XI RAGAZZO ROSSO

Non era trascorsa un’ora da quando Measure se n’era andato. Ta-Kumsaw era in piedi su una duna. Al suo fianco si trovava Alvin, il Ragazzo Bianco. Di fronte a lui, Tenska-Tawa, Lolla-Wossiky. Suo fratello, il ragazzo che una volta piangeva per la morte delle api. Un profeta; o almeno così si diceva. La sua voce era la voce della terra; o almeno così si diceva. Una voce che pronunciava parole di vigliaccheria, resa, sconfitta, distruzione.

«Questo è il giuramento della pace della terra» disse il Profeta. «Non adotteremo mai le armi dell’uomo bianco, gli attrezzi dell’uomo bianco, i vestiti dell’uomo bianco, il cibo dell’uomo bianco, le bevande dell’uomo bianco, le promesse dell’uomo bianco. E, soprattutto, non uccideremo mai un essere vivente che non si offra spontaneamente di morire.»

I Rossi che lo circondavano avevano già udito quelle parole, come le aveva udite Ta-Kumsaw. La maggior parte di coloro che avevano seguito entrambi fino al lago Mizogan avevano già rifiutato il patto del Profeta, considerandolo segno di debolezza. Avevano pronunciato un altro giuramento, quello della rabbia della terra, proposto da Ta-Kumsaw. Se i Bianchi volevano restare, avrebbero dovuto vivere secondo la legge dell’uomo rosso; altrimenti avrebbero dovuto andarsene, o perire. Le armi dei Bianchi si potevano usare, ma solo per difendere i Rossi da rapine e violenze. Nessun Rosso avrebbe mai torturato o ucciso un prigioniero, uomo, donna o bambino che fosse. E, soprattutto, la morte di un Rosso non sarebbe mai rimasta impunita.

Ta-Kumsaw sapeva che se tutti i Rossi d’America avessero pronunciato il suo giuramento, avrebbero ancora potuto sconfiggere l’uomo bianco. I Bianchi erano riusciti a fare tanti progressi solo perché i Rossi non si erano mai uniti sotto un unico capo. I Bianchi avevano sempre potuto allearsi con qualche tribù che li aveva guidati nella foresta aiutandoli a scovare il nemico. Se tanti Rossi non avessero rinnegato le proprie origini — come gli innominabili Irrakwa, o quei mezzi Bianchi dei Cherriky -, i Bianchi non avrebbero mai potuto sopravvivere in quella terra. Ne sarebbero stati inghiottiti, scomparendo nel nulla come tutti quelli che li avevano preceduti.

Quando il Profeta ebbe finito di lanciare la sua sfida, solo un pugno di uomini si fece avanti per pronunciare il giuramento richiesto e seguire Tenska-Tawa ovunque andasse. Il Profeta ne parve rattristato, pensò Ta-Kumsaw. Oppresso. Tenska-Tawa voltò le spalle a coloro che rimanevano… ai guerrieri disposti a battersi con l’uomo bianco.

«Quelli sono i tuoi uomini» disse il Profeta. «Avrei preferito che non fossero tanti.»

«E io avrei preferito che non fossero così pochi.»

«Di alleati ne troverai quanti ne vuoi. I Chok-Taw, i Cree-Ek, i Chicky-Saw, i bellicosi Semmy-Noll dell’Oky-Fenoky. Abbastanza da raccogliere il più grande esercito di Rossi che si sia mai visto in questa nostra terra, e tutti assetati del sangue dei Bianchi.»

«Resta al mio fianco in questa battaglia» lo pregò Ta-Kumsaw.

«Uccidendo, la perderai» disse il Profeta. «Io invece vincerò la mia.»

«Morendo.»

«Se la terra chiedesse la mia vita, obbedirei.»

«E tutta la tua gente insieme con te.»

Il Profeta scosse la testa. «Ho visto quello che ho visto. La gente che ha pronunciato il mio giuramento è parte della terra come lo sono l’orso e il bisonte, lo scoiattolo e il castoro, il tacchino, il fagiano e l’ottarda. Tutti questi animali sono rimasti immobili in attesa della tua freccia, è vero o no? O hanno allungato il collo in attesa del tuo coltello. O hanno posato il capo a terra in attesa del tuo tommy-hawk.»

«Non sono che animali, destinati al nostro nutrimento.»

«Sono vivi, destinati a vivere fino alla morte, e quando muoiono ciò avviene perché altri possano vivere.»

«Non io. Non la mia gente. Nessuno di noi allungherà il collo in attesa del coltello dei Bianchi.»

Il Profeta afferrò Ta-Kumsaw per le spalle, mentre le lacrime gli rigavano il volto. Premendo la guancia contro quella di Ta-Kumsaw, bagnò con le proprie lacrime il viso del fratello.

«Quando tutto sarà finito, vieni a cercarmi di là dal Mizzipy» si raccomandò il Profeta.

«Non permetterò mai che la terra venga divisa» asserì Ta-Kumsaw «L’est non appartiene all’uomo bianco.»

«L’est morirà» disse il Profeta. «Seguimi a ovest, dove l’uomo bianco non arriverà mai.»

Ta-Kumsaw non rispose.

Alvin, il Ragazzo Bianco, toccò la mano del Profeta. «Tenska-Tawa, questo forse significa che non potrò mai andare all’ovest?»

Il Profeta rise. «Perché pensi che ti mandi con Ta-Kumsaw? Se c’è qualcuno al mondo che può trasformare in Rosso un ragazzo bianco, questi è Ta-Kumsaw.»

«Non lo voglio» protestò Ta-Kumsaw.

«Allora morirai» disse il Profeta.

Dette queste parole, Tenska-Tawa scese lungo il fianco della duna fino al gruppetto di uomini che lo attendevano, le mani grondanti sangue, per sigillare il patto. Insieme, si avviarono in direzione dei loro familiari, in attesa sulla sponda del lago. L’indomani sarebbero tornati a Prophetstown. Pronti al macello.

Ta-Kumsaw attese che il Profeta fosse scomparso dietro una duna. Quindi, alle centinaia di uomini che rimanevano, urlò: «Quando avrà pace l’uomo bianco?»

«Quando se ne andrà!» urlarono quelli di rimando. «Quando morirà!»

Ta-Kumsaw rise e spalancò le braccia. Avvertiva il loro amore e la loro fiducia come il calore del sole in una giornata d’inverno. Uomini da meno avevano provato quel calore e se n’erano sentiti oppressi, perché non erano degni della fiducia riposta in loro. Ma non Ta-Kumsaw. Aveva misurato le proprie capacità, e sapeva che non c’era compito del quale non sarebbe stato all’altezza. Solo il tradimento avrebbe potuto precludergli la vittoria. E Ta-Kumsaw sapeva penetrare nel cuore degli uomini. Capiva subito se di qualcuno ci si poteva fidare, se mentiva o diceva la verità. Non aveva forse capito il governatore Harrison fin dal primo momento? Un uomo di tal fatta non poteva nascondersi al suo sguardo.

Pochi minuti dopo erano già in cammino. Un gruppo di qualche decina d’uomini condusse le donne e i bambini nel luogo in cui il loro villaggio itinerante si sarebbe temporaneamente stabilito. Non restavano mai più di tre giorni nello stesso posto; un villaggio permanente come Prophetstown sarebbe stato un invito al massacro. L’unico punto a vantaggio del Profeta era il grande numero dei suoi seguaci. A Prophetstown abitavano ormai diecimila Rossi, più di quanti ne fossero mai vissuti in un unico centro. E quello era un luogo di grandi prodigi, lo stesso Ta-Kumsaw doveva riconoscerlo. Il mais produceva fino a sei pannocchie per pianta, straordinariamente grosse e succose. I bisonti e i cervi arrivavano a Prophetstown da un raggio di cento miglia, si avvicinavano spontaneamente ai fuochi di cottura e si stendevano a terra in attesa del coltello. Quando le oche volavano nel cielo, da ogni stormo se ne staccava un certo numero che scendeva nel Wobbish e nel Tippy-Canoe, e lì restava in attesa della freccia. Anche i pesci risalivano a frotte l’Hio per balzare nelle reti dei pescatori.

Tutto questo non avrebbe significato nulla, se l’uomo bianco avesse aperto il fuoco con i cannoni caricati a mitraglia e a shrapnel sulle tende e sulle capanne della città dei Rossi. Il micidiale metallo avrebbe attraversato le pareti come se fossero state di carta… una pioggia mortale che non sarebbe stata trattenuta da quelle fragili strutture di pali e di fango. Quel giorno, ogni Rosso di Prophetstown avrebbe rimpianto il suo giuramento.

Ta-Kumsaw li condusse attraverso la foresta. Nella fila, il ragazzo bianco si trovava subito dietro di lui. Ta-Kumsaw impresse alla corsa un’andatura micidiale, due volte più veloce di quella che avevano tenuto nel condurre il ragazzo e suo fratello al lago Mizogan. Di lì a Fort Detroit c’erano duecento miglia, e Ta-Kumsaw era deciso a coprire l’intera distanza in un solo giorno. Nessun uomo bianco avrebbe potuto riuscirci… o, se era per quello, nessun cavallo. Un miglio ogni cinque minuti, sempre avanti, mentre il vento della corsa gli frustava il ciuffo di capelli alla sommità della testa. Tenere quel passo per più di mezz’ora avrebbe ucciso qualsiasi essere umano; ma l’uomo rosso poteva far ricorso alla forza della terra. Il terreno assecondava i suoi passi, aggiungendo forza alla forza. I cespugli si aprivano per lasciarlo passare; dove non c’era spazio, questo compariva; su fiumi e torrenti Ta-Kumsaw volava senza nemmeno toccare il fondo, affondando i piedi di quel tanto che bastava per far presa sull’acqua. Tanto bramava arrivare a Fort Detroit che la terra gli rispose dandogli nutrimento e forza. E non solo Ta-Kumsaw, ma ciascuno di coloro che lo seguivano, ogni Rosso capace di avvertire dentro di sé il contatto con la terra, s’imbevve della stessa forza che sosteneva il capo, posando il piede nello stesso punto, un passo dopo l’altro, come se fossero stati una sola grande anima che percorreva un unico angusto sentiero nella foresta.

Prima o poi il ragazzo bianco dovrò mettermelo in spalla, pensò Ta-Kumsaw. Ma i passi alle sue spalle — perché nel correre i Bianchi facevano rumore — gli tenevano dietro, seguendo un ritmo identico al suo.

Questo era evidentemente impossibile. Le gambe del ragazzo erano troppo corte, e per coprire la stessa distanza avrebbe dovuto fare un maggior numero di passi. Eppure a ogni falcata di Ta-Kumsaw ne corrispondeva una del ragazzo, con tale precisione che quel rumore di passi avrebbe potuto essere il suo.

Un minuto dopo l’altro, un miglio dopo l’altro, un’ora dopo l’altra, il ragazzo continuò a tenergli dietro.

Il sole tramontò dietro di lui, sopra la sua spalla destra. Spuntarono le stelle, ma non la luna. Sotto gli alberi il buio era completo. Eppure non rallentarono, per loro era facile trovare la strada nella foresta, perché non lo facevano con gli occhi o con la mente, ma era la terra stessa a guidarli nell’oscurità conducendoli dove non c’erano pericoli. Più volte, quella notte, Ta-Kumsaw notò che i passi del ragazzo non facevano più alcun rumore. In quelle occasioni si rivolgeva in shawnee all’uomo che correva dietro il ragazzo bianco chiedendogli che cosa questi facesse, e ogni volta l’uomo gli rispondeva: «Corre».

Si levò la luna, gettando chiazze di pallida luce tra gli alberi della foresta. Superarono un temporale: sotto i loro piedi il terreno si fece umido, poi bagnato; attraversarono di corsa brevi rovesci, poi una pioggia fitta e costante, poi altri rovesci; quindi il terreno si fece di nuovo asciutto. Ma non rallentarono mai il passo. Il cielo a oriente si fece grigio, poi rosa, poi azzurro. All’improvviso spuntò il sole. L’aria si era intiepidita e il sole era già tre palmi sopra l’orizzonte quando scorsero il fumo dei camini, poi la bandiera con i fiordalisi, afflosciata per mancanza di vento; infine, la croce della cattedrale. Solo allora rallentarono la corsa. Solo allora ruppero il perfetto unisono dei loro passi, allentarono mentalmente la presa sulla terra, e si fermarono a riposare su un prato così vicino alla città che si udivano le note dell’organo della cattedrale.

Ta-Kumsaw si fermò, e il ragazzo si fermò dietro di lui. Come aveva fatto Alvin, ragazzo bianco, a correre come un uomo rosso per tutta la notte? Ta-Kumsaw si inginocchiò davanti a lui. Anche se aveva gli occhi aperti, Alvin pareva non vedere nulla. «Alvin» disse Ta-Kumsaw, in inglese. Il ragazzo non rispose. «Alvin, stai dormendo?»

Alcuni guerrieri si radunarono intorno a loro. Dopo il lungo viaggio, erano silenziosi e stanchi. Non esausti, perché la terra stessa li aveva corroborati durante il tragitto. Il loro silenzio era piuttosto dovuto a un senso di meraviglia per essere stati così vicini alla terra; un viaggio del genere era considerato qualcosa di sacro, un dono della terra ai più nobili dei suoi figli. Numerosi erano i Rossi che avevano intrapreso un viaggio del genere ed erano stati respinti, costretti a fermarsi per dormire, riposare, mangiare; costretti a fermarsi dall’oscurità o dal cattivo tempo, perché il loro bisogno non era abbastanza grande, o il viaggio stesso andava contro ciò di cui la terra stessa aveva bisogno. Ta-Kumsaw non aveva mai subito un simile rifiuto; tutti i suoi compagni lo sapevano. Era questo uno dei motivi per cui Ta-Kumsaw non era tenuto in minor considerazione del fratello. Il Profeta sapeva compiere miracoli, ma nessuno poteva condividere le sue visioni; agli altri, egli poteva solo raccontarle. Quello che faceva Ta-Kumsaw, invece, i suoi guerrieri lo facevano insieme con lui, lo provavano insieme con lui.

In quel momento tuttavia, di fronte al ragazzo bianco, non erano meno sconcertati di Ta-Kumsaw. Era forse stato Ta-Kumsaw a prestare la sua forza al ragazzo? O era stata la terra, incredibilmente, a tendere la mano offrendo il proprio sostegno a un ragazzo bianco?

«È bianco come la sua pelle, o rosso nel cuore?» chiese uno dei guerrieri. Queste parole le pronunciò in shawnee, e non nella forma abbreviata di tutti i giorni, ma nella lingua sacra e lenta degli sciamani.

Con grande sorpresa di Ta-Kumsaw, Alvin rispose, senza più guardare nel vuoto ma portando lo sguardo su colui che aveva parlato. «Bianco» mormorò, in inglese.

«Allora capisce la nostra lingua?» chiese un secondo guerriero.

Alvin parve sconcertato da quella domanda. «Ta-Kumsaw» disse. Alzò lo sguardo per controllare l’altezza del sole. «È giorno. Mi sono addormentato?»

«Non ti eri addormentato» rispose Ta-Kumsaw in shawnee. Stavolta il ragazzo parve non capire affatto. «Non ti eri addormentato» ripeté Ta-Kumsaw in inglese.

«Ho la sensazione di essermi addormentato» fece Alvin. «Solo che mi ritrovo in piedi.»

«Non sei stanco? Non vuoi riposarti?»

«Stanco? Perché dovrei essere stanco?»

Ta-Kumsaw non si sentì in dovere di dargli spiegazioni. Se il ragazzo non sapeva che cosa aveva fatto, allora era un dono della terra. O forse in quel che il Profeta aveva detto di lui c’era del vero. Tenska-Tawa aveva detto che Ta-Kumsaw avrebbe dovuto insegnare ad Alvin a essere Rosso. Se era riuscito a tenere il passo di un gruppo di Shaw-Nee adulti in una corsa come quella senza mai cedere di un pollice, forse quel ragazzo, a differenza di qualsiasi altro Bianco, avrebbe potuto veramente imparare a sentire la terra.

Ta-Kumsaw si drizzò rivolgendosi ai suoi compagni. «Adesso andrò in città con quattro di voi.»

«E con il ragazzo» aggiunse un guerriero. Altri ripeterono le sue parole. Tutti quanti sapevano ciò che Tenska-Tawa aveva profetizzato a Ta-Kumsaw: che non sarebbe morto finché il ragazzo fosse stato al suo fianco. Anche se avesse avuto la tentazione di piantarlo in asso, loro non gliel’avrebbero permesso.

«E il ragazzo» acconsentì Ta-Kumsaw.

Detroit era un vero forte, niente di paragonabile alle patetiche palizzate di legno che si fregiavano dello stesso nome costruite dagli americani. I bastioni erano di pietra, come la cattedrale, con pezzi di artiglieria pesante puntati verso il fiume che collegava i laghi Huron e St. Clair con il lago Canada, e pezzi di artiglieria più leggera puntati verso l’entroterra, pronti a rintuzzare qualsiasi attacco nemico.

Ma a colpire Alvin e i suoi compagni non fu tanto il forte, quanto la città. Una decina di strade fiancheggiate da case di legno, botteghe e magazzini, e al centro una cattedrale così imponente da far scomparire la chiesa del reverendo Thrower. Preti dalle nere tonache volteggiavano per le vie come corvi in cerca di preda. I francesi, gente dal colorito scuro, non sembravano nutrire verso i Rossi l’ostilità spesso dimostrata dagli americani. Ta-Kumsaw capì che questo era dovuto al fatto che i francesi di Detroit non erano venuti in America con l’intenzione di stabilirvisi per sempre, e non consideravano i Rossi come rivali per il possesso della terra. I francesi in genere cercavano soltanto di trascorrere il tempo in attesa del momento di tornare in Europa, o quanto meno nelle regioni colonizzate dai Bianchi del Quebec e dell’Ontario, dall’altra parte del fiume; facevano naturalmente eccezione i cacciatori di pellicce, ma nemmeno per loro i Rossi erano nemici. I trapper generalmente nutrivano per i Rossi una sorta di timore reverenziale a causa della facilità con cui questi ultimi sembravano catturare la selvaggina. I Bianchi, che invece dovevano sputar sangue anche solo per capire dove collocare le trappole, pensavano ovviamente che sotto ci fosse qualche trucco, e che studiando a fondo il comportamento dei Rossi prima o poi anche loro avrebbero imparato il segreto. Ma questa naturalmente era una pia illusione. Com’era possibile che la terra potesse accettare gente che sterminava tutti i castori di un corso d’acqua solo per le loro pellicce, lasciando le carogne a marcire, e nemmeno un castoro per la riproduzione? Non c’era da meravigliarsi se l’orso ne faceva strage. Era la terra stessa a respingerli.

Quando avrò respinto i Bianchi oltre le montagne, pensò Ta-Kumsaw, caccerò gli Yankee dalla Nuova Inghilterra, e i Cavalieri dalle Colonie della Corona. E quando se ne saranno andati, penserò anche agli spagnoli della Florida e ai francesi del Canada. Oggi mi servo di voi per i miei scopi, ma domani scaccerò anche voi. Se in questa terra rimarrà una sola faccia bianca, apparterrà a un cadavere. E da quel giorno, i castori moriranno solo quando la terra dirà loro che è il momento di morire.

Al comando di Fort Detroit vi era ufficialmente de Maurepas, ma Ta-Kumsaw lo scansava il più possibile. Era solo col secondo in grado, Napoleone Bonaparte, che gli interessava parlare.

«Ho sentito dire che ti trovavi dalle parti del lago Mizogan» disse Napoleone. Naturalmente parlava in francese, ma Ta-Kumsaw aveva imparato quella lingua nello stesso periodo in cui imparava l’inglese, e dalla stessa persona. «Prego, siediti.» Napoleone osservò con qualche interesse il ragazzo bianco Alvin, ma non fece commenti.

«Sì, mi trovavo laggiù» confermò Ta-Kumsaw. «Insieme con mio fratello.»

«Ah. E c’era per caso anche un esercito?»

«Il seme di un esercito» rettificò Ta-Kumsaw. «Ho rinunciato a discutere con Tenska-Tawa. Per raccogliere un esercito dovrò ricorrere ad altre tribù.»

«Quando?» domandò imperiosamente Napoleone. «Vieni qui due o tre volte all’anno a raccontarmi che stai per avere un esercito. Lo sai quant’è che aspetto? Quattro anni, quattro miserabili anni di esilio.»

«Lo so» disse Ta-Kumsaw. «E avrai la tua battaglia.»

«Prima che mi vengano i capelli grigi? Voglio saperlo! Debbo forse morire di vecchiaia prima di vederti proclamare un’insurrezione generale dei Rossi? Sai bene che da solo sono del tutto impotente. La Fayette e de Maurepas mi impediscono di allontanarmi di più di cinquanta miglia, e si guardano bene dall’affidarmi delle truppe. ‘Prima vogliamo vedere un esercito’ dicono. Perché ci si possa scontrare in battaglia con gli americani, questi debbono raccogliere qualcosa di simile a un corpo d’armata. Ebbene, l’unico che può costringere quei miserabili bastardi malati d’indipendenza a farlo sei tu.»

«Lo so» disse Ta-Kumsaw.

«Mi hai promesso un esercito di diecimila Rossi, Ta-Kumsaw. E invece sento un gran parlare di una città di diecimila quaccher

«Non sono quaccheri.»

«Se rifiutano ogni forma di violenza, è esattamente la stessa cosa.» A un tratto la voce di Napoleone si fece soave, affettuosa, convincente. «Ta-Kumsaw, io ho bisogno di te, faccio conto su di te, non deludermi.»

Ta-Kumsaw rise. Napoleone aveva capito da molto tempo che se i suoi trucchi con gli uomini bianchi funzionavano, con i Rossi funzionavano molto meno, e con Ta-Kumsaw non funzionavano affatto. «A nessuno di noi due importa niente dell’altro» disse Ta-Kumsaw. «A te servono una battaglia e una vittoria, così da poter tornare a Parigi da eroe. A me servono una battaglia e una vittoria per incutere il terrore nel cuore dei Bianchi e raccogliere intorno a me un esercito sempre più numeroso di Rossi, che sotto il mio comando possano invadere le regioni del sud ricacciando gli inglesi oltre le montagne. Una battaglia e una vittoria… ecco perché lavoriamo insieme, e quando avremo raggiunto il nostro scopo, io non penserò più a te, come tu non penserai più a me.»

Napoleone era irritato, ma rise. «È vero per metà» disse. «Anche se di te non m’importerà più nulla, continuerò a pensarti. Da te ho imparato molto, Ta-Kumsaw. Ho imparato che per un soldato l’amore per il comandante è più importante dell’amor di patria, che l’amor di patria è più importante della speranza di gloria, che la speranza di gloria è più importante del saccheggio, e che il saccheggio è più importante della paga. Ma la cosa più importante di tutte è combattere per una causa. Per un sogno grande e nobile. I miei uomini mi hanno sempre amato. Per me sarebbero disposti a morire. Ma, per una causa, lascerebbero morire la moglie e i figli, sicuri che ne valga la pena.»

«Com’è possibile che sia stato io a insegnarti queste cose?» si schermì Ta-Kumsaw. «Sono discorsi che potrebbe fare mio fratello, non io.»

«Tuo fratello? Avrei pensato che secondo lui non esista niente per cui valga la pena di morire.»

«No, riguardo al morire è di manica larga. È l’uccidere che non ammette.»

Napoleone rise, e Ta-Kumsaw rise insieme con lui. «Hai ragione, lo sai? Noi due non siamo amici. Ma tu mi piaci. Quello che mi sconcerta è che… Quando avrai vinto, e gli uomini bianchi non ci saranno più, te ne andrai veramente per la tua strada lasciando che tutte le tribù se ne tornino là da dove sono venute, divise, litigiose, deboli?»

«Felici. Com’eravamo una volta. Molte tribù, molte lingue, ma una sola terra vivente.»

«Deboli» ribadì Napoleone. «Se mai riuscissi a unire tutta la mia terra sotto la mia bandiera, Ta-Kumsaw, la terrei unita così strettamente e tanto a lungo che i suoi abitanti diventerebbero un solo grande popolo, grande e forte. E se mai ci riuscirò, puoi far conto su una cosa. Torneremo, e ci riprenderemo questa terra, come qualsiasi altra terra sulla terra. Contaci.»

«Questo perché sei un malvagio, generale Bonaparte. Tu vuoi piegare tutto e tutti sotto il tuo comando.»

«La mia non è malvagità, stupido selvaggio. Se tutti mi obbedissero, sarebbero felici e sicuri, in pace, e — per la prima volta nella storia — liberi.»

«Sicuri, a patto di non contraddirti. Felici, a patto di non odiarti. Liberi, a patto di non desiderare qualcosa di contrario alla tua volontà.»

«Ma guarda un po’, un Rosso filosofo. Lo sanno, quei bifolchi del sud, che hai letto Newton, Voltaire, Rousseau e Adam Smith?»

«Probabilmente non sanno nemmeno che so leggere nella loro lingua.»

Napoleone si chinò sulla scrivania. «Li distruggeremo, Ta-Kumsaw, tu e io insieme. Ma devi procurarmi un esercito.»

«Mio fratello prevede che l’avremo prima della fine dell’anno.»

«È una profezia?»

«Tutte le sue profezie si avverano.»

«Ti ha per caso detto se vinceremo?»

Ta-Kumsaw rise. «Dice che sarai conosciuto come il più grande generale europeo mai vissuto, e io come il più grande capo dei Rossi.»

Napoleone si passò le dita tra i capelli e sorrise, con un’espressione quasi fanciullesca; nel giro di un istante poteva farsi minaccioso, amichevole o adorabile, a volontà. «Mi sembra che la tua non sia una vera risposta. Anche i morti possono essere chiamati grandi.»

«Ma coloro che perdono le battaglie non sono mai chiamati grandi, non è vero? Nobili, forse, o magari eroi. Ma non grandi.»

«È vero, Ta-Kumsaw, è vero. Ma tuo fratello è troppo oscuro. Oracolare. Delfico.»

«Non conosco queste parole.»

«Ma certo che non le conosci. Sei un selvaggio.» Napoleone si versò da bere. «Me n’ero dimenticato. Un po’ di vino?»

Ta-Kumsaw scosse la testa.

«Immagino che nemmeno il ragazzo ne beva.»

«Ha solo dieci anni» disse Ta-Kumsaw.

«In Francia, gli daremmo vino allungato con l’acqua. Che cosa te ne fai di un ragazzo bianco, Ta-Kumsaw? Ti sei messo a rapire bambini, adesso?»

«Questo ragazzo bianco» spiegò Ta-Kumsaw «è più di quel che sembra.»

«Con quel perizoma, francamente non sembra gran che. Il francese lo capisce?»

«Nemmeno una parola» disse Ta-Kumsaw. «Il motivo per cui sono venuto è… puoi fornirci dei fucili?»

«No» rispose Napoleone.

«Frecce contro pallottole, possiamo fare ben poco» borbottò Ta-Kumsaw.

«La Fayette non intende autorizzarci a fornirvi armi da fuoco. E Parigi è d’accordo con lui. Di voi non si fidano. Hanno paura che, se vi dessimo dei fucili, finireste con l’usarli contro di noi.»

«E allora a che pro radunare un esercito?»

Napoleone sorrise, sorseggiando il suo vino. «Ho avuto occasione di parlare con alcuni mercanti Irrakwa.»

«Gli Irrakwa non sono che urina di cane tignoso» disse Ta-Kumsaw. «Erano già animali selvaggi e crudeli prima che arrivassero i Bianchi. Ora sono peggio.»

«Strano. Gli inglesi sembrano considerarli anime gemelle. E La Fayette li adora. L’unica cosa che ci interessa in questo momento, tuttavia, è che fabbricano fucili in quantità e a basso costo. In fatto di efficienza possono lasciare un po’ a desiderare, ma usano tutti munizioni dello stesso tipo. Questo vuol dire che i proiettili da loro prodotti sono esattamente della stessa misura della canna, e questo assicura una maggiore precisione nel tiro. E li vendono a prezzo più basso degli altri.»

«E voi sareste disposti ad acquistarli per noi?»

«No. Sarete voi ad acquistarli.»

«Noi non abbiamo denaro.»

«Pellicce» suggerì Napoleone. «Pellicce di castoro e di visone. Pelli di daino e di bisonte.»

Ta-Kumsaw scosse la testa. «Non possiamo chiedere agli animali di morire solo perché abbiamo bisogno di fucili.»

«Peccato» fu il commento di Napoleone. «Mi dicono che voi Rossi avete un certo talento per la caccia.»

«I veri Rossi sì. Non gli Irrakwa. Ormai è troppo tempo che usano le macchine dell’uomo bianco. Per la terra sono morti, proprio come i Bianchi. Altrimenti quelle pellicce andrebbero a cercarsele da soli.»

«Vorrebbero anche qualcos’altro. Oltre alle pellicce» commentò Napoleone.

«Noi non abbiamo niente che gli Irrakwa possano volere.»

«Ferro» disse Napoleone.

«Noi non abbiamo ferro.»

«No. Ma gli Irrakwa sanno dove si trova. All’estremo nord del bacino del Mizzipy, e lungo il Mizota. Nei pressi della sponda settentrionale del lago High Water. Da voi vogliono soltanto una promessa: che non assalirete le imbarcazioni che trasporteranno il minerale ferroso verso l’Irrakwa, né i minatori che lo estrarranno dalle viscere della terra.»

«Pace per il futuro, in cambio di fucili adesso?»

«Sì» disse Napoleone.

«E non temono che quei fucili possano essere usati contro di loro

«Ti chiedono di promettere che non lo farai.»

Ta-Kumsaw soppesò la questione. «Agli Irrakwa puoi dire questo. Prometto che se ci riforniranno di fucili, nessuna di quelle armi verrà mai usata contro di loro. Tutti i miei uomini pronunceranno questo giuramento. In più, non assaliremo le loro imbarcazioni sull’acqua, né i minatori che estrarranno il minerale dalla terra.»

«E manterrai la promessa?» chiese Napoleone.

«Quello che ho detto lo manterrò» disse Ta-Kumsaw.

«Anche se li odi?»

«Se li odio è perché la terra stessa li odia. Quando l’uomo bianco se ne sarà andato, e la terra sarà di nuovo forte, e non più malata, i minatori saranno inghiottiti dai terremoti, le imbarcazioni saranno affondate dalle tempeste, e gli Irrakwa torneranno a essere veri uomini rossi, o periranno. Quando l’uomo bianco se ne sarà andato, la terra si mostrerà inflessibile con i suoi figli rimasti.»

L’incontro era terminato. Ta-Kumsaw si alzò e strinse la mano al generale. Alvin li sorprese entrambi facendo un passo avanti e tendendo a sua volta la mano.

Napoleone gliela strinse, divertito. «Di’ a questo ragazzo di evitare le compagnie pericolose» disse.

Ta-Kumsaw fece da interprete. Alvin lo guardò spalancando gli occhi. «Vuol riferirsi a te?» chiese.

«Penso di sì» disse Ta-Kumsaw.

«Ma se è lui l’uomo più pericoloso del mondo!» esclamò Alvin.

Quando Ta-Kumsaw gli tradusse le parole del ragazzo, Napoleone rise. «E che pericolo posso rappresentare? Un piccolo uomo piantato in queste terre selvagge, mentre il centro del mondo è in Europa, e là si combattono grandi guerre a cui non posso partecipare!»

Ta-Kumsaw non ebbe bisogno di tradurre… il ragazzo aveva già interpretato l’espressione di Napoleone. «È pericoloso perché sa farsi amare dagli altri senza meritarselo.»

Ta-Kumsaw avvertì la verità nelle parole del ragazzo. Era questo l’effetto che Napoleone faceva ai Bianchi e, sì, era un uomo pericoloso, pericoloso e malvagio e oscuro. È questo l’uomo dal quale mi aspetto un aiuto? Che mi sono scelto per alleato? Sì, è lui, perché non ho altra scelta. Anche se Napoleone insisté, Ta-Kumsaw non volle tradurgli le parole del ragazzo. Fino a quel momento il generale francese non aveva tentato di gettare il suo incantesimo su Alvin. Se avesse saputo quello che il ragazzo aveva detto, avrebbe potuto provarci, e non era detto che non ci riuscisse. Ta-Kumsaw stava cominciando a capire che cosa si nascondeva in quel ragazzo. Forse era già diventato troppo forte perché Napoleone riuscisse a incantarlo. Ma era anche possibile che Alvin si trasformasse in uno schiavo adorante come de Maurepas. Meglio non metterlo alla prova. Meglio portarselo via.

Alvin volle assolutamente vedere la cattedrale. Vedendo entrare nel tempio un uomo e un ragazzo che indossavano solo un perizoma, un prete parve raccapricciato ma un secondo prete lo rimproverò e li accolse cortesemente. Ta-Kumsaw restava sempre divertito dalle statue dei santi. Tutte le volte che era possibile, esse raffiguravano il santo mentre veniva sottoposto alle più atroci torture. I Bianchi parlavano tanto della barbara usanza dei Rossi di torturare i prigionieri in modo da consentir loro di dimostrare il proprio coraggio. E alla fine, di fronte a che cosa si genuflettevano in preghiera? Alle statue di uomini che avevano dimostrato il proprio coraggio sotto la tortura. Impossibile trovare un senso nel comportamento dei Bianchi.

Nell’uscire a passo lento dalla città, Ta-Kumsaw e Alvin parlarono di queste cose. Ta-Kumsaw cercò inoltre di spiegare al ragazzo come facessero i Rossi a correre così lontano e così in fretta, e quanto fosse straordinario che un ragazzo bianco riuscisse a tenere il loro passo.

Alvin parve capire in che modo i Rossi partecipassero della vita della terra; o almeno ci provò. «Penso di averlo provato anch’io. Mentre correvo. È come se non fossi più in me. I miei pensieri vagano in ogni direzione. Un po’ come sognare. E mentre non ci sono, qualcos’altro dice al mio corpo che cosa fare. Lo nutre, lo usa, lo porta dove vuole. È la stessa cosa che provi anche tu?»

No, non era affatto ciò che provava Ta-Kumsaw. Quando la terra entrava in lui, si sentiva più vivo che mai; non assente dal proprio corpo, ma più presente che in qualsiasi altro momento. Ma questo al ragazzo non lo spiegò, preferendo rispondere con un’altra domanda. «Hai detto che per te è come sognare. Che cos’hai sognato la notte scorsa?»

«Ho sognato le visioni che ho avuto quando mi trovavo nella torre di cristallo con l’Uomo Luminoso… col Profeta.»

«L’Uomo Luminoso. Sì, ti ho sentito chiamarlo così… Tenska-Tawa me ne ha spiegato il perché.»

«Ho sognato di nuovo quelle cose. Ma stavolta era diverso. Certe cose riuscivo a distinguerle più chiaramente, mentre altre me l’ero dimenticate.»

«Hai per caso sognato qualcosa che non avevi già visto?»

«Sì, questo posto. Le statue nella cattedrale. E l’uomo che siamo andati a trovare, quel generale. E una cosa ancora più strana. Una collina, alta, quasi circolare… no, ottagonale. Questo me lo ricordo bene, il sogno era chiarissimo. Una collina con otto facce piane, che dalla cima si allargavano fino alla base. E all’interno c’era una città con un sacco di piccole stanze, come in un formicaio, ma abbastanza grandi perché ci potessero vivere delle persone. O comunque, esseri più grandi delle formiche. E io mi trovavo in cima alla collina e mi aggiravo in mezzo a strani alberi — le foglie non erano verdi, ma d’argento — e cercavo mio fratello. Mio fratello Measure.»

Ta-Kumsaw tacque a lungo. Ma pensò molte cose. Nessun Bianco aveva mai visto quel luogo… la terra era ancora abbastanza forte da impedir loro di scoprirlo. Eppure quel ragazzo l’aveva sognato. E la Collina Ottagonale non si sognava mai per caso. Significava sempre qualcosa. E sempre la stessa cosa.

«Dobbiamo andare laggiù» decise Ta-Kumsaw.

«Dove?»

«Alla collina del sogno» spiegò Ta-Kumsaw.

«Esiste davvero un posto del genere?»

«Nessun Bianco vi ha mai messo piede. Per un Bianco avvicinarsi a quel posto sarebbe… una cosa sporca.» Alvin non rispose. Che avrebbe potuto dire? Ta-Kumsaw deglutì con sforzo evidente. «Ma se lo sogni, ci devi andare.»

«Ma che cos’è?»

Ta-Kumsaw scosse la testa. «È il posto che hai sognato. Non posso dirti altro. Se vuoi saperne di più, prova a sognarlo di nuovo.»

Quando raggiunsero l’accampamento, era ormai il crepuscolo. Minacciava di piovere, e i guerrieri avevano costruito delle capanne. Per via della profezia, gli altri avrebbero preferito che Ta-Kumsaw dormisse con Alvin. Ma Ta-Kumsaw non volle. Quel ragazzo gli faceva paura. La terra stava operando in lui strane cose, senza dare a Ta-Kumsaw il minimo indizio di ciò che stava accadendo.

Ma quando uno sogna di trovarsi sulla Collina Ottagonale, non ha scelta. Deve andarci. E siccome da solo Alvin non avrebbe mai trovato la strada, Ta-Kumsaw avrebbe dovuto accompagnarlo.

Ma questo agli altri non avrebbe mai potuto spiegarlo, e anche potendo non l’avrebbe fatto ugualmente. Se si fosse sparsa la voce che Ta-Kumsaw aveva condotto un Bianco nel luogo sacro dei loro antenati, molti Rossi si sarebbero rifiutati di prestare ascolto alle sue parole.

Perciò il mattino seguente disse agli altri che avrebbe condotto il ragazzo nella foresta per istruirlo, così come gli era stato ordinato dal Profeta. «Ci troveremo tra cinque giorni là dove il Pickawee si unisce all’Hio» disse. «Di lì, andremo a sud per parlare ai Chok-Taw e ai Chicky-Saw.»

Gli altri gli chiesero di poterlo accompagnare; da solo con Alvin, dissero, sarebbe stato troppo pericoloso. Ma Ta-Kumsaw non rispose, e ben presto gli altri rinunciarono. Così Ta-Kumsaw partì di corsa, e anche questa volta Alvin prese la sua stessa andatura, posando il piede esattamente dove lo posava lui, in perfetto unisono. Il viaggio che li attendeva era quasi pari a quello dal lago Mizogan a Detroit. Al tramonto si sarebbero trovati ai confini della Terra delle Selci, dove Ta-Kumsaw aveva intenzione di fermarsi a dormire. Anche lui aveva bisogno di sognare, prima di azzardarsi a condurre un ragazzo bianco alla Collina Ottagonale.

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