XIV IL TIPPY-CANOE

A Prophetstown quella notte nessuno dormì, tranne i bambini. Gli adulti avvertivano distintamente la presenza dell’esercito dei Bianchi intorno alla città; per il loro senso della terra, gli incantesimi protettivi e difensivi usati dai Bianchi per celare le proprie manovre non erano meno evidenti di trombe e bandiere.

Adesso che la morte per ferro e per fuoco era solo a poche ore di distanza, non tutti trovarono il coraggio necessario a mantenere sino in fondo il loro giuramento. Ma lo mantennero in questo senso: radunarono le loro famiglie e scivolarono fuori di Prophetstown, passando silenziosi tra le file dei soldati bianchi che nemmeno si accorsero della loro presenza. Sapendo che non sarebbero stati capaci di morire senza difendersi se ne andarono, per non contaminare la perfezione del rifiuto di combattere del Profeta.

Tenska-Tawa non restò sorpreso dal fatto che alcuni se ne fossero andati. Molto di più lo sorprese vedere che tanti erano rimasti. Quasi tutti. Tutta gente che credeva in lui, e che avrebbe testimoniato quella fiducia col proprio sangue. Il Profeta paventava l’arrivo del nuovo giorno; quanti anni aveva sofferto, tormentato dal rumore nero, per il dolore di un solo omicidio! Certo, l’ucciso era stato suo padre, e questo aveva acuito la sua sofferenza; ma non amava forse la gente di Prophetstown almeno quanto aveva amato suo padre?

Eppure doveva respingere il dolore nero e conservarsi padrone di se stesso, o tanta gente sarebbe morta invano. Se avesse pensato che la loro morte sarebbe stata inutile, non si sarebbe spinto fino a quel punto. Tante volte aveva frugato la torre di cristallo, cercando un modo diverso per affrontare quel giorno, una via che potesse portare a qualcosa di buono. La miglior soluzione che aveva trovato era una terra divisa, i Rossi a ovest del Mizzipy, i Bianchi a est. Ma anche a questo risultato si poteva giungere solo attraverso il più angusto dei sentieri. Molto dipendeva dal ragazzo bianco, ma molto dipendeva anche da Tenska-Tawa, e addirittura da ciò che avrebbe fatto Assassino Bianco Harrison. In tutti i possibili futuri in cui Harrison mostrava un barlume di pietà, infatti, il massacro del Tippy-Canoe non impediva affatto la distruzione dei Rossi e, insieme, quella della terra. In ciascuno di quei futuri, gli uomini rossi lentamente si estinguevano, confinati in minuscole riserve, in regioni desolate, finché tutta la terra non cadeva in mano ai Bianchi che con la violenza la costringevano a sottomettersi, la spogliavano, la squarciavano, la depredavano, forzandola a produrre immense quantità di cibo che costituivano solo l’imitazione di un vero raccolto, mantenuto in vita dai veleni di sordide alchimie. Anche se in quelle visioni del futuro l’uomo bianco finiva col pagare i suoi errori, sarebbero trascorse molte generazioni prima che egli si rendesse conto di quello che aveva fatto. Eppure proprio lì, a Prophetstown, c’era un giorno — l’indomani — in cui il futuro poteva essere guidato verso una via migliore, per quanto improbabile. Una via che avrebbe visto una terra ancora viva, anche se divisa; una via che un giorno avrebbe visto sorgere una città di cristallo capace di catturare i raggi del sole e trasformarli in visioni di verità per tutti i suoi abitanti.

Questa era la speranza di Tenska-Tawa: di riuscire pur nella sofferenza a restare aggrappato a quella luminosa visione per l’intera giornata dell’indomani, e così trasformare la sofferenza, il sangue, il rumore nero della strage in un evento capace di trasformare il mondo.

Ancor prima che i primi raggi di luce si levassero sull’orizzonte, Tenska-Tawa avvertì l’approssimarsi dell’alba. In parte, il Profeta poteva avvertirlo grazie al ridestarsi della vita a oriente, che egli riusciva a percepire prima di qualsiasi altro Rosso. In quell’occasione, tuttavia, lo avvertì dai movimenti dei Bianchi che si preparavano ad accendere le micce dei loro cannoni. Quattro falò, nascosti e al tempo stesso rivelati da incantesimi e stregonerie. Quattro cannoni, puntati sulla città per investirla da un’estremità all’altra con un torrente di ferro e di fuoco.

Tenska-Tawa cominciò a girare per la città, canticchiando a bocca chiusa. Gli abitanti lo udirono, e i genitori svegliarono i figli. I Bianchi pensavano di sorprenderli nel sonno, gente senza volto chiusa nelle tende e nelle capanne. Invece i Rossi di Prophetstown emersero nell’oscurità dalle loro abitazioni, incamminandosi con passo sicuro verso l’ampia distesa del prato sul quale tenevano i loro raduni. La folla era talmente fitta che non c’era nemmeno il posto per stare seduti. Così le famiglie restarono in piedi, e padri e madri strinsero i figli nel cerchio del loro abbraccio, in attesa che l’uomo bianco versasse il loro sangue.

«La terra non assorbirà il vostro sangue» aveva promesso loro Tenska-Tawa. «Il sangue scorrerà nel fiume, e io ve lo manterrò con la forza della vita e della morte di tutti voi, e lo userò per tenere in vita la terra, e legare l’uomo bianco alle terre di cui si è già impadronito e che egli ha già cominciato a uccidere.»

Così adesso Tenska-Tawa avanzò fino alla sponda del Tippy-Canoe, guardando il prato riempirsi della sua gente, tanta parte della quale sarebbe morta davanti ai suoi occhi perché aveva creduto alle sue parole. «Oggi dovete essere al mio fianco, signor Miller» disse il generale Harrison. «È il sangue dei vostri figli che oggi vendicheremo. Voglio che abbiate l’onore di sparare il primo colpo di questa guerra.»

Mike Fink guardò il mugnaio dallo sguardo ardente comprimere con cura la polvere, il piombo e lo stoppaccio nella canna del suo moschetto. Mike riconobbe nel suo sguardo la sete di sangue. Era una specie di pazzia che s’impadroniva della tua volontà e ti rendeva pericoloso, ti rendeva capace di fare cose fuori del normale. Mike era ben felice che quel mugnaio non sapesse veramente come e perché suo figlio era morto. Certo, il governatore Bill non gli aveva spiegato chiaramente chi fosse quel ragazzo, ma Mike Fink non portava più da un pezzo i calzoni corti, e aveva fatto in fretta a sommare due più due. Harrison giocava forte, ma una cosa era sicura. Per salire sempre più in alto e ridurre in suo potere terra e uomini avrebbe fatto qualsiasi cosa. E Mike Fink sapeva che Harrison avrebbe tollerato la sua presenza solo fino a quando fosse stato convinto che Mike potesse essergli utile.

La cosa strana, vedete, era che Mike Fink non si considerava affatto un assassino. La vita lui la vedeva come una gara in cui chi arrivava secondo ci lasciava la pelle; ma quello per lui non era un assassinio, era un combattimento leale. Come la volta che aveva ammazzato Hooch… Quest’ultimo non avrebbe dovuto essere così imprudente. Avrebbe dovuto accorgersi che Mike non si trovava sulla riva con il resto dei suoi uomini, e di conseguenza avrebbe dovuto essere molto più cauto e sospettoso, e se così fosse stato… be’, a rimetterci la pelle avrebbe anche potuto essere Mike Fink. Così Hooch aveva perso la vita perché aveva perso la gara… quella gara alla quale entrambi partecipavano.

Ma il ragazzo del giorno prima non era fra i concorrenti. A lui quella gara non interessava proprio. Voleva solo tornare a casa. Mike Fink non si era mai battuto con qualcuno che non fosse disposto a battersi, né aveva mai ucciso nessuno che, potendo, non avrebbe cercato per primo di fargli la festa. Quella era stata la prima volta che aveva ammazzato qualcuno solo perché gli era stato ordinato, e la cosa non gli era piaciuta, non gli era piaciuta per niente. Mike adesso capiva che il governatore Bill credeva che lui avesse ucciso Hooch per quello stesso motivo, perché gli era stato detto di farlo. Ma non era affatto così. E oggi Mike Fink guardava il padre di quel ragazzo, vedeva la furia incendiargli lo sguardo, e a quell’uomo diceva — ma in silenzio, perché nessuno potesse udirlo -, diceva: sono con te, sono d’accordo con te che l’uomo che ha ucciso il tuo ragazzo deve morire.

Fatto sta che quell’uomo era per l’appunto Mike Fink. E Mike Fink se ne vergognava profondamente.

Anche con i Rossi di Prophetstown era la stessa cosa. Che razza di gara era quella, svegliarli con scariche di mitraglia che attraversavano fischiando le pareti delle capanne, incendiandole, tagliando di netto i corpi di donne, vecchi e bambini?

Non è il mio genere di combattimento, pensò Mike Fink.

Nel cielo era comparso il primo chiarore dell’alba. Prophetstown era ancora una distesa di ombre, ma il momento era arrivato. Alvin Miller puntò il suo moschetto verso le case e sparò.

Pochi secondi dopo i cannoni gli risposero col loro ruggito. Qualche secondo ancora, e in più punti balzarono verso l’alto le prime fiamme.

I cannoni spararono di nuovo. Eppure nessuno uscì urlando dalle capanne. Nemmeno da quelle che si erano incendiate.

Possibile che nessun altro se ne fosse accorto? Possibile che non si rendessero conto che a Prophetstown non era rimasta anima viva? E se i Rossi se n’erano andati, questo significava che erano stati preavvertiti dell’attacco. E se erano stati preavvertiti, forse in quel momento erano nascosti da qualche parte, in agguato. O forse se n’erano andati tutti, o magari…

Il talismano portafortuna tatuato sulla natica di Mike Fink era così caldo da scottare. E Mike sapeva che cosa questo significava. Era il momento di andarsene. Se fosse rimasto, gli sarebbe successo qualcosa di veramente brutto.

Così scivolò lungo la fila di soldati, o comunque li si volesse chiamare, considerando che l’addestramento di quei contadini non era durato più di un paio di giorni. Nessuno fece attenzione a Mike Fink. Erano troppo occupati a guardar bruciare le capanne. Alcuni di loro si erano finalmente accorti che la città dei Rossi sembrava deserta, e ne parlavano in tono di preoccupazione. Mike si guardò bene dall’aprir bocca, e continuò ad avanzare silenziosamente lungo la fila, in direzione del fiume.

I cannoni si trovavano tutti sul fianco della collina; adesso Mike li udiva tuonare in lontananza. Uscito dal folto degli alberi, fece per attraversare il tratto di terreno scoperto che lo separava dalla riva. E lì si fermò, incredulo. L’alba era ancora una sottile striscia grigia in lontananza, ma ciò che vedeva non lasciava adito a equivoci. Migliaia e migliaia di Rossi, in piedi sul prato spalla contro spalla. Alcuni piangevano sommessamente… qualche pallottola vagante o qualche frammento di shrapnel era certamente arrivato fin laggiù, dato che due dei quattro cannoni si trovavano dalla parte opposta della città e sparavano proprio in quella direzione. Ma i Rossi non tentavano nemmeno di difendersi. Non era un’imboscata. Erano tutti disarmati. Quella gente era lì per morire.

Sulla riva a monte e a valle c’erano, tirate in secco, una dozzina di canoe. Mike Fink ne spinse una in acqua e con un salto vi ruzzolò dentro. A valle, ecco dove sarebbe andato, seguendo il corso del Wobbish fino all’Hio. Quella di oggi non era una battaglia, era un massacro, e tutto ciò che Mike Fink poteva dire era che non si trattava del suo genere di combattimento. Anche per lui, come per quasi tutti, esisteva qualcosa di così brutto che nessuno avrebbe mai potuto costringerlo a farlo.


Nel buio della cantina, Measure non riusciva a capire se Alvin si trovava veramente davanti a lui. Udiva però la sua voce, sommessa ma insistente, che fluttuava sulla cresta del dolore. «Sto cercando di aiutarti, Measure, ma ho bisogno che anche tu mi dia una mano.»

Measure non rispose. In quel momento per lui parlare non era esattamente la cosa più facile del mondo.

«Ti ho aggiustato il collo, e qualche costola, e gli organi interni» disse Alvin. «E le ossa del braccio sinistro erano quasi diritte, per cui adesso sono a posto, le senti?»

È vero che il braccio sinistro di Measure non gli faceva più male. Provò a muoverlo. Quel gesto gli inviò fitte lancinanti in tutto il corpo, ma il braccio aveva recuperato un po’ di forza, e adesso si muoveva.

«Le costole» disse Alvin. «Sbucano dalla pelle. Devi spingerle dentro, rimetterle a posto.»

Measure provò a spingerne una, e quasi svenne dal dolore. «Non ci riesco.»

«Devi riuscirci.»

«Fai in modo che non senta così male.»

«Measure, non saprei proprio come fare. O meglio, potrei farlo, ma allora non riusciresti più a muoverti. Devi sopportare. Ogni costola che tu rimetterai a posto, io potrò aggiustarla, e allora non ti farà più male, ma prima devi raddrizzarla, e devi farlo tu.»

«Perché non lo fai tu, invece?»

«Non posso.»

«Allunga la mano e fallo. Alvin, hai dieci anni ma sei robusto, puoi farcela.»

«Non posso.»

«Una volta ti ho segato l’osso della gamba, per salvarti la vita, e l’ho fatto per te.»

«Measure, non posso farlo perché non sono qui.»

La cosa parve a Measure del tutto insensata. Capì allora che stava sognando. Be’, se stava sognando, perché non faceva un sogno in cui stava un po’ meno male?

«Spingi dentro quell’osso, Measure.»

Alvin non voleva proprio saperne di andarsene. Così Measure spinse, nonostante il dolore. Ma Alvin non aveva parlato a vanvera. Poco dopo, il punto corrispondente all’osso raddrizzato non gli faceva più male.

Quanto tempo ci volle! Measure era talmente malridotto che gli sembrava che quella sofferenza non dovesse mai finire. Ma negli intervalli, ogni volta che aveva risistemato un osso e Alvin lo saldava, Measure raccontò al fratello quello che gli era successo, e Alvin raccontò a Measure quello che sapeva lui, e ben presto Measure capì che da ciò che stava accadendo dipendeva molto di più che la pura e semplice salvezza di un giovane chiuso in una cantina.

Finalmente, finalmente fu finita. Measure a malapena riusciva a crederci. Aveva sentito tanto male per tante ore di seguito, che non sentire più alcun dolore gli sembrava una cosa inconcepibile.

In quel momento udì il boato dei cannoni che cominciavano a sparare.

«Non senti, Alvin?» chiese Alvin non sentiva niente.

«Hanno cominciato a sparare. I cannoni.»

«Allora corri, Measure, più in fretta che puoi.»

«Sono prigioniero in questa cantina, Alvin. E la porta è sbarrata.»

Per tutta risposta, Alvin pronunciò un paio di parole che a rigore non avrebbe nemmeno dovuto conoscere.

«Alvin, in fondo alla cantina avevo cominciato a scavare una galleria. Visto come te la cavi con la pietra, non potresti per caso ammorbidire il terriccio in modo che io possa scavare più in fretta?»

Così fu. Measure rotolò in fondo alla buca, chiuse gli occhi e cominciò a raspare il terriccio sopra la sua testa. Il giorno prima scavando si era quasi ridotto le dita all’osso; ora invece il terriccio si sfaldava, scivolandogli addosso; quando lui si allungò verso l’alto, la terra smossa gli scivolò sotto le spalle, e lì ritornò compatta, così che Measure non doveva nemmeno pensare a portarla fuori della galleria, perché il fondo si alzava via via che lui scavava. Cominciò a scalciare; i suoi movimenti fecero sfaldare la terra, e tutto il suo corpo venne spinto verso l’alto.

Sto nuotando nella terra, ecco che cosa sto facendo, pensò, e gli venne da ridere, era così facile e così strano.

La sua risata si spense all’aria aperta. Era fuori, proprio dietro il tetto della cantina. Il cielo era ormai chiaro; nel giro di qualche minuto sarebbe spuntato il sole. Il rombo dei cannoni era cessato. Questo voleva forse dire che era tutto finito, che era ormai troppo tardi? Forse stavano semplicemente facendo raffreddare i pezzi d’artiglieria, o li stavano spostando da qualche altra parte. Oppure i Rossi erano in qualche modo riusciti a catturarli…

Quest’ultima sarebbe forse stata una buona notizia? A torto o a ragione, suo padre e i suoi fratelli si trovavano dalla parte di quei cannoni, e se i Rossi avessero vinto la battaglia, qualcuno di loro sarebbe potuto restare sul campo. Una cosa era sapere che i Rossi avevano ragione, e i Bianchi torto; ben diverso era augurarsi la sconfitta dei propri consanguinei, la sconfitta e forse la morte. Doveva fermare quella battaglia. Measure si mise a correre, come non aveva mai corso in vita sua. La voce di Alvin era scomparsa, ma Measure non aveva certo bisogno di incoraggiamento. Quasi volò sulla strada che portava al fiume.

Lungo il tragitto incontrò due persone. La prima era la signora Hatch, a cassetta di un carro carico di vettovaglie. Quando vide Measure con indosso il perizoma e tutto sporco di terra, urlò… Non si poteva darle torto se pensò che fosse un Rosso venuto per toglierle lo scalpo. Prima che Measure riuscisse ad aprir bocca per chiamarla, la signora Hatch era già scappata come il vento. Be’, tanto di guadagnato. Measure quasi strappò il cavallo dai suoi finimenti, e un istante dopo gli era balzato in groppa e cavalcandolo a pelo lo aveva spinto al galoppo, nella speranza che la bestia non inciampasse in qualche sasso disarcionandolo.

La seconda persona che incontrò lungo il tragitto fu Corazza-di-Dio. Armor era inginocchiato in mezzo al pascolo comune, di fronte al suo magazzino, e pregava fervidamente, mentre dall’altra parte del fiume tuonavano i cannoni e crepitava la fucileria. Measure gli diede una voce, e Armor lo guardò con la faccia che avrebbe potuto fare davanti a Gesù morto e risuscitato. «Measure!» gridò. «Ferma, ferma!»

Measure stava per dirgli che doveva andare, che non aveva tempo, ma Armor si gettò in mezzo al sentiero, il cavallo si spaventò, e Measure fu costretto a fermarsi. «Measure, sei proprio tu? O sei piuttosto un’anima dell’oltretomba?»

«Sì, sono io, in carne e ossa, anche se non certo per merito di Harrison. Ha cercato di farmi ammazzare. Ma sono vivo, e anche Alvin. Tutta questa faccenda l’ha escogitata Harrison, e io debbo fermarlo.»

«Be’, non puoi andarci, in quelle condizioni» disse Armor. «Aspetta, ti dico! Non puoi presentarti con addosso un perizoma e tutto coperto di terra. Qualcuno ti prenderebbe certamente per un Rosso, e ti sparerebbe senza pensarci due volte!»

«Allora saltate sul cavallo dietro a me. Una volta al traghetto, mi darete i vostri vestiti.»

Così Measure issò Corazza-di-Dio dietro di sé, e insieme galopparono fino al traghetto.

Ad azionare l’argano c’era la moglie di Peter Ferryman. Non appena vide Measure, capì di che cosa si trattava. «Fate presto» disse. «Il fiume si sta tingendo di rosso.»

Sul traghetto Armor si tolse i vestiti, mentre Measure si tuffava brevemente in acqua, noncurante del sangue, per togliersi di dosso un po’ di terra. Non ne uscì fuori pulito, ma per lo meno aveva di nuovo una vaga rassomiglianza con un Bianco. Bagnato com’era, s’infilò la camicia e i calzoni di Armor, quindi il panciotto. La taglia non era esattamente la sua — Armor era di corporatura più minuta — ma Measure riuscì in qualche modo a infilarsi anche la giacca. Alla fine disse: «Mi dispiace di lasciarvi in mutande».

«Starei nudo mezza giornata di fronte a tutte le signore riunite per la funzione domenicale, se servisse a fermare questo massacro» replicò Armor. Se aggiunse qualcos’altro, Measure non lo udì, perché era già ripartito al galoppo.


Per Alvin Miller Senior, niente stava andando come se l’era figurato. Nell’immaginazione, si era visto sparare col suo moschetto a quegli stessi selvaggi urlanti che avevano massacrato i suoi ragazzi. La città, tuttavia, si era rivelata vuota, e i Rossi li avevano trovati tutti ammassati sul Prato della Parola, come se si fossero recati lì ad ascoltare una predica del Profeta. Non avendoli mai veduti tutti insieme, Miller non avrebbe mai creduto che a Prophetstown ci fossero tanti Rossi. Ma erano pur sempre Rossi, no? Così scaricò ugualmente il suo moschetto, proprio come facevano gli altri. Sparava e ricaricava, sparava e ricaricava, senza nemmeno badare se i suoi colpi andavano a segno. Come avrebbe potuto sbagliare, tirando così nel mucchio? Era accecato dalla sete di sangue, pazzo di rabbia, esaltato dal potere di uccidere. Così non si accorse che alcuni dei suoi compagni si erano fatti silenziosi, e che le fucilate si andavano diradando. Miller ricaricava e sparava, ricaricava e sparava, ogni volta avanzando di un paio di passi, uscendo dal riparo della foresta, portandosi allo scoperto sulla radura. Solo quando i soldati spinsero avanti i cannoni Miller smise di sparare e si fece da parte a guardare la mitraglia mietere le sue vittime in mezzo alla folla dei Rossi come un’immensa falce fienaia.

Solo allora si rese conto di ciò che stava accadendo ai Rossi, di ciò che facevano, di ciò che non facevano. Non urlavano. Non si difendevano. Si limitavano a starsene lì, uomini, donne e bambini, a guardare i Bianchi che li facevano a pezzi. Non uno di loro volse le spalle alla grandinata di shrapnel. Non un genitore cercò di proteggere i figli dalle pallottole. Se ne stavano lì, aspettavano, morivano.

La mitraglia apriva larghi varchi in mezzo alla folla; l’unica cosa che potesse fermare quella pioggia di metallo erano i corpi umani. Miller vedeva i Rossi cadere. Quelli che ci riuscivano, si tiravano di nuovo in piedi, o almeno in ginocchio, o sollevavano la testa sopra la massa dei cadaveri in modo che la scarica successiva potesse finirli.

Che succedeva, volevano forse morire?

Miller si guardò intorno. Lui e coloro che gli stavano intorno, giunti ormai là dove si era trovato il margine esterno della folla dei Rossi, erano ritti in un mare di cadaveri. Proprio ai suoi piedi giaceva rannicchiato il corpo di un ragazzo non più grande di Alvin, con un occhio perforato da una palla di moschetto. Forse a ucciderlo sono stato io.

Nelle pause tra una scarica e l’altra, Miller udì qualcuno piangere. Non i Rossi, quelli tra loro che erano ancora in vita, stretti in un gruppo sempre meno numeroso in fondo al pendio, vicino al fiume. No, a piangere erano i suoi vicini, gli uomini bianchi in piedi vicino a lui o alle sue spalle. Alcuni di loro anzi parlavano, supplicavano. Basta, dicevano. Vi prego, basta.

Vi prego, basta. Parlavano forse ai cannoni? O ai Rossi, uomini e donne, che insistevano a restarsene lì, senza cercar di scappare, senza urlare di paura? O ai loro figli, che affrontavano le armi da fuoco con lo stesso coraggio dei genitori? O si rivolgevano alla terribile sofferenza che rodeva il loro cuore, vedendo quello che avevano fatto, che stavano facendo, che avrebbero fatto?

Miller si accorse che il sangue non veniva assorbito dall’erba del prato. Sgorgando dalle ferite di coloro che erano stati colpiti per ultimi, formava rivoletti, ruscelli, torrenti di sangue che correvano lungo il pendio fino a riversarsi nel Tippy-Canoe. Sotto quel cielo limpido e sereno, l’acqua del fiume rifletteva i vividi raggi del sole mattutino.

Mentre Miller la guardava, all’improvviso l’acqua del fiume si fece liscia come il vetro. La luce del sole ora non danzava più sul pelo dell’acqua, ma ne veniva riflessa come da uno specchio, quasi accecante. E in quella luce, Miller scorse un uomo rosso che camminava da solo sull’acqua, proprio come Gesù nei Vangeli, in piedi sull’acqua in mezzo al fiume.

Alle sue spalle non si levava più solo un triste mormorio. Era un grido, che veniva ripreso da voci sempre più numerose. Smettete di sparare! Basta! Mettete giù i fucili! E poi altre voci, che parlavano dell’uomo in piedi sull’acqua.

Si udì squillare una tromba. Gli uomini tacquero. «È il momento di finirli, uomini!» urlò Harrison dalla sommità del pendio. In sella a uno stallone che si impennava di continuo, guidava i suoi uomini giù per il prato viscido di sangue. Dietro a lui non c’era nessuno degli abitanti del luogo, ma solo i suoi soldati in uniforme che si disposero in riga e cominciarono a scendere con le baionette innestate. Dove una volta c’erano stati diecimila Rossi, ora c’era soltanto un campo di cadaveri, mentre i rari superstiti, ormai non più di un migliaio, si raccoglievano sulla sponda del fiume in fondo al pendio.

Proprio in quel momento un giovane bianco di alta statura uscì di corsa dal bosco ai piedi della collina, con indosso un vestito troppo piccolo per la sua taglia, scalzo, con la giacca e il panciotto sbottonati, i capelli arruffati e stillanti d’acqua, la faccia sudicia e bagnata. Ma Miller lo riconobbe, lo riconobbe prima ancora di udirne la voce.

«Measure!» gridò. «È mio figlio Measure!»

Gettato via il moschetto, prese a correre verso il figlio lungo il pendio cosparso di cadaveri.

«Measure! Figlio mio! È vivo! Sei vivo!»

Poi scivolò sul sangue, o forse inciampò in un cadavere; comunque fosse, cadde in avanti finendo con le mani in un fiume di sangue che gli schizzò sul viso e sul torace.

A non più di dieci braccia di distanza udì la voce di Measure, che urlava in modo che tutti lo potessero udire. «I Rossi che mi hanno catturato erano stati assoldati da Harrison! Ta-Kumsaw e Tenska-Tawa mi hanno salvato! Quando sono arrivato qui, due giorni fa, gli uomini di Harrison mi hanno catturato per impedirmi di dirvi la verità! Ha perfino cercato di ammazzarmi!» Measure continuò a parlare lentamente, staccando bene le parole, in modo che tutti udissero ciò che aveva da dire, che ogni suono venisse inteso nel suo giusto significato. «Harrison l’ha sempre saputo. È stato lui ad architettare tutto. I Rossi sono innocenti. State uccidendo degli innocenti.»

Miller si alzò dal prato insanguinato e levò in alto le mani scarlatte, sopra la testa, così che il sangue rosso e denso cominciò a gocciolargli addosso. Dalla gola gli uscì quasi a forza un grido d’angoscia e di disperazione. «Che cosa ho fatto! Che cosa ho fatto!» A quel grido fecero eco dieci, cento, trecento voci.

Tutti gli sguardi si diressero sul generale Harrison, in sella al suo cavallo che continuava a impennarsi. Perfino i soldati che l’avevano seguito da Fort Carthage avevano ormai gettato le armi.

«È una menzogna!» gridò Harrison. «Non ho mai visto questo ragazzo! Qualcuno ha voluto giocarmi un terribile scherzo!»

«Non è uno scherzo!» urlò Measure. «Ecco il suo fazzoletto… Ieri me l’hanno cacciato in bocca per soffocare le mie grida mentre mi fracassavano le ossa.»

Miller scorse distintamente il fazzoletto che il figlio teneva in mano. In un angolo erano ricamate a grandi e chiare lettere le iniziali WHH. A Carthage City non c’era soldato che non conoscesse quei fazzoletti.

Allora alcuni degli uomini di Harrison parlarono a loro volta. «È vero! Abbiamo portato quel ragazzo a Harrison due giorni fa.»

«Tutti parlavano di due ragazzi ammazzati dai Rossi, ma non sapevamo che era uno di loro!»

Sul prato si levò un grido acuto e prolungato, quasi un ululato. Tutti volsero lo sguardo verso il punto in cui il Profeta orbo da un occhio era ritto sulla superficie arrossata del Tippy-Canoe.

«Vieni, popolo mio!» disse.

I Rossi sopravvissuti si mossero, lentamente ma senza esitare, verso l’acqua, l’attraversarono e si raccolsero sulla riva opposta.

«Tutti voi, venite!»

I cadaveri frusciarono, si mossero. I Bianchi che si trovavano in mezzo a loro urlarono di terrore. Ma non erano i morti che si levavano… solo i feriti che ora si tiravano in piedi, barcollando. Alcuni di loro cercarono di prendere in braccio i bambini, i neonati… ma non ne avevano la forza.

Miller vide e sentì il sangue sulle proprie mani. Doveva pur fare qualcosa, no? Così stese le mani verso una donna che avanzava a fatica, il cui marito aveva bisogno del suo sostegno, con l’intenzione di prendere il bambino che lei stringeva tra le braccia e di portarlo al posto suo. Ma quando fu vicino, la guardò in viso, e nei suoi occhi vide riflessa la propria immagine… un viso bianco, stravolto, lordo dello stesso sangue che gli grondava dalle mani. Per quanto minuscolo fosse quel riflesso, Miller lo vide con la stessa chiarezza che se avesse avuto di fronte uno specchio. No, non poteva toccare quel bambino, non con mani come le sue.

Anche qualcun altro dei Bianchi che si trovavano sul pendio cercò di dare una mano ai Rossi, ma anch’essi dovevano aver visto qualcosa di molto simile, perché indietreggiarono bruscamente come se qualcosa li avesse scottati.

I feriti che riuscirono ad alzarsi e a incamminarsi verso il fiume erano forse un migliaio. Molti di loro crollarono a terra e morirono prima di arrivare al corso d’acqua. Gli altri lo attraversarono camminando, barcollando, strisciando, finché non giunsero sulla riva opposta, dove gli altri potevano aiutarli.

Miller si accorse di una cosa strana. Tutti i Rossi, illesi o feriti che fossero, erano scesi lungo il pendio e avevano attraversato le acque insanguinate del fiume, eppure non avevano una sola macchia di sangue sulle mani o sui piedi.

«Tutto il resto del mio popolo, tutti coloro che sono morti… Tornate a casa, dice la terra!»

Tutt’intorno a loro, il prato era cosparso di cadaveri… di gran lunga la maggioranza di coloro che solo un’ora prima si erano trovati in quel luogo assieme ai loro familiari. E ora, alle parole del Profeta, quei corpi parvero tremare, sfaldarsi, sprofondare nell’erba del prato. In pochi attimi erano scomparsi, e al loro posto l’erba era più verde e rigogliosa di prima. Le ultime gocce di sangue scivolarono lungo il pendio come gocce d’acqua su una piastra arroventata, fondendosi con la superficie rossa e lucente del fiume.

«Measure, amico mio, vieni con me anche tu.» Il Profeta pronunciò queste parole a bassa voce, protendendo la mano.

Measure volse le spalle al padre e scese il pendio erboso fino alla riva del fiume.

«Vieni con me» insisté il Profeta.

«Non posso camminare sul sangue della tua gente» disse Measure.

«La mia gente ha donato il suo sangue per sostenerti» fece notare il Profeta. «Vieni da me, o anche tu dovrai sopportare il peso della maledizione che sto per lanciare su ogni uomo bianco che si trova su quel prato.»

«Penso che resterò qui, allora» disse Measure. «Se mi fossi trovato al loro posto, non credo che mi sarei comportato diversamente. Se sono colpevoli, anch’io lo sono.»

Il Profeta annuì.

Ogni uomo bianco che si trovava su quel prato si sentì sulle mani qualcosa di caldo, bagnato e appiccicoso. Quando videro che cos’era, alcuni urlarono. Dal gomito alla mano, tutti grondavano sangue. Alcuni cercarono di ripulirsi le mani sulla camicia. Altri andarono in cerca di ferite, ma non ne trovarono. Le loro erano solo mani insanguinate.

«Volete che le vostre mani non grondino più del sangue della mia gente?» chiese il Profeta. Ora non urlava più, ma tutti lo udirono, ogni parola. E sì, tutti quanti volevano che le loro mani tornassero pulite.

«Allora andate a casa e raccontate questa storia alle vostre mogli, ai vostri figli, ai vostri vicini, ai vostri amici. Raccontatela tutta. Non tralasciate nulla. Non dite che qualcuno vi ha imbrogliato… Tutti quanti, quando avete aperto il fuoco su gente disarmata, sapevate che stavate commettendo un assassinio. Non importa se eravate convinti che qualcuno di noi si fosse macchiato di qualche delitto. Quando avete cominciato a sparare ai neonati in braccio alle madri, ai bambini, ai vecchi, ci stavate uccidendo perché eravamo Rossi. Perciò raccontate questa storia come è andata veramente, e se lo farete le vostre mani torneranno pulite.»

Su quel prato non c’era uomo bianco che non piangesse, tremasse o si sentisse mancare dalla vergogna. L’idea di raccontare ciò che aveva fatto quel giorno alla moglie, ai figli, ai genitori, ai fratelli e alle sorelle gli sembrava intollerabile. Ma se non l’avesse fatto, quelle mani insanguinate avrebbero raccontato la storia al posto suo. E questo non avrebbe mai potuto sopportarlo.

Ma il Profeta non aveva terminato. «Se arriva da voi qualche straniero e voi non gli raccontate l’intera storia prima che sia l’ora di andare a dormire, le vostre mani torneranno a grondare sangue, e così resteranno finché non gliel’avrete raccontata. E così sarà sino alla fine dei vostri giorni… Chiunque incontrerete, dovrà udire dalle vostre labbra quello che è accaduto oggi, o le vostre mani torneranno a lordarsi di sangue. E se in futuro, per qualsiasi motivo, ucciderete un altro essere umano, le vostre mani e il vostro viso gronderanno sangue per sempre, perfino nella tomba.»

Annuirono, accettarono. Era pura e semplice questione di giustizia. Non avrebbero potuto restituire la vita ai morti, ma per lo meno non sarebbero circolate menzogne a proposito del modo in cui li avevano uccisi. Nessuno avrebbe mai potuto sostenere che quella del Tippy-Canoe fosse stata una vittoria, o anche solo una battaglia. Era stato un massacro, e a commetterlo erano stati i Bianchi, e nessun Rosso aveva alzato una mano per commettere atti di violenza o anche solo per difendersi. Niente scuse, niente reticenze; tutti l’avrebbero saputo.

Restava solo una questione… la colpevolezza dell’uomo sullo stallone che continuava a impennarsi.

«Assassino Bianco Harrison!» gridò il Profeta. «Vieni da me!»

Harrison scosse la testa, cercò di far voltare il cavallo; ma le redini gli scivolarono dalle mani insanguinate, e il cavallo scese al piccolo trotto lungo il pendio. Tutti i Bianchi lo guardarono in silenzio, odiandolo per il modo in cui egli li aveva ingannati, sobillati, scovando l’assassino che si celava nel cuore di ciascuno di loro e costringendolo a venire allo scoperto. Il cavallo lo condusse fin sulla sponda. Harrison abbassò lo sguardo sul Rosso orbo da un occhio che una volta era stato seduto sotto la sua scrivania e gli aveva implorato l’elemosina di qualche goccia di whisky del suo boccale.

«La tua maledizione è la stessa» disse il Profeta «solo che la tua è una storia molto più lunga e sgradevole. E per raccontarla, non aspetterai di trovarti di fronte a qualche estraneo… Ogni giorno della tua vita dovrai cercare qualcuno che non abbia ancora udito questa storia dalle tue labbra, e raccontargliela — ogni giorno! — o le tue mani gronderanno sangue. E se tu decidessi di nasconderti, se per non trovare ogni giorno una persona nuova a cui raccontarla pensassi di vivere con le mani lorde di sangue, avvertiresti il dolore delle ferite che hai inferto alla mia gente, ogni giorno una nuova ferita, finché non avessi di nuovo raccontato la tua storia a qualcuno, una volta per ogni giorno mancato. Non provare a ucciderti… non ci riusciresti. Vagherai da un capo all’altro delle regioni abitate dagli uomini bianchi. La gente vedendoti arrivare andrà a nascondersi, paventando il suono della tua voce; e tu la scongiurerai di fermarsi ad ascoltare. Tutti dimenticheranno il tuo vero nome, e ti chiameranno con quello che oggi ti sei guadagnato: Tippy-Canoe. Questo è il tuo nuovo nome, Assassino Bianco Harrison. Il tuo vero nome, finché non morirai di vecchiaia tra molti, molti anni.»

Harrison si chinò sulla criniera del suo cavallo e pianse affondando il viso tra le mani insanguinate. Ma le sue erano lacrime di rabbia, non di vergogna o di dolore. Lacrime di rabbia perché tutti i suoi piani erano andati in fumo. Se avesse potuto, avrebbe ucciso il Profeta all’istante. Avrebbe girato in lungo e in largo alla ricerca di qualche strega o stregone in grado di spezzare quell’incantesimo. Non poteva tollerare di essere sconfitto da quel miserabile Rosso orbo da un occhio.

Dalla sponda, Measure rivolse la parola al Profeta. «E ora dove andrai, Tenska-Tawa?»

«A ovest» disse Tenska-Tawa. «Assieme alla mia gente, a coloro che ancora credono in me, andrò a ovest del Mizzipy. Quando racconterai la tua storia a qualche uomo bianco, ricordati di dire anche questo: che la terra a ovest del Mizzipy appartiene all’uomo rosso. Nessun Bianco potrà metterci piede. La terra non potrebbe sopportarlo. Il vostro fiato è morte; il vostro tocco è veleno; le vostre parole, menzogna; la terra vivente vi respinge.»

E, voltate le spalle ai Bianchi, s’incamminò verso i Rossi che lo attendevano sull’altra riva, e aiutò un bambino ferito a risalire il pendio dall’altra parte finché insieme non scomparvero nella foresta. Dietro di lui, l’acqua del Tippy-Canoe riprese a scorrere.

Miller scese lungo il pendio finché non fu accanto al figlio, in piedi sulla riva del fiume. «Measure» disse. «Measure, Measure.»

Measure si voltò e tese le mani per abbracciare il padre. «Alvin è vivo, papà, laggiù a est. È assieme a Ta-Kumsaw, e…»

Ma Miller lo zittì, afferrandolo per le mani. Anche quelle di Measure grondavano sangue, come quelle del padre. Miller scosse la testa. «È colpa mia» disse. «Tutta colpa mia.»

«No, papà» lo contraddisse Measure. «Quando la colpa è così grande, tutti possono assumersene una parte.»

«Ma non tu, figliolo. Quella che hai sulle mani è la mia vergogna.»

«Be’, allora forse ti sarà meno pesante, se la porteremo in due.» Measure tese le mani e prese il padre per le spalle. «Abbiamo visto il peggio che un uomo possa fare, e siamo stati il peggio che un uomo possa essere. Ma questo non vuol dire che un giorno non possiamo anche vedere il meglio. E se dopo quello che è successo non potremo mai giungere alla perfezione, possiamo pur sempre provare a diventare migliori, no?»

Forse, pensò Miller. Ma ne dubitava. O forse dubitava di poterci mai credere, anche se fosse stato vero. D’allora in poi, non avrebbe più potuto guardare nel proprio cuore e approvare ciò che vi avrebbe trovato.

In piedi sulla sponda, attesero l’arrivo degli altri figli di Miller. Anche loro avevano le mani insanguinate… David, Cairn, Wastenot, Wantnot. David tese le mani davanti a sé e pianse. «Preferirei essere morto insieme con Vigor nel fiume Hatrack!»

«Non è vero» disse Cairn.

«Sarei morto, ma per lo meno sarei pulito.»

I gemelli non dissero nulla, stringendosi a vicenda le mani fredde e viscide.

«Dobbiamo tornare a casa» fece Measure.

«No» disse Miller.

«Tutti quanti saranno preoccupati» insisté Measure. «La mamma, le ragazze, Cally.»

Miller ricordò come lui e Faith si erano lasciati. «La mamma ha detto che se io… se questo…»

«Lo so come parla la mamma, ma so anche che i tuoi figli hanno bisogno di un padre. Non ti respingerà.»

«Dovrò raccontarglielo. Quello che abbiamo fatto.»

«Sì, e poi dovrai raccontarlo alle ragazze e a Cally. Lo stesso dovremo fare noi, e Cairn e David dovranno raccontarlo alle loro mogli. Meglio farlo subito, e tornare ad avere le mani pulite, e riprendere la nostra vita. Tutto quanto in una volta sola, tutti quanti insieme. Anch’io ho da raccontarti una storia, che parla di me e di Alvin. Quando avremo finito di raccontare questa storia, io ti racconterò la mia, va bene? Ci stai?»

Quando giunsero sulla riva del Wobbish, trovarono Armor che li attendeva. La chiatta in quel momento si trovava dalla parte opposta del fiume; gli altri avevano preso tutte le barche che avevano usato la sera precedente. Così restarono lì, in attesa.

Measure si tolse la giacca e i pantaloni intrisi di sangue, ma Armor non volle riprenderseli. Armor non accusò nessuno, ma nessuno osava guardarlo. Mentre il traghetto attraversava lentamente il fiume verso di loro, Measure prese da parte il cognato e gli narrò della maledizione. Armor ascoltò, quindi si avvicinò a Miller che gli dava le spalle, lo sguardo fisso sull’altra riva.

«Papà» disse Corazza-di-Dio.

«Avevi ragione, Armor» mormorò Miller, sempre senza guardarlo. Alzò le mani. «Eccola qui, la prova che avevi ragione.»

«Measure mi ha detto che debbo farmi raccontare la storia da ciascuno di voi, uno per uno» disse Armor, voltandosi per comprendere tutti i presenti in quel che diceva. «Ma quando l’avrete fatto, da me non sentirete più una sola parola in proposito. Se mi volete, sono sempre vostro figlio e vostro fratello; mia moglie è vostra figlia e vostra sorella, e voi siete gli unici parenti che io abbia da queste parti.»

«Per tua vergogna» disse David.

«Non potete punirmi solo perché ho le mani pulite» protestò Armor.

Cairn gli tese una mano insanguinata. Armor gliel’afferrò senza esitare, la strinse, poi la lasciò andare.

«Guarda» gli fece notare Cairn. «Se ci tocchi, ti sporchi anche tu.»

Per tutta risposta, Armor tese la mano insanguinata verso Miller. Dopo qualche istante, Miller la prese. La stretta durò fino all’arrivo del traghetto. Poi tutti insieme si diressero verso casa.

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