CAPITOLO QUINDICESIMO

Non appena terminò l’ultima sopraelevata, il veicolo si allontanò dal tunnel che correva sotto la montagna e iniziò a percorrere l’ampia pista di Lester che saliva, attraverso vecchie gallerie e un altopiano spazzato dal vento, fino alla riserva naturale e ai luoghi di villeggiatura riservati alle coppie in permesso di procreazione. Lì non c’erano luci artificiali, solo il bagliore della luna e gli accecanti raggi dei fari del veicolo.

Ogni tanto incrociavano qualche omnibus che scendeva, pieno di coppie melanconiche e silenziose — la loro vacanza era ormai terminata — che tornavano alla megalopoli. Anche se qualcuno tra loro avesse notato l’hovercraft, l’avrebbe senza dubbio scambiato per un veicolo incaricato dei rifornimenti.

In una curva al di sotto dello Homish Resort Complex, l’autista-Cyborg modificò l’assetto dell’hovercraft. Le turbine furono spinte alla massima velocità e il loro rombo divenne stridulo ed assordante. Iniziarono di nuovo i sobbalzi. Il veicolo aveva abbandonato il fondo stradale.

All’interno della stretta scatola in cui erano nascosti, Harvey si resse alla panca con una mano e con l’altra afferrò Lizbeth per impedirle di cadere, mentre l’hovercraft sussultava e sobbalzava seguendo il percorso di una linea ferrata fuori uso da tempo immemorabile, sfondava una barriera di arbusti e cominciava a percorrere uno stretto sentiero creato dagli animali, attraversando cespugli di rododendri.

«Cosa succede?» gemé Lizbeth.

La voce dell’autista rispose dal comunicatore, «Abbiamo lasciato la strada. Non avete nulla da temere.»

Nulla da temere, pensò Harvey. Quell’idea gli parve tanto ridicola che quasi ridacchiò, prima di rendersi conto che era sull’orlo di un attacco isterico.

L’autista aveva spento tutte le luci esterne del veicolo, e ora per guidare il veicolo si basava soltanto sulla luna e sulla sua vista ad infrarossi.

La sua visione potenziata gli faceva apparire il sentiero come la lucente scia lasciata da una lumaca attraverso la boscaglia. Il veicolo seguì quella pista per circa due chilometri, lasciandosi dietro una scia di polvere e foglie, fino al punto in cui il sentiero incrociava una strada, usata dai veicoli della forestale, il cui fondo era abbastanza largo e agevole. Qui girò a destra, sibilando come un enorme mostro preistorico, risalì faticosamente lungo il fianco di una collina, ne ridiscese rombando l’altro versante, per poi raggiungere la cima della collina seguente, su cui si fermò.

Le turbine si spensero con un gemito e il veicolo si adagiò al suolo. L’autista uscì dalla cabina di guida, una figura massiccia e tarchiata e con braccia artificiali adattissime al compito che l’attendeva. Strappò via uno dei pannelli laterali e cominciò a gettare il carico in un profondo burrone invaso da piante di cicuta.

All’interno del loro nascondiglio, Igan balzò in piedi, avvicinò la bocca al comunicatore e sibilò, «Dove siamo?»

Silenzio.

«È una domanda stupida,» commentò Harvey. «Come fa a sapere perché si è fermato?»

Igan ignorò l’insulto. Dopo tutto, chi lo aveva pronunciato era soltanto un rozzo appartenente alle classi inferiori. «Sta spostando il carico,» disse Igan. Si sporse verso Harvey e batté la mano contro una parete del nascondiglio. «Cosa sta succedendo lì fuori?»

«Oh, si sieda,» esclamò Harvey. Poggiò una mano sul petto di Igan e spinse. Il medico barcollò all’indietro, finendo sulla panca sul lato opposto.

Igan fece per scagliarsi contro Harvey, il volto scuro per la rabbia, gli occhi sfavillanti, ma Boumour lo trattenne e disse con voce tonante, «Calma, amico Igan.»

Igan si rimise a sedere. Lentamente il suo volto assunse un’espressione paziente. «È strano,» rifletté, «come le emozioni si impongano nonostante…»

«Passerà,» fece Boumour.

Harvey cercò la mano di Lizbeth, le segnalò, «Il petto di Igan — è convesso e duro come plasmeld. L’ho sentito attraverso la giacca.»

«Pensi che sia un Cyborg?»

«Respira in modo normale.»

«E prova ancora emozioni. In lui leggo della paura.»

«Sì… ma…»

«Staremo attenti.»

Boumour disse, «Durant, lei dovrebbe nutrire maggiore fiducia nei nostri confronti. Il Dottor Igan ha dedotto che l’autista non starebbe scaricando il veicolo, se non fosse convinto che siamo al sicuro.»

«E come sappiamo che sta scaricando?» replicò Harvey.

Un’espressione cauta turbò il viso di solito tranquillo di Boumour.

Harvey la interpretò, poi sorrise.

«Harvey!» gli segnalò Lizbeth. «Pensi che…»

«No, là fuori c’è il nostro autista,» la rassicurò il marito con lo stesso sistema. «Dall’odore, direi che siamo in qualche riserva naturale. Inoltre non abbiamo sentito nessun rumore di lotta. Ed è impossibile catturare un Cyborg senza lottare.»

«Ma dove siamo?» gli chiese Lizbeth.

«Tra le montagne,» la informò Harvey. «E considerato il viaggio, ho l’impressione che siamo molto lontani dalle strade più trafficate.»

Improvvisamente il loro nascondiglio sussultò e si spostò di lato. Il neon si spense. Nell’oscurità, la parete alle spalle di Harvey venne staccata. L’uomo strinse a sé Lizbeth, si voltò, fissò un panorama buio… illuminato soltanto dalla luna… e la forma massiccia dell’autista, profilata contro le luci lontane della megalopoli. La luna inargentava le cime degli alberi sotto di loro e nell’aria aleggiava l’odore resinoso degli aghi di pino sollevati dal passaggio dell’hovercraft. I dintorni erano immersi in un silenzio profondo, come se la natura stesse studiando quegli intrusi.

«Uscite,» ordinò l’autista.

Il Cyborg si girò. Harvey scorse i suoi lineamenti, improvvisamente illuminati dal chiaro di luna, esclamò, «Glisson!»

«Le porgo i miei saluti, Durant,» disse Glisson.

«Perché è stato scelto proprio lei?» gli chiese Harvey.

«E perché no?» ribatté Glisson. «Ora scendete di lì.»

Harvey protestò, «Ma mia moglie non è in grado di…»

«So delle condizioni di sua moglie, Durant. Ma è passato del tempo dall’intervento che ha subito. Può camminare, se non si sforza troppo.»

Igan mormorò nell’orecchio di Harvey, «Sua moglie non avrà problemi. La faccia alzare con gentilezza e la sorregga.»

«Io… sto bene,» disse Lizbeth. «Ecco.» Poggiò un braccio sulla spalla di Harvey. Insieme, scesero a terra.

Igan li seguì, chiese, «Dove siamo?»

«Da qualche parte, diretti verso qualche altro posto,» replicò Glisson. «Come sta il nostro prigioniero?»

Boumour gli rispose dall’interno del nascondiglio. «Sta rinvenendo. Aiutatemi a farlo uscire.»

«Perché ci siamo fermati?» chiese Harvey.

«Dobbiamo affrontare una salita molto ripida,» disse Glisson. «Meglio sbarazzarci del carico. L’hovercraft non è fatto per un lavoro del genere.»

Boumour e Igan li superarono trasportando Svengaard, che deposero contro un tronco d’albero sul ciglio del sentiero.

«Aspettate qui, mentre sgancio il rimorchio,» disse Glisson. «E riflettete su Svengaard; forse dovremmo abbandonarlo.»

Sentendo pronunciare il nome, quest’ultimo aprì gli occhi, si scoprì a fissare le luci lontane della megalopoli. Gli faceva male la mascella, a causa del pugno sferratogli da Harvey, e la testa gli pulsava. Aveva fame e sete. Le mani legate avevano ormai perso ogni sensibilià. Un intenso odore di aghi di pino colpì le sue narici. Starnutì.

«Forse dovremmo davvero sbarazzarci di Svengaard,» disse Igan.

«Io penso di no,» replicò Boumour. «È un uomo istruito, un possibile alleato. E avremo bisogno di uomini istruiti.»

Svengaard diresse lo sguardo verso il punto da cui provenivano le voci. Gli altri erano accanto all’hovercraft, una sagoma lunga e argentea davanti a un tozzo rimorchio. Poi si udì un rumore metallico. Il rimorchio scivolò all’indietro per almeno due metri prima di fermarsi contro un monticello di terriccio.

Glisson ritornò, si accovacciò accanto a Svengaard. «Qual è la vostra decisione?» chiese il Cyborg. «Lo porteremo con noi oppure lo uccideremo?»

Harvey deglutì, sentì che Lizbeth gli stringeva la mano.

«Portiamolo con noi ancora per un po’,» propose Boumour.

«A patto che non ci crei altri problemi,» intervenne Igan.

«Potremmo sempre usare parti della sua anatomia,» disse Glisson. «Oppure possiamo ricavare un clone e condizionarlo.» Il Cyborg si alzò. «Non è necessario prendere una decisione immediata. Meglio rifletterci sopra con calma.»

Svengaard rimase in silenzio, gelato dalla impassibile crudeltà delle parole del Cyborg. Che uomo duro e brutale, pensò. Un tipo spietato, pronto a ogni violenza. Un vero killer.

«Bene, allora salite tutti in cabina,» ordinò Glisson. «Abbiamo un lungo…» Il Cyborg si interruppe e fissò la megalopoli.

Svengaard si girò verso i grappoli di luci bianco-azzurre, che ardevano gelide in lontananza. Un bagliore giallo era comparso tra le luci alla sua sinistra. Un altro fiorì dietro il primo: un gigantesco falò profilato contro le lontani montagne illuminate dal chiaro di luna. Altri bagliori spuntarono sulla destra. Un’ondata di ultrasuoni scosse il corpo di Svengaard e trasse una lamentosa dissonanza metallica dalla carrozzeria del veicolo.

«Cosa sta succedendo?» sibilò Lizbeth.

«Silenzio!» ordinò Glisson. «Tutti zitti e osservate.»

«Dèi della vita,» mormorò Lizbeth. «Cosa c’è?»

«La megalopoli sta morendo,» spiegò Boumour.

Un’altra ondata di ultrasuoni scosse l’hovercraft.

«Fa male,» si lamentò Lizbeth.

Harvey l’attirò a sé, mormorò, «Che siano dannati!»

«Quassù fa male,» commentò Igan con tono freddamente scientifico. «Ma laggiù uccide.»

Una nebbia verde stava emergendo dalla boscaglia a una decina di chilometri di distanza. Fuoriusciva e scendeva verso il basso come un mare furioso, sotto l’impassibile luce della luna, sommergendo ogni cosa: le colline, le luci simili a gemme, i bagliori dorati.

«Pensavate che avrebbero usato la nebbia della morte?» chiese Boumour.

«Sapevamo che l’avrebbero usata,» rispose Glisson.

«Suppongo fosse prevedibile che avrebbero deciso di sterilizzare l’intera zona,» disse Boumour.

«Ma cos’è quella nebbia?» volle sapere Harvey.

«Viene emessa dalle griglie usate per diffondere il gas contraccettivo,» spiegò Boumour. «Basta che una sola particella sfiori la pelle… ed è finita.»

Igan si avvicinò a Svengaard, lo fissò. «Essi sono i potenti che ci amano e si prendono cura di noi,» recitò in tono amaramente sardonico.

«Cosa succede?» gli chiese Svengaard.

«È sordo? O forse cieco? I suoi tanto adorati Optimati stanno sterilizzando Seatac. Aveva degli amici, laggiù?»

«Amici?» ripeté Svengaard in tono incerto. Si voltò a guardare la nebbia verde. Tutte le luci si erano ormai spente.

Una terza scarica di ultrasuoni li scosse, fece tremare il veicolo, e perfino il suolo.

«Cosa ne pensa adesso di loro?» chiese Igan.

Svengaard scosse la testa, incapace di rispondere. Si chiese il perché non fosse dotato di un interruttore di sicurezza emotivo con cui tagliare fuori dalla sua coscienza quella scena. Ma i suoi sensi, in qualche modo divenuti anormali, lo costringevano ad assistere a quel dramma. Tuttavia, lo stavano semplicemente ingannando. Si trattava soltanto di un inusuale caso di auto-suggestione.

«Perché non mi risponde?» chiese Igan.

«Lo lasci in pace,» intervenne Harvey. «Anche noi siamo sconvolti. E lei, non prova nulla?»

«Ma lui vede quel che sta succedendo, e non ci crede,» replicò Igan.

«Come hanno potuto farlo?» bisbigliò Lizbeth.

«Istinto di conservazione,» spiegò Boumour. «Una caratteristica che il nostro amico Svengaard non possiede; ma forse è stata eliminata dal suo corredo genetico.»

Svengaard fissava la nube verde. Si muoveva con un tale silenzio, una tale furtività. La distesa buia che un tempo era fiorita di luci e di vita lo aveva reso terribilmente cosciente della propria mortalità. Pensò agli amici che aveva laggiù, ai suoi colleghi dell’ospedale, agli embrioni, alla moglie.

Erano morti tutti.

Svengaard si sentì svuotato, incapace di provare una qualsiasi emozione. Riusciva soltanto a domandarsi, Qual era il loro scopo?

«Salite nella cabina di guida,» ripeté Glisson. «Sistematevi nel retro, sul pavimento.»

Delle mani dai gesti bruschi sollevarono Svengaard — lui riconobbe Boumour e Glisson. L’impassibilità dell’autista confondeva Svengaard. Fino a quel momento, non aveva mai incontrato un essere umano tanto distaccato.

I due lo scaricarono sul pavimento dell’hovercraft. Il bordo aguzzo del supporto di un seggiolino gli si piantò in un fianco. Dei piedi lo sfiorarono. Qualcuno gli urtò lo stomaco con un piede, lo ritrasse immediatamente. Le turbine vennero attivate. Una portiera venne chiusa. L’hovercraft iniziò a muoversi.

Svengaard sprofondò in una specie di torpore.

Lizbeth, che era seduta sopra di lui, sospirò profondamente. Udendo quel sospiro, Svengaard scoprì a malincuore di provare un senso di compassione per la donna, la prima emozione che provava dopo aver osservato la morte della megalopoli.

Perché l’hanno fatto? si chiese. Perché?

Nel buio, Lizbeth strinse la mano di Harvey. Ogni tanto, grazie al chiaro di luna, scorgeva il profilo di Glisson, seduto davanti a lei. I movimenti essenziali del Cyborg, la sensazione di potere trasmessa da ogni suo gesto, la turbarono profondamente. La cicatrice dell’operazione subita le prudeva. Voleva grattarsi, ma aveva paura di richiamare l’attenzione degli altri su di sé. Il Servizio dei Corrieri esisteva da lungo tempo, ed era riuscito a ingannare sia i Cyborg che gli Optimati, nella maggior parte dei casi facendo ricorso alla dissimulazione. Lizbeth, impaurita, si rifugiò ancora una volta in essa.

Attraverso il loro codice segreto, Harvey le segnalò, «Ora riesco a leggere Boumour e Igan. Sono diventati Cyborg di recente. Probabilmente sono dotati soltanto di collegamenti provvisorii con i computer nei loro corpi. Stanno ancora cercando di capire il prezzo che hanno dovuto pagare, tentano di reprimere le loro naturali emozioni umane, di contraffarle.»

Lizbeth rifletté su quelle affermazioni, esaminando in base ad esse il comportamento dei due medici. Spesso suo marito leggeva le persone molto meglio di quanto era in grado di fare lei. Di conseguenza, lesse ancora una volta Igan e Boumour.

«Li hai letti?» gli chiese Harvey mediante la pressione delle dita.

«Sì, e hai ragione.»

«Ciò significa che hanno rotto definitivamente con la Centrale. Non potranno più tornare indietro.»

«Questo spiega Seatac,» segnalò lei. Poi iniziò a tremare.

«Significa anche che non possiamo fidarci di loro,» replicò Harvey. Attirò a sé Lizbeth, cercando di consolarla.

L’hovercraft continuò a risalire faticosamente lungo le colline, evitando gli spazi aperti, seguendo antichi sentieri, occasionalmente il letto di qualche torrente. Poco prima dell’alba, svoltò a sinistra lungo una linea frangifiamme, attraversò una macchia di pini e di cedri, seguì uno stretto sentiero con le turbine che sollevavano una grossa nube di polvere e foglie secche. Glisson lo fece fermare dietro un vecchio edificio, con le pareti ricoperte di muschio e piccole finestre coperte da tende. Accanto all’edificio era visibile una breve fila di pseudo-anitre, ricoperte da una patina verdastra che dimostrava come non fossero state attivate da anni: pallide sagome illuminate dall’unico fotoglobo appeso sotto la grondaia.

Le turbine smisero di girare con un lamento. Poi gli occupanti del veicolo udirono un ronzio di macchinari e, guardando avanti a loro, scorsero una tozza e argentea torre di ventilazione svettare oltre la cima degli alberi.

Una porta ad un angolo dell’edificio si aprì. Ne uscì un uomo dalla testa grossa, dalla mascella pronunciata, e con una spalla più bassa dell’altra; si stava soffiando il naso in un fazzoletto rosso. Era vecchio, e il suo viso era una maschera ossequiosa.

Glisson disse, «È il segnale. Significa che qui siamo al sicuro… per ora.» Scese dal veicolo, si avvicinò al vecchio, tossì.

«In questi giorni circolano molti malanni,» disse il vecchio. La voce era tanto segnata dall’età quanto il viso: ansimante, in difficoltà sulle consonanti.

«Lei non è l’unico a soffrirne,» rispose Glisson.

Il vecchio si raddrizzò, l’espressione servile svanì. «Suppongo che abbiate bisogno di un nascondiglio,» disse. «Non so se questo è un posto sicuro. E non so neppure se dovrei accettare di nascondervi.»

«Qui gli ordini li do io,» ribatté Glisson. «E tu ubbidirai.»

Il vecchio studiò Glisson per un istante, poi il suo viso fu distorto da un’espressione di rabbia. «Sei un dannato Cyborg!» esclamò.

«Tieni a freno la lingua,» lo minacciò Glisson con tono piatto. «Abbiamo bisogno di cibo, e di un posto sicuro in cui trascorrere la giornata. Avrò bisogno del tuo aiuto per nascondere il nostro veicolo. Sicuramente sei pratico della zona. E ci fornirai un altro mezzo di trasporto.»

«Meglio fare a pezzi l’hovercraft, e poi seppellirlo,» disse il vecchio con voce acida. «Si è scatenato un vespaio. Ma immagino che questo voi lo sappiate.»

«È così,» gli confermò Glisson. Si girò, fece un cenno verso il veicolo. «Venite, e fate scendere anche Svengaard.»

Gli altri lo raggiunsero. Boumour e Igan sorreggevano Svengaard: sebbene gli fossero state liberate le gambe dai legami, l’uomo si reggeva in piedi a stento. Lizbeth camminava con una cautela che dimostrava come non fosse certa che l’incisione fosse guarita, anche dopo aver preso gli enzimi che avrebbero dovuto accelerarne la cicatrizzazione.

«Staremo qui durante il giorno,» annunciò loro Glisson. «Quest’uomo vi accompagnerà ai vostri alloggi.»

«Ci sono notizie da Seatac?» chiese Igan.

Glisson guardò il vecchio, ordinò, «Rispondi.»

L’uomo fece spallucce. «Un Corriere è passato di qui un paio di ore fa. Ha detto che non ci sono sopravvissuti.»

«Sa qualcosa su un certo Dottor Potter?» gracchiò Svengaard.

Glisson si voltò di scatto e lo fissò.

«Non so,» rispose il vecchio. «Che strada ha preso?»

Igan si schiarì la gola, rivolse un’occhiata rapidissima a Glisson, poi fissò il vecchio. «Potter? Penso che fosse nel gruppo che tentava di fuggire seguendo i condotti dell’energia.»

Il vecchio sbirciò la torre di ventilazione, i cui contorni divenivano ogni istante sempre più distinti, mentre l’alba spuntava sulle montagne. «Nessuno è uscito dai condotti,» rispose. «Per prima cosa, hanno spento gli impianti di ventilazione e hanno irrorato i condotti con quel gas.» Guardò Igan. «E i ventilatori hanno ripreso a funzionare da almeno tre ore.»

Glisson studiò Svengaard, gli chiese, «Perché è così interessato a Potter?»

L’altro rimase in silenzio.

«Mi risponda!» ordinò Glisson.

Svengaard tentò di deglutire. Gli doleva la gola. Si sentiva con le spalle al muro. Le parole di Glisson lo avevano fatto infuriare. Senza alcun preavviso, Svengaard si catapultò in avanti, trascinandosi dietro Igan e Boumour, e sferrò un calcio contro Glisson.

Il Cyborg lo schivò con un movimento rapidissimo, afferrò il piede del prigioniero, strappò Svengaard dalla stretta dei due bioingegneri, ruotò su se stesso, e lo scagliò lontano. Svengaard cadde sulla schiena, strusciò dolorosamente contro il terreno, si fermò. Prima che potesse fare una sola mossa, Glisson si piantò su di lui. Svengaard rimase a terra, singhiozzando.

«Perché è così interessato a Potter?» gli chiese ancora una volta Glisson.

«Vada via, via, via!» singhiozzò Svengaard.

Glisson si raddrizzò, cercò con lo sguardo Igan e Boumour. «Avete qualche spiegazione per il suo comportamento?»

Igan si strinse nelle spalle. «È una semplice reazione emotiva.»

«Forse causata dallo choc,» disse Boumour.

Harvey segnalò a Lizbeth, «Svengaard era in stato di choc, ma il suo comportamento indica che ne sta uscendo. Quei due sono dei dottori! Non riescono neppure a capire questo?»

«Glisson l’ha capito,» gli rispose la moglie. «Li sta semplicemente mettendo alla prova.»

Glisson si voltò e squadrò Harvey. La comprensione che percepì negli occhi del Cyborg provocò nell’uomo una fitta di paura.

«Sii molto prudente,» gli segnalò Lizbeth. «Sospetta di noi.»

«Portate dentro Svengaard,» ordinò Glisson.

Svengaard sollevò lo sguardo verso l’autista. Glisson, lo chiamavano i Durant. Ma il vecchio aveva affermato che era un Cyborg. Era possibile? Quei semi-uomini erano resuscitati per sfidare ancora una volta gli Optimati? Era quella la ragione della sterilizzazione di Seatac?

Boumour e Igan lo aiutarono a ralzarsi, controllarono i legacci che gli bloccavano le mani. «Cerchi di non commettere altre sciocchezze,» lo avvertì Boumour.

Anche loro sono come Glisson? si chiese Svengaard. Anche loro sono metà uomo e metà macchina? E i Durant?

Svengaard sapeva di essere sul punto di scoppiare a piangere. Isteria, si rese conto. Provocata dallo choc. Poi, assalito dal senso di colpa, iniziò a riflettere sulla sua reazione. Perché la morte di Potter mi ha colpito più di quella di un’intera Megalopoli, di quella di mia moglie e dei miei amici? Cosa rappresentava Potter per me?

Boumour e Igan, un po’ trascinandolo di peso, un po’ sorreggendolo, lo fecero entrare nell’edificio. Percorsero uno stretto corridoio, entrarono in locale vasto e poco illuminato, il cui soffitto era altissimo e fatto di travi nude. Lo adagiarono su di un polveroso divano di plastica, i cui meccanismi idraulici si adattarono con riluttanza al contorno del suo corpo. La poca luce proveniva da due fotoglobi appesi alle travi del soffitto e illuminava i pochi mobili sparsi nel locale, e mucchi di strani oggetti tutti coperti da una specie di telo lucido e scintilante. Si accorse che sulla sua sinistra c’era un tavolo di legno. Legno! Più avanti giacevano una branda, e un antico secrétaire con un cassetto mancante, sedie di vari stili. Un caminetto macchiato di fuliggine, da cui spuntava una sbarra di ferro simile a una forca, occupava metà della parete di fronte a lui. L’intera stanza puzzava di umidità e putridume. Il pavimento scricchiolava sotto i passi dei presenti. Era anch’esso in legno!

Svengaard alzò lo sguardo verso le finestrelle da cui filtrava la luce grigia dell’alba, ogni istante sempre più brillante. Ma Svengaard sapeva che la luce del sole, anche al suo massimo, non sarebbe riuscita a scacciare l’oscurità da quella stanza. L’atmosfera era tetra; gli faceva pensare a innumerevoli persone morte, dimenticate. Le lacrime iniziarono a scorrergli sulle guance.

Che cosa mi sta succedendo? si chiese.

Udì il suono delle turbine dell’hovercraft che venivano attivate. Sentì che il veicolo si sollevava dal suolo, iniziava a muoversi… si allontanava. Harvey e Lizbeth entrarono nella stanza.

La donna guardò prima Svengaard, poi Bourhour e Igan, che si erano seduti sulla branda. Con la sua andatura cauta, si avvicinò a Svengaard, gli toccò una spalla. Notò le lacrime, segno d’umanità, e desiderò che fosse lui il dottore che l’avrebbe assistita. Forse esisteva il modo. Decise che l’avrebbe chiesto a Harvey.

«La prego, si fidi di noi,» disse a Svengaard. «Sono stati loro ad aver ucciso sua moglie e i suoi amici, non noi.»

Svengaard si ritrasse dal tocco.

Come si permette di compatirmi? pensò. Ma la donna aveva toccato qualche corda del suo animo. Sentiva di star andando in pezzi.

Un silenzio oppressivo scese sulla stanza.

Harvey si avvicinò e guidò la moglie verso una sedia.

«È di legno,» disse Lizbeth con voce piena di meraviglia, toccandone la superficie. Poi disse, «Harvey, sto morendo di fame.»

«Ci porteranno del cibo non appena avranno finito di occultare il veicolo,» rispose lui.

Lizbeth gli strinse la mano, e Svengaard osservò affascinato i movimenti nervosi delle sue dita.

In quel momento ritornarono Glisson e il vecchio, chiudendosi con fragore la porta alle spalle. L’edificio scricchiolò sotto i loro passi.

«D’ora in poi, useremo un veicolo della forestale,» annunciò Glisson. «È molto più sicuro. Ma c’è una cosa che dovreste sapere.» Il Cyborg fece scorrere il suo sguardo gelido sul volto dei presenti. «Sul tetto del rimorchio che abbiamo abbandonato la notte scorsa c’era un rivelatore.»

«Un cosa?» chiese Lizbeth.

«Un dispositivo per seguire le nostre tracce,» spiegò Glisson.

«Ohh!» Lizbeth si coprì la bocca con una mano per la paura.

«Non so da quanto vicino ci stessero seguendo,» continuò Glisson. «Sono stato modificato per portare a termine questa missione, e ho dovuto rinunciare ad alcuni miei strumenti. Può anche darsi che sappiano che siamo qui.»

Harvey scosse la testa. «Ma perché…»

«Perché non hanno tentato di catturarci?» concluse Glisson. «È ovvio: sperano che li condurremo al centro nevralgico della nostra organizzazione.» Un qualche sentimento molto simile alla rabbia turbò i lineamenti del Cyborg. «Ma può anche darsi che riusciremo a far loro una bella sorpresa.»

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