono. Si limiti a tenere aperti occhi e mente. Osservi! Quando tornerà sulla Terra, ci saranno specialisti che analizzeranno e interpreteranno le sue osservazioni.»

«Prendo atto che c'è una crisi, signore» disse Baley.

«Perché dice questo?»

«Mandare un terrestre su un Mondo Esterno è rischioso. Gli spaziali ci odiano. Con la migliore volontà del mondo e anche se sono là su loro invito, potrei provocare un incidente interstellare. Il governo terrestre potrebbe con facilità evitare di mandarmi, se volesse. Basterebbe dire che sono malato. Gli spaziali hanno una paura patologica delle malattie. Non mi vorrebbero per nessun motivo, se pensassero che sono malato.»

«Suggerisce» disse Minnim «che dobbiamo tentare questo trucco?»

«No. Se il governo non avesse nessun altro motivo per mandarmi, ci avrebbe già pensato, e avrebbe anche pensato a qualcosa di meglio senza il mio aiuto. Ne consegue che la cosa essenziale è la questione dello spionaggio. E se è così, ci dev'essere qualcosa di più di un guarda-un-po'-quello-che-riesci-a-vedere per giustificare il rischio.»

Baley si aspettava quasi un'esplosione a cui avrebbe quasi dato il benvenuto come sollievo alla pressione, ma Minnim si limitò a sorridere gelido e a dire: «Sembra che lei riesca a vedere al di là dei particolari poco importanti. Ma non mi aspettavo di meno».

Il sottosegretario si chinò sopra la scrivania verso Baley. «Eccole una certa informazione che lei non discuterà con nessuno, nemmeno con altre autorità governative. I nostri sociologi sono giunti a certe conclusioni concernenti la presente situazione galattica. Cinquanta Mondi Esterni, sottopopolati, roboticizzati, potenti, con gente piena di salute e longeva. Noi, affollati, tecnologicamente sottosviluppati, con vita breve, sotto la loro egemonia. È una condizione instabile.»

«Tutto lo è, alla lunga.»

«Questa è instabile in tempi brevi. Un centinaio d'anni è il massimo che ci viene concesso. La situazione terrà durante la nostra vita, questo è certo, ma abbiamo dei figli. Alla fine diventeremo un pericolo troppo grande per i Mondi Esterni perché ci permettano di sopravvivere. Sulla Terra ci sono otto miliardi di individui che odiano gli spaziali.»

«Gli spaziali ci hanno escluso dalla galassia, maneggiano i nostri commerci a loro profitto, danno ordini al nostro governo e ci minacciano con disprezzo. Che cosa si aspettano, gratitudine?»

«Vero, eppure lo schema è fissato. Rivolta, repressione, rivolta, repressione… Ed entro un secolo la Terra sarà spazzata via dai mondi abitati. Così dicono i sociologi.»

Baley si agitò a disagio. Uno non mette in discussione i sociologi e i loro computer. «Ma che cosa si aspetta che riesca a fare, se questa è la situazione?»

«Portarci informazioni. La grave pecca in queste previsioni sociologiche è la nostra mancanza di dati sugli spaziali. Abbiamo fatto delle supposizioni sulla base dei pochi spaziali che hanno mandato qui. Abbiamo dovuto fidarci di quello che loro ci hanno raccontato di sé, così ne consegue che conosciamo la loro forza e soltanto quella. Maledizione, hanno i loro robot, il loro basso numero e le loro lunghe vite. Ma hanno debolezze? Ci dev'essere qualche fattore che, se ne fossimo a conoscenza, potrebbe alterare l'inevitabilità sociologica della distruzione; qualcosa che potrebbe guidare le nostre azioni e migliorare le possibilità di sppravvivenza della Terra.»

«Non avrebbe fatto meglio a scegliere un sociologo, signore?»

Minnim scosse il capo. «Se avessimo potuto mandare chi ci piaceva, lo avremmo fatto dieci anni fa, quando si era appena arrivati a queste conclusioni. Questo è il primo pretesto che ci si offre per mandare qualcuno, loro ci chiedono un detective, e a noi sta bene. Un detective è anche un sociologo: un sociologo praticone, orecchiante, altrimenti non sarebbe un buon detective. Le sue note provano che lei lo è.»

«Grazie, signore» rispose Baley meccanicamente. «E se mi metto nei guai?»

Minnim scrollò le spalle. «È il rischio del lavoro di poliziotto.» Lasciò cadere l'argomento con un gesto ondeggiante della mano e aggiunse: «In ogni caso lei deve andare. Il momento della sua partenza è fissato. La nave che deve portarla la sta aspettando».

Baley s'irrigidì. «Aspettando? Quando parto?»

«Tra due giorni.»

«Allora devo tornare a New York. Mia moglie…»

«Vedremo noi, sua moglie. Non può venire a conoscenza della natura del suo lavoro, lo sa. Le sarà detto di non aspettarsi notizie da lei.»

«Ma questo è disumano. Devo vederla. Può darsi che non la veda mai più.»

«Quello che sto per dirle potrebbe sembrarle anche più disumano,» ribatté Minnim «ma non è forse vero che non c'è giorno in cui, accingendosi a fare il suo dovere, lei possa dire con sicurezza che la vedrà ancora? Agente Baley, noi tutti dobbiamo fare il nostro dovere.»

La pipa di Baley era spenta da un quarto d'ora. Non se n'era nemmeno accorto.


Non c'era nient'altro che qualcuno potesse dirgli. Sul delitto nessuno sapeva niente. Un funzionario dopo l'altro servirono semplicemente a portarlo al momento in cui, ancora incredulo, si trovò alla base di un'astronave.

Era come un cannone gigantesco puntato al cielo, e Baley rabbrividiva spasmodicamente nella fredda aria aperta. La notte si chiudeva su di loro (e di questo Baley era grato) come mura nere che si fondevano con un nero soffitto. Era nuvoloso, ma una lucente stella, attraverso uno squarcio tra le nuvole, gli colpì gli occhi, facendolo sobbalzare, anche se le stelle le aveva già viste nei planetari.

Una piccola scintilla, lontana, lontanissima. La fissò con curiosità, quasi senza paura. Gli sembrava molto vicina, molto insignificante, eppure in giro c'erano cose simili circondate da pianeti su cui vivevano i signori della galassia. Il sole era una cosa così, pensò, solo molto più vicina, e ora brillava sull'altro lato della Terra.

Pensò improvvisamente alla Terra come a una palla di pietra, con su una pellicola di umidità e gas, esposta al vuoto da ogni lato, con le città scavate nel velo esterno, attaccate precariamente tra roccia e aria. Gli venne la pelle d'oca.

Naturalmente la nave era un vascello degli spaziali. Il commercio interstellare era interamente nelle loro mani. Egli ora era solo, appena fuori dalla periferia della Città. Gli avevano fatto il bagno, lo avevano spazzolato e sterilizzato, finché lo avevano considerato sufficientemente sicuro, in base agli standard degli spaziali, da poter salire a bordo. Anche così, avevano mandato a incontrarlo solo un robot, comportandosi come se lui si portasse dietro dall'afosa Città centinaia di specie di germi micidiali a cui lui era resistente, mentre gli spaziali, cresciuti eugenicamente in laboratorio, no.

Il robot giganteggiava vagamente nella notte, gli occhi di un rosso opaco.

«Agente in borghese Elijah Baley?»

«Proprio così» rispose asciutto Baley, con i capelli sulla nuca che gli si rizzavano un poco. Era abbastanza terrestre da perdere il lume degli occhi nel vedere un robot che faceva il lavoro di un uomo. C'era stato R. Daneel Olivaw, che gli aveva fatto da partner nel caso dell'assassinio dello spaziale, ma quella era stata una cosa diversa. Daneel era stato…

«Mi segua, prego» disse il robot, e una luce bianca inondò la rampa verso la nave.

Baley lo seguì. Salì la scala ed entrò nella nave, lungo corridoi, fino a una stanza.

«Questa sarà la sua cabina, agente in borghese Baley» disse il robot. «Si richiede che lei vi rimanga dentro per tutta la durata del viaggio.»

Baley pensò: certo, chiudetemi a chiave. Tenetemi al sicuro. Isolato.

I corridoi lungo cui era passato erano stati svuotati. Probabilmente ora i robot li stavano disinfettando. Il robot che aveva di fronte probabilmente sarebbe passato attraverso un bagno germicida, quando se ne fosse andato.

«C'è una provvista d'acqua» continuò il robot «e servizi igienici. Si provvederà al cibo. Avrà materiale di lettura. Gli oblò sono controllati da questo pannello. Ora sono chiusi, ma se vuole vedere lo spazio…»

Con una certa agitazione Baley si affrettò a dire: «Va tutto bene così, ragazzo. Lascia chiusi gli oblò».

Lo aveva apostrofato con “ragazzo”, come facevano sempre i terrestri con i robot, ma il robot non ribatté. Non poteva, naturalmente. Le sue risposte erano limitate e controllate dalle Leggi della robotica.

Il robot piegò il suo largo corpo metallico nell'imitazione di un inchino e se ne andò.

Ora Baley era solo nella sua cabina e poté fare un consuntivo. Almeno era meglio che sull'aereo. L'aereo lo poteva vedere da cima a fondo. Poteva vederne i limiti. L'astronave era grande. Aveva corridoi, piani, stanze. Era di per sé una piccola Città. Baley poteva quasi respirare liberamente.

Poi si accesero lampeggiando delle luci, e la voce metallica di un robot suonò nell'intercom a dare specifiche istruzioni per le precauzioni da prendere contro l'accelerazione del decollo.

Ci fu la spinta all'indietro contro la membrana prodotta da un sistema idraulico, il distante rombo di reattori scaldati fino alla furia dalla micropila a protoni. Ci fu il sibilo dell'atmosfera lacerata, che diventava sempre più sottile e acuto fino a sparire nel nulla.

Erano nello spazio.


Era come se tutte le sensazioni si fossero ottuse, come se nulla fosse reale. Continuava a ripetersi che ogni secondo lo portava a migliaia di miglia dalle Città, da Jessie, ma la cosa non veniva registrata.

Il secondo giorno (o il terzo?… Non c'era modo di misurare il tempo se non dagli intervalli tra il mangiare e il dormire) ci fu una strana sensazione momentanea di essere stato voltato sottosopra. Durò un istante e Baley seppe che era un Balzo, quella stranamente incomprensibile, quasi mistica, transizione momentanea nell'iperspazio che trasferiva un'astronave con tutto quello che conteneva da un punto dello spazio a un altro, lontano anni luce. Un altro lasso di tempo e un altro Balzo, ancora un altro lasso, ancora un altro Balzo.

Baley si ripeteva che era lontano anni luce, decine di anni luce, centinaia, migliaia.

Non sapeva quanti. Nessuno della Terra sapeva qual era la collocazione nello spazio di Solaria. Ci poteva scommettere. Erano ignoranti, tutti quanti.

Si sentiva tremendamente solo.


Ci fu la sensazione di decelerazione ed entrò il robot. I suoi foschi occhi rotondi esaminarono ogni particolare della bardatura di Baley. Strinse con efficienza un dado allentato; ispezionò rapidamente tutti i particolari del sistema idraulico.

«Atterreremo fra tre ore» disse. «Lei, per favore, rimarrà in questa cabina. Verrà un uomo a scortarla fuori fino al suo luogo di residenza.»

«Aspetta» disse teso Baley. Legato in quel modo si sentiva inerme. «Quando atterreremo, che ora sarà?»

Il robot rispose immediatamente: «Secondo il Tempo Standard Galattico saranno…».

«Il tempo locale, ragazzo. Il tempo locale! Giosafatte!»

Il robot continuò pianamente. «Su Solaria il giorno è lungo ventotto virgola trentacinque ore standard. L'ora solariana è divisa in dieci decadi, ciascuna delle quali si divide in cento centadi. Siamo programmati per arrivare a un aeroporto in cui il giorno avrà raggiunto la dodicesima centade della quinta decade.»

Baley odiava quel robot. Lo odiava per la sua ottusità nel non capire, per il modo in cui lo costringeva a porre direttamente la domanda, mettendo in mostra la sua debolezza.

Doveva farlo. Disse piatto: «Sarà giorno?».

E dopo tutto questo il robot rispose: «Sì, signore» e se ne andò.

Sarebbe stato giorno! Sarebbe uscito sulla superficie non protetta di un pianeta alla luce del giorno.

Non era del tutto sicuro di come sarebbe stato. Aveva visto scorci di superficie planetaria da certi punti della Città; per qualche momento era anche stato all'esterno. Però era sempre stato circondato da mura o aveva un muro a portata di mano. La salvezza a portata di mano.

E ora ci sarebbe stata la salvezza? Nemmeno il falso muro dell'oscurità.

E per non mostrare debolezza davanti agli spaziali (che fosse dannato, se l'avrebbe fatto) irrigidì il corpo contro la membrana che lo proteggeva dalle forze della decelerazione, chiuse gli occhi e combatté il panico con cocciutaggine.

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