Svengaard attese che fosse giunta la notte e ispezionò l’area attraverso gli schermi montati nel suo ufficio, prima di recarsi nel locale in cui si trovava la vasca con l’embrione. Nonostante il fatto che quello fosse il suo ospedale e che lui avesse ogni diritto di recarsi lì, era consapevole di star commettendo un’azione proibita. Il significato del colloquio che aveva sostenuto alla Centrale non gli era sfuggito. Agli Optimati non sarebbe piaciuto, ma lui doveva guardare in quella vasca.
Superata la porta, si fermò, esitando nelle tenebre, rendendosi conto in maniera distaccata che non era mai entrato in quella sala, se non con le luci accese. In quel momento, invece, l’unica fonte d’illuminazione era costituita dalle lucette dei quadranti e delle spie: fievoli puntini luminosi e cerchi fosforescenti con cui orientare il proprio cammino.
Il rumore delle pompe creava un bizzarro ritmo monotono che pervadeva quell’ambiente fiocamente illuminato di un senso di urgenza. Svengaard immaginò gli embrioni ospitati nella sala (quella mattina erano stati ventuno) che uscivano dalle vasche e iniziavano a raddoppiarsi, sempre di più, in una strana ed estatica frenesia di crescere, diventando individui unici, distinti, separati.
Il gas contraccettivo che permeava l’aria respirata dalla Gente non era ancora stato loro somministrato. Per il momento, potevano crescere quasi come avevano fatto i loro predecessori, prima dell’avvento degli ingegneri genetici.
Svengaard annusò l’aria.
Le sue narici, rese istintivamente più sensibili dall’oscurità, percepirono nell’atmosfera il vago sentore salino del liquido amniotico. Dal suo odore, la sala avrebbe anche potuto essere la spiaggia primordiale su cui erano fiorite le prime forme di vita.
Svengaard rabbrividì e ricordò a se stesso, Io sono un ingegnere submolecolare, un chirurgo genetico. In questo posto non c’è nulla di strano.
Ma quel pensiero non riuscì a convincerlo del tutto.
Si allontanò dalla porta, iniziò a procedere lungo la fila di vasche cercando quella che ospitava l’embrione dei Durant. Nella sua mente aveva ben chiaro il ricordo di ciò che aveva visto: l’intervento esterno che aveva irrorato di arginina le cellule dell’embrione. Si era trattata di un’intrusione. Ma da cosa era stata provocata? Potter aveva ragione? Il responsabile era un ignoto creatore di stabilità? Stabilità… ordine… sistemi. Sistemi estesi… aspetti infiniti dell’energia che privavano di ogni concretezza il concetto di materia.
Nel buio colmo di sussurri, quei pensieri divennero di colpo estremamente inquietanti.
Inciampò contro il supporto di un apparecchio piuttosto basso e imprecò a sottovoce. Aveva un nodo allo stomaco, provocato dall’urgenza presente nel ritmo delle pompe, e dalla necessità, notevolmente concreta, di fare in fretta, prima che l’infermiera del turno di notte iniziasse i suoi giri ad intervalli di un’ora.
Una sagoma d’insetto, un’ombra profilata contro altre ombre, spuntò dalla parete di fronte a Svengaard. Il bioingegnere si irrigidì, e gli ci volle qualche secondo per riconoscere i contorni di un microscopio a mesoni.
Svengaard si voltò e osservò i numeri luminosi sulle vasche: dodici, tredici, quattordici… quindici. Eccolo. Controllò il nome sulla targhetta, leggendolo alla luce di un quadrante: "Durant".
Qualcosa in quell’embrione aveva irritato gli Optimati e allarmato oltremodo la Sicurezza. L’addetta al computer che aveva seguito l’intera operazione era scomparsa; e quella che aveva preso il suo posto era tremendamente mascolina e decisa…
Svengaard allontanò il microscopio dalla parete, lo mosse con attenzione nel buio, posizionandolo sulla vasca. Poi, a tentoni, stabilì il collegamento tra lo strumento e la vasca, che vibrava sotto le sue dita. Attivò il microscopio, lo regolò, si chinò verso l’oculare.
All’interno della brulicante massa cellulare, comparve l’immagine molto nitida di un segmento di gene idrofilo. Svengaard si concentrò su di esso, dimenticando il buio, la propria consapevolezza totalmente rivolta verso il campo di visione dello strumento. I raggi mesonici penetrarono più a fondo… nel mitocondrio. Svengaard trovò le spirali alfa e iniziò a esaminare le catene di polipeptidi.
Poi corrugò la fronte, perplesso. Passò a un’altra cellula. Poi a un’altra ancora.
Le cellule mostravano un basso livello di arginina, di questo era certo. Mentre controllava ancora una volta, una ridda di pensieri si accavallò nella sua mente: Ma come può proprio l’embrione dei Durant, tra tutti, possedere una quantità tanto bassa di arginina? Qualsiasi normale embrione maschile possiederebbe più protamina spermatica di questo qui. E come può il sistema di scambio ADP-ATP non recare alcuna traccia dello schema Optimate? L’intervento non avrebbe potuto provocare una tale differenza.
Di colpo, Svengaard diresse il fascio di mesoni sui geni che stabilivano il sesso, osservò le loro catene che si intrecciavano.
È femmina!
Si raddrizzò e controllò il numero della vasca e l’etichetta. «Quindici. Durant.»
Allora guardò la cartella clinica, leggendola alla fioca luminosità emanata dal contatore. Riportava le annotazioni fatte dall’infermiera durante i primi ottantuno giri di controllo. Diede un’occhiata all’orologio: mancavano altri venti minuti all’ottantaduesimo giro.
Non è possibile che l’embrione dei Durant sia femmina, pensò. Non dopo l’operazione fatta da Potter.
Poi comprese che qualcuno aveva scambiato gli embrioni. I sistemi di supporto vitale non facevano alcuna differenza tra un embrione e l’altro. Senza un’attenta analisi al microscopio, nessuno avrebbe potuto accorgersi della sostituzione.
Chi era stato?
Nella mente di Svengaard, i candidati più probabili erano gli Optimati. Avevano portato l’embrione dei Durant in un luogo sicuro, e avevano lasciato al suo posto un sostituto.
Per quale motivo?
È un’esca, si rese conto. Un’esca.
Ma chi stanno tentando di prendere all’amo?
Si raddrizzò, con la bocca arida, il cuore che gli martellava in petto. Un suono proveniente dalla parete alla sua sinistra lo fece voltare di scatto. Il computer d’emergenza della sala delle vasche si era improvvisamente attivato: i nastri stavano iniziando a girare, le luci a lampeggiare. Svengaard udì il suono ronzante di una stampante.
Ma non c’è nessuno che lo sta adoperando!
Svengaard si voltò e fece per fuggire dalla sala, ma urtò contro una forma massiccia, solida. Mani e braccia lo bloccarono con forza spietata e, alle spalle del suo catturatore, Svengaard intravide un settore della parete aperto: all’interno brillavano luci fioche e si intuiva del movimento.
Poi un’oscurità immensa e profondissima sembrò calare sul suo cervello.