PARTE V Il re

15. E la preda è l’uomo

Nelle alte torri tremano di paura

Poiché il giustiziere dei maghi si aggira nella notte.

Bendoglaer Syndrath, Bardo di Barrowhill, dalla ballata Morte a tutti i maghi.

Anno della Moneta Piegata

Elesias fu un mese umido quell’anno. Nella quarta notte di tempesta consecutiva, Myrjala ed Elminster furono lieti di sottrarsi alla pioggia in una taverna di una fangosa strada secondaria di Launtok.

«Quello è l’ultimo degli inviati di Athalantar messi in fuga. I loro padroni ci avranno ormai certamente notati», affermò la donna mostrando soddisfazione, mentre prendevano posto a un tavolo d’angolo con i loro boccali.

«Ai maghi, dunque», ribatté El, sfregandosi le mani pensierosamente. Poi si protese. «Mi hai spesso messo in guardia dall’attaccare con due sfere di fuoco ardenti in entrambe le mani… pertanto perché non mettiamo in giro qualche voce di congiure e rivolte, non ci nascondiamo, e lasciamo che si ammazzino fra loro per un po’, cercando di vedere chi sederà nella torre magica migliore?»

Myrjala scosse il capo. «Mentre attendiamo, distruggeranno Athalantar insieme a loro stessi». Sorseggiò la sua birra, trasalì, e diede un’occhiataccia al boccale. «Inoltre, ciò funzionerebbe solo se distruggessimo gli arcimaghi più potenti, i capi dei signori maghi… finora abbiamo solo sconfitto i pagliacci e gli stupidi più avventati».

«Pertanto cosa facciamo?», domandò Elminster, bevendo un lungo sorso dal boccale.

Myrjala inarcò un sopracciglio aggraziato. «Questa è la tua vendetta».

Elminster abbassò il boccale e si leccò la schiuma dal labbro superiore. Myrjala sembrava divertita, ma il suo compagno era assorto nei suoi pensieri.

«Non avrei mai pensato di sentirmi così», affermò lentamente, «ma dopo Ilhundyl e quei maghi schiavisti… ne ho fin troppo della vendetta». Sollevò lo sguardo. «Quindi perché continuare? Attaccare Athalgard, cercando di uccidere tutti i signori maghi che riusciamo prima che possano accorgersi di un nemico incombente?»

Myrjala scosse le spalle ed esclamò rivolta al boccale: «Alcuni ci provano gusto a distruggere le cose. Per la maggior parte invece il piacere svanisce rapidamente. Gli dei non tollerano a lungo i primi; se un mago se ne va in giro a sferrare incantesimi, alla fine si imbatterà in qualcuno che fa altrettanto, con qualche magia in più nella manica».

Alzò gli occhi per guardare Elminster. «Se intendi tentare un attacco massiccio con sfere di fuoco, tieni in considerazione quanta campagna distruggerai… tutto parte di Athalantar, il regno per cui stai lottando. Non è detto che ti sfidino uno dopo l’altro, attendendo pazientemente ognuno il proprio turno per morire».

Elminster sospirò. «Allora faremo tutto con calma e di soppiatto». Sorseggiò la birra. «Dimmi dunque come pensi che dovremmo agire. Sei tu la più anziana dei due; io farò come dici».

La donna scosse il capo. «È ora che pensi con la tua testa, El; non guardarmi più come tua insegnante, ma come un’alleata nella lotta».

El vide la sua espressione grave, annuì lentamente, e affermò: «Hai ragione, come sempre. Bene… se vogliamo evitare battaglie massicce, dobbiamo attirare i maghi in situazioni in cui poterli sfidare singolarmente, senza che abbiano la possibilità di chiedere aiuto ai colleghi. Dobbiamo preparare trappole e se li attacchiamo da soli, prima o poi finiremo senz’altro in un contesto magico enorme. Se entrambi, noi e i maghi, ci lanceremo fiamme a vicenda, ci sarà sicuramente un incendio».

Myrjala annuì. «E quindi?» domandò tranquillamente.

«Avremo bisogno di alleati», rispose El, «ma chi?» Si accigliò e fissò il tavolo in silenzio.

Myrjala sollevò di nuovo il boccale e osservò pensierosa il proprio volto riflesso. «Più di una volta mi hai detto che desideravi una giustizia adeguata», affermò cautamente. «Che cosa ci sarebbe di più giusto che chiedere aiuto agli elfi della Grande Foresta, e ai ladri di Hastarl, e a Helm con i suoi cavalieri? Il regno che vuoi liberare appartiene anche a loro».

Il principe iniziò a scuotere il capo, poi si fermò e socchiuse gli occhi. «Hai ragione», convenne a bassa voce. «Come faccio a essere sempre tanto cieco?»

«Mancanza di attenzione; te l’ho già detto», affermò Myrjala vivacemente, e quando El la guardò irritato, la maga sogghignò e allungò una mano per carezzargli delicatamente la sua. Dopo un istante, El ricambiò il sorriso.

«Dovrò viaggiare travestito e parlare loro», affermò lentamente, riflettendo, «perché non ti conoscono». Bevve un altro po’ di birra. «E poiché un signore mago potrebbe notarmi e non è mai bene rivelare tutti i propri punti di forza, sarebbe meglio che tu non ti facessi vedere».

La maga dagli occhi neri annuì. «Tuttavia, in caso i maghi ti attaccassero seriamente, è meglio che ti accompagni – non con la mia vera identità, naturalmente – per combattere al tuo fianco se fosse necessario».

El le sorrise. «Non voglio separarmi da te proprio adesso, stanne certa. Dovremmo tentare di sollevare la gente comune?» Poi rispose lui stesso alla domanda. «No, fuggirebbero di fronte al primo incantesimo sferrato contro di loro, e una volta incitati colpirebbero alla cieca fino a distruggere il reame, come se maghi furiosi usassero incantesimi senza alcun freno… e sia che perdiamo, sia che vinciamo, morirebbero a centinaia, come pecore condotte al macello».

Myrjala annuì. «Sono stati gli elfi a iniziarti alla magia… sembrerebbero essere i primi alleati da contattare»

El aggrottò la fronte. «Gli elfi usano la magia per aiutare, crescere e riplasmare, non per distruggere le cose in battaglia».

Myrjala scrollò le spalle. «Se tutto ciò che cerchi negli alleati è gente che stia al tuo fianco e che aggiunga incantesimi ai tuoi, gran parte del regno verrà devastato nella lotta. Devi trovare alleati con punti di forza che tu non possiedi… e la loro decisione di aiutarti o meno deciderà ogni cosa; devi sapere se accetteranno la tua proposta prima di contattare gli altri. Inoltre, tu sai dove trovare gli elfi ed è meno probabile che un mago sorvegli la Grande Foresta, piuttosto che Hastarl o le Colline del Corno».

El annuì. «Tutto ciò ha senso. Quando cominciamo?»

«Ora» rispose Myrjala allegramente.

Si scambiarono un ghigno. Un attimo dopo, due boccali si posarono su un tavolo vuoto. L’oste, corrugando ansiosamente la fronte, corse in direzione del rumore e tristemente afferrò i due boccali dal tavolo senza clienti. Tintinnarono.

L’uomo vi guardò dentro, e vide una moneta d’argento sul fondo di ognuno. Si rallegrò, alzò le spalle, e rovesciò il denaro, appiccicoso di schiuma, sulla mano. Passandoselo fra le dita, tornò al bancone. Quelle monete di mago si spendevano meglio di qualsiasi altra… e altrettanto velocemente, purtroppo…

El si fermò quando giunse alla collinetta nel cuore della Grande Foresta, si inginocchiò e mormorò una preghiera a Mystra, poi si sedette sulla pietra piatta accanto al minuscolo laghetto. Quasi immediatamente il suo scudo magico tremolò quando qualcosa di invisibile – di sicuro un elfo – lo esaminò, cercando di capire chi fosse. El si alzò in piedi, e guardò i cespugli e gli alberi dalle foglie bluastre che circondavano la collinetta. «Buongiorno!», esclamò allegramente, poi si sedette nuovamente.

Attese in paziente silenzio, tanto a lungo da rendere inquieto persino un elfo. Dall’oscurità sottostante gli alberi sbucò un elfo silenzioso in abiti verdi, un arco teso tra le mani. Il suo volto era tranquillo, ma gli occhi erano tutt’altro che amichevoli.

«I signori maghi non sono i benvenuti qui», affermò, preparando una freccia.

Elminster non si mosse. «Sono un mago, ma non un signore mago», rispose tranquillamente.

L’elfo non accennò ad abbassare l’arma. «Chi altro potrebbe conoscere questo posto?» Mentre formulava la domanda ciò, altri setti elfi arcieri accerchiarono la collinetta. Le punte delle loro frecce spianate emanavano una vivida luce blu: troppa magia, persino per il più resistente degli scudi.

«Ho vissuto qui per più di un anno», rispose El, «per imparare la magia».

Gli occhi argentei si indurirono. «Non così», fu la breve risposta. «Di’ la verità, uomo, se vuoi continuare a vivere!»

«Ho vissuto qui come ti ho detto, e ti dirò di più: sei elfi hanno giurato di aiutarmi se avessi tentato di distruggere i signori maghi».

L’elfo socchiuse gli occhi. «Ho fatto un tale giuramento, ma a una donna, non a un uomo».

«Io sono quella donna», affermò Elminster fermamente, e rimase seduto in mezzo al fragore di risate che seguì le sue parole.

Poi guardò dolcemente i volti beffardi. «Voi usate magia più potente di quella di molti maghi ma non credete che un mago possa assumere le sembianze di una donna o di un uomo?»

Gli occhi dell’elfo scintillarono. «Non che non possa… che non voglia», fu la risposta. «Gli umani fanno cose del genere solo per lo scherzo di una notte, o per una fuga disperata. Non è nella loro natura perseverare nei propositi».

El allargò lentamente le mani vuote. «Dite a Braer, Baerithryn, che ora sono più forte di quanto lo fossi allora e che conosco qualche incantesimo in più».

Gli occhi della creatura della foresta scintillarono nuovamente prima che voltasse il capo. «Vai», ordinò a uno degli arcieri, «e porta qui Baerithryn. Se quest’uomo è chi sostiene di essere, Baerithryn lo saprà e ci dirà anche tutto ciò che dobbiamo sapere su di lui». L’arciere si voltò e scivolò nell’oscurità del sottobosco.

El annuì e scrutò nelle profondità del laghetto cristallino. Per un attimo gli parve di intravedere un paio di occhi pensierosi che lo guardavano… ma no, là sotto non c’era nulla. Rimase tranquillamente seduto, ignorando gli archi instancabilmente puntati su di lui, finché il suo scudo tremolò nuovamente. Lo lasciò cadere deliberatamente, e subito sentì un tocco lieve nella sua mente. Poi il contatto svanì, e Braer sbucò da sotto gli alberi e si avviò a grandi passi verso di lui. Era uguale a come l’aveva lasciato.

«Il tempo sembra aver operato in te qualche piccolo cambiamento, Elmara», esclamò bruscamente.

«Braer!», El balzò in piedi e corse giù dal breve pendio per abbracciare il suo vecchio maestro, che lo baciò come se fosse stato ancora una donna e poi si divincolò dalle braccia di El ed esclamò: «Piano, Principe! Gli elfi sono molto più raffinati e delicati degli uomini».

Risero insieme, e gli arcieri deposero le armi. Braer guardò intensamente negli occhi di Elminster, poi annuì, come se vi avesse letto qualche cosa. «Sei venuto per chiederci aiuto contro i signori maghi. Siediti e dicci quali sono i tuoi desideri».

Quando tornarono alla pietra, El si ritrovò circondato da quasi una ventina di elfi attenti e silenziosi. Si guardò intorno, ma nessuno ricambiò il suo sorriso, e fece un respiro profondo. «Bene», iniziò, ma non andò oltre.

L’elfo che poco prima l’aveva sfidato sollevò una mano. «Prima, Principe, sappi che riteniamo nostro dovere fare qualsiasi cosa tu ci chieda… ma siamo riluttanti a rischiare la vita di altri nostri simili. Fuori dalla foresta, gli elfi vengono uccisi troppo facilmente, e se moriamo, lo stesso accadrà alla nostra gente in questo sereno angolo di Faerûn. Gli uomini – persino i maghi – spuntano come i germogli in primavera. Gli elfi sono fiori molto più rari… e pertanto più preziosi. Non aspettarti dunque un esercito marciante, o una ventina di arcimaghi elfi che volano alle tue spalle».

El annuì e guardò Baerithryn. «Braer, sei d’accordo?»

Il vecchio maestro inclinò il capo. «Non vorrei condurre una marcia su Hastarl alla luce del giorno, con eserciti di uomini a cavallo e maghi sopra bestie alate in agguato… non rientra nel nostro modo di combattere. Che cosa hai in mente?»

«Che ci proteggiate – in primo luogo me e un altro mago, ma anche alcuni cavalieri e gente di strada di Hastarl – dagli incantesimi mortali sferrati dai signori maghi… e forse anche da altre magie esercitate da lontano. Proteggeteci, e noi combatteremo».

«Quanto sei potente?» domandò uno degli arcieri. «Ci sono molti signori maghi, e sarebbe una follia sostenerti in un attacco ad Athalgard, solo per ritrovarci assaliti da maghi infuriati dopo che ne hai uccisi uno o due – e sei stato sconfitto».

«Ho distrutto l’arcimago che governava il Calishar non molto tempo fa», rispose El tranquillamente.

«Abbiamo udito molte favole su come è andato incontro alla morte, persino i signori maghi hanno affermato di aver operato la sua distruzione, sebbene dicano di essersi coalizzati per ucciderlo», asserì un altro elfo. «Con rispetto, è nostro dovere verificare i tuoi poteri».

El rimase impassibile. «Che tipo di prova avete in mente?»

«Uccidi per noi un signor mago», rispose fermamente un altro abitante della foresta, seguito da un coro d’approvazione.

«Un mago qualsiasi?»

«Uno in particolare – il suo nome è Taraj – continua a sorvegliare la nostra foresta e si diverte ad assumere forme di animali per cacciare. Uccide solo per il piacere di farlo, e strazia non solo la sua preda, bensì tutte le creature della foresta che incontra. Sembra godere di qualche protezione contro i nostri incantesimi e i nostri archi. Se riuscirai a distruggere Taraj, gran parte della nostra gente te ne sarà riconoscente e otterrai molto più aiuto di qualche arco e di qualche incantesimo offerti da una manciata di giurati».

«Portatemi nei luoghi di caccia di Taraj, e lo distruggerò», promise El. «Quali sono le sue prede preferite?»

«Gli uomini», rispose Braer tranquillamente, mentre si incamminava giù per il pendio ed entrava nella foresta. Senza cerimonie gli altri elfi lo seguirono. Elminster roteò gli occhi una volta, ma mantenne il loro passo, sentendo una strana esultanza salirgli dal profondo. Il peso familiare della Spada del Leone gli urtava il petto, e le sue dita la cercarono e l’afferrarono quasi ferocemente. Finalmente – dopo tanto – la pulizia di Athalantar era iniziata…

«Liberatelo», ordinò il signore mago, agitando il fondo del vino nelle profondità del suo calice.

«Signore», esclamò la serva con un inchino e corse via. Taraj la guardò allontanarsi e sorrise. Era il mago che più si era avvicinato a diventare padrone di quella splendida terra di foreste e di colline erbose… ottimo territorio di caccia. Se solo Murghom fosse stata così, non avrebbe dovuto sopportare quei maledetti inverni.

Andò alla finestra per osservare il terrorizzato venditore ambulante, proveniente dal lontano Luthkant, che fuggiva attraverso la campagna ed entrava nella macchia circostante. Talvolta cacciava i suoi prigionieri come fossero cervi, abbattendoli con lance scagliate da cavallo. Disprezzava le armature, ma cavalcava sempre avvolto da incantesimi protettivi. Quel giorno, tuttavia, avrebbe preso le sembianze di un leone, oppure… sì, di un gatto della foresta! «Pantera», come lo chiamavano dalle sue parti.

Taraj posò il calice vuoto, si tolse la tunica, e si avviò nudo nella stanza degli incantesimi per studiare quello che lo avrebbe trasformato. Ciò avrebbe dato all’uomo più tempo per scappare.

L’incantesimo serpeggiò e bruciò confortevolmente nella sua mente. Taraj provò la medesima eccitazione crescente che sentiva ogni qualvolta si apprestava a cacciare. Si inchinò alla sua immagine riflessa nello specchio. «Taraj Hurlymm dalla lontana Murghom, signor mago e uomo crudele», si presentò a una festa immaginaria, con sorriso affettato. La sua immagine ricambiò il sorriso, sembrando soddisfatta quanto lui. Taraj sbatté le palpebre e mosse le braccia, facendo sollevare i muscoli delle spalle. Si ammirò per un istante, poi si mise una tunica e batté con le nocche un gong a muro. La serva fu lenta ad arrivare; Taraj si disse di ricordarsi di sfregiarla con un artiglio quando fosse tornato, per incuterle un po’ di timore.

«Fa’ che mi aspetti una festa al mio ritorno», ordinò, «al sorgere della luna. E chiama almeno quattro donne, che non ho mai visto prima, affinché la condividano con me».

Agitò la mano in segno di congedo, e la guardò inchinarsi e correre via. Bene, ora… ne avrebbe fatto la quinta consorte per quella notte, e le avrebbe dato una lezione. Essere a letto con un uomo che poteva cambiare forma era piacevole e pericoloso.

Taraj sogghignò e scese impettito le scale del giardino. Gli piaceva iniziare ogni caccia in quel luogo, sotto la statua attenta del Signore delle Bestie. Come al solito, appese la sua tunica sopra la testa ringhiante del monumento e percorse i viali erbosi costeggiati dai fiori, pronunciando lentamente l’incantesimo, assaporando il momento in cui il suo corpo si sarebbe fuso, gonfiato, e avrebbe cambiato forma. Quel momento giunse. I denti si trasformarono in lunghe zanne, le cosce si abbassarono e si ispessirono, le spalle si spostarono poderosamente, e una lucida pantera nera balzò nell’erba alta al margine del giardino.

Sulla porta, la serva rabbrividì. Al mago piaceva cacciare e divorare gli uomini che non godevano della sua simpatia… e trattare con le donne in altri modi. Era sicura che si fosse ritirato dagli intrighi di Hastarl per andare ad abitare nella lontana Dalniir ai margini del regno solo perché questo gli offriva una campagna in cui cacciare. Quel venditore era spacciato, come pure i taglialegna o i cacciatori che si fossero imbattuti nel suo padrone. Sperava in cuor suo che non ne trovasse, e che la sua caccia fosse lunga e faticosa.

Sospirò ed entrò per preparare la festa… e poi si recò nell’ala meridionale per scegliere personalmente le ragazze che probabilmente sarebbero morte quella notte. Più di una volta aveva veduto quel letto e il tappeto a brandelli intriso di sangue… talora con un piede mezzo mangiato o altri resti lasciati come monito per i servi. Rabbrividì e inginocchiandosi pregò silenziosamente qualunque dio potesse far sì che Taraj Hurlymm incontrasse la morte quella sera.

La gente, penso fra sé mentre si risollevava, avrebbe pregato più ferventemente gli dei, se avessero ascoltato più spesso i desideri dei mortali. Questa notte, per esempio.

Sospirò nuovamente. Quel venditore era condannato.

La camicia raffinata di seta del Calishite era zuppa di sudore e si appiccicava, scura e scivolosa, al suo corpo, mentre l’uomo saliva faticosamente su per una collina, si faceva strada fra i cespugli che si impigliavano e laceravano i suoi abiti eleganti, e si affrettava, ormai senza fiato. L’uomo non era in gran forma e ora, coperto di sudore e di sudiciume e con i suoi lunghi baffi impolverati e gocciolanti di sudore, piaceva ancora di meno al signor mago.

L’aspetto del venditore era stato la ragione per cui Taraj aveva ordinato che venisse catturato in primo luogo. Quello e il fascino dell’esotico; i mercanti di luoghi lontani come Luthkant non si recavano spesso in Athalantar e tanto meno fuori dalla città di Hastarl. Quella preda esotica, tuttavia, non sembrava in grado di fornirgli molto divertimento… stava già barcollando, esausta, e respirava affannosamente con rapidi singhiozzi.

Nascondendosi sotto una cresta non lontana dall’uomo terrorizzato, il mago decise che si era annoiato a sufficienza, e pensò fosse venuto il momento di uccidere.

Balzò nella boscaglia, una pantera nera sinuosa, che si sentiva rapida, micidiale, e viva! Esultando nel suo potere, attraversò con un balzo una gola stretta e profonda, le sue zampe raspanti per un eccitante momento sulla terra che si sgretolava, dall’altra parte della forra… poi, sano e salvo, proseguì il suo cammino.

Balzando improvvisamente dalla sommità di un pendio, piombò proprio sopra la sua vittima, che ululò di paura, estrasse un pugnale, e lo agitò inutilmente nella scia della bestia.

Taraj si voltò, il manto lucente increspato, e si avventò nuovamente sull’uomo, un fruscio di foglie secche sotto le sue zampe possenti.

Il mercante del Calishite si scansò, gli occhi spalancati e bianco in viso per il terrore, agitò selvaggiamente il coltello sotto il naso di Taraj, poi si girò e si mise a correre.

Taraj ringhiò rabbiosamente e si lanciò all’inseguimento. L’uomo lo udì e si girò per evitare di essere azzoppato, la lama minuscola scintillò di nuovo mentre la brandiva disperatamente. Taraj grugnì e continuò ad avanzare, senza rallentare… e l’uomo terrorizzato indietreggiò.

Dopo qualche passo rapido e alla cieca, inciampò su una protuberanza del terreno, e cadde sul sedere. La pantera gli balzò addosso, le mascelle spalancate per quel primo morso festoso, ma l’uomo scalciò con ferocia convulsa e il mago provò un improvviso dolore lacerante. Ringhiò e trasalì, allontanandosi e poi voltandosi nuovamente verso la vittima.

Che gli dei ti maledicano! Gli stivali del mercante avevano improvvisamente prodotto delle lame da punta, piccole e crudeli; una di esse ammiccava ora a Taraj mentre l’uomo esausto giaceva supino, con i piedi sollevati e l’altra lama era bagnata del sangue scuro del mago.

La pantera ruggì nuovamente e saltò in un cespuglio d’erba alta adiacente. Drago al cancello! Nemmeno i grassi mercanti del Calishite combattevano più lealmente in quei giorni! Bene, non saresti mai stato in grado di farlo, ammise ironicamente mentre il suo corpo di pantera svaniva e cambiava nuovamente forma. Una breve visita al luthkantano sotto forma di un serpente sputa-acido sarebbe bastata a togliere di mezzo le armi, per poi uccidere lentamente e piacevolmente. Il serpente si impennò, attorcigliandosi sperimentalmente, e vacillando mentre il mago si abituava alla nuova forma.

Un corvo nero che volava inosservato dietro la pantera, si tuffò in picchiata, iniziando a mutare prima ancora di toccare il suolo erboso sotto di lui.

Qualcosa di enorme e di scuro si sollevò dall’erba sulla quale era atterrato il corvo, ali da pipistrello si spiegarono e una lunga coda iniziò a dimenarsi… un drago nero acquattato nell’erba schiacciata, proteso sopra il serpente attorcigliato e improvvisamente sibilante.

Il serpente sputò. L’acido fumante colpì il muso del drago e gocciolò; i draghi neri non sono mai sensibili all’acido. La bestia sorrise lentamente e aprì le mascelle. L’acido che fuoriuscì dalle sue fauci consumò un albero e il serpente si dimenò fumante nell’erba bruciacchiata oltre la pianta, agitando le spire nella sua agonia. Il drago avanzò lentamente, pesantemente… trionfalmente.

Da qualche parte in mezzo agli alberi si udì un grido di terrore quando il venditore di sete vide il drago, e poi rumore di rami spezzati quando iniziò a correre disperatamente nella boscaglia.

Il serpente divenne sempre più grande e più scuro, e cominciarono a spuntargli un paio di ali. Dalla sua sagoma mutante emersero per un istante una mano umana e una bocca. L’anello scintillò, e la bocca urlò, «Kadeln! Kadeln! Aiutami! In virtù del nostro patto, aiutarmi

Il drago avanzò pesantemente, allungando una zampa artigliata per squarciare il serpente che si stava trasformando rapidamente in un altro drago nero. Un altro passo, e un altro ancora… e il drago Elminster si protese e artigliò le squame non ancora del tutto sviluppate. Schizzò un fiotto di sangue, e il mago gemette di dolore.

El allungò la testa per mordere violentemente il collo dell’altro drago e finire una volta per tutte il mago, ma improvvisamente ecco apparire un altro mago accanto al drago ancora in trasformazione, dove un attimo prima vi era solo erba calpestata. Il principe guardò rapidamente gli occhi scintillanti e scuri del nuovo venuto mentre indietreggiava e si allontanava frettolosamente. Il mago stava già sferrando un incantesimo; non vi fu tempo per cambiare di forma.

El sbatté una volta le sue ali per scaraventare l’uomo a terra e rovinare l’incantesimo, ma rami d’albero glielo impedirono. Stava ancora lottando per precipitarsi in avanti sull’uomo quando qualche cosa si agitò nelle sue mani protese, e fuoco ruggente irruppe da ogni direzione e lo investì.

L’imprecazione di dolore di El giunse come un rimbombo, il drago indietreggiò rapidamente, si voltò e sbatté la coda con tale violenza che il signore mago dovette tuffarsi ingloriosamente nel fango per evitare di essere travolto. El grugnì e prese il volo.

Il suo corpo era pesante e goffo, ma le grandi ali battevano con forza. Dopo qualche faticoso colpo, la sua testa iniziò a fendere il vento, allora si voltò e si lanciò in picchiata, aspettando il momento giusto per sputare acido.

L’altro drago era ormai quasi formato, ma si stava contorcendo per il dolore, completamente aggrovigliato sotto gli alberi. El poteva prima sistemare il mago lanciafuoco!

Ringhiando, il principe drago piombò dal cielo, i denti scintillanti.

Le mani del drago stavano compiendo passaggi intricati e d’un tratto balzò indietro con sguardo trionfante… ed Elminster conobbe una paura improvvisa. Tentò di spiegare un’ala e virare, ma non riuscì! Le sue membra erano bloccate da un incantesimo!

Impotente, si immerse fra gli alberi, abbracciandoli per l’impatto imminente. Il vento gli sfrecciava accanto sibilando; e poi vide il suo destino. Davanti a lui scintillava un muro di luci, dai colori brillanti; un arcobaleno magico proprio sulla sua rotta. El poté solo voltare gli occhi terrorizzati per guardare il mago che lo osservava mentre andava incontro alla sua morte.

«Aiutami, Mystra», sussurrò, mentre i colori turbinanti si avvicinavano sempre più.

Kadeln Olothstar, signore mago di Athalantar, rise freddamente. «Ah, amo i bei combattimenti! E amo anche ammansire i giovani maghi! I miei ringraziamenti Taraj!»

Il drago stava piombando impotente nel muro prismatico. Kadeln si portò una mano agli occhi per proteggerli dall’esplosione che si sarebbe verificata quando la bestia enorme fosse passata attraverso il suo incantesimo, distruggendosi a vicenda.

D’un tratto, il grande impatto. Il mondo tremò, e un bagliore accecante attanagliò kadeln pur se aveva gli occhi serrati. Il signore mago cadde duramente sulla schiena e ringhiò un’imprecazione agli dei per aver messo una radice sotto la sua colonna vertebrale. Poi sbatté le palpebre fino a riacquistare la vista e si rimise in piedi. Alberi spezzati ed erba fumante lo circondavano, nessun drago in vista… e, barcollando ciecamente fuori dal fumo, avanzò un grasso mercante in abiti di seta sbrindellati, un pugnale stretto in una mano tremante.

Ah! Poteva anche privare Taraj della sua preda quella notte! Kadeln sorrise, un ghigno lieve e crudele, e sollevò la mano per uccidere l’uomo. Sarebbe bastato un incantesimo elementare. Poi una forma scura si materializzò nell’aria davanti a lui: Taraj, malconcio e ricoperto di fuliggine.

«Togliti di mezzo, Hurlymm», gli intimò freddamente Kadeln, ma il collega stordito sembrò non udirlo. Hmm… forse avrebbe potuto fargli accadere un incidente, senza alcun testimone del suo tradimento. Ma sarebbe stato saggio eliminare quel pigro idiota assetato di sangue, e rischiare che un mago più forte si insediasse al suo posto nei concili dei signori maghi?

Kadeln prese la sua decisione, sospirò, e aggirò il mago confuso, sollevando la mano per fulminare il mercante singhiozzante. Quando gli passò accanto, il corpo di Taraj sembrò incresparsi. Kadeln Olothstar era stato un signor mago per molti anni. Si voltò per vedere quale forma avrebbe assunto il collega… era meglio non fidarsi troppo.

Due occhi grigio-blu si materializzarono nella sagoma in trasformazione e lo fissarono, seguiti da un naso aquilino e da una bocca che gli sorrise senza calore né allegria.

«Salve, Signor mago», affermò la bocca, mentre un braccio scuro si sollevava per colpire la mano alzata di Olothstar. L’altro braccio della sagoma scura si mosse rapidamente verso la sua bocca. «Sono Elminster. Nel nome di mio padre il Principe Elthryn e di mia madre la Principessa Amrythale, io ti uccido».

Kadeln stava balbettando le parole di un incantesimo disperato quando l’estraneo, il sorriso metallico sempre stampato sul viso, gli infilò un dito in bocca, e da esso scaturì una sfera di fuoco che rotolò giù nella gola del mago, e non trovò spazio per espandersi.

Un attimo dopo, Kadeln Olothstar esplose, e le fiamme eclissarono brevemente il sole… e poi si spensero rapidamente lasciando solo fumo. Cadde il silenzio, seguito un momento dopo da un gemito disperato del venditore, che alzò gli occhi e si accasciò pesantemente sul terreno bruciato.

La donna che apparve in cima alla cresta più vicina fece una smorfia alla vista del sangue che ricopriva Elminster. Il giovane sollevò rapidamente lo sguardo, e alzò una mano, pronto a eliminare un altro nemico se ce ne fosse stato bisogno, ma poi si rilassò e gridò: «Grazie… di nuovo per avermi salvato la vita».

Myrjala sorrise e gli andò incontro, allargando le mani. «A che cosa servono, dopotutto, gli amici?»

«Come hai fatto questa volta?», domandò El, avanzando per abbracciarla. La donna gli sussurrò qualche cosa e fece un piccolo gesto con la mano, e il sangue del mago scomparve immediatamente. Elminster guardò in basso, scosse il capo, e poi la prese fra le braccia e la baciò.

«Lasciami respirare, giovane leone», esclamò Myrjala alla fine, tirando indietro la testa. «Per risponderti: ho usato quell’incantesimo di cui vai tanto fiero. Era Taraj il drago che si è schiantato nel muro magico, mentre tu hai assunto le sue sembianze».

«Avevo bisogno di te, dopotutto», affermò El affondando lo sguardo negli occhi neri e misteriosi.

Myrjala gli sorrise. «C’è ancora molto da fare per Athalantar, mio Principe, ed è necessario che tu rimanga intero».

«Sto perdendo la mia sete di vendetta», ribatté Elminster.

Le braccia della donna si strinsero intorno a lui. «Ti capisco, e ti rispetto ancora di più per questo, El, ma una volta iniziato, dobbiamo ucciderli tutti… altrimenti tutto ciò che otterremo per il popolo di Athalantar sarà solo cambiare nomi e facce di coloro che lo tiranneggiano. È questo ciò che vuoi fare per vendicare i tuoi genitori?»

Quando il principe la guardò, i suoi occhi erano lucenti e freddi. «Chi è il prossimo?», sbottò.

Myrjala abbozzò un sorriso. «Seldinor», rispose voltandosi.

«Perché proprio lui?»

Myrjala si girò nuovamente. «Sei stato una donna. Quando ti dirò dei suoi ultimi progetti, capirai il perché, meglio di molti giovanotti insolenti che si fanno chiamare maghi».

El annuì, senza sorridere. «Temevo che avresti detto una cosa del genere».

Improvvisamente gli elfi sembrarono uscire dagli alberi e li circondarono. Braer incontrò lo sguardo di Elminster e gli domandò: «Chi è questa maga?»

Myrjala rispose da sola. «Al hond ebrath, uol tath shantar en tath lalala ol hond ebrath».

El la guardò stupito: «Che cos’hai detto?»

«Un’amica vera, come veri amici sono gli alberi e l’acqua», tradusse piano Myrjala, gli occhi scurissimi.

L’elfo che aveva sfidato per primo El accanto al laghetto esclamò: «Un fiero vanto, signora, per uno che vive e poi se ne va, mentre gli alberi e i torrenti resistono per sempre».

Myrjala girò il capo, alta e regale come un elfo, e rispose: «Potresti rimanere sorpreso della mia longevità, Ruvaen, come lo sono stati altri tuoi simili, prima».

Ruvaen indietreggiò d’un passo, aggrottando la fronte. «Come fai a conoscere il mio nome? Chi…?»

«Silenzio», intimò Braer. «Tali questioni è meglio discuterle in privato. Ora dobbiamo elaborare i nostri piani. La prova è stata superata. Elminster forse non avrebbe avuto la meglio da solo, ma sono stati uccisi due maghi, non uno solo. Qualcuno si oppone?»

Gli rispose il silenzio, e Braer si voltò verso Ruvaen.

L’arciere lo guardò, annuì, e poi, rivolto al giovane, esclamò: «Il mio popolo combatterà al tuo fianco per Athalantar, se tu manterrai l’impegno che hai preso quando facesti il giuramento».

«Lo farò» rispose El tendendo una mano.

Dopo un lungo momento, Ruvaen la prese, e intrecciarono fermamente gli avambracci, come due guerrieri. Intorno a loro, gli elfi della Grande Foresta gridarono esultanti, nel canto festoso più sentito che un elfo di Athalantar avesse emesso in molti, molti anni.

Due occhi vecchi e saggi guardarono gli elfi e gli umani dissolversi nelle profondità del cristallo, e poi svanire. Che fare?

Sì, che cosa? Il giovane era solo un altro sputa-incantesimi con la gloria negli occhi, ma la donna… Da tempo non vedeva una tale maestria… Socchiuse gli occhi, e poi alzò le spalle.

Non c’era tempo per ricordi frivoli. Non ce n’era mai.

Doveva avvisare tutti, e poi u… ma no. No. Avrebbe prima lasciato che distruggessero Seldinor.

16. Quando i maghi vanno in guerra

Una stella cade, sulla spiaggia

Ma è solo la prima di molte altre,

Attizza il fuoco e spranga la porta

Poiché questa è la notte in cui i maghi vanno in guerra.

Angarn Dunharp, dalla ballata Quando i maghi vanno in guerra.

Anno della Spada e delle Stelle

Le foglie frusciarono. A quell’impercettibile rumore Helm si voltò bruscamente, la mano sull’elsa. Da dietro un albero sbucò silenziosamente l’elfo guerriero che conosceva col nome di Ruvaen. Il mantello grigio, tanto difficile da vedere, turbinava attorno a lui. Questi era accompagnato da un altro elfo, e le loro facce immobili tradivano un umore più scuro del solito.

«Che cosa c’è?», domandò semplicemente Helm. Né gli elfi né i cavalieri amavano sprecare le parole.

Ruvaen gli porse qualcosa che occupava tutta la sua mano – un oggetto chiaro, incolore, dai bordi smussati, simile a un enorme diamante, con attaccata qualche traccia di muschio. Il cavaliere guardò in basso e inarcò le sopracciglia in una domanda inespressa.

«Un cristallo magico. Utilizzato dai maghi umani», affermò Ruvaen freddamente.

«I signori maghi», esclamò Helm con aria truce. «Dove l’avete trovato?»

«In un avvallamento non lontano da qui», rispose l’altro elfo, indicando l’oscurità della foresta.

«Uno dei tuoi uomini lo nasconde sotto il muschio», aggiunse Ruvaen. «Quando non lo usa».

Helm Spadadipietra emise un lungo sospiro. «Dunque potrebbero essere al corrente dei nostri piani e ora staranno forse ridendo di noi».

I due abitanti della foresta non risposero. Ruvaen mise delicatamente il cristallo nella mano callosa del cavaliere, gli toccò la spalla, e affermò: «Attenderemo lassù, negli alberi… se dovessi aver bisogno di noi».

Helm annuì, guardando il cristallo nella sua mano. Poi sollevò la testa per scrutare la foresta: Chi dei suoi uomini andava più spesso a liberarsi in quella direzione?

Il suo volto temprato mutò, si indurì. Helm infilò il cristallo nella parte anteriore della tunica, si voltò, ed emise un breve grugnito. Uno dei suoi uomini, che faceva a pezzi un cervo a qualche passo da lui, sollevò lo sguardo. I loro occhi s’incontrarono attraverso gli alberi, ed Helm annuì. L’uomo si voltò e grugnì a sua volta.

Presto furono tutti radunati: tutti cavalieri che aveva portato con lui nelle profondità della Grande Foresta. Tutti coloro che ancora osavano agitare un’arma contro i signori maghi, aggrappati allo scudo sottile del mistero degli elfi, in cambio di spade e archi per tenere lontano le asce dei taglialegna che, incontrastati, avrebbero infierito sulla foresta per estendere il regno di Athalantar.

La loro magia li nascondeva ai maghi che governavano il regno, ma non era adatta a una battaglia di incantesimi… E la minaccia di incantesimi elfi molto potenti aveva tenuto ampiamente a bada i signori maghi, quanto meno fino ad allora. E aveva dato tempo a Helm di pianificare una rivolta che avrebbe potuto – forse, con l’aiuto degli dei – abbattere la tirannia, e restituirgli il regno meraviglioso che aveva amato e per il quale aveva combattuto molto tempo prima. Perciò avevano lottato, organizzando sortite durante la notte, per poi dileguarsi tra gli alberi o perire per tormenti magici, mentre gli anni trascorrevano lunghi ed Helm diventava sempre più disperato vedendo l’Athalantar della sua giovinezza svanire lentamente.

I rigidi inverni e la perdita degli amici lo avevano indurito e gli avevano insegnato la pazienza. Quel cristallo, ora, cambiava le cose. Se i signori maghi conoscevano il loro numero, i loro nomi, i loro schemi, e i loro nascondigli, avrebbero dovuto colpire rapidamente, adesso o mai più, per avere la possibilità di lasciare qualcosa in più che tombe senza nome e cibo per i lupi.

Attese, in silenzio, il viso impietrito, finché il più inquieto dei suoi uomini – Anauviir, naturalmente – non parlò. «Ehi, Helm, che succede?»

Senza parlare, Helm si voltò verso Halidar, estraendo il cristallo. L’uomo divenne improvvisamente pallido in volto, balzò in piedi, e si voltò per fuggire – e poi annaspò e si accasciò lentamente contro Helm. Il vecchio cavaliere rimase immobile mentre il traditore scivolava lentamente contro il suo petto per crollare sul terreno della foresta. Il pugnale di Anauviir fuoriusciva dalla gola di Halidar, proprio sotto la sua bocca contorta. Helm lo estrasse senza proferire parola, lo pulì, e lo restituì al proprietario. Halidar era sempre stato svelto… e Anauviir ancor più di lui. Helm sollevò il cristallo affinché tutti lo vedessero.

«I maghi ci stavano osservando», affermò freddamente. «Forse da anni». Tutt’intorno a lui i cavalieri sbiancarono. «Ruvaen», chiese Helm, tenendo il cristallo alzato, «che cosa ne possiamo fare?»

Alcuni guerrieri sollevarono involontariamente lo sguardo, sebbene ormai sapessero che non avrebbero visto altro che rami e foglie, e una voce musicale rispose: «Se usato correttamente, può bruciare la mente di un signor mago».

Vi fu un mormorio d’approvazione, ed Helm lanciò il cristallo nei rami sopra di lui. L’oggetto non ricadde.

Con la mano ancora alzata, Helm guardò i suoi uomini. Sporchi, gli occhi scuri, armati come le guardie del corpo mercenarie che i signori bassi e grassi ingaggiavano per conferirsi magnificenza. Essi ricambiarono il suo sguardo, truci e macilenti. Helm li amava tutti. Se avesse avuto un’altra quarantina di guerrieri come quelli, avrebbe potuto fondare da solo una nuova Athalantar, maghi o non maghi. Ma non li aveva. Quaranta sono troppo pochi, pensò. No – quarantuno, ora…

«State calmi, cavalieri». La voce cadenzata di Ruvaen provenne inaspettatamente dagli alberi sopra di loro. «Si avvicina un uomo che vuole parlare con voi. Non intende farvi del male».

Helm sollevò lo sguardo, sbalordito. Gli elfi non sopportavano che altri umani si avventurassero nel cuore della foresta… E poi qualcosa si materializzò da dietro un albero vicino. Anauviir lo vide nel medesimo istante di Helm e sollevò la spada in sua difesa. Poi la figura tenebrosa avanzò e le nebbie dell’incantesimo svanirono.

Il vecchio cavaliere rimase a bocca aperta, attonito.

«Lieto di rivederti, Helm», esclamò una voce che non avrebbe mai pensato di risentire.

Non l’aveva più visto da allora… sicuramente il ragazzo era morto per mano di qualche mago… ma no… Helm deglutì, barcollò, e poi cadde in ginocchio, offrendo al giovane la sua spada. I suoi uomini emisero mormorii perplessi.

«Chi è, Helm?» domandò bruscamente Anauviir, la spada alzata, mentre scrutava quell’uomo magro, dal naso aquilino. Solo un mago o un sommo sacerdote avrebbe potuto camminare sull’aria in quel modo.

«Alzati, Helm», esclamò tranquillamente Elminster, appoggiando una mano sull’avambraccio del vecchio guerriero.

Il cavaliere si alzò, e rivolto ai suoi uomini ordinò: «Inginocchiatevi se siete veri cavalieri di Athalantar… poiché questo giovane è Elminster figlio di Elthryn, l’ultimo principe del regno!»

«Un signore mago?», domandò qualcuno dubbioso.

«No», rispose El pacatamente. «Un mago che necessita del vostro aiuto per distruggere i signori maghi».

Lo fissarono immobili – finché, uno alla volta, incontrarono lo sguardo furioso di Helm, e si inginocchiarono.

Elminster attese fin quando l’ultimo ginocchio – quello di Anauviir – toccò il terreno ricoperto di foglie, e poi invitò: «Alzatevi, tutti. Al momento non sono principe di nulla, e ho bisogno di alleati, non di cortigiani. Ho imparato sufficienti incantesimi per distruggere qualsiasi mago, credo, ma so che quando uno di loro si trova nei guai, chiama tutti gli altri e in poco tempo ne avrei alle calcagna più di quaranta».

Si udirono risate fredde, e i cavalieri avanzarono automaticamente. Helm lo lesse nei loro occhi e lo sentì dentro di lui: per la prima volta, da anni, avevano una speranza reale.

«Quaranta signori maghi sono troppi per me», continuò El, «e comandano fin troppi soldati per i miei gusti. Gli elfi hanno accettato di combattere con me nei giorni che verranno, per ripulire questa terra per sempre – e spero di trovare altri alleati ad Hastarl».

«Hastarl?», ringhiò Anauviir, sbalordito.

«Sì… prima che passino dieci giorni, intendo attaccare Athalgard. E tutto ciò che mi manca sono degli abili guerrieri». Guardò intorno a sé gli uomini sfregiati, dalla barba lunga. «Siete con me?»

Uno dei cavalieri sollevò un paio di occhi duri per incontrare i suoi. «Come facciamo a sapere che non è una trappola? O, se non lo è, che i tuoi incantesimi sono abbastanza potenti da non fallire una volta dentro il castello, senza più una via d’uscita?»

«Ero del tuo stesso parere», rispose Ruvaen dall’alto, «e gli ho chiesto di darcene prova. Ha ucciso due signori maghi fino a oggi – e con lui opera un’altra maga. Non temete che la sua magia fallisca».

«Inoltre», aggiunse rudemente Helm, «conosco il principe dal giorno in cui il drago del mago reale uccise i suoi genitori, e mi ha giurato – ancora ragazzino – che un giorno avrebbe ucciso tutti i signori maghi».

«È giunto il tempo», affermò El con voce di ferro. «Posso contare sugli ultimi cavalieri di Athalantar?»

Si levarono mormorii e uno scalpiccio di piedi. «Se mi è permesso», esclamò Anauviir a disagio, «una domanda… come ci proteggerai contro gli incantesimi di quelle carogne? Colgo volentieri la possibilità di abbattere qualche mago e i suoi soldati – ma come faremo ad avvicinarci abbastanza per avere quell’opportunità?»

«Gli elfi verranno con voi», affermò la voce di Ruvaen. «La nostra magia vi nasconderà o vi proteggerà ogniqualvolta sarà possibile, pertanto potrete finalmente stare faccia a faccia col nemico». Si udirono brontolii di assenso, ma Helm fece un passo avanti e alzò una mano intimando il silenzio.

«Io vi ho guidati, ma ora ognuno deve scegliere liberamente… La morte è fin troppo probabile, per quanto qui si sprechino parole grandiose». Il vecchio cavaliere sputò pensierosamente tra le foglie ai suoi piedi, e aggiunse: «Tuttavia pensateci bene: la morte arriverà anche se ci rifiutiamo e continuiamo a nasconderci nella foresta. I signori maghi ci stanno eliminando, uno alla volta. Rindol, Thanask; voi sapete quanti guerrieri sono caduti… e non passa settimana che i soldati non ci cerchino in ogni grotta e in ogni nascondiglio. Nel giro di una, o al massimo due, estati, ci avranno uccisi tutti. Le nostre vite andranno in ogni caso perdute – perché non sacrificarle allora per forgiare una spada che possa effettivamente portare con noi nella tomba uno o due maghi?»

I guerrieri annuirono col capo e sollevarono le armi. Helm si rivolse a Elminster con un sorriso triste.

«Guidaci, Principe», invitò.

El si guardò intorno. «Siete con me?», domandò semplicemente. Si udì un coro d’assenso.

El si protese ed esclamò: «Ho bisogno che andiate tutti ad Hastarl – a due a due, o in piccoli gruppi, non tutti insieme, per non attirare l’attenzione di qualche mago vigile ed evitare che vi uccida tutti in una volta. Appena fuori dalle mura, a monte del fiume, c’è una cava in cui bruciano corpi e rifiuti; spesso i mercanti si accampano nelle vicinanze. Riunitevi là prima dello scadere dei dieci giorni e cercate me o un uomo che si fa chiamare Farl. Vestitevi come venditori ambulanti o mercanti; gli elfi hanno vino di menta che fungerà da merce…» El sorrise loro e aggiunse seccamente: «Vedete di non berlo tutto prima di arrivare in città».

Stavolta i guerrieri risero di gusto e i loro occhi brillarono di entusiasmo.

«C’è una carovana di scorte che sta per lasciare la fortezza di Heldo, diretta a est», affermò Helm con eccitazione. «Stavamo discutendo se valesse la pena di rischiare… ci fornirà abiti e cavalli, bestie da soma e carri!»

«Bene!», esclamò El, sapendo che non lo avrebbe potuto impedire nemmeno se lo avesse voluto. Nei loro occhi ardeva la fiamma della battaglia, una fiamma che non si sarebbe spenta finché loro – o i signori maghi – non fossero stati tutti morti. Si levarono grida di entusiasmo. Helm guardò a uno a uno i suoi uomini mentre sguainava la vecchia spada e la sollevava al cielo.

«Per Athalantar, e per la libertà!», gridò, e la sua voce echeggiò fra gli alberi. Venti spade scintillarono in risposta mentre i guerrieri ripetevano le sue parole in un coro stonato. D’un tratto erano tutti spariti, al galoppo tra gli alberi, verso sud, con le spade sguainate lucenti in mano, Helm in testa.

«Grazie, Ruvaen», esclamò Elminster rivolto alle foglie soprastanti. «Proteggili nel loro cammino. Lo farai?»

«Naturalmente», rispose la voce melodiosa. «Questa è una battaglia che nessun elfo o uomo fedele ad Athalantar si dovrebbe perdere… e dobbiamo vigilare attentamente nel caso vi siano altri traditori fra i cavalieri».

«Sì», affermò El seriamente. «Non ci avevo pensato. Ben detto. Io vado». Fece un breve gesto di saluto con la mano e scomparve.

I due elfi discesero dall’albero per assicurarsi che uno dei falò accesi dai cavalieri fosse realmente spento. Ruvaen guardò a sud, scosse la testa, e sopì gli ultimi riccioli di fumo.

«Popolo frettoloso», esclamò l’altro elfo, scuotendo a sua volta il capo. «La fretta non produce mai nulla di buono».

«Nulla di buono», assentì Ruvaen. «Tuttavia governerà questo mondo molto presto, con temerarietà e abbondanza».

«Come saranno i Regni allora… mi domando», ribatté l’altro con una nota di pessimismo, guardando a sud attraverso gli alberi da cui erano passati i guerrieri.

Otto giorni più tardi, il sole dorato della sera vide due corvi posarsi su un albero rachitico appena dentro le mura di Hastarl. I rami ondeggiarono sotto il peso dei volatili per un istante, poi, all’improvviso, tornarono vuoti. Due ragni zampettarono lungo il tronco segnato e ricoperto di fenditure, ed entrarono nelle crepe del muro di una taverna.

La cantina sotto il livello della strada era sempre deserta a quell’ora – il che non guastava, poiché i due ragni raggiunsero un angolo ammuffito, si allontanarono leggermente… e improvvisamente due donne bitorzolute, basse e robuste, di una certa età, si ritrovarono l’una di fronte all’altra. Si scrutarono a vicenda i capelli bianchi scompigliati, i vestiti laceri, e i corpi grassocci e cadenti – e simultaneamente si misero a grattarsi.

«Stai magnificamente, mia cara», esclamò sardonicamente El con voce tremula.

Myrjala gli diede un buffetto sulla guancia e starnazzò: «Oh, sei sempre molto dolce, fanciulla!»

Insieme si incamminarono ondeggianti attraverso le cantine, in cerca delle scale per salire nelle stalle.

Seldinor Stormcloak era seduto nel suo studio, circondato da scaffali zeppi di spessi tomi, e corrugò la fronte. Da due giorni stava tentando di attaccare magicamente le labbra screpolate di una donna – tutto ciò che rimaneva dell’ultima prostituta che aveva catturato per i suoi piaceri – su un golem incompleto in piedi di fronte a lui. Poteva cucirle alla carne cadente color grigio-porpora attorno al buco in cui aveva inserito i denti, sì… Farle muovere ancora, come avrebbero dovuto e non per conto proprio, si stava rivelando tuttavia un problema. Perché, dopo tanti golem riusciti? Perché quello era tanto disgraziato?

Sospirò, tolse le gambe dalla scrivania, e balzò in piedi. Se avesse lasciato in sospeso l’incantesimo della deformazione della carne e lo avesse completato mentre scagliava fulmini alla creatura… sì, avrebbe fatto in tal modo. Sollevò le mani e iniziò a pronunciare sillabe complicate con la rapidità di chi possiede molta esperienza.

Balenarono raggi di luce, e il mago si protese ansiosamente per guardare le labbra fondersi con la carne grezza e nodosa della testa senza volto. La bocca tremò. Seldinor sorrise a denti stretti, ricordando l’ultima volta che gliel’aveva visto fare… quando la donna l’aveva supplicato di non ucciderla.

Poi lanciò il suo incantesimo speciale, quello che avrebbe collegato il golem con il cervello di un servo privo di membra che aveva preparato la notte precedente. Appeso nella sua gabbia, questi lo guardò muto e terrorizzato per un istante, prima che l’incantesimo facesse effetto e la luce nei suoi occhi si spegnesse. Adesso era tutto sistemato, finalmente…

Le labbra si mossero sulla faccia vuota, abbozzarono un sorriso subito ricambiato felicemente da Seldinor, ed esclamarono la parola: «Padrone!»

Il mago si avvicinò trionfante. «Sì? Mi conosci?»

«Benissimo», rispose il golem sibilando. «Benissimo». E le braccia della creatura si sollevarono con velocità terrificante e lo presero per la gola. Annaspando, le mani che si agitavano nell’aria nel tentativo di effettuare incantesimi, Seldinor ebbe appena il tempo di guardare terrorizzato un occhio magico apparso sulla faccia spoglia del golem ammiccargli, prima che la creatura gli spezzasse il collo come fosse un ramoscello. Dando per un attimo libero sfogo alla sua forza bruta, il mostro strappò la testa del mago in una pioggia di sangue.

Occhi vecchi e saggi guardarono la testa di Seldinor veleggiare nel suo studio. Un paio di labbra si assottigliò in un sorriso di soddisfazione. Il mago passò una mano sulla sfera di cristallo e si allontanò. Era tempo di prepararsi contro quella minaccia, ora che il suo odiato nemico era morto, e in maniera tanto appropriata, peraltro…

Sghignazzò, mormorò una parola che tenne a bada i fulmini guardiani, e afferrò la maniglia in cima a una massiccia scala di legno. La porta si aprì al suo tocco, e dalla cavità oltre a essa il mago estrasse due bacchette magiche, le infilò su per le maniche, nelle guaine cucite nella sottotunica, e poi prese un piccolo pezzo di stoffa piegato. Lo aprì cautamente e lo abbassò sulla sua testa: uno zucchetto decorato da tante minuscole gemme. Tornò nella stanza del cristallo, chiuse gli occhi, e si concentrò. Granelli minuscoli di luce iniziarono a scintillare e a pulsare nelle gemme.

E lampi si rincorsero tra queste mentre il vecchio pronunciava parole silenziose e disegnava sigilli invisibili finché lo zucchetto non divenne invisibile. Quando scomparve interamente, il mago aprì gli occhi. Le sue pupille erano diventate di un rosso brillante.

Fissando ciecamente il vuoto, il vecchio parlò nel cristallo. «Undarl. Ildryn. Malanthor. Alarashan. Briost. Chandarn».

Ogni nome fece apparire un’immagine nell’aria sopra la sua testa. Sollevando lo sguardo, vide sei maghi avvicinarsi ai propri cristalli e porre le mani su di essi. Adesso erano suoi. Sorrise, lentamente e freddamente, mentre la magia della sua corona catturava la loro volontà.

«Parla, Ithboltar», esclamò un mago bruscamente.

«Che cosa succede, Maestro?», chiese un altro, più rispettosamente.

«Colleghi», iniziò tranquillamente, e poi aggiunse, «apprendisti». Non guastava mai ricordare loro che cos’erano. «Due maghi stranieri ci minacciano». Dalla sua mente scaturirono immagini del giovane dal naso adunco e della donna alta e snella dagli occhi neri.

«Due? Un ragazzo e una donna?», domandò beffardo Chandarn.

«Domandati, giovane e saggio mago», affermò Ithboltar, le sue parole erano gentili e precise, «dov’è ora Seldinor. O Taraj? O Kadeln? E poi rifletti».

«Chi sono quei due?», chiese un altro mago laconicamente.

«Rivali del Calimshan, forse, o studenti di Coloro che Fuggirono da Netheril e si diressero nel lontano sud… nonostante abbia già visto la donna in una o due occasioni, percorrere le terre occidentali».

«Io ho visto il ragazzo», affermò improvvisamente Briost, «a Narthil… e pensavo fosse morto».

«E ora stanno uccidendo noi, uno per volta», ribatté Ithboltar con calma soave. «Non scherzi più, Chandarn? Dobbiamo agire insieme contro di loro prima che colpiscano ancora».

«Ah, Maestro, un’altra difesa disperata del regno?» La voce di Malanthor era esasperata. «Non può aspettare fino a domani?» Tutti lo videro guardarsi alle spalle e sorridere per rassicurare qualcuno che non riuscirono a scorgere.

«Stai ancora facendo divertire i tuoi apprendisti, Malanthor?» sbuffò Briost.

Malanthor gli fece un gesto volgare e indietreggiò di un passo dal cristallo.

«A domani, allora», affermò rapidamente Ithboltar. «Parlerò domani con tutti voi». Interruppe il contatto, scuotendo la testa. Da quando tutti i suoi studenti, un tempo ansiosi di piegare il mondo alla loro volontà, erano forse diventati degli idioti, smidollati e viziosi? Erano sempre stati avventati e arroganti, ma ora…

Si strinse nelle spalle. Forse, avrebbero riconosciuto la scorrettezza dei loro modi, se i due stranieri avessero continuato a eliminare signori maghi. Perlomeno ora poteva obbligare i maghi di Athalantar a battersi per la corona; in tal modo quei nemici non li avrebbero colti da soli e alla sprovvista. E nulla fuorché un dio, avrebbe potuto sperare di sconfiggere la potenza magica dei signori maghi di Athalantar coalizzati. E gli dei interessati alle sorti del Regno del Cervo sembravano scarseggiare in quei giorni.

«Sì», esclamò Elminster a bassa voce. «In quest’edificio». Braer e uno degli altri elfi annuirono silenziosamente, e avanzarono per toccare le spalle di El. Mentre assumeva le sembianze di un fantasma, li udì mormorare lievemente sortilegi di copertura più potenti che mai.

Solo loro potevano ancora udirlo, quindi li ringraziò prima di balzare giù dal tetto e volare nel chiaro di luna fino alla finestra sottostante. Un solo amuleto brillava alla sua vista da mago, ma i suoi occhi esperti videro di più: una trappola che Farl aveva armato in altri luoghi quando erano compagni. Una pesante mannaia appesa a un filo si sarebbe abbassata sulla testa di chiunque avesse osato entrare dalla finestra. La forma immateriale di Elminster la oltrepassò senza problemi e, una volta nella stanza, si spostò senza pensare da un lato della finestra, per evitare di stagliarsi nella luce lunare – e per evitare i dardi intinti nel sonnifero pronti a scattare se fosse stato calpestato il pavimento sotto il davanzale.

Gli elfi avevano reso la sua sagoma immateriale completamente invisibile; Elminster sorvolò la stanza verso una russata familiare. Provenivano da un letto a baldacchino chiuso, più grande di tanti altri visti fino ad allora. Il principe sollevò le sopracciglia sorpreso di tanta ricchezza. Farl si era sicuramente fatto una posizione.

Vi era un altro filo-trappola appena dentro le tende. El scivolò oltre e si mise comodamente seduto ai piedi del letto. Gli occupanti avevano gettato da parte le coperte in quella notte calda, e giacevano scoperti: Farl in posizione prona, un braccio allungato possessivamente su una donna piccola e liscia, rannicchiata contro di lui: Tassabra.

Elminster la guardò desideroso per un momento. La sua bellezza, la sua intelligenza, e la sua gentilezza l’avevano sempre eccitato. Ma… tutti fanno delle scelte, e lui aveva deciso di abbandonare quella vita. Almeno lei e l’amico avevano trovato insieme la felicità, e non erano morti sotto le spade dei Moonclaw.

Avrebbero certo potuto trovare la morte nelle notti a venire, naturalmente, a causa sua. Il principe sospirò, pronunciò una parola che l’avrebbe reso visibile e udibile, ed esclamò piano: «Lieto di rivederti; Farl. Buona sera, Tass». Il russare di Farl cessò bruscamente e Tassabra si irrigidì, svegliandosi immediatamente. La sua mano scivolò sotto il cuscino, in cerca del pugnale nascosto, come presumeva El.

«Calma», affermò Elminster, «non voglio farvi del male. Sono Eladar, e sono tornato a chiedervi aiuto per salvare Athalantar».

Anche Farl si era svegliato. Balzò a sedere e annaspò, bocca aperta, mentre Tassabra emetteva un gridolino di sorpresa e si protendeva per guardarlo. «Eladar! Sei tu!» Si lanciò in avanti per abbracciarlo, e cadde attraverso la sua figura seduta, per atterrare sugli avambracci all’estremità del letto. «Cosa?»

«Un’emanazione, solo un’immagine», le spiegò Farl, alzandosi col pugnale in mano. «El, sei davvero tu?»

«Naturalmente sono io», confermò El. «Se fossi un signore mago, non me ne starei semplicemente seduto qui, giusto?»

Tassabra socchiuse gli occhi. «Ora sei un mago?», domandò agitando le mani nella sua immagine. «Dove sei veramente?»

«Qui», rispose il principe. «Sì, sono una sorta di mago ora. Ho assunto tale forma per evitare tutte le vostre… ahm, trappole amichevoli».

Tassabra si mise le mani sui fianchi. «Se sei proprio qui, El», esclamò seriamente, «renditi solido! Voglio toccarti! Come faccio a baciare un’ombra?»

Elminster sorrise. «Va bene. Ma per tua sicurezza, smetti di muovere le mani dentro di me».

Obbedì, e il giovane mormorò poche parole e improvvisamente riacquistò forma solida e Tassabra lo abbracciò avidamente, la pelle liscia contro i suoi abiti scuri. Farl mise le mani attorno a entrambi, stringendoli forte. «Per tutti gli dei, mi sei mancato, El», esclamò rauco. «Non avrei mai pensato di rivederti».

«Dove sei stato?», domandò Tassabra, passandogli le mani sul viso e nei capelli e notando i cambiamenti operati dal tempo.

«In giro per Faerûn», rispose il giovane, «a imparare magie sufficienti per distruggere i signori maghi».

«Speri ancora di…?»

«Prima che albeggi per la terza volta», lo interruppe El, «se mi aiutate».

Entrambi rimasero a bocca aperta. «Aiutarti come?» domandò Farl, accigliato. «Trascorriamo gran parte del tempo semplicemente a evitare le crudeltà casuali dei maghi… Non possiamo sperare di resistere a un attacco deliberato, nemmeno di uno solo di loro!»

Tassabra annuì con aria grave. «Ci siamo costruiti una bella vita, El», affermò la donna. «I Moonclaw non esistono più; avevi ragione, El – erano strumenti dei signori maghi. Ora gestiamo le Mani di Velluto insieme e col commercio e gli investimenti astuti facciamo più soldi di quanti non ne abbiamo mai fatti scivolando di notte negli appartamenti».

Elminster inviò un pensiero a Braer e scomparve di nuovo alla vista. Colse nel frattempo un apprezzamento – «Bella, la fanciulla» – da parte dell’altro elfo, prima di rivolgere nuovamente la sua attenzione alla coppia di fronte a lui.

«Potete vedermi ora?», domandò. Farl e Tass scossero il capo.

«Né potete toccarmi… nemmeno con incantesimi», disse loro Elminster. «Ho alleati potenti; possono nascondervi proprio come stanno facendo con me ora. Potreste derubare i signori maghi e accoltellarli senza temere la loro magia!»

L’amico si irrigidì, gli occhi scintillanti. «No?»

Poi socchiuse gli occhi. «E chi sarebbero questi tuoi alleati?»

Elminster inviò nuovamente un pensiero a Braer: ho il tuo permesso?

Lascialo a noi, fu la calorosa risposta. Un momento più tardi, udì le tende del letto frusciare dietro di lui. Tass annaspò, e la mano di Farl si strinse sul pugnale che teneva sotto le coperte.

El sapeva che entrambi gli elfi erano apparsi dietro di lui ancor prima di udire la voce melodiosa di Braer. «Perdonate la nostra intrusione, Signore e Signora», cominciò l’elfo. «Non è nostra abitudine infiltrarci nelle camere da letto, ma sentiamo che quest’occasione di liberare il regno è molto importante. Se combatterete accanto a noi, ne saremo onorati».

El vide i suoi vecchi amici sbattere più volte le palpebre; gli elfi dovevano essere svaniti bruscamente. Udì nuovamente le tende chiudersi. Tass chiuse la bocca con uno sforzo. «Onorati?», esclamò Farl con stupore. «Gli elfi sarebbero onorati di combattere con noi

«Elfi», mormorò la ragazza. «Elfi veri!»

«Sì», rispose El con un sorriso, «e con la loro magia riusciremo a distruggere i maghi».

Farl scosse il capo. «Mi piacerebbe – perbacco, mi piacerebbe! – ma… tutti quei soldati…»

«Non combatterete da soli», lo rassicurò El. «Accanto a voi, se si giungerà alla battaglia aperta, ci saranno i Cavalieri del Cervo».

«I cavalieri perduti di Athalantar?», esclamò affannosamente Tass.

Farl scosse la testa, incredulo. «Altre leggende per bambini! Io… mi sembra un sogno… davvero intendi…» Scrollò di nuovo il capo per schiarirsi le idee, e domandò: «Come sei riuscito a convincere gli elfi e i cavalieri a seguirti?»

«Sono leali ad Athalantar», rispose tranquillamente El, «e hanno risposto alla chiamata del suo ultimo principe».

«Chi è?»

«Io», asserì seccamente. «Eladar il Tenebroso è anche Elminster, figlio del Principe Elthryn. Sono un principe di Athalantar».

Farl e Tass lo fissarono, e poi, con fare incerto, l’amico deglutì. «Non ci posso credere», sussurrò, «ma oh, lo voglio! Un’opportunità per vivere liberi, e non dover temere, né inchinarsi più ai maghi in nessun luogo di Athalantar…»

«Ci stiamo», esclamò fermamente Tassabra. «Conta su di noi, El… Eladar. Principe».

Farl la guardò. «Tass!» sibilò. «Che cosa stai dicendo? Ci uccideranno!»

Tassabra voltò la testa verso di lui. «E allora?» domandò tranquillamente. «Abbiamo avuto successo finora, sì… ma un successo che può essere spazzato via in un istante per un semplice capriccio di un mago».

Si alzò in piedi. La luce lunare evidenziò il suo corpo nudo, ma lei era avvolta da dignità come se indossasse una tunica lussuosa. «E ti dirò di più», continuò, «possiamo essere soddisfatti di ciò che abbiamo fatto… ma Farl, per una volta nella vita voglio essere orgogliosa! Fare qualcosa che la gente rispetterà per sempre, al di là di ciò che potrebbe accadere! Fare qualcosa… che conti. Questa potrebbe essere la nostra unica possibilità».

Guardò fuori dalla finestra, si irrigidì quando vide gli elfi su un tetto vicino, e poi emise ciò che avrebbe potuto essere un singhiozzo quando le nobili creature agitarono una mano in segno di saluto. Solennemente, sentendo il cuore che lievitava nel petto, ricambiò il saluto, e si voltò con improvvisa ferocia. «Esiste causa migliore di questa? Athalantar ha bisogno di noi! Possiamo essere liberi!»

Farl annuì, un sorriso lento gli solcò il viso. «Hai ragione», rispose pacatamente, e alzò lo sguardo verso Elminster. «El, puoi contare sulle Mani di Velluto». Sollevò il pugnale in segno di saluto, e la sua lama catturò scintillante il chiarore della luna. «Che vuoi che facciamo?»

«Domani sera», rispose El, «avrò bisogno di voi. Tassabra dovrà contattare i cavalieri; meglio se si traveste da prostituta, e dovrà recarsi al campo fuori le mura, vicino alla fossa dove bruciano i rifiuti. Poi, per tutta la notte, i tuoi compagni lavoreranno con gli elfi… e ruberanno gli oggetti magici e quelle piccole cose che usano per fare incantesimi – ossa e scaglie arrugginite, gemme, pezzi di corda, e simili – dalle dimore dei maghi in tutta la città. Gli elfi vi nasconderanno e vi diranno che cosa prendere».

I tre amici si sorrisero a vicenda. «Sarà divertente», esclamò Farl con occhi scintillanti.

«Lo spero», rispose tranquillamente El. «Oh, lo spero».

«Ci hanno già attaccato, Maestro?» Il tono di Malanthor e il suo sopracciglio sollevato erano sardonici. «O mi sono perso qualcosa? Ho trascorso qualche minuto in bagno questa mattina».

Il sorriso di Ithboltar era sottile e rigido. «La minaccia è reale, e rimane tale. Faresti bene a mettere da parte un po’ della tua arroganza, Malanthor. L’orgoglio solitamente precede i disastri, soprattutto per i maghi».

«E i vecchi iniziano a sognarsi cose e a pensare che siano reali», rispose tagliente il mago, «se vogliamo continuare con le banalità».

Ithboltar alzò le spalle. «Nei giorni a venire, assicurati solo di essere pronto con incantesimi, bacchette magiche, e simili come per una battaglia contro nemici».

«Athalantar è di nuovo sotto assedio?», domandò allegramente Chantlarn mentre misurava la stanza a grandi passi. «Ci sono eserciti alle porte e tutto il resto?»

«Temo di sì», esclamò Malanthor, portandosi una mano alla fronte e assumendo il tono di una matrona isterica. «Temo di sì».

«E anch’io», affermò Chantlarn con entusiasmo. «Che cosa pensi Ithboltar?»

«Che sono circondato da idioti», rispose aspramente il vecchio mago, e si voltò verso il libro di incantesimi sul tavolo di fronte a lui. I due maghi più giovani si scambiarono occhiate divertite.

«Come sto?», domandò Tassabra, sollevando le braccia e ruotando su se stessa. Minuscoli campanelli d’ottone tintinnarono qua e là sulla rete di nastri di pelle che mettevano in evidenza il suo corpo, più che vestirlo. Strisce di seta dalle sfumature color rubino proclamavano a tutti quale fosse il suo mestiere; persino i suoi stivali alti erano bordati di rosso.

Elminster si leccò le labbra. «Non avrei mai dovuto andarmene», esclamò tristemente, e la ragazza rise compiaciuta.

El roteò gli occhi e le mise in spalla il mantello rosso-rubino. Come sospettava, era disseminato di spacchi arditi, e rifinito con merletti. Tass incedette impettita, le ginocchia nude che facevano capolino attraverso il mantello mentre si avvicinava all’amico.

«Dovresti sembrare una che non guadagna abbastanza ad Hastarl, e deve andare all’accampamento dei mercanti», protestò El, «non far penzolare la lingua a tutta la città!»

Tass mise il broncio. «Doveva essere divertente, ricordi?»

El sospirò e la prese fra le braccia. La ragazza spalancò gli occhi, e poi alzò la testa e lo baciò appassionatamente. Le loro labbra stavano per toccarsi quando El sussurrò la parola che li portò fuori dalla stanza buia, lontano, dietro una pila di botti nella via disseminata di spazzatura lungo le mura.

Tass si aggrappò a lui, corrugò il naso, e lo prese in giro: «Non sono mai stata baciata in quel modo prima d’ora!»

«C’è sempre una prima volta, fanciulla», esclamò El con un inchino, mentre la sua forma svaniva. «Il mio ritratto di Helm… è ancora chiaro nella tua mente?»

Tass annuì. «Vivido… un incantesimo magnifico quello».

«No, fanciulla; servono anni per imparare sufficiente magia per lanciarlo, lo stesso vale per la telepatia. Che Tyche ti assista, cerca di non farti ammazzare o schiacciare dall’impeto di uomini affamati prima di trovare Helm e i suoi cavalieri».

Tass fece un gesto molto volgare nella sua direzione, e poi si incamminò impettita nell’imbrunire.

Elminster la guardò procedere e poi scosse il capo. Si augurava di non incontrarla di lì a poco, di non imbattersi in un cadavere contorto.

Sospirò e si voltò. Ci sarebbe stato molto da fare quella notte.

Tass schiaffeggiò distrattamente un’altra mano avida e sbottò: «Prima i soldi, signore».

Le rispose una risata mesta. «Tre pezzi d’argento, sorella?».

«Una sorella è tutto ciò che otterrai con tre pezzi d’argento», assentì affabilmente, e continuò a camminare, scrutando qua e là, in cerca della faccia che Elminster le aveva impresso nella mente. Non era un uomo dall’aspetto nobile, quell’Helm Spadadipietra.

«Spade da Sarthryn, Signora?», mugolò una voce.

La donna guardò ferocemente in quella direzione. «Perché dovrei volere una spada, signore?»

«Per abbinarla alla tua lingua, fanciulla!» rombò un’altra voce divertita. Tass si voltò per vedere l’uomo che aveva parlato – e si fermò impietrita. Era lui. Diede uno sguardo intorno agli uomini malvestiti che oliavano e affilavano spade. Naturalmente… quale modo migliore per giustificare tante armi, senza guerrieri temerari che le portano?

«Sono venuta per te», affermò tranquilla avanzando verso Helm. Il vecchio guerriero malconcio la guardò dalla testa ai piedi – e la spada che stava pulendo si sollevò come un serpente pronto a colpire e le toccò il seno. La ragazza si arrestò improvvisamente e deglutì. Non aveva mai visto una spada brandita con tale rapidità – e l’acciaio era gelido e solido contro la sua carne.

«Stai indietro», le ordinò l’uomo, «e dimmi chi sei, e chi ti ha mandato».

Tass indietreggiò lievemente e aprì il mantello per mettere le mani sui fianchi. Uno dei guerrieri allungò la testa per vedere meglio le sue grazie, ma gli occhi di Helm erano fissi sulle mani, e la sua spada sollevata e pronta.

«Parlo in nome di Elminster… o di Farl», affermò la donna tranquillamente.

La spada scintillò alla luce del fuoco mentre Helm la abbassava lentamente. «Bene», brontolò il cavaliere, sollevando un boccale e offrendole da bere, «perché non decidi quale, e poi parliamo?»

«Il Mago Reale è da un’altra parte», sussurrò Farl, il volto lucido di sudore. «Altrimenti non sarei vivo». Stava tremando.

«Calmati», lo esortò Elminster. «Lo sei, e questo è l’importante».

«Per ora», ribatté l’amico sibilando. «Chi lo sa se quel mago non ha lasciato incantesimi che catturano il mio aspetto, per mostrarglielo dopo… e non viene magari a cercarmi?»

L’elfo accanto a loro scosse la testa in silenzio. El indicò col capo il mago elfo in disparte. «Lui avrebbe percepito qualsiasi incantesimo che Undarl avesse fatto, fidati».

Farl si strinse nelle spalle, ma sembrò tranquillizzarsi quando mise un assortimento di gemme, fiale, e sacchetti nelle mani di Elminster. «Ecco. Aveva anche qualcosa incastonato nel letto, ma non sono riuscito ad arrivarci, e avevo dimenticato di portare con me l’ascia».

«La prossima volta», rispose El con tono rassicurante, e dopo un momento Farl gli sorrise.

«Molti apprendisti ladri stavano tentando di evitare la sorveglianza di Undarl per rubare pergamene di incantesimi che continuavo a far cadere sopra di loro! Non so ancora come abbiano fatto a non vedermi… questa mia ombra dev’essere brava». Si accigliò. «Come… come vanno le mie Mani?»

Elminster si grattò il naso. «La ragazza testarda – Jannath, si chiama? – si è imbattuta in un servo e l’ha ucciso prima di darsi tempo per pensare, ma la sua ombra-elfo ha gettato il corpo nel fiume. Per il resto, tutto quieto, come previsto».

«Che cos’è rimasto da fare?»

«Ci resta solo la torre di Ithboltar», affermò la voce di Myrjala proveniente dall’oscurità accanto a loro. «Perciò ti rimane Malanthor».

Farl annuì. «Bene… dov’è Tass?»

Elminster sogghignò. «Le ho fatto togliere quel costume rosso rubino…»

«Sfido che l’hai fatto», esclamarono Farl e Myrjala all’unisono, e poi si guardarono e risero.

«… perciò ha iniziato un po’ più tardi», continuò Elminster tranquillamente, come se nessuno l’avesse interrotto. «Ora è nella torre di Alarashan; la sua ombra non ha riportato nulla di storto».

Farl tirò un sospiro di sollievo, e balzò in piedi. «Portami da Malanthor, dunque».

Myrjala inarcò le sopracciglia, e fece cenno a El di compiere il primo incantesimo. Ubbidientemente il giovane avanzò, puntando il dito oltre i tetti scuri della città. «Vedi quella torre laggiù? Ora ti faremo volare attraverso la finestra… quella più piccola; sono i bagni, nelle altre stanze ci saranno sicuramente incantesimi d’allarme e forse trappole».

«Volare?», esclamò Farl roteando gli occhi. «Non mi sono ancora abituato al fatto che tu sia un mago potente, El… o un principe, se è per quello».

«Non preoccuparti», affermò Myrjala rassicurante. «Neanche El in realtà è abituato a essere le due cose».

«Mi sorprendi», esclamò Farl seccamente, avviandosi a grandi passi fino al bordo del tetto. Dietro di lui, i due maghi si scambiarono sguardi divertiti.

Farl allungò la mano per prendere l’anello. Era quasi troppo semplice. «Il vino è quasi terminato», si lamentò una stizzosa voce femminile, dalla vasca dietro la tenda.

«Vai a prenderne altro», ribatté il signore mago dall’altra estremità della vasca. «Sai dov’è».

L’acqua spruzzò. Le dita di Farl si chiusero sull’anello – e una mano bagnata, dalle lunghe dita si allungò oltre la tenda, richiudendosi su… la nocca di Farl! Il giovane ritrasse la mano e si girò. Per Farl, il tempo di copertura era terminato. La donna emise un grido lacerante. Sì, più che terminato.

Farl udì l’imprecazione di sorpresa del mago mentre si precipitava nelle latrine. «Tirami fuori di qui!» ringhiò, saltando oltre una sedia bassa. «Subito!»

Si udì un coro di spruzzi da dietro e la voce di un uomo pronunciare una rapida cantilena.

Farl imprecò disperatamente. «Elminster!» gridò, scansando un tavolo. Poi sentì un formicolio nelle braccia e nelle gambe. Vacillò, vide una luce scintillare intorno a lui come fiamme danzanti, e cadde attraverso la porta nelle latrine. Rimani immobile, gli sussurrò nella mente una voce tranquilla di elfo. Farl rabbrividì e fece quanto gli era stato detto. Che alternative poteva avere?

«Invisibile!», sbottò il mago, incredulo. «Un ladro reso invisibile da un incantesimo, nelle mie stanze! A che punto siamo arrivati?»

Gocciolante, attraversò la stanza, minuscole saette blu giocherellavano fra le sue mani. «Bene, credo che gli estorcerò qualche risposta prima che muoia… Nanatha, versa anche a me un po’ di quel vino!»

Oh dei, aiutatemi, pregò Farl, con la fronte sul pavimento. El, dove sei? Lo sapevo che ciò avreb…

Vi fu un improvviso bagliore, e poi un sospiro disgustato. «Giusto nella tazza», esclamò Elminster rabbiosamente. «Non è una stanza tanto piccola, ma dovevo comparire giusto nella…»

«Chi nei Nove Inferni Ardenti sei tu

Malanthor rimase a bocca aperta; nel suo gabinetto non c’era un intruso, bensì due, e non si spiegava come vi fossero arrivati. Scosse il capo, ma decise di non attendere una risposta. Fulmini blu scaturirono dalla punta delle dita. Colpirono il giovane dal naso adunco – un momento! era l’uomo del quale Ithboltar continuava a farfugliare! – e rimbalzarono, investendo il mago prima che avesse il tempo di reagire. Malanthor grugnì mentre il suo corpo veniva scaraventato all’indietro, e, tra spasmi incontrollabili, ricadeva oltre un divano. Nanatha urlò ancora.

«Alabaertha… shumgolnar», ansimò dimenandosi sul tappeto. Chantlarn aveva richiesto un prezzo elevato per quell’aiuto, ma doveva ricorrere al loro patto oppure morire!

«Myr?», chiamò El. «Sei pronta?»

«Sto arrivando», fu la risposta sommessa. «Abbiamo una pattuglia di soldati quassù».

«È per questo che sono visibile?», chiese El rendendosi improvvisamente conto che il mago l’aveva visto immediatamente.

El uscì dalla tazza e avanzò verso il punto in cui il mago era sparito. Una bottiglia di vino volò attraverso la stanza diretta contro la sua testa; il giovane si abbassò, e questa gli toccò la spalla e si infranse contro la porta dietro di lui.

«Sì, è per questo», rispose tranquillamente Myrjala. «La prossima volta, limitati a versarmene un bicchiere, d’accordo?»

El guardò la donna spaventata che aveva lanciato la bottiglia – i maghi andavano sempre in giro nudi? No, era bagnata fradicia, proprio come l’uomo: tempo del bagno, dunque – e poi si voltò per vedere Myrjala che toccava Farl.

«Stai indietro», ordinò a El, e i due svanirono. El si girò di nuovo verso la donna, e poi guardò il signore mago che si stava rialzando.

«Per la morte dei miei genitori», mormorò piano, «muori, mago!» e dal suo corpo uscì, tuonando, un incantesimo: sfere d’argento si riversarono nella stanza e iniziarono a esplodere, una dopo l’altra, scuotendo la stanza. Il mago tentò di urlare.

«Ma che discorso drammatico», esclamò una nuova voce dietro il giovane.

Elminster si voltò, e un uomo baffuto, dall’aspetto fiero, in abiti color porpora, che due secondi prima non era nella stanza, gli sorrise affabilmente e agitò la bacchetta magica che teneva in mano. Il mondo si oscurò e poi divenne rosso. Indistintamente, El udì un rumore di vetri infranti, il suo corpo colpire una parete e demolire uno specchio. Poi un suono di ossa infrante quando rimbalzò nuovamente verso il centro della stanza, per cadere in avanti e sprofondare nell’oblio….

Chantlarn dei signori maghi annuì soddisfatto e si avvicinò lentamente per ispezionare il corpo dell’estraneo. Forse poteva salvare qualche magia… non sprecò nemmeno tempo a guardare l’apprendista singhiozzante o il divano distrutto e fumante, sul quale le ossa annerite e contorte di Malanthor stavano ancora lottando disperatamente per mantenersi erette.

«Elminster?» La voce proveniente dalla soglia della latrina era bassa e tranquilla, ma decisamente femminile. Chantlarn si voltò, e udì la donna annaspare. L’altro intruso da cui Ithboltar li aveva messi in guardia! Sorrise a denti stretti e agitò nuovamente la bacchetta magica, puntandola sul volto della maga. La bacchetta scintillò di nuovo, e Chantlarn aprì gli occhi. Doveva smettere di sparare a distanza tanto ravvicinata, altrimenti… ora era lui ad annaspare.

La donna era ancora immobile sulla soglia, gli occhi furenti e addolorati. La magia non le aveva fatto nulla! Chantlarn deglutì e ripuntò la bacchetta magica, ma la maga si allungò nel suo bagliore e toccò il nemico. Chantlarn ebbe solo il tempo per un grido strozzato, prima che il suo corpo volasse fuori dalla finestra del balcone. Era ancora alto sopra il cortile del castello quando si infilò la bacchetta magica in bocca, dimenandosi e lottando mentre combatteva, e l’azionò nuovamente.

Vi fu un’esplosione di sangue e la bacchetta magica scaricò fulmini e fiamme in tutte le direzioni, contro le mura del castello, seminando panico in una pattuglia di soldati terrorizzati.

L’apprendista strillò ancora. Myrjala guardò una volta il suo volto rigato di lacrime, e poi si voltò di nuovo verso Elminster, mormorando un incantesimo. Un bagliore bianco-bluastro si creò intorno alle sue mani e si diffuse avvolgendo la sagoma contorta di Elminster. Fece un gesto, e il giovane si sollevò nell’aria, come disteso su un letto invisibile. Il bagliore magico si intensificò.

Nanatha indietreggiò, gemendo per la paura. Myrjala si voltò di nuovo… e le sorrise. L’apprendista ammutolita vide le sue fattezze oscillare e fluire, e trasformarsi in… nel mago reale! Undarl Cavalcadrago le rivolse un ghigno, abbassò il suo sguardo freddo sulle nudità della ragazza e poi, risollevandolo, la salutò con gesto beffardo. La luce divenne sempre più brillante, fino ad accecarla… e quando riuscì nuovamente a vedere, nella stanza non c’era più nessuno.

Si udì un rumore tintinnante dall’altro lato della stanza. Nanatha si voltò in tempo per vedere le ossa di Malanthor collassare e incenerirsi. Sembrava un buon momento per svenire… e così fece.

«Ce la farai, amore mio», esclamò Myrjala dolcemente.

El tentò di annuire, ma sembrava tornare fluttuando da un luogo lontano, su una serie di morbide onde che gli impedivano di muoversi.

«Resta immobile», disse la donna, appoggiandogli una mano sulla fronte. Le sue dita erano fredde…. Elminster sorrise e si rilassò.

«Mi hai pulito gli stivali?», riuscì a domandare.

La maga scoppiò a ridere, ma l’allegria terminò in un singhiozzo che tradì tutta la sua preoccupazione.

«Sì», rispose, la voce nuovamente ferma, «e ho fatto di più. Ho preso le sembianze del mago reale e ho lasciato che l’apprendista di Melanthor mi vedesse. Penserà che tutto ciò che è accaduto sia opera sua».

«Un signor mago contro un altro», mormorò El, soddisfatto. «Ti sento….»

Un istante più tardi, fu ovvio che non la sentiva più. Il sonno l’aveva reclamato, un sonno profondo e ristoratore che lo lasciò ignaro quando Myrjala scoppiò in lacrime e l’abbracciò. «Per poco ti perdevo», singhiozzò, le sue lacrime gocciolavano sul volto del giovane. «Oh, El, che cosa avrei fatto? Oh, perché la tua vendetta non poteva essere qualcosa di meno pericoloso?»

17. Per Athalantar

Nel nome di un regno

Si fanno molte cose crudeli.

Nel nome dell’amore

Si ottengono cose più giuste.

Halindar Droun, Bardo di Beregost, dalla ballata Lacrime infinite.

Anno della Luna Marciarne

Le parole del signore mago fecero mordere le labbra a Tassabra. Si irrigidì, in ascolto, le sue dita a pochi centimetri dal bracciale luminoso.

«È qui con me», continuò il mago Alarashan quasi giovialmente mentre guardava maliziosamente la tremante Nanatha, «e insiste che la donna si è rivelata essere il mago reale… e Undarl l’ha anche salutata prima di andarsene, portandosi l’altro con sé».

«Sembra quasi impossibile». La voce vecchia e aspra proveniente dal cristallo si fece più alta. «Portamela immediatamente».

Alarashan chinò il capo. «Naturalmente, Maestro», rispose afferrando la donna per un polso. «Sarà fatto».

Toccò il cristallo, mormorò una parola, ed entrambi scomparvero. Tassabra arrischiò un’occhiata oltre il bordo del tavolo per guardare l’aria vuota in cui si trovavano i due un momento prima.

Era sola. Sospirò e poi scrollò le spalle, infilò nel sacco il bracciale e lo scettro che aveva adocchiato prima, e si voltò, poi tornò indietro, rivolse un sorriso malizioso al cristallo, e infilò anch’esso nel sacco.

«Fatto», esclamò gaiamente, e sentì il formicolio di un incantesimo pervaderle il corpo mentre l’ombra dell’elfo la riportava a casa.

Gli ultimi pallidi raggi di luna illuminavano il cortile ghiaioso quando Hathan lo attraversò, diretto alla torre in cui lo attendeva la sua stanza degli incantesimi. Quegli inutili idioti di apprendisti avrebbero fatto meglio ad attenderlo pronti intorno al tavolo, quando sarebbe arrivato… Gli incantesimi che permettevano di saltare lontano comportavano sempre un rischio, anche senza tre giovani bacchette ambiziose e i loro furbi complotti…

Hathan si irrigidì, la gamba a mezz’aria, e si fermò bruscamente. Impallidì, e poi si voltò e guardò verso la torre più alta di Hornkeep, aggrottando la fronte per concentrarsi. Non aveva mai udito il Maestro suonare tanto insistentemente; doveva essere accaduto qualcosa.

In una stanza scura in cima a quella torre, un’acqua luminosa schizzava in tutte le direzioni. I suoi riflessi danzavano sul viso assorto di Undarl Cavalcadrago, Mago Reale di Athalantar.

I grifoni si agitavano nell’acqua, lottando contro i suoi incantesimi. Se solo fosse riuscito a farli accoppiare in quella tinozza di fluidi incantati di granchio gigante, sarebbero bastati pochi ulteriori incantesimi per creare ciò che voleva. Un esercito di assassini volanti dal petto corazzato, al suo servizio… e avrebbe fatto il primo passo oltre quello che gli stregoni più potenti della sua famiglia avevano raggiunto. E lassù, gli dei sapevano che si stava stancando di aspettare. Undarl sospirò e si appoggiò allo schienale della sedia, ascoltando l’acqua straripare dai bordi della vasca e schizzare il muro.

Non avrebbe sprecato ancora molti giorni lì, con quel Seldinor bacialucertole e gli altri, tanto anelanti al suo trono… Undarl si irrigidì quando il pensiero di Hathan lo trafisse. La chiamata era forte perché il suo apprendista più anziano era giù nel cortile, ed era anche molto eccitato e un po’ spaventato. Doveva sicuramente avere mal di testa. Il mago reale ascoltò, invitò brevemente Hathan a tornare ai suoi affari, e interruppe il contatto.

Uscì a grandi passi dalla stanza, dimenticandosi delle creature che continuavano a spruzzare e a far gorgogliare l’acqua nella tinozza alle sue spalle. Undarl si affrettò lungo un passaggio buio e giunse in una stanza particolare, posò una mano sulla parete nuda e pronunciò una parola. Il muro si spalancò con un debole scricchiolio; il mago si protese nell’oscurità antistante, tastò il coperchio di ferro, e appoggiò una mano sopra. Questo emanò un breve bagliore attorno alla mano, e si aprì, rivelando un interno debolmente illuminato. Undarl ne estrasse quattro bacchette magiche, se le infilò nella cintura, e frugò in una tasca sul coperchio dello scrigno. Prese una manciata di gemme, chiuse lo scrigno e il muro con due brevi gesti e una parola, e proseguì lungo il corridoio.

Uno dei suoi apprendisti più giovani sollevò lo sguardo, sorpreso, dalla pergamena che stava copiando. «Signor Maestro?», chiese incerto.

Undarl lo oltrepassò senza una parola e aggirò una scultura a quattro braccia, acquattata sul suo basamento, per salire le scale oltre a essa; conducevano a un balcone polveroso, raramente usato, sul quale, fra strani oggetti di filo metallico, di lamine incurvate e di vetro scintillante, si ergeva un piedistallo di pietra spoglio. Il mago reale si fermò di fronte a esso, vi depose la manciata di gemme, tracciò un certo segno intorno alle pietre con un dito che lasciava dietro di sé una traccia luminosa, e mormorò una cantilena lunga e complicata, a bassa voce.

L’apprendista si sollevò dalla sedia per vedere meglio che cosa stesse facendo Undarl, e rimase impietrito in quella goffa posizione, oscillando, quando l’incantesimo fece effetto.

Il mago sorrise a denti stretti e lasciò la stanza. Tre locali più avanti trovò un altro apprendista disteso scompostamente sul pavimento, una chiave che non avrebbe dovuto avere era caduta dalla sua mano, e con l’altra teneva una pergamena la cui lettura gli era stata proibita. Ben gli stava.

L’incantesimo che aveva fatto calare il sonno delle età sarebbe durato finché Undarl non vi avesse posto termine, finché il piedistallo non fosse crollato o non si fosse sgretolato rompendo il sigillo, o finché la magia non avesse consumato le gemme – vale a dire un migliaio di inverni e forse più. Tutti coloro che fossero entrati, eccetto lui, nella torre del Cavalcadrago sarebbero caduti in un sonno profondo, che li avrebbe mantenuti immutati mentre il tempo intorno a loro trascorreva inesorabilmente.

Forse li avrebbe lasciati a lungo in tale stato e si sarebbe assentato per un po’ dalla torre, per vedere se Seldinor, o altri rivali ambiziosi, fossero stati tentati di entrarvi, cadendo in trappola. Sarebbe stato poi un gioco da ragazzi fare in modo che l’incantesimo che avrebbe posto fine al sonno avesse fatto altrettanto con la loro vita, senza dar loro il tempo di difendersi.

Assorto nei suoi pensieri, Undarl scese la scala di pietra ventosa e uscì nel cortile, le armature vuote, fluttuanti sollevarono le loro alabarde per lasciarlo passare. «Anglathammaroth!» chiamò. «A me!»

Un passo più oltre, ed era scomparso. Quando l’ombra enorme investì il cortile un attimo dopo, tutto ciò che trovò furono pochi granelli di luce scemanti. Sbatté una volta le ali, e un rombo di tuono echeggiò fra le Colline del Corno, poi salì verso le stelle, virò, e volò verso sudest.

Il profumo caldo e dolce del pane raggiunse le narici dei soldati. Annusarono compiaciuti e sfondarono la porta della bottega del fornaio, dirigendosi direttamente verso Shandathe, china su tegami di pagnotte messe a raffreddare. Una guardia l’afferrò per il braccio; la donna sollevò lo sguardo e si mise a gridare.

Suo marito uscì allarmato dalla porta della cucina. Fece due passi rapidi e furiosi verso la moglie che si agitava, ma fu subito fermato da due spade puntate alla gola.

«Stai indietro, tu!», ordinò uno dei soldati che impugnavano le armi.

«Che cosa st…»

«Taci! Stai indietro!», ringhiò un altro, afferrando una pagnotta dalla casseruola più vicina. «Ci prenderemo anche questo».

«Shandathe!», ruggì il fornaio, mentre la punta delle spade lo faceva indietreggiare di un passo.

«Stai indietro, tesoro!», singhiozzò la moglie mentre veniva trascinata rudemente verso la porta. «Indietro, o ti uccideranno!»

«Perché mi state facendo questo?», ringhiò Hannibur perplesso.

«Il re ha visto tua moglie e le è subito piaciuta. Dovresti esserne onorato», rispose un soldato con umorismo crudele. Un altro, da dietro, assestò un pesante rovescio alla nuca del fornaio. Hannibur aprì la bocca in un ultimo grido strascicato, e cadde di faccia sul pavimento…

«Abituati», esclamò Farl con un sogghigno. «Le fogne sono il solo accesso sotto le mura del castello».

«Non conosci i passaggi segreti?», rombò Helm, osservando i muri gocciolanti. I rifiuti galleggiavano oltre il suo mento e arricciò il naso quando uno dei cavalieri, dietro di lui, iniziò a vomitare.

«Sì», rispose Farl dolcemente, «ma temo che li conoscano anche i signori maghi. Chi tenta di usarli finisce sempre, come per magia, nelle stanze degli incantesimi. Abbiamo perso molti concorrenti in quel modo».

«Non ne dubito, chiacchierone», esclamò Helm stizzosamente, cercando di mantenere asciutta la spada. Il sudiciume turbinava e scorreva oltre il suo corpo, mentre avanzava immerso nell’acqua fino al petto, domandandosi perché gli elfi, che avrebbero potuto aprire un varco tra le acque, avessero scelto di nascondersi nelle vicinanze, e svolgere la loro azione protettiva dal loro nascondiglio… che era in qualche luogo più asciutto.

«Ecco il luogo», esclamò Farl, indicando un punto nell’oscurità. «In questo condotto sono stati ricavati degli appigli perché in cima vi è una stanza nella quale si incontrano sei cambuse, che si intasa sempre e deve essere ripulita ogni primavera. Ora ricorda, Anauviir: le stanze di Briost possono essere raggiunte da tutte le cambuse che si trovano sulla sinistra… che è questa mano…»

«Grazie, ladro», grugnì Anauviir. «So distinguere la destra dalla sinistra, sai».

«Beh, voi siete cavalieri», esclamò Farl allegramente. «E se i nobili di Hastarl dovessero…»

«Dove conducono le altre cambuse?», lo interruppe il cavaliere. Helm sogghignò vedendo l’espressione del suo compagno.

«A due stanze usate da apprendisti», rispose Farl, «ma è mattino; saranno alzati per preparare la festa mattutina e il bagno per i padroni… e l’ultimo buco conduce a una specie di sala di lettura, che dovrebbe essere vuota… Io ed Helm proseguiremo fino al prossimo condotto, che porta alle stanze di Alarashan; e il Principe Elminster ha promesso di farsi vivo se il castello insorge, per attirare su di lui l’attenzione dei maghi… ed evitare che attacchino noi… Qualche domanda?»

«Sì», esclamò uno dei cavalieri, sputando nell’acqua. «Come fanno i ladri a sgraffignare qualcosa ad Hastarl? Derubano solo gente sorda?»

L’apprendista emise un piccolo grido. Alarashan aggrottò la fronte. Preferiva ragazze volenterose, ma Undarl gli aveva affibbiato quel giovane idiota… senza dubbio una spia, tanto più che era negato per la magia. Quando non rompeva le cose, provvedeva a rovinare i suoi incantesimi, e…

Il mago guardò nelle latrine. Ortran era seduto sulla tazza, i pantaloni abbassati sulle caviglie, e…

Alarashan si irrigidì. Il suo apprendista era stato spinto via, da qualche cosa – qualcuno! – da sotto. Fece qualche passo avanti, estraendo una bacchetta magica dalla cintura, quando il corpo di Ortran cadde contro il muro e la lama sanguinante che l’aveva ucciso si ritirò dal buco della latrina.

Alarashan puntò la bacchetta, poi si fermò. Che cosa avrebbe impedito a quel qualcuno di infilzargli una spada in faccia, se si fosse sporto sopra il buco? No, avrebbe lasciato che emergesse, e l’avrebbe ucciso non appena fosse uscito. Si acquattò, in attesa.

E parte del muro dietro di lui si spostò silenziosamente. Alarashan ebbe il tempo di girarsi e guardare sbalordito il pannello segreto del quale non sapeva nulla, prima che una clava si abbassasse violentemente sulla sua spalla, e la bacchetta gli scivolasse dalle dita intorpidite e brucianti.

Briost non concesse tempo alla paura quando l’uomo dall’armatura sudicia sbucò dal suo armadio con la spada sguainata. Sollevò una mano, azionò il suo anello, e si spostò lateralmente per dare all’uomo morente sufficiente spazio per cadere.

Il secondo assalitore produsse uno sguardo sorpreso sul viso del mago, il cui anello scintillò una seconda volta. Qualche cosa, tuttavia, scintillò alle spalle dell’uomo cadente – per tutti gli dei! Il pugnale per poco non gli cavò un occhio. Si scansò e sentì un forte colpo sulla guancia. Il coltello proseguì la sua corsa, e mentre il mago si raddrizzava per affrontare gli uomini che si stavano riversando numerosi fuori dalle latrine, sentì umidità sulla sua faccia.

Si portò una mano al volto, la ritrasse con le dita color cremisi, macchiate del suo stesso sangue, e d’un tratto si rese conto di non avere il tempo di concedersi tali lussi….

Troppo tardi, le spade lo trafissero da tutte le direzioni.

Il cristallo scintillò. Ithboltar sollevò lo sguardo oltre a esso e con gesto imperioso invitò l’apprendista spaventata a sedersi. Nanatha sedette in silenzio, mentre il Maestro, un tempo tutore di tutti i signori maghi, si alzò per scrutare il cristallo.

Questo si illuminò nuovamente. «Entrambi… no…» Ithboltar grugnì e si protese per toccare qualcosa che Nanatha non poté vedere, sotto la sua scrivania. Pronunciò una parola a bassa voce, e la stanza tremò sotto il rintocco improvviso di un grande gong.

«Siamo stati attaccati», sibilò ferocemente il Maestro mentre un coro di campane echeggiava e rimbombava in tutto il castello. «Briost? Briost, rispondimi!» Si protese sopra il cristallo, borbottando e d’un tratto spalancò gli occhi per ciò che vide nelle profondità della sfera, poi infilò una mano nel davanti della tunica, strappandola nella fretta disperata. Nanatha vide i peli grigi su un petto incavato mentre Ithboltar estraeva ciò che stava cercando: una sorta di zucchetto adorno di gemme. Se lo mise in testa e i capelli spararono fuori in tutte le direzioni. In un altro momento la donna avrebbe riso nel proprio intimo per l’aspetto ridicolo del vecchio arcimago, ma non ora. Era troppo terrorizzata… da qualsiasi cosa avesse infuso tanta paura al Maestro, il più potente di tutti i signori maghi.

Ithboltar eseguì rapidamente i gesti di un incantesimo che aveva sperato di non dover mai usare, e la stanza turbinò fra i suoni tintinnanti di cristalli in frantumi. Nanatha rimase a bocca aperta.

All’interno della stanza comparvero improvvisamente cinque signori maghi dallo sguardo perplesso.

«Che cos’hai…?»

«Come hai fatto a port…?»

«Perché…?»

L’arcimago alzò una mano per zittirli. «Insieme abbiamo la possibilità di affrontare questa minaccia. Da soli, siamo spacciati».

Le campane suonarono di nuovo, e i soldati si alzarono con un coro d’imprecazioni. «Non accade mai», protestò Riol, sparpagliando i dadi con gli stivali mentre scivolava oltre il tavolo e correva su per la scala.

«Bene, sta accadendo in questo momento», brontolò Sauvar, la Prima Spada, proprio dietro di lui. «E puoi star certo che qualunque cosa spaventi una decina di signori maghi, e forse più, è una cosa di cui dovremmo aver paura anche noi!»

Riol aprì la bocca per rispondere, ma qualcuno uscì da un buio passaggio laterale e vi infilò una spada, la cui lama scintillò quando uscì dalla parte opposta della testa di Riol; Sauvar si imbatté nell’arma prima di riuscire a fermarsi, e indietreggiò con un’imprecazione di sorpresa.

«Chi in tutti i Nove…?» iniziò a domandare.

«Tharl Bloodbar, cavaliere di Athalantar», fu la risposta laconica di un vecchio dalla barba incolta, la cui armatura sembrava fatta di pezzi raccattati su una decina di campi di battaglia, cosa che in realtà era. «Signor Tharl, per te».

La spada luccicante nella mano del cavaliere emise un rumore stridulo quando si scontrò con quella di Sauvar e la spinse da parte… e poco dopo la Prima Spada raggiunse il compagno sul pavimento del corridoio. Lo scalpiccio di stivali che si affrettavano su per le scale rallentò, e l’uomo sogghignò crudelmente nell’oscurità e ringhiò, «Avanti… chi di voi eroi è più ansioso di morire?»

Jansibal Otharr sospirò esasperato. «Perché, nel nome di tutti gli dei, deve accadere proprio adesso

Terminò di fare i suoi bisogni, si voltò con la brachetta elaborata penzolante, guardò con desiderio la donna che l’attendeva nel letto, e poi sospirò e si abbottonò. Conosceva la punizione che l’aspettava se uno dei maghi avesse scoperto che aveva ignorato il loro prezioso campanello d’allarme per una scappatella.

«Rimani», le ordinò, «ma non approfittare troppo del vino, Chlasa. Tornerò presto». Allacciandosi la spada ingioiellata, uscì dalla stanza.

Il corridoio illuminato dalle torce, nella parte del castello riservata ai visitatori nobili, era solitamente deserta, eccezion fatta per qualche servo frettoloso. In quel momento era invece molto affollato: guardie del corpo in livrea che correvano di qua e di là, un delegato in tabarro athalantino, e Thelorn Selemban, il suo odiato rivale. Thelorn stava avanzando a grandi passi verso di lui, la sua sottile spada filigranata in pugno.

Jansibal divenne scuro in volto, e si mise ad armeggiare per sguainare a sua volta la spada prima che Selemban lo raggiungesse – in un tale caos, gli «incidenti» accadono fin troppo facilmente.

Gli occhi di Thelorn scintillarono beffardi quando giunse vicino a Jansibal. «Buona sera, mio adorato», salutò lievemente, sapendo che il riferimento alla scena imbarazzante accaduta al Bacio della Fanciulla avrebbe fatto infuriare l’unico rampollo della nobile casata degli Otharr.

Jansibal ringhiò e sguainò la spada – ma Thelorn l’aveva già oltrepassato con una risata di scherno, e stava scendendo di corsa un’ampia rampa di scale, diretto alla sottostante sala delle guardie. Un sorriso contorto e beffardo solcò il viso di Jans, e il bellimbusto profumato si affrettò a seguire il suo rivale. Gli incidenti possono accadere, sì, specialmente da tergo…

«Che cosa succede?», Nanue Trumpettower ripose il bicchiere, lo sguardo allarmato. Ah, pensò Darrigo allegramente, la fanciulla è un fiore tanto delicato… pensandoci bene… è sprecata per il giovane Peeryst.

Il vecchio si alzò pesantemente in piedi. «Bene», borbottò, «sono i campanelli d’allarme, che radunano le guardie. Penso che…»

«No, zio», lo interruppe grandiosamente Peeryst, sguainando la spada con uno svolazzo. «Ho portato con me la mia spada, andrò io a dare un’occhiata. Proteggi Nanue finché non ritorno!»

Spinse da parte Darrigo senza attendere una risposta, mascelle serrate e occhi scintillanti. Già, non perdeva occasione per pavoneggiarsi di fronte a sua moglie, pensò Darrigo, e quando Peeryst aprì bruscamente la porta, il vecchio allungò una mano per evitare che la porta sbattesse contro un tavolo di cui, probabilmente, i signori maghi andavano fieri.

Quasi immediatamente, il giovane emise un grido di sorpresa. Darrigo vide un soldato di corsa scontrarsi con il giovane, barcollare, e continuare per la sua strada. Peeryst non fu tanto fortunato; sbatté il naso contro il muro e gemette.

Darrigo grugnì. Naturalmente, il becco superdelicato di quell’idiota si mise a sanguinare e, naturalmente, la piccola Nanue si sarebbe alzata e sarebbe corsa a vedere che cosa era accaduto a quella fraschetta di suo marito. Infatti, Nanue lo oltrepassò con un gran fruscio di sottane, e si mise a gridare.

Darrigo guardò fuori giusto in tempo per vedere un nobile ben vestito scostare la donna con la spada, ringhiando: «Spostati, puttana! Non senti l’allarme?» Nanue cadde all’indietro contro la soglia con un singhiozzo di paura. La spada le aveva ferito un braccio, e il sangue le colava lungo le gonne. Darrigo non ci vide più dalla rabbia.

In due passi fu accanto a Peeryst, con una mano strappò la spada piccola e delicata dalla mano del nipote, con l’altra spinse la giovane speranza dei Trumpettower verso sua moglie. «Fasciale la ferita», ringhiò, incamminandosi lungo il passaggio dietro al nobile frettoloso.

«Ma… come?» gli gridò Peeryst disperatamente.

«Usa la tua camicia, uomo!», rispose Darrigo.

«Ma, ma… è nuova, e…»

«Allora usa i pantaloni, testa di legno», ruggì Darrigo, mentre si lanciava lungo una rampa di scale facendo tre gradini per volta.

Giunse in fondo alle scale ansimante e barcollante, ma riuscì a raggiungere l’uomo. La sua preda stava giusto alzando la spada, con tutte le intenzioni di piantarla nelle costole di un altro bellimbusto che lo precedeva di poco lungo corridoio. Darrigo lo colpì sulla nuca, e fortunatamente l’arma minuta del nipote non si ruppe. Il nobile si voltò di scatto, lasciando nell’aria una zaffata di profumo.

«Osi toccarmi, vecchio?» La spada del bellimbusto si accinse a colpirlo alla gola prima ancora che Darrigo potesse pronunciare una risposta.

Ringhiando, il vecchio la spostò da parte con la sua e avanzò. «Usare la spada contro una giovane Trumpettower? E per giunta disarmata! Non meriti di vivere tre secondi di più!»

Jansibal balzò indietro appena in tempo. La spada ornamentale del vecchio sibilò accanto al suo naso. Subito gli passò la voglia di ridere… il vecchione faceva sul serio!

Una nitida risata risuonò alle sue spalle: Thelorn, che gli dei lo maledicano! Jans ringhiò e scartò, superando il vecchio per togliere la sua schiena indifesa dalla portata del suo rivale.

«Ora attacchi i vecchietti, Jansibal? I più giovani iniziano a rifiutarti?» chiese Thelorn con interesse. Colto da furia improvvisa, il nobile si lanciò contro Darrigo. Le spade si incrociarono – una volta, due, e tre… e la brachetta di Jansibal cascò sul pavimento, entrambe le minuscole bretelle recise.

Il vecchio gli rivolse un sorriso freddo. «Pensavo che magari fossi riuscito a muoverti un po’ più rapidamente senza tutto quel peso laggiù», commentò, avanzando nuovamente.

Jansibal lo guardò attonito, poi la piccola spada si avventò nuovamente su di lui, e fu costretto a cimentarsi in una serie di parate frettolose. Thelorn rise nuovamente, godendo dell’umiliazione del rivale. Jans ringhiò e attaccò, e quasi casualmente la lama del vecchio superò la sua guardia e tracciò una riga sul suo naso e sulla guancia.

Otharr imprecò rabbiosamente e indietreggiò. Darrigo avanzò pesantemente verso di lui, e il bellimbusto profumato si voltò e si mise a correre per il corridoio scuro, allontanandosi. Il vecchio alzò incredulo un sopracciglio. «Fuggire una sfida? E ti credi nobile

Jansibal Otharr rispose annaspando, e un attimo dopo Darrigo capì il motivo. Una lancia gli fuoriusciva dalla schiena, scura per il sangue del nobile. La lama vibrò e Jans cadde in ginocchio sul pavimento, spinto da uno stivale, e si accasciò silenziosamente.

«Quello è un nobile di Athalantar?», esclamò un vecchio guerriero malconcio con in mano la spada insanguinata. «Avremmo dovuto ripulire prima questo luogo!»

Thelorn Selemban fece qualche passo avanti, oltre il vecchio sbalordito. «E voi chi siete?» domandò.

Helm Spadadipietra guardò la camicia di seta del nobile, aperta sul petto, e le sue maniche a sbuffo adornate di numerosi draghi striscianti.

«Un cavaliere di Athalantar», grugnì, «ma dal vostro aspetto, avrei fatto meglio a farvi da sarto».

«Un cavaliere? Che idiozia è questa? Non ci sono…» gli occhi di Selemban si assottigliarono. «Siete fedeli a Re Belaur e ai signori maghi?»

«Ho paura di no, ragazzo», rispose Helm avanzando. Dietro Thelorn vi erano più di dieci guerrieri nelle più svariate armature.

Selemban sguainò la spada con gesto elegante. L’arma scintillò alla luce delle torce quando esclamò eccitato: «Non avvicinatevi, ribelli, o morirete!»

«Oggi è la giornata dei grandi discorsi», rispose Helm, senza fermarsi. «Vediamo se con la spada te la cavi meglio del tuo profumato amico…»

«Amico?» sbuffò Thelorn. «Non era un mio amico, nonostante ciò che abbiate potuto udire. Ora indietro, altrimenti…»

«Altrimenti mi attaccherai?»

La voce di Helm era carica di sarcasmo, ma si affievolì quando Thelorn si strappò qualcosa dal collo, se lo portò alle labbra, e sogghignò: «Altrimenti vi uccido con questo, traditori! Mi dicono che…»

Fu allora che Darrigo Trumpettower prese la sua decisione. Fece due passi strascicati e conficcò la sua spada nell’orecchio del nobile.

Thelorn gorgogliò, lasciò cadere la spada e ciondolò, vacillò e cadde di faccia.

Darrigo guardò le facce truci degli uomini di fronte a lui. «Helm?» domandò, sbattendo le palpebre. «Helm Spadadipietra?»

«Darrigo! Vecchio leone! Lieto di rivederti!»

Un attimo più tardi i due si abbracciarono, scostando le spade con la disinvoltura di due veterani.

«Ho sentito che eri un fuorilegge; che cosa facevi, Helm?»

«Uccidevo soldati», rispose il cavaliere, «ma ho scoperto che uccidere i maghi è più divertente, ed è proprio ciò che sto facendo. Vuoi unirti a noi?»

«Posso?», grugnì Darrigo Trumpettower. «Grazie, volentieri. Fammi strada».

Helm roteò gli occhi. «Questi nobili», deprecò con aria disgustata, e si incamminò.

I maghi fissarono il Maestro e poi si guardarono l’un l’altro. Nelle loro parole d’assenso vi era una nota di riluttanza, e i loro sguardi erano sospettosi. Quelle facezie non erano ancora terminate, quando l’alta finestra all’estremità più lontana della vasta stanza degli incantesimi di Ithboltar si infranse da cima a fondo.

Dall’apertura entrò la figura imponente di un mago alto quanto due uomini, dalla barba bianca, sulla testa una corona di fuoco. Avanzò deliberatamente verso di loro, camminando sull’aria, in mano un bastone della sua stessa altezza, pulsante e scintillante di luci. Ogni mago gridò un incantesimo, all’unisono – e anche l’aria sembrò andare in frantumi.

La parete esterna della stanza crollò, gettando nel cortile di Athalgard polvere e macerie. Invisibile, dietro di loro, il cristallo di Ithboltar pulsò di vita.

El lasciò svanire nuovamente nell’oscurità il cristallo che Tass gli aveva portato. «Ben fatto, Myr… ognuno di loro ha sprecato un incantesimo potente».

Myrjala annuì. «Comunque non li coglieremo più in quel modo, e ora sono insieme, lontani dalle loro stanze dove i cavalieri e gli amici di Farl potevano sopraffarli».

El alzò le spalle. «E allora dovremo optare per la via più difficile».

I soldati salivano le scale a centinaia. Tass non era molto abile con una balestra, ma era difficile non colpire qualcosa in quel fiume di umanità corazzata. Mentre guardavano, un elfo allargò le mani in un incantesimo, e le guardie nelle prime file inciamparono, si portarono le mani agli occhi, e urtarono ciecamente il muro. I compagni appena dietro di loro incespicarono nelle guardie appena cadute. Si sollevarono cori di imprecazioni, e un ladro si protese dall’alto di una scala per infilare un pugnale in un elmo aperto e urlò: «Ci stanno attaccando!» Un altro ladro emise un grido gorgogliante da qualche parte vicino alla testa delle scale. Pochi attimi dopo, l’intera scalinata era un tumulto di spade sferzanti e di uomini urlanti. Farl li osservava con un ampio ghigno sul volto.

«Come puoi sorridere per ciò che sta accadendo?», lo rimproverò Tassabra, indicando i soldati che si stavano uccidendo erroneamente fra loro.

«Ogni morto è una guardia in meno che ci darà la caccia, Tass – uomini che per anni ho avuto una gran voglia di ammazzare, e non osavo farlo per paura di essere rintracciato dalla magia dei signori maghi. Ed ecco che ora si fanno fuori a vicenda – sono loro i responsabili della loro morte. Lascia che mi diverta, vuoi?»

Braer sorrise lievemente ma rimase in silenzio. La nobile creatura si sentiva più o meno come il giovane, sebbene non volesse ammetterlo nemmeno con se stesso. Qualsiasi cosa fosse accaduta in seguito, avevano comunque inferto un bel colpo alla potenza dei maghi quella notte. No… quel giorno, oramai….

Braer guardò fuori dalla grande finestra il cielo grigio che annunciava l’alba e si irrigidì. Un incantesimo d’allarme che aveva posto lì tre giorni prima era appena stato innescato, e inviava il suo grido alla mente dell’elfo.

«La mia battaglia sta per cominciare, temo», mormorò, e il suo corpo cominciò a gonfiarsi e a scurirsi rapidamente. Dalla schiena gli spuntarono un paio di ali, si ricoprì di squame argentee, brillanti alla luce delle torce, e un drago volò fuori dalla finestra, dopo aver fatto qualche passo per saggiare la sua massa imponente. Vetro e travi di legno schizzarono in tutte le direzioni, e una lunga coda sferzò le pareti della stanza prima di scivolare fuori dalla torre.

Tassabra rimase a guardare a bocca aperta quelle enormi ali sbattere una volta, e il drago in cui si era trasformato Braer si innalzò nel cielo e sparì dalla loro vista. La donna lo seguì con la testa e quando non riuscì più a vederlo roteò gli occhi nelle orbite, emise un lieve sospiro, e si accasciò di lato.

Farl la tirò a sé con un braccio. «Di solito non fa così», si lamentò, senza rivolgersi a nessuno in particolare. Uno degli elfi – il suo nome era Delsaran, pensò Farl – si protese e la accarezzò teneramente, una volta.

Il volto di Undarl Cavalcadrago aveva un’espressione arcigna mentre Anglathammaroth volava rapido attraverso il regno, diretto ad Athalgard. Era accaduto qualcosa di serio. Signori maghi contro signori maghi, una banda ribelle all’interno del castello… non sapevano quegli idioti che i governanti tanto odiati sarebbero stati attaccati dal popolo se avessero mostrato debolezza? Questo era ciò che accadeva quando si permetteva ai maghi ambiziosi di fare ciò che volevano. Se non fosse stato per Ithboltar, Undarl avrebbe potuto tenerli tutti a freno!

Il mago reale ringhiò di frustrazione mentre il grande drago nero si tuffava verso Hastarl, e poi, d’un tratto, rimase a bocca aperta, quando la luce dell’alba gli mostrò un drago che volava verso di loro!

Un drago argenteo… gli occhi del mago si assottigliarono. Doveva essere qualche trucco di un signore mago che sapeva che sarebbe venuto in città a cavallo del drago… una trappola per intercettarlo. Undarl sorrise a denti stretti e sferrò l’incantesimo più forte che aveva portato con sé. Sfere mortali di fuoco freddo e nero scaturirono dalle sue mani protese, ingrandendosi mentre rotolavano nell’aria verso il nemico.

Il drago d’argento si spostò lateralmente, e le fiamme mortali del mago reale svanirono. Undarl fissò l’aria vuota, incredulo, e poi estrasse una delle sue bacchette magiche e le attivò. Un’abbagliante saetta verde squarciò un fianco del nemico, che rabbrividì e si allontanò. Con una breve risata di soddisfazione, il mago spronò il suo destriero all’inseguimento.

«Per tutti gli dei!», imprecò un carrettiere. La gente intorno a lui seguì il suo sguardo incredulo, e si udirono grida di terrore. Un uomo cadde in ginocchio sui ciottoli e iniziò a balbettare una preghiera; altri decisero di pregare in corsa, e si precipitarono lungo la strada – lontano dalla battaglia che si stava svolgendo sopra le loro teste, fra due potenti draghi che volavano in circolo e ruggivano nei primi raggi di sole del mattino.

Lampeggiò un incantesimo, e il carrettiere ringhiò un’imprecazione amara. Naturalmente uno dei due era il mago reale, non affatto interessato se la morte fosse piovuta sui cittadini sottostanti – ma chi era l’altro? Un drago d’argento, poi! L’uomo sollevò lo sguardo nel sole, e vide il drago nero sputare acido in una nuvola increspata, che si sarebbe riversato sotto forma di pioggia su… sul porto, giudicò, e si domandò se dovesse nascondersi in un luogo più sicuro.

Ma dove? Non vi era alcun luogo che non potesse essere raggiunto dalle due bestie… nessun luogo in cui fuggire. Il carrettiere guardò impotente la casa e le botteghe intorno mentre urla di terrore provenivano dalle finestre. Gli abitanti iniziarono a riversarsi in strada e a correre. Li guardò fuggire in tutte le direzioni, e poi risollevò lo sguardo al cielo. Alzò le spalle. Se una fuga non serviva a nulla, perché non starsene dove si trovava e guardare tutto ciò che poteva? Non avrebbe mai più assistito a una cosa del genere… e se fosse sopravvissuto per raccontarla, avrebbe sempre potuto dire di essere stato là, e di aver guardato tutto fino alla fine.

Il drago nero ruggì una sfida. Baerithryn della Grande Foresta non sprecò fiato a rispondere. Stava elaborando un incantesimo mentre saliva in una stretta spirale, piegando la coda a destra e a sinistra per evitare i dardi mortali che il mago sparava ripetutamente dalla sua bacchetta magica.

«Fatti avanti e combatti!», ringhiò Undarl. Un attimo più tardi, un dardo colpì alla coda il drago argenteo roteante. Si agitò e precipitò sotto di lui, il vento che gli increspava le ali, seguito dalla risata trionfale del mago reale.

Qualcosa scintillò nell’aria attorno a lui, ma Undarl non accusò dolore. Un incantesimo non riuscito, pensò, alzando le spalle e spronando Anglathammaroth in picchiata. Se i suoi artigli avessero colpito le ali della bestia argentea, la battaglia sarebbe presto finita.

Le ali del drago nero si sollevarono vigorosamente; Undarl esultò nella sua potenza mentre il vento gli sferzava le orecchie. Sì, gli avrebbe dato il colpo di grazia!

Braer stava sbattendo freneticamente le ali, cercando di evitare l’attacco di Anglathammaroth. Undarl spronò il drago a virare, virare, e a non lasciarsi sfuggire il nemico… ma la bestia argentea, più piccola e più leggera, si stava portando proprio sotto di loro. L’avrebbero di certo superata…

Anglathammaroth si voltò violentemente, e solo le redini impedirono al mago reale di essere sbalzato di sella. Le zampe del drago si protesero mentre cercavano di artigliare il nemico almeno una volta, ma Braer inarcò il corpo e si allontanò a distanza di sicurezza. Mentre i tetti di Hastarl si avvicinavano sempre più, Undarl ringhiò di rabbia e puntò nuovamente la bacchetta magica, mirando la faccia del drago. I suoi occhi, fieri e malinconici, incontrarono quelli del mago: sapeva che non poteva mancare il bersaglio.

La saetta verde partì – e si vide un lampo quando colpì una barriera fino ad allora invisibile, una sfera attorno a Undarl che… dei!

Il mago reale emise un gemito di paura quando la saetta rimbalzò contro di lui. Faerûn sembrò esplodere intorno a lui. Le estremità tranciate delle redini gli frustarono la faccia e le spalle, lui si voltò in preda alla sofferenza e sentì un dolore nuovo e più intenso quando una delle altre bacchette magiche esplose nella sua manica, incenerendogli il braccio e sbalzandolo di sella… Poi, pietosamente, Undarl Cavalcadrago perse di vista il cielo, i draghi e i tetti sottostanti…

Il suo destriero gridò, un suono crudo di terrore e agonia, che echeggiò nella città sottostante, svegliando ogni cittadino di Hastarl che stesse ancora dormendo. Il drago si inarcò e si contorse, ma il suo dorso era spezzato, e la carne lacerata, là dove prima c’era la sella, stillava sangue nel vento. Le ali flosce tremavano impotenti. Incapace di voltarsi, Anglathammaroth continuò la sua picchiata verso Athalgard.

L’impatto scosse l’intera città. Volando a fatica, stanco e dolorante, Braer vide quelle ali nere accartocciarsi come quelle di un insetto calpestato – e la torre del castello che avevano colpito, ondeggiò, si crepò, e con un tremendo boato crollò nel cortile sottostante. Le guardie si misero a gridare quando videro la morte avventarsi su di loro; Braer chiuse gli occhi per non vedere la distruzione.

Ora il dolore lo attanagliava. Baerithryn sentì la sua magia scemare, e il suo corpo lacerato e sanguinante iniziò a trasformarsi. Quando le ali tornarono a essere le esili spalle di un elfo, cominciò a precipitare.

I tetti erano molto vicini; non aveva molto tempo per un’ultima preghiera. «Madre Mystra», annaspò, cercando di aprire gli occhi. Vide per un attimo la scia di fumo lasciata dalle sue membra, e poi fu afferrato da qualcosa e cullato gentilmente, il vento attorno a lui ora era più lento. Le lacrime lo stavano accecando; allora, furioso, si asciugò gli occhi e guardò in faccia il suo salvatore.

Occhi scuri ardevano di potere nel volto tanto vicino al suo. Era la compagna di Elminster, Myrjala, e tuttavia…

Braer spalancò gli occhi sgomento. «Signora?»

Era buio e faceva molto freddo nelle cantine gocciolanti di Athalgard. Là, sotto le fogne, le solide pareti di roccia trasudavano acqua, e creature da tempo indisturbate fuggirono o si nascosero non appena fu acceso un fuoco. Sangue e carne informe si contorcevano e fluivano nel suo cuore, mentre ciò che rimaneva di Undarl Cavalcadrago si univa per ricostruire il suo corpo. Il mago reale lottò a lungo nella luce tremolante, mentre riplasmava un braccio dalla spalla, sopravvissuta insieme alla testa e alla schiena. Poi, ansimando, si concentrò per ricostruire le gambe.

Numerose volte scivolò verso la sua vera forma, ma ogni volta riacquistò le sembianze che desiderava – un Undarl più alto, più regale. Il dolore si affievoliva via via che riguadagnava fiducia in se stesso. Stava vincendo… Con la sua mente era in grado di plasmare tutto ciò che voleva, bastava solo un po’ di tempo.

Un secondo braccio si allungò in una mano e poi nelle dita. Undarl lottò per controllare il movimento frenetico, ma non poté. Non ancora. Dei, concedetemi solo qualche attimo in più…

I signori maghi stavano discutendo amaramente, quando Elminster uscì dal cristallo di Ithboltar come uno spettro vendicativo. Pezzi di soffitto si staccarono qua e là e si infransero sul pavimento. I fieri maghi indietreggiarono frettolosamente. Lo sguardo duro di El si posò sul Maestro e il fantasma sussurrò le ultime accurate parole di un incantesimo potente.

Terminò, e il pavimento di pietra della stanza si aprì da parte a parte con un crack assordante. Gemme, ardenti come minuscole sfere di fuoco, volarono in tutte le direzioni staccandosi dalla corona del maestro.

Ithboltar vacillò, urlò di dolore, e si portò le mani alla testa.

Alcuni maghi videro Elminster svanire nel cristallo, ma i loro sguardi furiosi e increduli vennero catturati dalle forze scintillanti che si innalzavano a spirale dallo zucchetto in pezzi sulla testa di Ithboltar. Dagli occhi del loro barcollante ex tutore fuoriusciva fumo. La corona pulsò, dando origine a un vortice sempre più potente che iniziò a turbinare nella stanza semidistrutta.

Da tutte le direzioni si udirono incantesimi intonati frettolosamente, mentre il vortice tremolò e lanciò onde di forza che scaraventarono i maghi l’uno sull’altro e contro le pareti… e la corona esplose, emanando bianchi fulmini di distruzione per ogni dove.

Osservando la scena da un balcone oltre il cortile, Myrjala mormorò le ultime parole di un incantesimo. Un Elminster arruffato e sanguinante apparve nell’aria accanto a lei, ansimante.

Guardarono insieme ciò che accadeva nella stanza distrutta. Il corpo senza testa di Ithboltar vacillò per un istante, poi fece un passo incerto e cadde a terra. Contro un muro, un mago stava farfugliando qualche cosa in ginocchio, e un altro era diventato un ammasso di ossa e di ceneri fumanti.

Gli altri maghi stavano cercando di fuggire, le mani agitate per lanciare freneticamente incantesimi. Il vortice, adorno delle saette turbinanti esplose dalla corona, acquistò velocità e forza come un ciclone scatenato e attraversò la stanza verso di loro, accompagnato da un rombo di tuono, che echeggiò contro le pareti e le torri di Athalgard. L’intero castello iniziò a tremare.

Myrjala corrugò la fronte e portò le mani a sé. Gli occhi che controllava scivolarono fuori dalla breccia del muro e rimasero sospesi appena al di fuori della torre. «La corona», mormorò, «li sta trattenendo nella stanza».

Il vortice investì i maghi e proseguì la sua corsa contro la parete interna della sala degli incantesimi del Maestro. Si schiantò quindi contro le vecchie pietre, la torre tremolò… e lentamente, con terribile determinazione, la stanza si ripiegò su se stessa e collassò, facendo crollare la parte alta della torre di Ithboltar con uno schianto titanico e un boato di pietre cadenti.

Dove attimi prima vi era la stanza, si udì un’esplosione assordante, che scaraventò dappertutto pietre, e tra esse, un mago, che venne lanciato attraverso il cortile come un fantoccio. Stava ancora agitandosi debolmente per fare un inutile incantesimo quando il suo corpo si schiantò contro un’altra torre. Il volto di un servo, che guardava inorridito e nel contempo affascinato fuori da una finestra, venne raggiunto da schizzi di sangue, e ciò che rimaneva del mago scivolò lungo il muro di pietra… e poi scomparve in un piccolo ammasso di luci ammiccanti quando il suo incantesimo fece effetto. Troppo tardi.

Le pietre stavano ancora cadendo dalle mura della torre distrutta quando lo stesso cortile tremò e vacillò. Grate, lastricati, e polvere, si innalzarono improvvisamente, trasportati da improvvisi geyser di luce magica, quando qualcosa esplose nelle profondità dei sotterranei del castello.

Ciò che rimaneva della torre di Ithboltar vacillò, si accasciò di lato, e crollò in completa rovina. Qua e là nel cortile si svilupparono fiamme. Le guardie di Athalantar fuggirono freneticamente tra fumo e polvere, agitando invano le loro alabarde come se fendere l’aria contribuisse a sconfiggere qualche nemico invisibile e a risistemare le cose. Da qualche parte si levò un grido rauco, che proseguì a lungo, in mezzo a nuovi rimbombi.

«Vieni», esclamò Myrjala, prendendo Elminster per mano e salendo sul parapetto del balcone. Elminster la seguì, e la donna avanzò tranquillamente nell’aria. Mano nella mano, scivolarono lentamente sopra il tumulto. Athalgard brulicava di soldati urlanti, in fuga. I due maghi si trovavano ancora pochi centimetri sopra il lastricato quando una banda di soldati sbucò di corsa da dietro un angolo, e proseguì verso di loro.

Il capitano vide i maghi sulla sua strada e rallentò, allargando le mani per segnalare ai suoi uomini di fermarsi. «Che cosa succede?» sbraitò.

Elminster alzò le spalle. «Credo che Ithboltar abbia sbagliato qualche parola di un incantesimo».

L’ufficiale guardò i due, poi la torre distrutta, e socchiuse gli occhi. «Non vi conosco!», esclamò bruscamente. «Chi siete

El sorrise. «Io sono Elminster Aumar, Principe di Athalantar, figlio di Elthryn».

Il capitano rimase a bocca aperta. Poi con sforzo visibile deglutì e domandò: «Siete stati voi a causare tutto ciò?»

Il principe guardò le rovine con un sorriso compiaciuto, poi sollevò lo sguardo alle alabarde che gli bloccavano la strada ed esclamò: «E se fosse così?»

Poi sollevò una mano. Accanto a lui, Myrjala aveva già fatto altrettanto. Piccole luci vorticarono e scintillarono nelle sue mani a coppa.

I soldati gridarono di paura… e un istante più tardi erano già in fuga. Avevano lasciato cadere le alabarde e, tra uno scivolone e l’altro, riuscirono a voltare l’angolo dal quale erano sbucati.

«Potete andare», esclamò grandiosamente la maga nel cortile improvvisamente vuoto. Poi si mise a ridere, subito seguita da Elminster.

«Non possiamo resistere ancora per molto!», gridò disperatamente Anauviir a Helm, mentre un rivolo di sangue, fuoriuscente da una ferita d’ascia che gli aveva aperto l’elmo in due, gli gocciolava negli occhi.

«Dimmi qualcosa che già non so!», gli urlò in risposta il vecchio cavaliere.

Accanto a lui, un Darrigo Trumpettower dal viso paonazzo respirava affannosamente, mentre agitava una pesante spada che aveva rubato dalla mano di un morto. Il vecchio stava proteggendo Helm Spadadipietra con il suo tremolante braccio destro e con la sua vita, un prezzo, a quanto pareva, che avrebbe presto pagato.

I cavalieri sopravvissuti erano radunati sui ciottoli scivolosi e imbrattati di sangue del cortile esterno di Athalgard. I soldati li stavano attaccando da tutte le parti, e continuavano a uscirne di nuovi dalle torri di guardia e dalle baracche. Pochi vecchi in armature sconnesse non avrebbero potuto resistere a lungo contro un tale numero di guardie.

«Resistete!», ruggì Helm al di sopra di tutto il baccano. «Anche se cadiamo, ogni soldato che portiamo con noi sarà uno in meno che spadroneggerà nel regno! Combattete e morite in gloria, per Athalantar!»

Una Prima Spada evase la guardia di Darrigo, e gli squarciò una guancia con la punta della spada. Helm si lanciò in avanti e trafisse l’uomo, fino a toccargli la colonna vertebrale e la corazza retrostante. Lasciò la sua spada dove si trovava e afferrò quella della guardia, prima che le sue mani la lasciassero cadere. «Dove sei, Principe?», mormorò mentre uccideva un altro soldato. Sì, i cavalieri di Athalantar non avrebbero resistito ancora per molto…

Re Belaur era solito cenare quando la gente comune faceva colazione: pesce fresco immerso nella panna, carne di daino e di lepre cotti in vino speziato. Quando si sentiva sazio da scoppiare, si ritirava nelle stanze reali per smaltire il tutto con un buon sonno. Ora si era svegliato; si stiracchiò e si recò nudo nella camera da letto più grande e meno privata. Belaur si aspettava di trovarvi vino di menta fresco e un intrattenimento più caldo e più… vivo.

Quel giorno, risvegliandosi da uno strano sogno di terremoti e crolli, le sue aspettative non rimasero deluse. Infatti, fu lieto di vedere due donne che lo attendevano sull’enorme letto decorato. Una di esse era la donna che un tempo guidava la banda dei Moonclaw. Isparla «La Sinuosa» scintillò, languida e pericolosa in mezzo ai cuscini. Sorridente nel suo collare e nella sua gonnellina di gioielli, sembrava un gatto tempestato di diamanti, e tremante accanto a lei era distesa la ragazza che aveva notato la sera precedente fuori da una bottega del centro città.

Svestita, la nuova arrivata era ancora più incantevole di quanto avesse sperato. Indossava soltanto le catene magiche che i maghi usavano per ammansire i prigionieri più insolenti, e per l’occasione qualcuno aveva lucidato gli anelli e le fasce dei polsi, delle caviglie e della gola, cosicché luccicavano quanto i gioielli di Isparla.

Belaur la guardò con un ghigno crudele, afferrò bruscamente un calice e la caraffa dalla fila scintillante di cristalli disposta su uno scaffale accanto, ed espresse la sua approvazione con un ringhio lungo e tonante mentre raggiungeva il letto. Come un leone che fa le fusa si abbassò fra loro, tracannando pigramente il suo vino, e si domandò a quale dei due piaceri abbandonarsi per primo. Il nuovo tesoro… oppure tenerla per dopo, e godere dapprima delle delizie più familiari?

Isparla emise un mormorio profondo e gutturale, e si strusciò contro di lui. Il re diede un’occhiata a Shandathe, preoccupata e immobile nelle sue catene, poi sorrise e le volse le spalle. Appoggiò una mano crudele su un filo di gioielli, e tirò. La Sinuosa sibilò di dolore quando le pietre le si insinuarono nella carne e venne trascinata contro di lui. Belaur avvicinò la bocca a quella della donna, con l’intenzione di morderla. Si ricordava ancora il sapore del suo sangue caldo e salato…

Vi fu un bagliore improvviso e un sibilo, e Belaur alzò lo sguardo, perplesso, per trovarsi di fronte un viso accigliato quanto il suo. Il Mago Reale di Athalantar era in piedi accanto al suo letto. Belaur guardò brevemente la porta, ancora sbarrata, e poi di nuovo il padrone dei signori maghi, prima di ruggire: «A che costa stai giocando ora, mago?»

«Siamo sotto assedio», ringhiò Undarl. «Muoviti! Alzati ed esci di qui, se non vuoi morire!»

«Chi osa…

«Avremo tempo di far loro questa domanda più tardi. Ora muoviti, altrimenti ti faccio saltare la testa dalle spalle… ho bisogno solo della corona!»

Verde dalla rabbia, Belaur si alzò dal letto, spingendo da parte le ragazze, e afferrò la spada appesa al muro. Per un istante pensò di conficcarla nella schiena del mago reale, che stava attraversando la stanza davanti a lui, diretto verso un quadro che nascondeva una porta per il vecchio castello. Undarl si voltò rapido come un fulmine, spostando da parte la punta della spada protesa, e con voce minacciosa, fredda e nitida, esclamò: «Che. Non. Ti. Venga. Mai. Più. In. Mente. Una. Cosa. Del. Genere.» Si protese ulteriormente e, con un sussurro aspro, aggiunse: «La tua sopravvivenza quotidiana dipende dalla mia magia».

La spada nelle mani del re si trasformò in un serpente che si rivoltò e sibilò, attorcigliandosi intorno al suo polso.

Mentre lo fissava terrorizzato tornò alla sua natura originale, e la lama scintillò beffarda. Belaur rabbrividì, sollevò riluttante lo sguardo per incontrare gli occhi freddi e severi del mago, e annuì lievemente. Poi proseguì ubbidientemente quando Undarl gli indicò il passaggio.

«Sai che devo farlo da solo», affermò tranquillamente Elminster mentre erano nel passaggio buio.

Myrjala gli appoggiò una mano sul braccio e gli rivolse un sorriso. «Non sarò lontana. Chiamami se hai bisogno».

El la salutò con ciò che rimaneva della Spada del Leone e si allontanò lungo il corridoio, tra le mani una spada più utile.

All’ultimo principe di Athalantar rimanevano pochi incantesimi, e avanzò con passo stanco e vacillante. Con i suoi abiti malconci non sarebbe certo passato inosservato nelle grandi sale centrali di Athalgard, nel suo cammino verso la stanza del trono. I servi che incontrava – e ve ne erano molti – tenevano lo sguardo basso e si scansavano al suo passaggio, come se fossero ormai abituati a far spazio a guerrieri boriosi. I cortigiani tendevano a fissarlo, e poi distoglievano rapidamente lo sguardo o cambiavano strada o si affrettavano a entrare in qualche stanza, chiudendosi la porta dietro.

Eccezion fatta per gli sguardi alle sue spalle, Elminster sembrava stesse facendo una passeggiata casuale. Vedendolo avanzare, le guardie si irrigidirono nelle loro postazioni, ma il principe aveva fatto un determinato incantesimo prima di separarsi da Myrjala, e quando si prepararono a fermarlo, rimasero impietrite, bloccate dal suo incantesimo.

Quando El si avvicinò a sette guardie che volgevano le spalle a una doppia porta ad arco, spade sguainate, mormorò un incantesimo che le fece cadere in un sonno profondo, sotto un mantello magico che copriva ogni rumore.

Le spade sollevate contro di lui caddero sul pavimento, in uno strano silenzio, seguite subito dopo dai loro proprietari. El scavalcò tranquillamente le guardie, aprì lievemente una porta, e si infilò all’interno.

La stanza dall’alto soffitto era costeggiata da vessilli e circondata da una galleria sopraelevata; le pareti erano riccamente tappezzate, e una serie di colonne fiancheggiava un tappeto color verde scuro, che si estendeva dalla porta fino alla sedia alta dall’altro lato della stanza.

Il Trono del Cervo. Ciò per cui aveva combattuto finora: non semplicemente una sedia, ricordò a se stesso, ma una terra libera dai signori maghi. Molti uomini e qualche donna erano radunati oltre la porta, tutti intorno a lui; parlavano e si spostavano da un piede all’altro con aria piuttosto stanca: cortigiani, mercanti, e delegati, attendevano nervosamente il ritorno del re per l’udienza del mattino.

Elminster ignorò i loro sguardi curiosi, si fece strada fra la gente, e si incamminò con sicurezza lungo il tappeto verde.

I gradini che conducevano al Trono del Cervo erano protetti da un uomo grande come una montagna in un’armatura scintillante, che impugnava pazientemente una mazza da guerra alta quanto lui. Non indossava alcun elmo, e la sua testa calva scintillava alla luce delle torce mentre guardava freddamente l’intruso, i baffi grigi lievemente tremolanti. «Chi sei, giovanotto?» domandò ad alta voce, facendo un passo avanti e preparando la mazza sulla spalla.

«Principe Elminster di Athalantar», fu la risposta tranquilla. «Fatti da parte, per favore».

Il guerriero sogghignò. Elminster rallentò il passo e gli fece segno con la spada di spostarsi. La guardia gli rivolse un sorriso freddo e incredulo, e rimase dov’era, agitando minacciosa il martello.

El ricambiò l’uomo con un sorriso fugace e fece un affondo con la spada. Il guerriero la fermò con la mazza da guerra, torcendo i polsi in modo che la punta posteriore dell’arma aprisse la testa di quell’idiota arrogante col movimento di ritorno. Elminster indietreggiò rapidamente a distanza di sicurezza, e mormorò alcune parole, sollevando la mano libera come per lanciare qualcosa di leggero e di fragile.

Quel qualcosa si staccò rapidamente dalle dita lievemente allargate, e la guardia del trono sbatté le palpebre, scosse il capo come per dissentire violentemente, e si accasciò sulle mattonelle lucide di fianco al tappeto. Elminster la superò lentamente e si sedette sul Trono del Cervo, appoggiando la spada sulle ginocchia.

Un mormorio si innalzò dal gruppo di cortigiani sbalorditi, ma subito calò un silenzio carico di tensione quando apparve improvvisamente una luce dall’alto. Nel centro di una sfera di una luminosità pulsante color porpora e bianco, il mago reale apparve nella galleria soprastante, fiancheggiato da una decina di soldati, le balestre cariche e pronte a sparare.

La mano di Undarl Cavalcadrago si abbassò bruscamente. In risposta, sei dardi sfrecciarono verso l’uomo seduto sul trono.

Il giovane intruso li osservò tranquillamente fendere l’aria di fronte a lui, colpire qualcosa di invisibile e cadere sul pavimento.

Le mani del mago stavano eseguendo i gesti complicati di un incantesimo quando la guardia più anziana ordinò: «Caricate di nuovo!»

Elminster sollevò le mani e gesticolò rapidamente, ma la gente che osservava vide l’aria intorno al trono danzare e scintillare di luce improvvisa. El sapeva che nessuna magia avrebbe fatto effetto nel luogo in cui sedeva ora; non poteva innalzare alcuna barriera per fermare proiettili o spade che reclamavano la sua vita.

Il mago reale rise e ordinò ai soldati che non avevano ancora scoccato i loro dardi di farlo ora. Il principe balzò in piedi.

Un grasso mercante accanto a una colonna tremolò e divenne una donna alta e magra dalla pelle bianca e dagli occhi scurissimi. Una delle sue mani era alzata in un gesto ammonitore – e i dardi di balestra scoccati contro il Trono del Cervo presero improvvisamente fuoco, sfolgorarono e scomparvero.

La guardia più anziana si voltò e mirò alla donna. «Uccidetela!», ordinò, e due balestre scattarono all’unisono.

Aggirando rapidamente il trono, mentre decideva quale incantesimo usare quando si fosse allontanato a sufficienza dal campo magico di Undarl, Elminster vide i dardi saettare attraverso la sala verso la sua compagna. Alla sua vista emanavano un bagliore blu vivido.

Guardò la scena con orrore: gli incantesimi emettevano una luminosità rabbiosa intorno a essi, e Undarl rise freddamente quando un lampo improvviso indicò la distruzione di uno scudo attorno alla maga. Subito si vide un secondo bagliore e anche la barriera interna si infranse – e Myrjala vacillò, si portò le mani al petto, nel quale tremolava un dardo, si voltò lateralmente, così che El poté vedere la seconda freccia nel fianco – e cadde a terra. La risata acida di Undarl risuonò forte nella sala del trono. Elminster si lanciò giù per i grandini, la sua sicurezza dimenticata; gli mancavano pochi passi per raggiungere Myrjala quando la donna scomparve.

Il tappeto verde sul quale era accasciata un momento prima, era vuoto. Elminster si voltò, gli occhi fiammeggianti, e sputò un incantesimo. A una parola dal termine, gli occhi crudeli e trionfanti del Mago Reale, fissi nei suoi, scomparvero nel vuoto. Anche il mago se ne era andato.

L’incantesimo completo di El stava già facendo effetto. Un fuoco improvviso imperversò lungo la galleria, e i soldati gridarono cupamente dentro le loro armature, dimenandosi e barcollando. Le balestre caddero oltre la ringhiera, seguite da una guardia, l’armatura annerita e fiammeggiante, che si schiantò sopra un mercante, schiacciandolo sul pavimento. Anche i cortigiani si misero a urlare e fuggirono verso l’uscita.

Le porte vennero aperte improvvisamente, in faccia ad alcuni mercanti in fuga, e Re Belaur entrò nella stanza del trono, con indosso solo un paio di pantaloni. Era verde dalla rabbia, e una spada sguainata scintillava nella sua mano.

La gente indietreggiò, poi si mise a correre quando vide chi stava dietro il re. Il mago reale sorrideva freddamente mentre avanzava, le mani impegnate in un’ennesima magia. Elminster impallidì e pronunciò una parola. L’aria si illuminò, e quella parte di stanza tremò, ma nulla accadde… solo un po’ di polvere cadde dal soffitto.

Undarl proruppe in una risata e abbassò le mani. Il suo scudo aveva retto.

«Sei sul mio terreno ora, Principe… e folle!», esclamò gongolante. Ma l’espressione del suo volto mutò, il mago annaspò e cadde in avanti con un gemito di dolore.

Dietro di lui, con l’impugnatura di un coltello insanguinata, comparve un certo fornaio, con le sopracciglia tremanti di rabbia. Hannibur era venuto ad Athalgard per trovare sua moglie. I cortigiani ammutolirono. L’uomo si abbassò per tagliare la gola del mago, ma la mano di Undarl fece un gesto rapido.

L’aria pulsò e danzò, e il pugnale alzato del fornaio andò in frantumi, e raggi di luce schizzarono in tutte le direzioni: una gabbia protettiva si creò intorno al mago accasciato per terra.

Elminster fissò Undarl e pronunciò un incantesimo rapidissimo e preciso. Una seconda gabbia, con sbarre più spesse e più luminose di quella del mago, apparve introno alla prima. Lo stregone si alzò su un gomito, fece una smorfia di dolore, e si portò una mano alla cintura.

Hannibur guardò il mago e la luce che aveva appena consumato la sua unica arma, scosse il capo rabbiosamente, e si voltò. Si trovava a pochi passi dal cortigiano più vicino; un rapido strattone liberò la spada dell’uomo, perplesso, dal suo fodero elegante. Brandendola come un giocattolo, si voltò lentamente per controllare la stanza, come un cavaliere in cerca di nemici. Poi, implacabilmente, avanzò lungo il tappeto verde, verso il re.

Un cortigiano esitò, e poi sguainò il suo coltello e lo seguì. Elminster pronunciò una parola lieve, e l’uomo rimase immobile con la gamba a mezz’aria. Sbilanciato, cadde con la faccia sul pavimento. Un secondo e un terzo cortigiano, anch’essi con la spada pronta, indietreggiarono, perdendo improvvisamente tutto l’interesse a difendere il loro re.

Il principe El si sedette nuovamente sul trono per guardare lo zio rabbioso avanzare verso di lui. Sembrava un posto adatto all’attesa.

Re Belaur era furioso, ma non tanto avventato da correre incontro alla punta immobile della spada di Elminster. Avanzò con prudenza minacciosa, la spada sollevata, pronto ad abbassare e far cadere l’arma del nipote. «Chi sei?», ringhiò. «Scendi dal mio trono!»

«Sono Elminster, figlio di Elthryn… che hai fatto assassinare da quel serpente laggiù nella gabbia», rispose Elminster bruscamente, «e questa sedia è tanto mia quanto tua». Scese dagli scalini con un balzo, la spada luccicante, e si avventò contro Belaur.

18. Il prezzo di un trono

Quanto costa un trono? Talora solo una vita, quando la malattia, l’età avanzata, o una spada fortunata tolgono la vita a un re in un regno forte. Talaltra, un trono costa la vita di tutti gli abitanti di un regno. Molto più spesso, solo quella di pochi uomini avidi e ambiziosi, e quanti meno ve ne sono nei regni, tanto meglio è.

Thaldeth Faerossdar, La via degli dei.

Anno della Luna Piena

Le spade si scontrarono, risuonando nella stanza. Entrambi gli uomini vacillarono, spinti all’indietro per l’impatto violento, ed Elminster declamò cautamente parole che echeggiarono e rimbombarono contro le pareti… e i due spadaccini vennero circondati improvvisamente da una luce bianca, somigliante a un turbine scintillante di spade fantasma.

Belaur sogghignò. «Altra magia?»

«È l’ultimo incantesimo che sferrerò in Faerûn finché non sarai morto», affermò pacatamente El, avanzando.

Nuovamente incrociarono le spade con un grande fragore. Scintille saltellavano qua e là, mentre re e principe tentavano di colpirsi, denti serrati e spalle ondeggianti. Belaur era un guerriero veterano dalle spalle possenti, ingrassato ma guardingo come un lupo. Il suo sfidante era più giovane, più basso, più leggero, e rapido sulla difensiva. Il re usava il suo peso per vanificare le parate di Elminster. Solo la rapidità teneva in vita il giovane principe, che si abbassava, si scansava, e schivava i colpi della spada assetata dello zio furioso, il quale sferrava ripetuti colpi contro il nemico.

Quando le braccia di El divennero troppo stanche per contrastare gli assalti, fu costretto a retrocedere. Fece un passo indietro e virò a destra. Belaur si voltò con un ghigno selvaggio, determinato a non dargli tregua, ma El schizzò via e corse dietro al trono.

«Ah!», gridò Belaur avanzando col viso trionfante. Era a pochi passi di distanza quando Elminster si sporse da dietro il trono per scagliare un pugnale al re.

La spada di Belaur scattò verso l’alto per deviare la morte roteante. Il re, illeso, non rallentò nemmeno la sua corsa, e sogghignò crudelmente mentre caricava per abbattere il nemico.

Il principe parò disperatamente, portandosi nuovamente di fronte al trono. Il re gli fu addosso, ma El, più rapido, scivolò sotto la spada. L’uomo ringhiò, si chinò, estrasse un pugnale dallo stivale, e con un grugnito lo scagliò violentemente. Elminster si abbassò, ma troppo lentamente. Il pugnale lo ferì a una guancia e proseguì la sua corsa e Belaur si avventò ancora su di lui, la spada scintillante.

La parata del giovane arrivò un po’ in ritardo. L’impatto gli fece tremare la mano, l’agitò per far cessare l’intorpidimento e poi, affrettatamente, mise entrambe le mani sulla spada, alzandola giusto in tempo per contrastare l’attacco successivo. La lama di Belaur sembrava essere dappertutto.

La Spada del Cervo, così veniva chiamata, era stata forgiata recentemente, e a detta di tutti, era stata incantata dai signori maghi. Elminster cominciava a crederci. Le loro lame si incrociarono di nuovo con uno spruzzo di scintille e uno stridore metallico.

I due uomini si guardarono negli occhi, spingendo, entrambi riluttanti a cedere. Le spalle di Belaur, ora lucide di sudore, si sollevarono vigorosamente… e la spada di El venne forzata lentamente indietro e lateralmente. Belaur emise un grido di esultanza mentre forzava le spade incrociate contro il collo di Elminster, e lo faceva sanguinare. Annaspando, il principe si gettò improvvisamente sul pavimento, avvinghiando le gambe intorno a quelle del re, mentre le spade scintillavano sopra la sua testa.

Sbilanciato, Belaur cadde pesantemente a terra, picchiando forte i gomiti. Le spade volarono lontane mentre El scalciava per liberarsi. Si trovavano entrambi sul pavimento, faccia a faccia. Il re si rotolò e fece per afferrargli la gola. Il giovane cercò di opporre resistenza a quelle mani forti, e i due lottarono corpo a corpo per un momento. Poi El venne di nuovo sopraffatto.

Dita possenti e affilate lo presero per la gola. Sputando in faccia all’uomo, El inarcò la testa all’indietro. Il re gli assestò un pugno sulla fronte, poi gli strinse le mani saldamente intorno al collo. Il principe conficcò vanamente le unghie nelle braccia pelose che lo soffocavano e cercò di sottrarsi facendo presa coi piedi sulle piastrelle scivolose, ma riuscì soltanto a trascinare il re di pochi centimetri. Belaur pesò su di lui, grugnendo trionfante. Ora i polmoni di El erano in fiamme. Il mondo cominciò a girare intorno a lui e a farsi più scuro.

Le sue dita disperate toccarono una sagoma familiare – la Spada del Leone! Cautamente, mentre l’oscurità avanzava per reclamarlo, Elminster estrasse il moncherino affilato della spada del padre e fece scivolare la lama irregolare sulla gola di Belaur. Chiuse gli occhi mentre il sangue caldo del re lo inzuppava. Pochi istanti più tardi, Belaur iniziò a gorgogliare e ad agitarsi debolmente, allontanando le mani dalla gola di El.

Finalmente libero di alzarsi! Elminster si tirò in piedi, scosse il capo, tossì debolmente, e si guardò intorno per assicurarsi che nessuna guardia si fosse avvicinata.

Un cortigiano si stava allontanando dalla sua barriera, sibilando di dolore per una ragnatela di tagli dai quali fuoriusciva sangue fresco. Un altro uomo, che aveva tentato di penetrare la barriera, giaceva immobile con la faccia sulle piastrelle. Il principe scosse il capo e si voltò.

Quand’ebbe recuperato il fiato e l’equilibrio, si alzò, si pulì il sangue di Belaur dalla faccia, e vide che i cortigiani erano addossati lungo le pareti sotto la galleria. Alcuni avevano la spada sguainata, ma nessuno aveva l’aria di voler dare battaglia. Il re esalò un ultimo rantolo e poi si spense, il volto immerso nel suo sangue. Elminster emise un sospiro profondo e tremolante, poi si voltò, la Spada del Leone in pugno. Laggiù, in fondo al tappeto verde, Undarl Cavalcadrago, che era ovviamente riuscito a guarirsi con un incantesimo, stava tentando l’impossibile per infrangere la gabbia magica di El.

Un incantesimo scaturì dal mago intrappolato, indugiò vanamente contro la gabbia luminosa, e poi rimbalzò su di lui. Il mago reale rabbrividì. El sorrise a denti stretti e avanzò faticosamente nella gabbia che aveva creato. L’energia percorse brevemente le sue membra come un fulmine affamato, invadendolo fino a farlo tremare incontrollabilmente.

Le mani di Undarl stavano gesticolando più rapidamente di quanto avesse mai visto fare a un mago. Questi era però a poca distanza dal principe, che conficcò la Spada del Leone nella bocca aperta del mago reale. Undarl emise un verso soffocato, poi El si avventò su di lui, singhiozzando, e lo pugnalò ripetutamente.

«Per Elthryn! Per Amrythale!», gridò l’ultimo principe di Athalantar. «Per Athalantar! E… per me, che gli dei ti maledicano!»

Il corpo sotto la sua lama iniziò a contorcersi. Improvvisamente timoroso di un incantesimo, Elminster balzò indietro. Il sangue sulla sua spada gocciolante era… nero!

El fissò con orrore il corpo sanguinante e in rovina del padrone dei signori maghi. Undarl si rialzò barcollando, fece un passo incerto, e tentò debolmente di afferrare El… con mani divenute improvvisamente squamose e artigliate. Il suo volto deformato dal dolore si allungò in un muso nero quando il mago si accasciò, e una lingua, lunga e biforcuta, ricadde sulle piastrelle prima che il corpo venisse improvvisamente circondato da luci scintillanti. In quel bagliore, l’essere squamato scomparve lentamente e tranquillamente, lasciando solo una pozza di sangue nero sulle piastrelle.

Elminster guardò il punto in cui il suo più grande nemico era scomparso, sentendosi improvvisamente tanto stanco da non riuscire a règgersi in piedi… Il principe si accasciò per terra, il pezzo di spada che aveva ucciso sia il re sia il mago reale, scivolò dalla sua mano. La barriera di spade luminose svanì rapidamente.

La stanza piombò nel silenzio. Solo dopo parecchi interminabili istanti, un cortigiano sbucò esitante da dietro le colonne, sguainando la sua esile spada di corte. Fece un cauto passo avanti, e poi un altro… e sollevò la spada per colpire lo straniero.

Una lama gli saltò subito alla gola, e l’uomo balzò all’indietro con un grido. La spada del re scintillò nella luce quando il fornaio che l’impugnava scorse la stanza con uno sguardo. «State indietro!», ringhiò Hannibur, «tutti!»

Mercanti e cortigiani fissarono la figura robusta in piedi di fianco allo straniero, che agitava la Spada del Cervo con fare incerto ma con feroce determinazione… finché una grande luce invase la stanza. Le loro facce sbalordite si voltarono verso di essa, solo per stralunare ulteriormente gli occhi.

Dalle doppie porte aperte entrò la fonte di tale luminosità: una signora alta, snella, regale, dalla pelle chiarissima, gli occhi neri, e i modi sicuri. Teneva per mano un’altra donna, una ragazza disorientata, a piedi nudi, con indosso una veste elegante troppo grande per lei, e che quando vide il fornaio urlò e si mise a correre verso di lui. «Hannibur! Hannibur!»

«Shan!», ruggì l’uomo, e la Spada del Cervo tintinnò, dimenticata, sul pavimento. Singhiozzando, corsero una nelle braccia dell’altro.

Un bagliore brillante sembrò emanare dal corpo regale della donna quando sorrise alla coppia abbracciata e si incamminò tranquillamente sul tappeto insanguinato, verso il corpo di Elminster accasciato sul pavimento. Fece un gesto della mano, e improvvisamente qualche cosa scintillò e sibilò nell’aria intorno a entrambi. In piedi, nella luce che aveva evocato, la donna sembrava una sorta di dea-maga, quando sollevò il mento e si guardò intorno con occhi scuri e misteriosi. La gente che incontrava il suo sguardo rimaneva immobile, rapita; Myrjala continuò a scorrere la stanza con lo sguardo finché tutti gli occhi non furono concentrati su di lei.

Poi parlò, e uomini e donne giurarono fino al giorno della morte che la donna aveva parlato loro, e a loro soltanto.

«Questa è l’alba di un nuovo giorno in Athalantar», cominciò. «Voglio vedere gli individui che erano benvenuti in questa sala quando Uthgrael era re. Portatemeli qui davanti al trono prima di sera. Se Belaur e i suoi signori maghi li hanno lasciati vivere tanto a lungo, portateli qui e date loro il benvenuto! Un nuovo re li convoca!»

Myrjala schioccò le dita, e i suoi occhi si scurirono. Improvvisamente tutti si mossero, e in fretta e furia uscirono dalle porte.

Quando schioccò di nuovo le dita, nella stanza erano rimasti solo Hannibur e Shandathe, sorridenti fra le lacrime e, voltandosi, i due videro uno scrigno ornato, apparire improvvisamente dal nulla.

Myrjala sollevò lo sguardo, sorrise, e fece segno loro di restare, mentre lei estraeva un fiasco dallo scrigno. Quando si inginocchiò accanto a Elminster e stappò il recipiente di vetro, il bagliore luminoso iniziò a svanire dalla sua pelle.

Le strade si riempirono presto di cittadini curiosi, alcuni avevano addosso ancora l’odore di una cena abbandonata frettolosamente. Entrando esitanti nei cancelli di Athalgard, passarono accanto alle guardie dei maghi e ad alcuni guerrieri poco noti, ancora impegnati in combattimento, e si affollarono a centinaia nella sala del trono. Vi erano bambini che si guardavano intorno eccitati, bottegai dall’aria guardinga, e uomini e donne anziani dagli occhi scintillanti, che barcollavano e strascicavano i piedi appoggiandosi a bastoni o alle spalle dei più giovani.

Orgogliosi, ma nel contempo umili, si accalcarono nella stanza, fissando con aria scioccata il sangue, i corpi anneriti e penzolanti delle guardie, e più di tutto il Re Belaur, disteso mezzo nudo accanto al Trono del Cervo.

Un giovane sconosciuto, dal naso adunco, era seduto sul trono, e una donna alta e snella, dagli occhi immensi e scuri era in piedi accanto a lui. L’uomo sembrava un vagabondo esausto nonostante la Spada del Cervo sulle sue ginocchia – ma lei era una regina.

Quando la stanza fu tanto affollata che la calca di corpi spinse Shandathe contro la barriera scintillante facendole emettere un grido di paura, Myrjala decise che il momento era arrivato. Fece un passo avanti e indicò l’uomo dall’aspetto stanco seduto sul trono. «Popolo di Athalantar, ecco Elminster, figlio del Principe Elthryn! Ha conquistato il trono per diritto d’armi: qualcuno fra i presenti nega il suo diritto di sedere sul Trono del Cervo e di governare il regno che era di suo padre?» Nessuno aprì bocca. Myrjala si guardò attorno. «Parlate, o inginocchiatevi al nuovo re!»

Qualcuno si agitò a disagio, ma tutti rimasero in silenzio. Un istante dopo, Hannibur il fornaio si inginocchiò, trascinando con lui anche Shandathe. Lo stesso fece un mercante di vino, e poi un venditore di cavalli… seguiti da tutti i presenti nella stanza.

Myrjala chinò il capo in segno di soddisfazione, un lungo travaglio terminato, ed esclamò: «E così sia».

Sul trono, Elminster sospirò. «Finalmente, tutto è terminato». E lacrime improvvise gli rotolarono lungo il viso.

Myrjala guardò, oltre la folla inginocchiata, verso il gruppo dei più anziani in fondo alla stanza, scrutando le molte facce, poi improvvisamente sorrise e sollevò la mano in segno di saluto.

«Mithtyn», esclamò rivolta a un vecchio barbuto, «tu eri araldo alla corte di Uthgrael. Registra che nessuno ha contestato il diritto al trono di Elminster».

Il vecchio si inchinò e con voce resa bassa dal suo scarso uso, rispose: «Signora, sarà fatto… ma chi siete? Voi mi conoscete, ma io giuro di non avervi mai visto prima».

Myrjala sorrise e affermò: «Allora avevo un altro aspetto. Una volta tu dissi, dopo avermi visto, che non sapevi fossi capace di ballare».

Mithtyn la fissò e impallidì. Si accorse di avere la bocca aperta, deglutì, e indietreggiò d’un passo, sopraffatto dal timore. Poi cadde in ginocchio, tremante.

La donna gli sorrise nuovamente ed esclamò: «Ti ricordi. Non aver paura, bravo araldo. Non voglio farti del male. Alzati e rilassati».

Poi si voltò verso il trono: «Come d’accordo, El?»

Il giovane annuì, sorridendo fra le lacrime: «Come d’accordo».

Myrjala annuì, e raggiunse il centro della stanza camminando sul tappeto verde. Gli abitanti di Hastarl si divisero come se la donna fosse preceduta da una schiera di lance spianate. «Indietro, popolo della corte!», esclamò affabilmente. «Fate spazio, qui davanti a me!»

Indietreggiarono frettolosamente… e quando ebbero lasciata libera un’ampia zona di piastrelle, la maga schioccò le dita e protese una mano.

Lo spazio vuoto si riempì improvvisamente. Una ventina di uomini armati, sudati e sanguinanti, apparvero davanti a lei, le spade rosse sollevate, e si guardarono intorno selvaggiamente.

«Pace!», esclamò Myrjala. D’improvviso sembrò più alta, e il suo corpo fu di nuovo avvolto da una luminosità pulsante. Tale fu la forza della sua voce che i guerrieri non si mossero, e rimasero in silenzio, sbalorditi.

«Guardate, popolo di Hastarl!» gridò Myrjala. «Questi uomini sono rimasti fedeli ad Athalantar, uomini che desiderano la libertà per il proprio regno e la fine della tirannia di maghi crudeli. Sono i cavalieri di Athalantar, e ricordate colui che li guida: Helm Spadadipietra, un vero cavaliere di Athalantar!»

Elminster si alzò dal trono e raggiunse la donna. I due si guardarono, si scambiarono un sorriso, annuirono: e il giovane dal naso aquilino si portò nel mezzo della banda armata, ammutolita. Le spade oscillarono verso di lui, ma nessuno sferrò un colpo.

Elminster si avvicinò a Helm. «Sorpreso, vecchio amico?»

Helm annuì, senza parlare. La sua faccia, sporca e sudata, esprimeva stupore e un po’ di soggezione. Elminster gli sorrise, poi guardò la folla ed esclamò ad alta voce: «Per diritto d’armi, e per lignaggio, il Trono del Cervo mi appartiene! Tuttavia, so di non esserci portato. Chi saprà regnare meglio di me è proprio qui davanti a voi! Popolo di Athalantar, inginocchiatevi e rendete omaggio al vostro nuovo re: Helm di Athalantar!»

Helm e i suoi uomini rimasero attoniti. Un coro di acclamazione stridulo si innalzò, ma subito si spense. Persino ad Hastarl, stretta più che mai nella morsa dei signori maghi, la gente aveva udito del ribelle temerario dell’entroterra.

Elminster abbracciò Helm, gli occhi colmi di lacrime, ed esclamò: «Mio padre è stato vendicato. La terra la lascio a te».

«Ma… perché?» domandò il cavaliere, incredulo. «Perché rinunciare al trono?»

El rise, scambiò un’occhiata con Myrjala, e rispose: «Ora sono un mago, e sono fiero d’esserlo. La magia è… diciamo che mi si addice. È ciò per cui ero destinato. Avrei poco tempo per le cure che un regno richiede, e ancora meno pazienza per gli intrighi e lo sfarzo». Sogghignò e aggiunse: «Inoltre, penso che Athalantar ne abbia avuto abbastanza dei maghi al potere».

Sinceri mormorii di assenso si udirono in tutta la sala, quando le porte si spalancarono e una banda di furfanti entrò nella stanza, spade scintillanti alla mano. Farl e Tassabra stavano alla testa dei ladri delle Mani di Velluto. El fece loro un allegro cenno; Helm scosse il capo, come se vedesse già dei guai per i giorni a venire, sospirò e poi non poté fare a meno di sorridere.

«C’è una cosa che desidereremmo prima di andarcene», esclamò dolcemente Myrjala avvicinandosi a entrambi.

Helm la guardò con circospezione: «Sì, Signora?»

«Una festa, naturalmente. Se non hai nulla in contrario, farò un incantesimo che farà sparire tutto il ferro freddo da questa stanza, cosicché nessuno questa notte dovrà temere le armi – nemmeno le frecce – e potremo fare una grande baldoria!»

Helm la fissò. Improvvisamente gettò il capo all’indietro e proruppe in una gran risata. «Naturalmente», ruggì, «è il minimo che posso fare!»

Mithtyn si stava facendo largo tra la folla per raggiungerli, conducendo un giovane paggio tremante, che portava la corona di Athalantar su un cuscino. Elminster sorrise, la prese con un inchino, e la depose sulla testa di Helm. Poi urlò: «Inginocchiatevi, popolo di Athalantar, davanti a Helm Spadadipietra, Signore di Athalantar, Re della Corona del Cervo!» Vi fu un gran movimento, e tutti i presenti – eccetto Elminster e Myrjala – caddero in ginocchio.

Helm chinò il capo, ringraziò i due con un sorriso e batté le mani. «Alzatevi, tutti!» tuonò. «Portate cibo e vino e tavoli! Chiamate tutti i menestrelli della città e venite a divertirvi!» I suoi uomini gettarono a terra le spade e gridarono la loro approvazione, e la grande sala fu improvvisamente piena di grida festanti. Il popolo ondeggiò alla vista di Elminster… e il giovane si ritrovò la faccia nuovamente bagnata di lacrime. «Madre… padre…», sussurrò, la voce coperta dal tumulto, «ho fatto la cosa giusta».

Le braccia di Myrjala furono improvvisamente attorno a lui, calde e confortanti, ed El le appoggiò la testa sul petto e pianse. È grandioso essere finalmente liberi.

Sparì più cibo di quanto Helm credeva fosse possibile. Osservò sogghignando la gente che russava sulle panche… e il suo sorriso si allargò quando vide i suoi uomini danzare e far roteare fanciulle dal viso paonazzo, mentre i menestrelli stanchi continuavano inesorabilmente a cantare. Tra loro, la maga dagli occhi scuri danzava senza sosta, ma sembrava fresca e riposata come una regina appena uscita dalle sue stanze.

Là sul pavimento, mentre roteavano a ritmo di musica, un guerriero sporco, dalla barba ispida, si chinò sulla mano di Myrjala e guidò la donna nei passi di una danza intricata. D’un tratto si abbassò e le domandò curiosamente: «Signora, non vi offendete, ma perché non vi siete inginocchiata al nuovo re?»

«Io non mi inginocchio davanti ad alcun uomo, Anauviir», rispose, sorridendo. «Se vuoi sapere il perché, chiedilo a Mithtyn domani mattina».

Lasciò il guerriero a domandarsi come facesse a conoscere il suo nome, e si allontanò tra la folla danzante, in cerca di Mithtyn.

Era con altri anziani, appoggiato ai pilastri e stava osservando le danze. Quando la vide avvicinarsi, il vecchio impallidì e si voltò frettolosamente per allontanarsi, ma si ritrovò circondato da gente che spingeva per guardare. Non poteva scappare.

Myrjala lo prese saldamente per mano. «Dopo il tuo elogio per il mio modo di danzare, non vuoi unirti a me per un ballo? Mi ferisci, coraggioso Mithtyn! Non mi scapperai questa notte!»

Intorno a loro si udirono mormorii scherzosi e parole di gelosia quando la maga trascinò il vecchio araldo in una danza, ma quando più tardi Mithtyn tornò al suo posto, sorrideva, e camminava eretto, come se avesse vent’anni di meno.

Elminster era stanco, e gli doleva la gola, ma Tassabra lo aveva trascinato fermamente nel mezzo del ballo e l’aveva guidato abilmente in una danza di avidi baci e carezze – e quando Farl l’aveva reclamata sorridente, dandogli una manata sulla schiena tanto forte da farlo quasi cadere, le donne della corte si erano fatte avanti.

El sentiva la notte scorrere lentamente sotto i suoi piedi, ormai instabili, ma ogni volta, una bellissima e zelante fanciulla, gli occhi scintillanti di eccitazione, gli prendeva la mano, e il principe era costretto a danzare.

I piedi cominciavano a fargli male, per non parlare della gola, e gocce di sudore rotolavano lungo la sua schiena sotto la camicia già inzuppata… ma la musica non accennava a smettere, e le fanciulle che lo circondavano non davano segni di stanchezza. Scuotendo il capo, El scrutò fra le spalle roteanti e i visi sorridenti, in cerca di una faccia regale con sereni occhi neri. D’un tratto li vide, e nonostante una cinquantina di persone stessero danzando fra loro, la voce di Myrjala sembrò un lieve sussurro al suo orecchio, «Va’ e divertiti! Ci incontreremo qui all’alba!»

Elminster domandò rivolto all’aria: «Ma tu che cosa farai?»

Pochi giri di danza più tardi, Myrjala gli passò accanto e gli strizzò l’occhio. El la guardò danzare verso Helm, sottrarlo abilmente alle braccia di Isparla, e voltare la testa per incontrare il suo sguardo interrogativo. «Escogiterò qualcosa!», rispose al suo allievo, e si rituffò nella mischia, trascinando Helm per la mano. Il vecchio cavaliere scosse la testa, sorrise a Elminster, e alzò le spalle.

Il giovane li guardò, sbalordito dalla voce traboccante di allegria della sua compagna – e poi, incontrollatamente, iniziò a ridere. Stava ancora sobbalzando per le risate quando mani lisce e delicate lo trascinarono oltre una porta, in un’anticamera meno illuminata, dove vi erano cuscini, vino, e labbra ansiose…

Nelle prime luci dell’alba, Elminster tornò barcollante nella stanza del trono. La testa gli martellava e aveva la bocca molto secca. C’era qualcosa che non andava col suo equilibrio, e si stava ancora riallacciando e sistemando ciò che restava dei suoi vestiti malconci, quando giunse alla porta doppia e si ritrovò a fissare gli occhi divertiti di Myrjala. Era in piedi di fronte al Trono del Cervo, impeccabile, i suoi abiti e il suo aspetto regale immutati dalla sera precedente. «Athalantar ti ha ringraziato come si deve?», gli domandò con tono canzonante.

Elminster le diede un’occhiata. Le sue dita, ancora occupate ad agganciare bottoni qua e là, scivolarono su qualche cosa di setoso, ed estrassero un velo di donna da sotto la sua cintura. Scuotendo il capo, lo porse a Myrjala. «Vuoi che rinunci a tutto ciò?», le domandò tristemente.

La donna scoppiò a ridere. «Ti stancheresti dei complotti e dei tradimenti dopo soli dieci giorni… Non è necessario essere re per mangiare, danzare, e passare una notte d’amore, lo sai».

Elminster sospirò e osservò intorno a sé gli scudi e i vessilli dei suoi antenati. Poi, riemergendo da ricordi distanti, posò nuovamente lo sguardo su di lei, e si stiracchiò.

«Ai cavalli, dunque», esclamò vivacemente, «e via di qui prima che Helm si svegli».

Myrjala annuì e avanzò per prenderlo sotto braccio e uscire insieme dalla stanza del trono.

Le stalle erano enormi e fiocamente illuminate, ma silenziose, era molto presto infatti. Myrjala scelse tranquillamente due dei migliori cavalli, e ordinò a uno stalliere assonnato di sellarli.

«Qui, adesso…» protestò, corrugando la fronte. «Quei…» Si interruppe bruscamente, guardando gli occhi severi della donna. Il suo sguardo cadde sulle sue mani, che stavano per fare un incantesimo, allora deglutì ed esclamò: «Un momento, Signora… saranno pronti in un baleno!»

Myrjala sorrise brevemente, poi si voltò verso El e schioccò le dita. Lucenti selle imbottite si materializzarono lentamente ai suoi piedi. Il giovane le lanciò un’occhiata interrogativa.

«Mi sono presa la libertà», affermò con un sorriso sereno e innocente, «di riempirle questa mattina presto. Chi conquista i regni e poi li dà via merita almeno di mangiare decentemente».

Elminster ne sollevò una e scoprì che era dannatamente pesante e che tintinnava. Monete, o non era mai stato ladro. Sciolse abilmente i nodi e aprì una tasca. Era piena di monete d’oro.

Myrjala gli sorrise innocentemente e allargò le mani. «Quanto oro può spendere un re? Ne abbiamo bisogno lungo il cammino della nostra prossima avventura…»

«Dove ci condurrà, se posso saperlo?», Elminster si abbassò, intrecciò le mani, e la donna vi appoggiò la punta di un soffice stivale e saltò leggiadra in sella.

«Quest’avventura non è ancora conclusa, temo», rispose Myrjala con tono allarmato. Elminster la guardò pensieroso, ma la maga non disse nulla e spronò il cavallo verso i cancelli.

Uscirono nella foschia mattutina e trovarono Mithtyn che appoggiato al suo bastone, li aspettava. Sollevò lo sguardo, deglutì e abbozzò un sorriso. «Qualcuno di Athalantar deve pur ringraziarvi come si deve. Temo di trovare le parole… ma non vorrei che ve ne andaste senza neanche un saluto!»

Myrjala si inchinò lievemente sulla sella, ed esclamò: «I nostri ringraziamenti, Mithtyn. Tuttavia, ti vedo turbato… e vorrei sapere di che si tratta, se non ti dispiace».

Il vecchio la fissò per un momento e poi parlò frettolosamente. «La profezia di Alaundo, Signora! Non si è mai sbagliato, e disse che “il lignaggio degli Aumar sopravviverà al Trono del Cervo”! Ciò può solo significare che Athalantar non sopravviverà senza un Aumar come re… e ora voi ve ne andate!»

Elminster rivolse al vecchio un sorriso storto. «Fintanto che vivrò, il lignaggio degli Aumar continuerà, e questo regno crescerà forte e felice nei giorni a venire».

Mithtyn non rispose, il viso turbato, ma si inchinò. I due sollevarono le mani in segno di addio, e partirono in silenzio. Mentre avanzavano, il sole toccò i tetti di Hastarl con una luce rossastra. Il vecchio araldo li guardò allontanarsi, immobile e silenzioso.

El e Myrjala si fermarono in cima alla strada. Il giovane dal naso adunco guardò il vecchio cimitero e sussurrò qualcosa all’orecchio della donna alta che cavalcava con lui, puntando un dito. L’araldo allungò il collo, cercando di vedere che cosa stesse indicando il principe che aveva rinunciato al suo regno… e poté vedere soltanto un cumulo di vestiti.

Si trattava di… un mantello, disteso sopra un uomo e una donna dormienti. Mithtyn si schiarì la gola, imbarazzato, ma ormai li aveva riconosciuti: l’uomo sorridente di nome Farl e la sua ragazza, piccola e meravigliosa. Sì, Tassabra, si chiamava. E dietro di loro, sedeva qualcosa, e stava guardando proprio lui! Un elfo! Un elfo maschio, alto e silenzioso, con un bastone di legno sulle ginocchia… Mithtyn deglutì, sollevò la mano in un goffo saluto, e si vide ricambiato.

Poi l’elfo girò la testa. Mithtyn guardò nella sua stessa direzione in tempo per vedere il principe e la maga, – se voleva essere conosciuta come tale – svanire dietro un angolo di una vecchia casa imponente. Quando scomparvero, il vecchio rabbrividì una volta. Poi si voltò verso il castello, gli occhi umidi di lacrime. Sapeva che non avrebbe più visto nulla di tanto importante nel resto dei suoi giorni. Ed era un pensiero difficile da sopportare di prima mattina.

Forse, ci sarebbe riuscito dopo un buon fritto, qualche tazza di tè caldo e con la presenza della moglie, a cui raccontare tutto. Mithtyn sperò – non per la prima volta – di poter vivere abbastanza a lungo affinché la figlia fosse sufficientemente grande per dargli retta, e ascoltare, e apprezzare ciò che le diceva. Le avrebbe raccontato un centinaio di volte di quella mattina.

Mentre attraversava il cortile, uno dei cavalieri di Helm si avvicinò a lui e un po’ titubante raccontò all’araldo ciò che Myrjala gli aveva detto mentre danzavano la notte precedente. Mithtyn guardò l’uomo negli occhi e scoprì di avere qualcuno con cui parlare, dopo tutto. Dunque condusse Anauviir verso le cucine, e si sentì subito meglio.

«Dove andiamo ora?», domandò Elminster, mentre Myrjala fermava il cavallo nel luogo in cui il sentiero attraversava una piccola collina a ovest della città. El si guardò attorno con curiosità; da Hastarl non si vedeva che quella era una collina-cimitero. Un plinto di pietra si ergeva nel mezzo di un muro basso, ricoperto quasi interamente di cespugli e alberi dai rami bassi, tanto da renderlo visibile solo a un occhio attento.

«In tutta la tua lotta, non hai guadagnato neanche uno degli incantesimi esercitati dai signori maghi», rispose Myrjala. «Casualmente, conosco il nascondiglio in cui il mago reale teneva libri di magia, pozioni curative, e altri oggetti, in caso fosse stato cacciato da Hastarl, o avesse trovato la città coalizzata contro di lui. Ed è proprio qui, in questo vecchio santuario di Mystra, dove nessun ladro osa entrare per paura dei fantasmi guardiani dei maghi morti».

«È protetto?», domandò Elminster cautamente, mentre scendevano da cavallo in mezzo agli alberi.

«Naturalmente, sciocco!», ringhiò qualcuno da dietro.

Elminster si girò bruscamente – in tempo per vedere il corpo del suo cavallo impennato contorcersi e trasformarsi… nella familiare sagoma di Undarl, mago reale di Athalantar. Il destriero di Myrjala nitrì in preda al terrore, e fuggì con un frenetico scalpitio di zoccoli.

Elminster deglutì e si tastò la cintura in cerca degli incantesimi rimastigli. Il sorriso maligno di Undarl gli fece tuttavia capire che non sarebbe arrivato in tempo. Il mago reale sollevò la mano e iniziò a mormorare qualcosa, ma Myrjala balzò fra i due, le vesti svolazzanti. Il fulmine crepitante scagliato dalle mani del mago si infranse davanti alle sue mani sollevate e deviò senza causare danno.

Undarl grugnì di rabbia, e quando riuscì a trovare le parole nella sua furia, le ringhiò: «Tu! Sei sempre in mezzo! Muori allora!» Poi sibilò un incantesimo, e flussi di fuoco scaturirono dalla punta delle sue dita in una rete color cremisi, che crepitò e cercò di afferrarla, ma venne respinta dallo scudo evocato da Myrjala. A Elminster non restavano incantesimi per contrastare tali magie; poteva solo rimanere ansiosamente al riparo dietro la barriera della donna.

La rete di fuoco iniziò a scurirsi, fino a diventare di color rosso cupo. Il mago reale frustò lo scudo con le fiamme languenti, e pronunciò un nome che echeggiò fra le pietre del santuario.

Alla sua chiamata rispose un ruggito bestiale. Qualcosa di enorme e di scuro si innalzò dietro gli alberi alle spalle del mago… un drago rosso! Spiegò le ali da pipistrello e sibilò, gli occhi colmi di crudeltà. Poi sollevò le spalle e balzò verso il principe e la donna dagli occhi scuri. Mentre si avvicinava sputò un ruggente torrente di fuoco contro lo scudo di Myrjala… ma non riuscì a consumarlo.

La maga pronunciò una frase lunga e goffa, e le fiamme del drago si ripercossero su di lui, turbinando e cambiando colore, da rosse divennero blu brillante e infine bianchissime. Alla vista di Elminster apparivano ancora più brillanti; Myrjala aveva trasformato il fuoco in qualcosa di spaventoso, che investì la bestia come un vento arrabbiato. El vide le ali scure sbattere freneticamente fra le fiamme ruggenti per un momento, e poi, in un’esplosione che scosse l’intera collina e lo fece cadere a terra, il drago esplose.

Squame e brandelli di carne annerita caddero dietro all’ultimo principe di Athalantar; questi cercò di rialzarsi e vide Undarl ringhiare e colpire la maga con la sua frusta di fiamme, determinato a penetrare lo scudo. Il fuoco ruggì e tuonò.

Myrjala rimase immobile contro la furia delle fiamme, e pronunciò una singola parola. Al che i bordi del suo scudo iniziarono a crescere, allungandosi in lunghe punte, simili a lance, che raggiunsero Undarl, pulsando di energia.

Il mago proruppe in una risata altezzosa. Anche le sue braccia si stavano allungando come dei tentacoli. Le punte delle sue membra serpentine si indurirono in lunghi artigli affilati, di colore rosso. Le punte di Myrjala lo colpirono e passarono innocuamente attraverso il suo corpo. La sua risata si fece ancor più crudele, e il suo viso stava cominciando ad allungarsi in un orribile muso. Ora gli artigli delle sue mani svilupparono qualcosa di bulboso, ognuno con una bocca pronta a mordere.

«Il mio incantesimo non può toccarlo!» esclamò Myrjala, sbalordita.

Il mago tirò indietro la testa, e la sua risata, più malvagia che mai, echeggiò dal plinto di pietra dietro di lui. «Certo che no! Non sono un gracile mortale di Faerûn, per essere sopraffatto dalla tua magia – io percorro le ombre di molti mondi. Tanti pensano di essere più potenti di me, solo per conoscere le profondità della propria follia nel momento prima di perire!»

I tentacoli di Undarl, sempre più lunghi, si avventarono improvvisamente intorno allo scudo e raggiunsero la donna, mordendo come serpenti impazziti. Myrjala gridò quando un morso le staccò la mano alzata – ma il grido venne interrotto bruscamente un istante più tardi, quando la testa del mago, ora drago, iniziò a sputare fuoco attraverso lo scudo, senza sosta. La maga svanì dalla vita in su, collassando in un tumulto di ceneri e di ossa affumicate.

«No!», gridò Elminster, lanciandosi contro il mago e infilandogli le dita negli occhi, mentre scalciava e piangeva.

Undarl se lo scrollò di dosso, e il principe cadde pesantemente. D’un tratto vide la bocca dagli enormi denti chinarsi sopra di lui per sputare fuoco divoratore, allora si rotolò con rapidità disperata, nascondendosi sotto il suo mento.

Le fiamme di Undarl ruggirono in direzione del cielo, inutilmente, quando El iniziò a colpirlo ripetutamente alla gola con la Spada del Leone, costringendo il drago a indietreggiare. La testa si inarcò all’indietro con un sibilo, per allontanarsi dalla sua spada, ma i tentacoli dentati del mago lo afferrarono e gli lacerarono la schiena e il viso. Elminster passò un braccio intorno alla gola del drago e si portò dietro la bestia, cercando di mantenere l’equilibrio. I tentacoli lo raggiunsero nuovamente, ma il principe gli affondò la spada in un occhio dorato.

Undarl si agitò, rabbrividì; con la coda appena spuntatagli scaraventò El lontano. Questi rotolò nel fango mentre il drago urlava di dolore. Subito si alzò in piedi e pronunciò un breve incantesimo, una magia debole che avrebbe scottato solo lievemente le squame di un drago – ma non la indirizzò a Undarl, bensì all’elsa della Spada del Leone, ancora vibrante nell’occhio della bestia.

L’incantesimo fece effetto, e il drago s’irrigidì, agitò la coda, e si afflosciò sul basso muro di pietra, il suo cervello bruciato. Fili di fumo si sollevarono dagli occhi e dal naso.

Piangendo dalla rabbia, Elminster scagliò tutti gli incantesimi di battaglia che gli rimanevano. Davanti ai suoi occhi lacrimanti il corpo squamoso del suo nemico fu tagliato a pezzi e poi congelato. Poi rimase a guardare la carcassa devastata finché non trovò la forza di pronunciare le parole del suo ultimo incantesimo. Piccoli dardi appuntiti infilzarono i pezzi del corpo di Undarl, sollevandoli in aria. El non si fermò finché non rimasero solo grovigli di carne insanguinata… sangue in ogni dove.

Ancora piangente, Elminster si voltò verso il punto in cui Myrjala era caduta. Per difendere lui, ancora una volta. Tentò di abbracciare le sue ossa, ma esse si sgretolarono e si ritrovò fra le mani solo polvere… e poi più nulla.

«No!» singhiozzò con voce rotta, in ginocchio davanti al santuario di Mystra nella luce del mattino. «No!»

Si alzò, borbottando, poi alzò gli occhi all’impassibile sole e gridò: «La magia porta solo morte! Non la eserciterò mai più

Il suolo tremò e oscillò alle sue parole, e qualcosa sdrucciolò intorno ai suoi piedi. El guardò in basso… e si irrigidì, osservando sbalordito, in silenzio. Le ceneri intorno a lui si illuminarono e fluttuarono sopra una pietra coperta di vegetazione, sollevandosi e riplasmandosi in… Myrjala!

Capelli color miele scuro turbinarono, mentre il bagliore si trasformò nel suo corpo chiaro, sdraiato sulle pietre. I capelli si agitarono, come disturbati da un’onda impetuosa, e rivelarono il volto familiare e vivace della sua Maestra, e quei grandi occhi scuri. La donna aprì gli occhi e lo guardò.

Elminster la stava fissando, scioccato, con la bocca spalancata, e Myrjala esclamò dolcemente: «Per favore, Elminster… non pronunciare mai più quelle parole, prometti? Per me?»

In silenzio, El cadde in ginocchio, e allungò le mani esitanti, per toccarle le spalle. Erano solide, e lisce, come le mani che gli presero dolcemente la testa e attirarono a sé la sua bocca. L’odore acre di capelli bruciati era forte intorno a loro, e d’un tratto il principe si ritrasse allarmato, sospettando un ulteriore trucco del mago, e fissò negli occhi la maga.

Rimasero a lungo in quella posizione, ed El seppe che la donna era proprio Myrjala. Deglutì, e lacrime calde caddero sul viso della maga. «Io… te lo prometto. Pensavo fossi morta… eri morta, incenerita! Com’è possibile?»

Gli occhi neri fissi nei suoi, si infiammarono improvvisamente; il fantasma di ciò che avrebbe potuto essere un sorriso le solcò le labbra ed esclamò piano: «Per Mystra tutto è possibile».

Elminster la guardò sbalordito e poi, finalmente, si rese conto di chi – di che cosa – fosse in realtà la sua Maestra.

In preda al panico, cercò di allontanarsi. Una nota di tristezza si insinuò negli occhi scuri, ma poi il loro sguardo divenne tagliente e le solide braccia intorno al collo di El lo tennero fermo. La dea Mystra lo tenne prigioniero con i suoi occhi misteriosi ed esclamò dolcemente: «Tempo fa, tu dicesti che avresti potuto imparare ad amarmi». Improvvisamente i suoi occhi gli lanciarono una sfida.

Pallido, ammutolito, Elminster annuì.

«Mostrami, dunque, ciò che hai imparato», lo spronò delicatamente la Signora sotto di lui, e un fuoco bianco e fresco li avvolse entrambi.

Elminster si sentì bruciare tutti gli abiti e li vide innalzarsi fra le fiamme, nel cielo limpido del mattino, al di sopra del muro di pietra in rovina. Poi le loro labbra si sfiorarono, e l’incendio avvampò, mentre un potere mai provato prima gli invase il corpo…

Il carro scricchiolò tanto forte da svegliare anche un morto, come al solito. Bethgarl sbadigliò, mentre lo spingeva sulla salita accidentata che precedeva la lunga discesa verso Hastarl… ma ormai ci era abituato.

«Sveglia, Hastarl!», mormorò, allargando grandiosamente le braccia e sbadigliando di nuovo. «Poiché sta arrivando Bethgarl Nreams, famoso mercante di formaggi, carico di…» qualcosa alla sua sinistra, accanto al cimitero-santuario, si mosse e catturò la sua attenzione. Bethgarl guardò in quella direzione, poi verso l’alto… e un terzo sbadiglio morì per sempre quando la sua bocca si spalancò.

Stava guardando – no, fissando – una sfera di fiamme bianche e blu, tanto brillante che riusciva a stento a tenere aperti gli occhi… ma non aveva distolto lo sguardo, e con occhi brucianti, aveva visto due individui fluttuare seminascosti al centro della sfera! Un uomo e una donna, e stavano…. Bethgarl si sfregò gli occhi, guardò ancora, poi lasciò cadere il carro e si mise a correre per dove era venuto, strillando di paura.

Per gli dei! doveva assolutamente smettere di mangiare quelle lumache! Ammuthe aveva ragione, come al solito… oh, per tutti gli dei, perché aveva dubitato di lei?

Sazi, fluttuarono abbracciati, all’ombra di un vecchio albero per ripararsi dal sole scottante.

Le fiamme bianche erano scomparse, e Mystra sembrava una donna umana, dallo sguardo languido e meravigliosa. Appoggiò la testa sulla spalla di El ed esclamò piano: «Ora devi proseguire da solo, Elminster, poiché più tempo percorro Toril in forma umana, più mi indebolisco. Tre volte sono morta come Myrjala, per proteggerti: qui, nel castello di Ilhundyl, e nella stanza del trono di Athalgard… e ad ogni morte il mio potere è diminuito».

Elminster fissò i suoi occhi scuri, ma quando aprì la bocca per parlare, la dea gli mise un dito sulle labbra, e continuò: «Ma non dovrai essere necessariamente solo – poiché ho bisogno di paladini nei Regni: uomini e donne che mi servano fedelmente e detengano parte del potere della mia Arte. Mi piacerebbe immensamente che tu fossi uno dei miei Eletti».

«Qualsiasi cosa, Signora», farfugliò El. «Comandami!»

«No». Gli occhi di Mystra erano gravi. «Devi decidere di tua volontà e prima di dire qualcosa di avventato, sappi che ti sto chiedendo un servizio che potrà durare migliaia e migliaia di anni. Un cammino duro… un lungo, lungo destino. Vedrai Athalantar, con tutti i suoi abitanti e le sue torri fiere, svanire, ridursi in polvere, ed essere dimenticata».

Quegli occhi lo tenevano prigioniero, e d’un tratto ebbe paura. Guardandolo negli occhi, la dea proseguì: «Il mondo cambierà intorno a te, e io ti comanderò di fare cose difficili, e che ti sembreranno crudeli e insensate. In molti luoghi non sarai ben accetto… e il tuo benvenuto in altri sarà dovuto solo a una paura servile».

Si scostò un po’ da lui e girò entrambi, finché non si trovarono in piedi, faccia a faccia nell’aria. «Ma non penserò male di te, se rifiuterai. Hai già fatto molto di più di qualunque mortale». I suoi occhi si illuminarono. «Inoltre, hai combattuto al mio fianco, fidandoti sempre di me, senza mai tradirmi o cercare di usarmi per i tuoi scopi. È un ricordo che conserverò per sempre».

Elminster ricominciò a piangere, e fra le lacrime mormorò raucamente: «Signora, ti prego, fai di me ciò che vuoi! Mi stai offrendo due cose molto preziose, il tuo amore e uno scopo per la mia vita! Che cos’altro potrebbe chiedere un uomo? Sarei onorato di servirti… fai di me, ti prego, uno dei tuoi Eletti!»

Mystra sorrise, e il mondo intorno a lei sembrò più lucente. «Grazie», esclamò formalmente. «Vuoi iniziare subito, oppure vuoi del tempo per vivere la tua vita ed essere te stesso?»

«Ora», rispose fermamente El. «Non voglio lasciare tempo ai dubbi… lascia che sia ora».

Mystra chinò la testa, gli occhi trionfanti. «Farà male», lo avvisò con aria grave, mentre il suo corpo si riuniva a quello del giovane.

Quando le loro labbra si toccarono, fulmini passarono dagli occhi di Mystra a quelli di El, e il fuoco bianco ricomparve improvvisamente intorno a loro, con un ruggito assordante, penetrandogli fin nelle ossa. Elminster tentò di gridare di dolore, ma si accorse che non riusciva a respirare, poi si sentì torcere, tirare, e spazzar via dalle fiamme, e d’un tratto non gli importava più di nulla…

«Che storie racconti!», Ammuthe si stava innervosendo mentre camminavano. Scosse la testa, e i suoi magnifici capelli scintillarono alla luce del sole. «Sempre quelle fantasie – e così mio marito sogna quando è desto e quando russa! Ringrazio gli dei per questo, e subisco in silenzio! Ma questa volta, un intero carro di formaggi lasciati cadere, alla mercé di chissà chi? È troppo, mio caro maritino! Sentirai qualcosa di più della mia lingua affilata, se tutte le forme di formag…»

Ammuthe si interruppe a metà predica, alzando lo sguardo al santuario sulla collina. Di nuovo tremante di paura, Bethgarl si concesse un breve momento di soddisfazione quando la moglie si mise a gridare, si voltò e gli si avvinghiò al collo.

L’uomo barcollò, ma la tenne salda. «Niente di tutto ciò, ora», esclamò con voce piuttosto bassa, lanciando un’occhiata guardinga alla sfera fluttuante sopra il santuario di Mystra. «Raccoglieremo tutto il formaggio… non mangerò mai più al nostro tavolo finché non vedrò il denaro ricavato, hai detto… bene, a momenti, mia cara moglie, mi verrà fame. Lo so che mi verrà, e…»

«Per tutti gli dei, Bethgarl! Chiudi il becco e corri

Ammuthe fece per staccarsi da lui. Il marito sospirò e la lasciò andare, e la donna corse giù dalla collina come una lepre, i capelli fluttuanti dietro di lei. Bethgarl la guardò allontanarsi, soffocò un improvviso desiderio di ridere, e tornò al suo carro. Uno dei formaggi era caduto nell’erba. Gli soffiò via la terra, pensierosamente, lo rimise a posto, afferrò le maniglie, e spinse il carretto verso Hastarl, ignorando le grida della moglie che lo chiamava da lontano.

Passando accanto al santuario, guardò la sfera di fuoco, e ammiccò. Poi deglutì. Un brivido freddo gli corse lungo la schiena, e dovette lottare contro una nuova crisi di panico. Cautamente spinse il carretto giù per la collina, senza affrettarsi. Avrebbe potuto giurare che, mentre guardava le fiamme, un paio di occhi scuri e sapienti avevano incrociato il suo sguardo – e avevano ricambiato il suo occhiolino!

Bethgarl giunse in fondo alla discesa e guardò indietro: il fuoco continuava a pulsare. Fischiettando, continuò il suo viaggio verso la città, e, d’un tratto, inarcò le sopracciglia, domandandosi che cosa fosse quel baccano proveniente dai cancelli. Sembrava esserci molta gente per le strade quel giorno, ed erano tutti eccitati…

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