Per stamattina penso che abbiano programmato un acquazzone, rimuginò il Dottor Thei Svengaard. La pioggia rende i genitori così nervosi… per non parlare del suo effetto sull’umore dei dottori.
Una folata di aria invernale, carica di umidità, tamburellò contro la finestra alle spalle della sua scrivania. Svengaard si alzò e si chiese se attivare il silenziatore di cui erano dotate le finestre, ma i Durant — i genitori di quella mattina — avrebbero potuto allarmarsi ancora di più per il silenzio innaturale.
Si avvicinò alla finestra, guardò in basso, verso la folla di pedoni — gente dei turni di mattina che si recava al lavoro nella megalopoli, esausti lavoratori dei turni della notte che si avviavano verso un sonno molto simile alla morte. Nonostante la loro esistenza da trogloditi, l’andirivieni di tutta quella gente comunicava un senso di potere, di attività. Svengaard sapeva che la maggior parte di essi erano Steri senza figli… sterili, sterili. Andavano e venivano, innumerevoli, ma tutti contraddistinti da un numero.
Aveva lasciato acceso l’intercom collegato alla segreteria, e udiva l’infermiera, Mrs. Washington, che sottoponeva i Durant ad un fuoco di fila di domande e di moduli da riempire.
Routine.
Era quella la parola chiave. Tutto doveva sembrare una procedura normale, quasi casuale. I Durant e gli altri tanto fortunati da essere stati scelti per diventare genitori non avrebbero mai dovuto sospettare la verità.
Il Dottor Svengaard distolse la mente da simili pensieri, ricordando a se stesso che il senso di colpa non era un’emozione ammissibile per un membro della professione medica. Il senso di colpa conduceva inevitabilmente al tradimento… e il tradimento poteva avere conseguenze terribili. Gli Optimati erano estremamente suscettibili nei confronti di tutto quel che riguardava il programma di riproduzione.
Quest’ultima riflessione, venata com’era da un’ombra di critica, per un istante inquietò Svengaard. Deglutì e concentrò la sua mente sulla definizione che la Gente aveva coniato per gli Optimati: Essi sono i potenti che ci amano e si prendono cura di noi.
Con un sospiro, Svengaard si allontanò dalla finestra, girò intorno alla scrivania e superò la porta che conduceva alla sala dei preparativi, alle spalle della quale si trovava il laboratorio. Nella sala, si fermò a controllare allo specchio il proprio aspetto: capelli grigi, occhi scuri, mento volitivo, fronte alta e labbra severe sotto un naso aquilino. Era sempre stato piuttosto orgoglioso dell’aspetto gelido e distaccato conferitogli dal suo schema DNA, ma ormai aveva accettato la necessità di addolcirlo in determinate circostanze. Ammorbidi la piega della bocca e i suoi lineamenti assunsero un’espressione di interesse pieno di sollecitudine.
Sì, per i Durant quell’espressione sarebbe andata benissimo… se il loro profilo emotivo era stato elaborato con accuratezza.
L’infermiera Washington aveva appena introdotto i Durant nel laboratorio, quando vi entrò anche il Dottor Svengaard, che si era servito dell’ingresso riservato esclusivamente a lui. La pioggia batteva e scrosciava sul lucernario. Un clima simile improvvisamente gli sembrò il più adatto all’atmosfera della stanza: vetro lavato alla perfezione, acciaio, plasmeld e piastrelle… tutto così impersonale. Pioveva su tutti… e tutti gli esseri umani dovevano passare per una stanza come quella… perfino gli Optimati.
Svengaard provò un istintivo moto d’antipatia per i genitori. Harvey Durant era un giovane snello, alto più di un metro e ottanta, con capelli biondi e ricci e occhi di un azzurro chiaro. Il viso era apparentemente franco, innocente. Lizbeth, sua moglie, altrettanto giovane, raggiungeva quasi l’altezza del marito, ed era egualmente bionda e con gli occhi azzurri. La sua figura suggeriva che la donna possedeva la robustezza di una valchiria. Dal suo collo, appesa ad una catenina d’argento, pendeva uno di quegli onnipresenti talismani della Gente: una figuretta in ottone che raffigurava Calapine, l’Optimate di sesso femminile. L’assurdità di quel culto della fecondità, e delle sfumature religiose che vi erano sottintese, non sfuggì a Svengaard. Represse a malapena un risolino di commiserazione.
In ogni caso, i Durant erano genitori, e in perfetta salute: testimonianza vivente dell’abilità del bioingegnere che aveva creato i loro genotipi. Per un istante, Svengaard permise a se stesso di provare un senso d’orgoglio per la professione che esercitava. Non erano molti coloro a cui era permesso entrare nella ristretta cerchia di bioingegneri che, operando a livello subcellulare, mantenevano la variabilità umana entro limiti definiti.
L’infermiera Washington si fermò sulla soglia del laboratorio, alle spalle dei Durant, annunciò, «Dottor Svengaard, Harvey e Lizbeth Durant,» poi andò via, senza attendere una risposta.
Il tempismo e la discrezione dell’infermiera erano come sempre perfetti.
«I Durant, ma che piacere,» esordì Svengaard. «Spero che la mia infermiera non vi abbia annoiato oltremisura con tutti quei moduli e quelle domande. Ma immagino che, quando avete chiesto di assistere, foste coscienti di dovervi sottoporre a questa noiosa procedura.»
«Comprendiamo benissimo,» lo rassicurò Harvey Durant. E pensò, Chiesto di assistere, sicuro! Questo tipo pensa davvero che i suoi vecchi trucchi funzioneranno con noi?
Il Dottor Svengaard notò il tono caldo e energico, baritonale, della voce di Durant. Ciò lo fece innervosire, aumentò l’antipatia che aveva immediatamente provato nei suoi confronti.
«Non vogliamo assolutamente sottrarle più tempo di quello strettamente necessario,» dichiarò Lizbeth Durant. Strinse la mano del marito, e servendosi del loro codice segreto, basato su differenti pressioni delle dita, gli chiese: «Hai capito anche tu che gli siamo antipatici?»
Harvey, servendosi a sua volta del codice, gli rispose, «È uno Steri, per giunta presuntuoso; è così fiero della sua posizione che quasi non si accorge di ciò che lo circonda.»
Il tono pratico della donna diede fastidio al Dottor Svengaard. La Durant stava già guardandosi attorno: sguardi rapidi, indagatori. Devo essere io ad avere il controllo della situazione, pensò Svengaard. Si avvicinò ai due, strinse loro la mano. I palmi dei Durant erano madidi di sudore.
Sono nervosi. Perfetto.
Il rumore di una pompa del sistema di supporto vitale, che proveniva dalla sua sinistra, gli parve in quel momento molto forte, quasi rassicurante. Le pompe erano il metodo migliore per innervosire i genitori. Del resto, era per quello che facevano invariabilmente tanto rumore. Si girò verso la pompa, e indicò una vasca di cristallo sigillata e sospesa su di un campo di forza quasi al centro del laboratorio. Il rumore della pompa proveniva da quella vasca.
«Eccolo lì,» annunciò.
Lizbeth fissò la superficie traslucida, lattiginosa, della vasca. Si umettò le labbra con la lingua. «È là dentro?»
«Sì, perfettamente al sicuro,» la rassicurò Svengaard.
Nutriva ancora la fievole speranza che i Durant potessero decidere di tornarsene a casa, e di attendere lì il risultato dell’operazione.
Harvey prese la mano della moglie, la accarezzò. «Ci è parso di capire che lei ha chiamato uno specialista,» disse.
«Il Dottor Potter,» rispose Svengaard. «È uno dei medici della Centrale.» Lanciò una rapida occhiata ai movimenti nervosi delle mani dei Durant, notando gli onnipresenti tatuaggi sull’indice che indicavano il genotipo. Pensò che adesso avrebbero potuto aggiungere la desideratissima "F" che conferiva il rango di individui fertili, e represse un improvviso moto di gelosia.
«Sì, il Dottor Potter,» ripeté Harvey. Usando il codice, segnalò a Lizbeth, «Hai notato il tono con cui ha parlato della Centrale?»
«E come avrei potuto non farlo?» gli replicò lei.
La Centrale, pensò Lizbeth. Quel luogo evocava nella sua mente gli onnipotenti Optimati, ma anche i Cyborg che in segreto si opponevano ad essi; la cosa la riempì di profondo disagio. In quel momento non poteva permettersi di pensare a nulla che non fosse suo figlio.
«Sappiamo che Potter è il migliore nel suo campo,» disse Lizbeth, «e non vogliamo che lei pensi che ci siamo lasciati prendere da sciocche paure irrazionali…»
«…ma vogliamo assistere,» concluse Harvey. Poi pensò, Questo medico altezzoso farà meglio a rendersi conto che conosciamo bene i nostri diritti.
«Capisco,» commentò il Dr. Svengaard. Al diavolo questi due imbecilli! imprecò in mente sua. Ma poi, continuando ad usare un tono di voce neutro e rassicurante, disse, «La loro preoccupazione è degna di nota. Ammiro i loro sentimenti. Tuttavia, le conseguenze…»
Lasciò la frase in sospeso, ricordando loro che anche lui godeva di alcuni diritti legali: era autorizzato ad effettuare l’intervento con o senza il loro consenso e non poteva essere ritenuto responsabile di traumi emotivi subiti dai genitori. La Legge Pubblica 10927 parlava chiaro. I genitori potevano invocarla per ottenere il diritto di assistere, ma il chirurgo avrebbe comunque eseguito l’intervento a sua completa discrezione. Il futuro della razza umana era stato rigidamente pianificato, il che escludeva l’eventuale nascita di mostri o devianti genetici.
Harvey annuì rapidamente e con enfasi. Strinse forte la mano della moglie. La sua mente fu inondata da frammenti di terribili storie sussurrate dalla Gente e di miti ufficiali. Vedeva Svengaard in parte alla luce di quelle storie, in parte attraverso la letteratura proibita distribuita di nascosto, e di malavoglia, dai Cyborg all’Associazione Clandestina dei Genitori — attraverso le opere di Stedman e Merck, Shakespeare e Huxley. Le sue conoscenze del passato erano tanto limitate che si rendeva conto di essere incapace di liberarsi completamente dalla superstizione.
Anche Lizbeth annuì, ma più lentamente. Sapeva fin troppo bene qual era il loro scopo principale, ma quello nella vasca rimaneva pur sempre suo figlio.
«È sicuro,» chiese, lanciando di proposito un’esca a Svengaard, «che non soffrirà?»
Quella domanda assurda, scaturita dalla necessaria ignoranza in cui veniva mantenuta la Gente, fece infuriare il Dottor Svengaard. Sapeva di dover troncare il più presto possibile quella conversazione. Ciò che avrebbe potuto dire continuava ad interferire con ciò che doveva dir loro.
«L’ovulo fertilizzato non possiede terminazioni nervose,» replicò seccamente. «Ha meno di tre ore di vita, e la sua crescita viene ritardata mediante inalazione controllata di nitrato. Nel suo caso, parlare di sofferenza è semplicemente assurdo.»
Sapeva che per quei due i termini tecnici non avevano alcun significato, tranne quello di sottolineare ancor più l’enorme distanza che correva tra dei semplici genitori e un bioingegnere submolecolare.
«Immagino di aver detto una vera sciocchezza,» si schermì Lizbeth. «L’ov… è così semplice, non è ancora un essere umano.» Ma con le dita segnalò a Harvey, «Che sciocco è costui! Con lui, è come leggere i pensieri di un bambino.»
La pioggia ballò una tarantella sul lucernario. Svengaard attese che finisse, poi ribatté: «Ah, ora cerchiamo di non travisare.» Pensò che non poteva esserci momento più adatto per dare una rinfrescata alla loro scarsissime nozioni sull’argomento. «Il vostro embrione può anche avere meno di tre ore di vita, ma contiene già ogni enzima base di cui avrà bisogno non appena si sarà sviluppato appieno. In effetti si tratta di un organismo enormemente complicato.»
Harvey lo fissò con una finta espressione di soggezione di fronte alla mente eccelsa di un uomo che riusciva a comprendere misteri quali la formazione e il modellamento della vita.
Lizbeth lanciò una rapida occhiata alla vasca.
Due giorni prima, alcuni gameti selezionati, suoi e di Harvey, immersi in una stasi artificiale, erano stati uniti, e lasciati liberi di dar via ad una mitosi limitata. Quest’ultimo processo aveva creato un embrione fertile — cosa rara in un mondo in cui soltanto pochi, accuratamente selezionati, non erano sottoposti al gas contraccettivo, dunque liberi di procreare, e tra quest’ultimi ancor meno individui producevano embrioni fertili. Non era ritenuto necessario che Lizbeth comprendesse il processo nei suoi minimi particolari, e lei aveva sempre dovuto nascondere il fatto che fosse pienamente in grado di farlo. Essi — gli Optimati della Centrale — eliminavano spietatamente qualsiasi minaccia, per quanto piccola, alla loro supremazia. E per loro, la minaccia peggiore era che la conoscenza cadesse nelle mani sbagliate.
«Adesso… quant’è… grande?» chiese Lizbeth.
«Ha un diametro di un decimo di millimetro,» rispose Svengaard. Concesse ai suoi lineamenti di rilassarsi in un sorriso. «È una morula e, in epoca primitiva, non avrebbe ancora compiuto il tragitto verso l’utero. Questo è il momento in cui è più sensibile al trattamento. Dobbiamo operare su di esso adesso, prima della formazione del trofoblasto.»
I Durant annuirono, pieni di soggezione.
Il Dottor Svengaard si crogiolò nel loro rispetto. Sapeva che le loro menti annaspavano, alle prese con definizioni che ricordavano a malapena, frutto della limitata istruzione che era stato permesso loro di conseguire. Le schede con i loro dati rivelavano che la donna era la bibliotecaria di un asilo, mentre l’uomo era un istruttore di giovani — nessuno dei due aveva avuto bisogno di un’istruzione particolarmente approfondita.
Harvey toccò la vasca, ritrasse di scatto la mano. Il cristallo della vasca era caldo, percorso da leggere vibrazioni. E c’era il continuo thrap-thrap-thrap della pompa. Si rese conto che quel rumore fastidioso era provocato di proposito, lesse e interpretò, come gli era stato insegnato dall’Associazione, il comportamento di Svengaard, intuendo quanto fosse duplice, sotto l’apparente cortesia. Diede un’occhiata al laboratorio — tubi di vetro, armadietti grigi, angoli e curve di scintillante plasmeld, onnipresenti quadranti di apparecchiature, simili a occhi di creature che lo guatassero. Quel luogo odorava di disinfettante, e di altre sostanze chimiche più esoteriche. Nel laboratorio, tutto aveva un duplice scopo: essere perfettamente funzionale e instillare timore nei non iniziati.
Lizbeth si concentrò sull’unico oggetto di uso comune, di cui conosceva la funzione: un lavabo in porcellana smaltata dai rubinetti splendenti. Il lavabo era incastrato tra due misteriose costruzioni formate da spirali di vetro e blocchi di plasmeld grigio opaco.
Il lavabo turbò Lizbeth. Serviva a disfarsi della spazzatura. I rifiuti venivano macinati, prima di essere inviati nel sistema di recupero. Qualsiasi cosa, purché piccola, poteva essere gettata in un lavabo, per poi perdersi.
Per sempre.
Qualsiasi cosa.
«Non riuscirà a convincermi a non assistere,» dichiarò Lizbeth.
Dannazione! imprecò mentalmente Svengaard. C’era un tremito nella sua voce. Quella brevissima esitazione, quel tremito l’avevano tradita, contrastavano con l’atteggiamento risoluto della donna. Durante l’intervento di ingegneria genetica che l’aveva plasmata, il chirurgo aveva enfatizzato troppo il suo istinto materno… e non importava che, sotto ogni altro aspetto, avesse operato brillantemente.
«Ci preoccupiamo di voi quanto del bambino,» replicò lui. «Il trauma…»
«La legge ce ne dà il diritto,» intervenne Harvey. Poi segnalò a Lizbeth, «Finora la faccenda sta andando più o meno come avevamo previsto.»
Questo stupido conosce la legge, pensò amaramente Svengaard. Sospirò. Le statistiche dimostravano che soltanto una coppia di genitori su centomila insisteva per assistere, nonostante le pressioni più o meno occulte per farla recedere da quella decisione. Tuttavia le statistiche erano una cosa, la realtà era tutta un’altra faccenda. Svengaard si era accorto delle occhiate irate che gli scoccava Harvey. Evidentemente il corredo genetico di costui conteneva un forte istinto di protezione — troppo forte, per la verità. Durant non sopportava di veder maltrattata la sua compagna. Senza dubbio era un marito modello e non partecipava alle orge degli Steri — era un uomo fuori dal comune.
Uno sciocco.
«La legge,» ricordò loro Svengaard con tono grondante rimprovero, «richiede anche che io informi i genitori sui pericoli di un trauma psicologico. Non avevo alcuna intenzione di dissuadervi dall’assistere.»
«Noi lo vogliamo, fermamente,» ribatté Lizbeth.
Harvey provò un moto d’ammirazione nei confronti della moglie. Lizbeth stava recitando la sua parte alla perfezione; e quel tremito nella voce era stato così convincente.
«Non riuscirei a sopportare l’attesa in nessun altro modo,» spiegò Lizbeth. «Non sapere se…»
Svengaard si chiese se fosse il caso di insistere — magari facendo leva sul loro timore reverenziale, oppure esercitando la propria autorità. Uno sguardo alle ampie spalle di Harvey e agli occhi supplichevoli di Lizbeth fu sufficiente a dissuaderlo: i due sarebbero rimasti ad ogni costo.
«Molto bene,» si arrese con un sospiro.
«Guarderemo da qui?» si informò Harvey.
Svengaard fu terribilmente irritato da quella domanda. «No di certo!» Quei due idioti erano davvero dei primitivi. Ma poi ricordò che una simile ignoranza era causata dal profondo mistero, accuratamente coltivato, in cui era avvolta l’ingegneria genetica. Con voce più calma, spiegò, «Una sala privata con un sistema video a circuito chiuso sarà a vostra disposizione. La mia infermiera vi accompagnerà lì.»
L’infermiera Washington diede prova della sua professionalità comparendo proprio in quell’istante sulla soglia della sala. Ovviamente aveva ascoltato tutta la conversazione. Un’infermiera davvero brava non lasciava mai al caso simili faccende.
«Qui dentro non c’è altro da vedere?» chiese Lizbeth.
Svengaard percepì il tono supplichevole della donna, notò il modo in cui lei evitava di posare lo sguardo sulla vasca. Tutto il proprio disprezzo, represso fino a quel momento, esplose in un commento sferzante, «Cos’altro vorrebbe vedere, Ms. Durant? Sicuramente non si sarà aspettata di vedere la morula.»
Harvey tirò la moglie per un braccio. «Grazie, Dottore.»
Ancora una volta gli occhi della donna scrutarono la sala, sempre evitando la vasca. «Sì, grazie per averci mostrato… questa stanza. Mi rincuora enormemente vedere quanto siete… per qualunque emergenza.» I suoi occhi indugiarono sul lavabo.
«Ma si figuri,» rispose il Dottor Svengaard. «L’infermiera Washington vi fornirà la lista dei nomi permessi. Potreste occupare parte del tempo scegliendo un nome per vostro figlio, se non l’avete già fatto.» Rivolse un cenno all’infermiera. «Accompagni i Durant nella Sala Cinque, per favore.»
L’infermiera disse, «Prego, se hanno la cortesia di seguirmi?» Si voltò con quell’aria di impazienza indaffarata che Svengaard era giunto a credere tutte le infermiere acquistassero una volta ricevuti i loro diplomi. I Durant vennero risucchiati nella sua scia.
Svengaard tornò a voltarsi verso la vasca.
C’era tanto da fare — Potter, lo specialista della Centrale, sarebbe arrivato entro un’ora… e non sarebbe stato troppo contento di avere degli spettatori. La gente comune capiva così poco gli obblighi che l’esercizio della medicina implicava. Preparare psicologicamente i genitori sottraeva tempo che sarebbe stato meglio utilizzare per faccende più importanti… e sicuramente complicava i problemi posti dalla sicurezza. Svengaard pensò alle cinque direttive, da distruggere dopo essere state lette, inviategli da Max Allgood, il capo del Servizio di Sicurezza della Centrale, durante l’ultimo mese. Era un avvenimento inquietante: faceva sospettare che la Sicurezza avesse subodorato qualche nuovo pericolo.
Ma la Centrale insisteva sulla necessità di socializzare con i genitori. Svengaard sapeva che gli Optimati dovevano avere buone ragioni per aver autorizzato una simile politica. La maggior parte delle loro decisioni era perfettamente sensata. Svengaard sapeva che qualche volta cadeva preda della sensazione di essere un orfano, una creatura priva di passato. Ma per scuotersi da quello stato emotivo gli bastava un momento di riflessione: «Essi sono i potenti che ci amano e si prendono cura di noi.» Loro tenevano in pugno il mondo, avevano pianificato il futuro — un posto per ogni uomo e ogni uomo al suo posto. Alcuni dei vecchi sogni — i viaggi spaziali, le ricerche filosofiche, la colonizzazione dei mari — erano stati temporaneamente accantonati, messi da parte per perseguire il raggiungimento di scopi più importanti. Ma le ricerche in quei campi sarebbero riprese, il giorno in cui loro avrebbero risolto le incognite dell’ingegneria submolecolare.
Nel frattempo, c’era molto da fare per gli individui dotati di buona volontà: nutrire la popolazione di lavoratori, sopprimere i devianti, studiare sempre più a fondo il genoma della razza umana, da cui erano nati gli stessi Optimati.
Svengaard avvicinò il microscopio a mesoni alla vasca in cui era ospitato l’embrione dei Durant, lo regolò su di una amplificazione ridotta, per minimizzare l’interferenza postulata da Heisenberg. Un’altra occhiata non avrebbe danneggiato l’embrione. Magari sarebbe riuscito a localizzare la cellula pilota, facilitando il compito di Potter. Mentre si chinava verso l’oculare, Svengaard si rendeva perfettamente conto di star razionalizzando un proprio impulso. In realtà, non aveva resistito al desiderio di osservare ancora una volta quella morula che aveva il potenziale, che poteva essere plasmata in un Optimate. Simili meraviglie capitavano così di rado.
Accese il microscopio e lo mise a fuoco.
Gli sfuggì un sospiro. «Ahhhh…»
La morula, a bassa amplificazione, appariva estremamente passiva; non pulsava, poiché era immersa nella stasi… eppure era così bella nel suo sonno parziale… così piccola… ma tuttavia teatro di tante antiche battaglie.
Svengaard posò la mano sui controlli dell’ingrandimento, esitò. Un ingrandimento maggiore comportava numerosi pericoli, ma Potter avrebbe potuto senza dubbio porre rimedio alle tracce di interferenza mesonica. E poi la tentazione di guardare al massimo ingrandimento era troppo forte.
Raddoppiò l’ingrandimento.
Lo raddoppiò ancora una volta.
I successivi ingrandimenti diminuirono sempre più l’impressione che la morula fosse in stasi. Svengaard registrò dei movimenti, e nelle zone non perfettamente messe a fuoco si intuivano dei lampi, simili a pesci che guizzassero nell’acqua. Dallo sfondo emerse la tripla spirale di nucleotidi che lo aveva spinto a chiamare Potter. L’embrione era quasi un Optimate. Possedeva quasi quella magnifica perfezione di forme e mente che poteva accettare l’equilibrio indefinito della Vita, raggiunto mediante la somministrazione, estremamente accurata e delicatissima, di enzimi.
Svengaard provò una punta di tristezza. Quegli stessi enzimi, anche se lo mantenevano in vita, lo stavano lentamente uccidendo. Era il destino di tutti gli esseri umani. Potevano vivere duecento anni, qualche volta perfino più a lungo… ma l’equilibrio si spezzava per tutti, tranne che per gli Optimati. Loro erano perfetti, limitati soltanto dalla sterilità… ma quello era il fato di molti umani, e comunque non sottraeva nulla alla loro esistenza eterna.
Poiché anche lui era sterile, Svengaard aveva l’impressione di avere qualcosa in comune con gli Ottimati. Loro avrebbero risolto anche quel problema… un giorno o l’altro.
Si concentrò sulla morula. A quell’ingrandimento, notò un lieve movimento provocato da un aminoacido contenente solfo. Con un moto di sorpresa, Svengaard lo riconobbe: era isovaltina, un indicatore genetico che indicava la presenza di un mixodema latente, foriero di una qualche potenziale deficienza tiroidea. Era un difetto inquietante, in quella morula tanto vicina alla perfezione. Avrebbe dovuto avvertire Potter.
Poi si dedicò all’esame del mitocondrio. Seguì la membrana invaginata fino alle creste appiattite, simili a sacchi, ritornò lungo la seconda membrana esterna, mise a fuoco il compartimento idrofilo esterno. Sì… era possibile ovviare all’inconveniente dell’isovaltina. Quella morula poteva ancora raggiungere la perfezione.
Un movimento guizzante apparve sull’orlo del campo di visione del microscopio.
Svengaard si irrigidì, pensò, Mio Dio, no!
Rimase immobile, con l’occhio incollato all’oculare, mentre il fenomeno che si era verificato soltanto otto volte nella storia della manipolazione genetica avveniva sotto il suo sguardo.
Una linea sottile, simile ad un tentacolo, penetrò nella struttura cellulare, provenendo da sinistra. Si snodò attraverso un ammasso di spirali alfa, trovò le estremità ripiegate delle catene di polipeptidi in una molecola di miosina, si contorse e si dissolse.
Al suo posto comparve una nuova struttura, dal diametro di circa quattro Angstrom e lunga mille Angstrom: protamina spermatica ricca di arginina. Tutt’intorno ad essa, le proteine del citoplasma mutavano, lottavano contro la stasi, e stavano riorganizzandosi in nuove combinazioni. Svengaard, basandosi sulle descrizioni degli altri otto casi, sapeva cosa stava succedendo. Il sistema di scambio ADP-ATP stava diventando più complesso — più "resistente". Ciò avrebbe reso il compito del chirurgo infinitamente più complesso.
Potter sarà furioso, pensò Svengaard.
Spense il microscopio e si raddrizzò. Si asciugò dal sudore i palmi delle mani e controllò l’orologio del laboratorio. Erano trascorsi meno di due minuti. I Durant non erano neppure arrivati nella sala privata, ma in quei due minuti una qualche forma di energia… una forza esterna aveva modificato l’embrione, apparentemente con uno scopo ben preciso.
È questo che ha messo in stato d’allerta la Sicurezza… e gli Optimati? si chiese Svengaard.
Aveva sentito descrivere quel fenomeno, aveva letto i rapporti… ma vederlo con i propri occhi! Vedere quel mutamento… così sicuro, così deciso…
Scosse il capo. No! Non era voluto! Si è trattato di un fenomeno casuale, nient’altro.
Ma quella visione lo ossessionava.
Rispetto a ciò che ho appena visto, quanto sono goffi i miei sforzi! Dovrò avvertire Potter. Toccherà a lui riportare alla normalità quella catena alterata… ammesso che ci riesca, visto che adesso è più resistente.
Turbato, per nulla convinto di aver assistito ad un evento casuale, Svengaard iniziò a effettuare gli ultimi controlli sulle apparecchiature di laboratorio. Controllò la dotazione di enzimi, e il collegamento con il computer che ne controllava il dosaggio: citocromo b5 ed emoproteina P-450 in abbondanza, una buona scorta di ubiquinone, sulfidrile, arseniato, azide e oligomicina, una quantità sufficiente di fosfoistidina. Passò in rassegna l’intera fila: due tipi di agenti acilati, 4-dinitrofenolo, e i gruppi di isoxazolidone-3 con riduzione NADH.
Poi si occupò dell’attrezzatura, controllò il micromeccanismo del bisturi a mesoni, i dati che apparivano sui quadranti della vasca e del meccanismo di stasi.
Tutto in ordine.
Doveva esserlo. L’embrione dei Durant, quella meraviglia dall’incredibile potenziale, adesso era resistente: un’incognita genetica… se Potter fosse riuscito dove gli altri avevano fallito.