Grande avventura? Ah! Morire di paura, cercare a tentoni di uscire dalle tombe o, peggio, versare sangue o cercare di abbattere cose che non possono più sanguinare. Se sei un mago, resterai tale finché un tuo simile non lancerà un incantesimo più rapidamente di te. Non parlatemi di «grande avventura».
Era una fredda e limpida giornata d’autunno dell’Anno della Birra Abbondante. Le foglie sugli alberi tutt’intorno avevano ormai assunto sfumature dorate e arancio-fuoco quando le Lame Coraggiose fermarono i loro cavalli ai piedi del luogo che avevano a lungo cercato.
La loro destinazione si ergeva scura e silenziosa sopra le loro teste: la Torre Fluttuante, la fortezza senza vita del mago Ondil, morto tempo addietro, nascosta nella forra soffocata dai rovi, in un luogo selvaggio molto a ovest delle Colline del Corno.
Era ancora in piedi, una torre di pietra, solitaria e cadente che si stagliava nel cielo limpido… ma, come narrava la leggenda, le sue fondamenta erano un cumulo di pietre crollate, e vi era un vuoto, pari all’altezza di circa dodici uomini, tra il suolo e la stanza vuota e buia del sesto piano. La dimora di Ondil era sospesa pazientemente nell’aria ormai da secoli, sostenuta da un incantesimo imponente.
Le Lame guardarono in alto, e poi distolsero lo sguardo, tutti tranne l’unica donna fra loro, che in piedi, con una bacchetta magica alzata, osservava guardinga la dimora sospesa sopra di lei, oltre il suo naso aquilino.
Erano giunti in quel luogo per una strada lunga e pericolosa. In una tomba di uno stregone, infestata dai ragni, nella sperduta Thaeravel, secondo alcuni la terra dei maghi da cui era sorta Netheril, avevano ritrovato degli scritti che parlavano del potente arcimago Ondil e di come, negli ultimi giorni della sua vita, si fosse ritirato in una torre protetta da un incantesimo, per creare magie nuove e potenti.
Il vecchio Lhangaern aveva inventato una pozione per rinvigorire le sue membra, l’aveva bevuta e si era accasciato nella polvere gridando, sotto i loro occhi… e le Lame si erano ritrovate senza un mago. Gli avventurieri non osavano mettersi nuovamente in cammino senza l’aiuto della magia; pertanto, quando una giovane donna si presentò alla loro taverna e iniziò a snocciolare favole sulle meraviglie della magia – e dimostrò di saper fare tali incantesimi – l’arruolarono immediatamente nelle loro fila.
Non era una donna bella. Il naso adunco e lo sguardo cupo e serio tenevano lontani molti uomini e molte donne, e cavalcava bardata come un guerriero, con stivali e pantaloni, rifiutando la tunica e le maniere di molti maghi. Nessuno di loro sentiva il desiderio di portarsela a letto, anche se attorno a lei non aleggiava alcuna minaccia di incantesimi protettivi. La sua prima richiesta era stata quella di avere il tempo di studiare i libri degli incantesimi che Lhangaern non avrebbe mai più letto e la seconda era la possibilità di usarli.
Le Lame Coraggiose si dichiararono d’accordo, e si misero in viaggio per far guerra a una banda di briganti che opprimevano quella terra. Nel torrione in rovina che la banda sconfitta usava come roccaforte, Elmara trovò bacchette magiche che non potevano più usare e libri di magia che non potevano più leggere, e li esibì trionfante.
Per tutto l’inverno successivo, mentre i venti urlanti ammassavano la neve alta e gelida all’esterno dell’edificio, le Lame Coraggiose sedettero davanti al fuoco, affilarono le spade, e si raccontarono storie concitate delle loro gesta brillanti e ciò che di temerario contavano di fare nell’estate a venire. In disparte, la giovane maga studiava.
I suoi occhi si infossarono e divennero malinconici, il corpo si fece sempre più magro. Socchiudeva gli occhi quando andava in giro e usava poche parole, la sua mente era lontana, distante e confusa proprio come se gli incantesimi la sconcertassero. Tuttavia, riusciva a evocare fuochi in stanze ghiacciate dall’inverno e luce intensa senza bisogno di accendere falò o candele fumose o di tagliare legna.
Gli uomini impararono a tenersi alla larga da Elmara, poiché ogni loro piano comportava da parte sua un torrente infinito di questioni morali: «Dovremmo uccidere quest’uomo? È giusto?» oppure: «Ma che cosa ci ha fatto il drago? Non sarebbe più prudente lasciarlo in pace?»
L’inverno trascorse, le Lame Coraggiose ripresero il cammino e si imbatterono negli Scudi Lucenti, una banda arrogante e famosa di avventurieri fuorilegge. Combatterono nelle strade di Baerlith, e i sogni di numerose Lame si spensero in quel luogo. Elmara supplicò i due maghi degli Scudi Lucenti di non combattere, ma di condividere i loro incantesimi, «ponendo le glorie della magia al di sopra di tutto».
I due maghi la schernirono e sferrarono incantesimi mortali, ma la maga delle Lame non era più dove si trovava. Riapparve dietro ai due uomini e li colpì con l’elsa di un pugnale. Poi scoppiò in lacrime quando i compagni, incuranti delle sue proteste, tagliarono loro la gola mentre giacevano privi di sensi. «Ma avrebbero potuto insegnarmi molto!», piagnucolò la ragazza. «E che ne è del vostro onore se uccidete chi non può reagire?»
Tuttavia, al termine di quella giornata, gli Scudi Lucenti vennero sconfitti, e le Lame presero monete, armature, cavalli, e tutto per se stessi, mentre la loro maga si ritrovò padrona di stivali, cinture, anelli, corde e quant’altro emanasse magica luce blu. Non vedeva l’ora di usarli ma decise di attendere, per il momento. Le Lame forse la pensavano una maga, ma era una sacerdotessa di Mystra, che non possedeva più magia di un apprendista appassionato ma ignorante… e avendo visto il loro temperamento bollente, non rivelò la sua verità.
Trascorse anche l’estate, lunga e calda. Gli avventurieri cavalcavano di trionfo in trionfo, con le bisacce colme di monete, gettando generosamente le ricchezze che non potevano portare con sé in grembo a ragazze consenzienti, dovunque andassero; tutti, tranne la loro maga seria e cupa, che si teneva in disparte, e trascorreva invece le notti in compagnia dei suoi incantesimi.
Poi venne il giorno in cui Tarthe trovò il diario di un mercante che narrava di un viaggio tra le alte colline a nord del Bosco Ong, e di una valle nella quale i grifoni, usciti da una dimora solitaria, scacciarono la sua banda. Erano grifoni col collare, e il loro petto presentava uno scudo col marchio di Ondil dai Molti Incantesimi.
Il momento in cui, tutti eccitati, avevano esultato al pensiero di saccheggiare la Torre Fluttuante, sembrava lontano, ora che stavano legando i cavalli all’ombra della sua sagoma cupa e silenziosa.
Tarthe si rivolse alla donna dallo sguardo ardente, che teneva in mano la bacchetta magica. Il sole scintillava sulle spalle ampie e corazzate del guerriero e danzava fra i riccioli della barba e dei capelli rossicci. Sembrava un leone tra gli uomini, un vero capitano coraggioso di una famosa banda di avventurieri.
«Dunque, maga?», Tarthe indicò la Torre Fluttuante con una mano guantata.
Elmara annuì, fece un passo avanti e compì il gesto circolare, che indicava loro di indietreggiare e darle spazio per un incantesimo. Gettò un rotolo di corda lungo e pesante sul tappeto erboso ai suoi piedi.
Portò le mani a una delle fiale che teneva legate alla cintura, ne tolse il tappo, la inclinò, poi la richiuse abilmente tenendo un po’ della polvere in essa contenuta nel palmo della mano. Pochi gesti, una litania di parole mentre lanciava in aria la polvere, una striscia di pergamena agitata fra i granelli cadenti e il rotolo di corda sul terreno si mosse. Mentre la giovane maga indietreggiava, la corda si alzò da terra come un serpente, ondeggiò, e poi iniziò lentamente a levitare.
Elmara la osservò con tranquillità. Quando la fune si arrestò, immobile e dritta nell’aria, fece cenno di non avanzare e andò a prendere un altro rotolo dalla sella del suo cavallo. Con quello a tracolla, iniziò ad arrampicarsi goffamente, facendo sorridere o scuotere la testa a tutti gli uomini che la osservavano, e giunse infine all’estremità della corda. Avvolgendola intorno a un polso e facendo presa con gli stivali, con l’altra mano aprì con calma una fiala, prese una goccia del contenuto, e soffiò sul palmo mentre gesticolava con l’altra mano.
Sembrò non accadere nulla, ma quando la maga si staccò dalla corda e rimase sospesa nel vuoto, fu evidente la presenza di una piattaforma invisibile. Sprofondò qualche centimetro sotto il suo peso, ma El non ci fece caso, vi depose pacatamente il rotolo di corda e ricominciò l’incantesimo.
Quand’ebbe terminato, la seconda corda si allungò verso l’alto, nell’oscurità della stanza diroccata, senza pavimento, ai piedi della dimora fluttuante. La maga non sprecò il fiato in parole, ma guardò giù verso i compagni e tracciò un ampio cerchio con le mani, mostrando loro i confini della piattaforma. Poi si voltò, e senza guardare indietro, ricominciò la scalata lenta e faticosa.
Lampi improvvisi comparvero nell’aria intorno alla donna, che si calò frettolosamente per un tratto, abbracciando la corda in preda al dolore. Vi rimase aggrappata a lungo, immobile, mentre gli uomini ansiosi la chiamavano. Non rispose, ma sembrava illesa, e finalmente allungò di nuovo le braccia e lanciò qualcosa che fece ardere e scoppiettare i lampi, che infine scomparvero.
Continuò a salire, nel buio della stanza più bassa. Appena prima di scomparire nella voragine tenebrosa, si voltò e fece un segnale.
«Bene, ragazzi!», Tarthe iniziò ad arrampicarsi rapidamente su per la corda, mentre il suo urlo impetuoso echeggiava ancora intorno a loro.
Il guerriero magro accanto alla corda scrollò le spalle, si sputò sulle mani e lo seguì. Il sacerdote di Tempus, dallo sguardo severo, si fece strada fra i ragazzi nella fretta di essere il prossimo. Ladri e guerrieri alzarono le spalle e lo lasciarono passare, attendendo con calma il proprio turno. Altrettanto fece il robusto servitore di Tyche, la sua mazza penzolante dalla cintura mentre ansimava e si arrampicava a fatica.
Il guerriero più giovane controllò nuovamente la sua balestra carica e si sedette fra i cavalli legati. Li osservò brucare pacatamente tutta l’erba e la gramigna che riuscivano a raggiungere, e sputò pensierosamente nelle cavità sottostanti, da cui proveniva il debole mormorio di acqua corrente. Più di una volta alzò lo sguardo verso le corde sopra di lui, diritte come cavi d’acciaio, ma i suoi ordini erano chiari, il che è più di quanto molti soldati sappiano dire, pensò, e si sistemò per la lunga attesa.
«Guardate!» sussurrò una voce rauca, ma carica di stupore e sgomento; nemmeno i veterani del gruppo avevano mai visto una cosa simile nelle loro precedenti avventure. Il tempo aveva intaccato la torre, ma in alcuni luoghi sembrava che gli incantesimi avessero tenuto a bada il vento, il freddo e l’umidità. Alla fine di un corridoio in rovina, il cui soffitto cadde nonostante il suo passo cauto, uno dei guerrieri oltrepassò una tenda di tenebre magiche e di lui non si seppe più nulla.
Una stanza era ricoperta da un tappeto di velluto rosso: un pavimento ondeggiante circondato da scintillanti tende sospese, costituite da gemme infilate in sottili fili metallici. Un’altra conteneva statue di marmo bianco levigato, perfettamente verosimili nella dimensione e nel dettaglio e raffiguranti ragazze meravigliose, dalle cui spalle spuntava un paio d’ali. Alcune erano statue parlanti, che salutavano tutti gli intrusi con voci morbide e sospiranti, recitando poesie antichissime.
«Tale sarebbe la mia unica gioia, servirti, ma ora i miei occhi vedono il sole e la luna e non possono far altro che confrontarli con te… e sebbene tu sia la stella più nobile che abbia mai veduto...»
«Guarda per non trovarmi più, dove le torri silenti osservano dalle stelle, intrappolate in pozze immobili di acqua scura…»
«Cos’altro sono se non i sogni nebbiosi del paese magico, dove nulla è ciò che sembra e tutto quello che si può toccare, e baciare, non è altro che un sogno?»
Meravigliati, i guerrieri si aggirarono fra esse, attenti a non toccare nulla, mentre l’eco delle voci monotone si ripeteva all’infinito. «Per tutti gli dei», persino l’imperturbabile Tarthe fu udito mormorare, «mai vista tanta magnificenza…»
«E non poterla portare con noi», mormorò uno dei ladri, con aria desolata e bramosa. Per una volta, i sacerdoti provarono la sua stessa delusione, e nonostante non si espressero a parole, la loro frustrazione si notò dai loro cenni di assenso e dai loro sguardi inebetiti.
La camera oltre quella delle statue parlanti era scura ma illuminata da un arcobaleno di minuscole luci scintillanti: scintille dai mille colori sfrecciavano e danzavano intorno alla stanza come branchi di pesciolini, un’orgia inestinguibile di smeraldo, di oro, di vermiglio.
Tutti esitarono; infine, Tarthe esclamò: «Gralkyn… tocca a te, temo».
Uno dei ladri sospirò eloquentemente e iniziò a svestirsi di tutti gli oggetti metallici, dai dieci o più strumenti appuntiti che teneva dietro le orecchie e da altre parti sulla sua persona alle numerose lame riposte negli stivali, sotto i vestiti e in quasi ogni cavità del suo corpo snello, quasi ossuto. Quand’ebbe terminato, era quasi nudo. Deglutì, una volta, poi rivolto a Tarthe: «Con questo mi sei debitore di un grande favore», e con passo felino avanzò in mezzo alle luci.
Esse reagirono immediatamente, schizzando via come pesciolini spaventati e vorticando, sempre più rapidamente, fino a scagliarsi sul ladro da ogni direzione con velocità terrificante; poi si strinsero attorno a lui, gli altri videro Gralkyn contorcersi, come solleticato da mani invisibili e infine le luci lo avvolsero in un bagliore accecante.
Sembrava un imperatore vestito di gemme, e meravigliato guardò il suo corpo per qualche istante, prima di esclamare: «Bene,… chi è il prossimo?»
L’altro ladro, Ithym, entrò esitando nella stanza, ma le luci non abbandonarono Gralkyn, e non sembrò accadere nient’altro. Dopo aver scaricato la tensione con un sospiro, Ithym raggiunse lentamente il compagno e allungò una mano verso le lucine, ma poi la ritrasse. Gralkyn annuì per la saggezza di quel gesto.
Ithym proseguì nelle zone più buie e distanti della stanza, aggirandosi silenziosamente per qualche tempo, prima di tornare sui suoi passi e far loro segno che c’era una porta.
Tarthe si levò il mantello, vi depose tutti gli oggetti metallici di Gralkyn, se lo mise in spalla, ed entrò nella stanza, con la spada sguainata. Immediatamente, alcune delle luci si staccarono dal ladro in uno sciame indagatore, dirette verso il guerriero alto in armatura. Gli uomini osservavano preoccupati e videro sudore sulla fronte di Tarthe, che a grandi passi raggiungeva il secondo ladro. Le luci turbinarono attorno all’uomo come mosche ronzanti… poi tornarono lentamente da Gralkyn.
Il capitano scosse la testa sollevato, ed essi lo udirono sussurrare con voce roca: «Ora, Ithym… dov’è la porta?»
Qualche istante più tardi, la sua voce echeggiò fra le tenebre. «Da questa parte, ragazzi! Sembra che ci sia via libera!»
Cautamente, uno alla volta, le altre Lame Coraggiose oltrepassarono Gralkyn, alcuni frettolosamente, altri con calma, fino a che nella stanza non rimase che il ladro, avvolto nel suo mantello di luci. Questi si incamminò lentamente verso la porta, sbirciò oltre, e vide i suoi compagni che attendevano ansiosamente in un piccolo corridoio che conduceva a uno spazio aperto, tenebroso. «State indietro!» esclamò Gralkyn. «Toglietevi dal passaggio! Sto arrivando!»
Gli altri obbedirono, ma rimasero a guardare nella parte più lontana del corridoio. Gralk corse verso la porta, vi si tuffò attraverso e ricadde pesantemente sul pavimento. Le lucine però non oltrepassarono la soglia, come bloccate da un muro invisibile. Dopo un attimo, il ladro si mise in ginocchio e gattonò il più rapidamente possibile fuori dal corridoio. Solo allora guardò indietro: le luci riempivano lo spazio della porta formando un muro scintillante.
«Stai bene?» Le parole uscirono dalla bocca di Elmara prima che ne avesse valutato la loro opportunità.
Gralkyn si massaggiò le spalle. «Io non lo so. Sembra tutto al suo posto ora che il formicolio è cessato.» Stava piegando pensierosamente le dita quando Ithym scrollò le spalle, sguainò un pugnale affusolato dalla cintura, e lo lanciò al muro di luci fluttuanti. Vi fu uno scoppiettio stridulo di minuscoli lampi, talmente luminoso che tutti voltarono la testa con gli occhi doloranti, e l’arma scomparve, senza che nemmeno un frammento cadesse al suolo. Quando riuscirono a vedere chiaramente, le luci riempivano ancora la soglia, formando una barriera uniforme, intatta.
Tarthe la contemplò stizzosamente. «Bene», esclamò, «non possiamo più tornare indietro. Quindi… avanti».
Gli uomini girarono su se stessi e si guardarono intorno. Si trovavano su un balcone che curvava lievemente come se fosse all’interno di un cerchio ampio. La ringhiera di pietra alta fino alla vita, che si ergeva di fronte a loro dava sul nulla. Un vuoto tenebroso e vasto. Scrutarono attentamente lungo le pareti, e riuscirono a intravedere altri balconi adiacenti, alcuni più alti, altri più bassi… e tutti vuoti.
Tarthe alzò le spalle. «E ora, maga?»
Elmara inarcò un sopracciglio. «Desideri un consiglio o un incantesimo?»
«Sei in grado di evocare una sfera di luce e di guidarla qui intorno?» Con un gesto ampio del braccio, indicò la grande oscurità davanti a loro, facendo attenzione a non estenderlo oltre il parapetto.
Elmara annuì. «Posso», rispose tranquillamente, «ma sarà opportuno? Ho la sensazione che qualche cosa sia in agguato. Una trappola, forse, che attende il mio incantesimo per innescarsi».
Tarthe sospirò. «Siamo nella torre di un mago! È logico che vi siano incantesimi e trappole in ogni dove… e naturalmente è pericoloso esercitare la magia qui dentro! Pensi che nessuno di noi lo sappia?»
El alzò le spalle. «Io… una magia potente ci circonda come una ragnatela. Non so cosa accadrà se la disturbo. Voglio che ve ne rendiate conto e che non siate impreparati a balzare da parte se… se si verificasse il peggio. Per questo ti chiedo ancora: è opportuno che lo faccia?»
Tarthe esplose. «Perché tutte queste domande su ciò che è giusto, su ciò che dovresti fare e tutto il resto? Hai il potere: usalo! Quando mai hai udito altri maghi chiedere se l’incantesimo è gradito a chi sta loro intorno?»
«Non abbastanza spesso», esclamò uno degli altri guerrieri, e Tarthe si voltò per lanciargli un’occhiataccia.
L’uomo si strinse nelle spalle e allargò le mani. «Eh, Tarthe», protestò, «non posso fare a meno di esprimere la mia visione del mondo».
«Hmmmph», grugnì il capitano. «Bada che qualcuno non alteri la tua visione del mondo con la forza, magari rovinandoti ciò con cui vedi, non ciò che vedi».
«Ora basta», esclamò la donna sollevando le mani. «Vi darò la luce. Peggio per te, Tarthe, se il risultato non sarà piacevole. State indietro».
Estrasse qualcosa di piccolo e luminoso da una tasca della cintura, lo sollevò e mormorò alcune parole. L’oggetto sembrò gonfiarsi e crescere fra le sue dita, che si allargarono per consentire a questo di sollevarsi e rimanere sospeso davanti al suo volto. Poi iniziò a girare e si trasformò in una sfera di luce pulsante, sempre più intensa, che dava al naso adunco della maga un aspetto tetro.
Quando la sfera raggiunse le dimensioni della sua testa e la massima luminosità, Elmara abbassò lo sguardo su di essa. Ubbidientemente si allontanò da lei, scivolando silenziosamente nell’aria, oltrepassò il balcone e fluttuò nel buio antistante. Al suo passaggio, le tenebre si schiusero come una tenda squarciata, mostrando loro le dimensioni reali dell’ampia stanza. Ancora prima che raggiungesse la parete opposta del grande spazio circolare, apparvero qua e là altre sfere luminose, che si intensificarono e crebbero fino a illuminare quasi l’intera stanza. Balconi come il loro costeggiavano la parete per tutto il perimetro, a eccezione delle zone in cui permaneva oscurità sotto e sopra. Lo spazio sferico era enorme e il diametro della stanza era di gran lunga maggiore di quello esterno della torre.
«Per tutti gli dei!», esclamò attonito uno dei guerrieri.
«Tyche, assistici», mormorò il sacerdote accanto a lui.
Quattro sfere luminose fluttuando si portarono al centro della sala gigantesca. Tre di esse erano alte quanto due uomini, e la quarta, più piccola, era sospesa tra queste.
Quella più vicina conteneva un drago immobile, la sua sagoma imponente era attorcigliata per poter stare all’interno della luce, le sue scaglie rosse chiaramente visibili. Sembrava addormentato, tuttavia i suoi occhi erano aperti. Aveva un aspetto potente, fiero e sembrava in attesa. Il globo più distante conteneva invece un essere raccontato nelle favole: indossava una tunica ed era simile a un uomo, ma la sua pelle era purpurea, i suoi occhi, orbite bianche e dalla bocca usciva una selva di tentacoli. Anch’esso era immobile nella sua luminosità, sospeso nel nulla, e le sue mani vuote avevano solo quattro dita. La terza sfera era parzialmente nascosta dietro la massa del drago ma gli uomini poterono vedere quel tanto da sentirsi accapponare la pelle. Il tetro inquilino era una creatura dal corpo sferico occupato da un occhio enorme e da una bocca con imponenti zanne, contornato da antenne occhiute e serpentiformi. Alcuni suoi simili si diceva che regnassero su numerosi piccoli regni a ovest del Calimshan, e che trattassero tutti gli abitanti o i forestieri dei loro territori come schiavi.
Lo sguardo di Elmara, tuttavia, fu attratto dalla quarta sfera, la più piccola. Nelle sue profondità era sospeso un grosso libro tenuto aperto da due mani scheletriche. Quando la giovane socchiuse gli occhi infastidita dal bagliore blu intenso – tutto in quel luogo era magico, e ciò rendeva quasi inutile la sua vista speciale – poté vedere trame lucenti che collegavano le quattro sfere e oscillavano tra le mani e il tomo. Dovevano essere guardiani animati, sia quelle ossa, sia i tre mostri.
«Dunque voltiamo le spalle alla grande sfida e rimaniamo in vita, o inseguiamo quel libro e moriamo in gloria?» La voce di Ithym era forzata.
«A che serve un libro?», rispose uno dei guerrieri con fare terrorizzato.
«Sì», assentì un altro. «Proprio ciò di cui ha bisogno Faerûn: ulteriori incantesimi mortali per far giocare i maghi».
«E se la mettessimo così?» si intromise Gralkyn. «Quel libro potrebbe contenere preghiere a un dio, o istruzioni per giungere a un tesoro, o…»
Dlartarnan gli lanciò un’occhiata arcigna. «So riconoscere un libro di incantesimi quando ne vedo uno», grugnì.
«Non ho fatto tutta questa strada», esclamò Tarthe zelante, «per arrendermi ora, se mai esista una modo sicuro per tornare indietro. E poi non ho intenzione di tornare in quell’ultima taverna a mani vuote, e far credere a tutti quegli ubriaconi che siamo un branco di codardi che non hanno fatto altro che cavalcare, cacciare un paio di conigli nelle regioni selvagge e tornare di nuovo a casa, con le spade arrugginite nei foderi».
«Questo è l’atteggiamento» assentì Ithym, poi aggiunse teatralmente, «che ci farà ammazzare tutti».
«Basta!» intimò Elmara. «Ora siamo qui e abbiamo due scelte: o troviamo un’altra via per proseguire, o combattiamo quegli esseri, poiché non c’è alcun dubbio: tutte le sfere sono collegate al libro, e anche quelle mani».
«Una morte è imminente», esclamò la voce profonda di Tharp, che parlava raramente. «L’altra possiamo lasciarla a dopo?»
Uno dei sacerdoti sollevò il suo simbolo sacro. «Tyche ordina al coraggioso e al leale di cercare la gloria!» affermò bruscamente la Mano di Tyche.
«Tempus invita gli avventurieri ad abbracciare la battaglia, e a non fuggire se minacciati da nemici forti», gli fece eco la Spada di Tempus. I sacerdoti si scambiarono occhiate e sogghigni mentre si accingevano a impugnare le armi.
Gralkyn sospirò. «Sapevo che cavalcare con due sacerdoti guerrafondai ci avrebbe causato guai seri».
«E non sei rimasto deluso», affermò Tarthe, «per tua fortuna. Dunque ora sei in pace, pronto a parlare di strategie contro queste bestie nelle sfere, senza parole furbe per dissuaderci dell’affrontarle!»
Vi fu un breve silenzio e i guerrieri si scambiarono sorrisi tristi o sguardi indifferenti per mascherare, invano, la paura nei loro occhi.
Elmara prese la parola in quel silenzio teso. «Ci troviamo nella casa di un mago, e come adoratrice di Mystra, tra tutti voi sono quella che più si avvicina a un mago. È giusto che sferri io il primo attacco», deglutì, e tutti videro che stava tremando per l’eccitazione e per la paura, «in quanto ho più possibilità rispetto a voi di avere successo contro… ciò che ci sta di fronte».
«Che cosa sei, Elmara? L’Alchimista in versione idiota, forse, o lo Stregone Supremo di tutto il Calimshan? Oppure sei davvero stupida come fanno pensare le tue parole?», domandò Dlartarnan aspramente.
«Trattieniti», gli intimò Tarthe. «Non è il momento di discutere!»
«Quando sarò morto», ribatté duramente il guerriero, «sarà troppo tardi per l’ultima disputa… pertanto vorrei godermela ora».
«Sarò un’idiota», rispose El affabilmente, «ma accantona per un attimo la paura e rifletti: non potrai fare a meno di concordare con me che, per quanto inutili potranno essere i miei sforzi, sono ancora la strada migliore da percorrere».
Numerosi guerrieri protestarono all’unisono, poi d’un tratto vi fu di nuovo silenzio. Facce truci guardarono le sfere, poi la giovane tremante, e di nuovo le sfere.
«È una pazzia», esclamò infine Tarthe, «ma è di gran lunga la nostra migliore speranza».
Gli rispose un silenzio carico di preoccupazione; poi alzò un po’ la voce e chiese: «C’è qualcuno che lo nega? O che non è d’accordo?»
Nel silenzio che seguì tali parole, Ithym scosse lievemente il capo. Come se si fosse trattato di un segnale, anche i due sacerdoti scossero la testa, e altrettanto fecero gli altri, Dlartarnan per ultimo.
Elmara si guardò intorno. «Siamo d’accordo allora?» Gli uomini la fissarono in silenzio finché aggiunse: «Bene, ho bisogno che vi teniate pronti a lanciare tutte le armi che potete, ma non fate nulla se non ve lo dico io, qualunque cosa accada».
Fece loro cenno di andare a un’estremità del balcone, mentre lei raggiungeva l’altra. «Devo fare alcuni incantesimi», affermò. «Qualcuno controlli le luci dietro di noi e mi dica se ciò che faccio le attira qui».
Armeggiò, mescolò e mormorò a lungo, gettando polveri nell’aria, estraendo diversi piccoli oggetti da varie tasche, da foderi sotto i vestiti e dagli stivali consumati.
In un silenzio estenuante, le Lame Coraggiose osservarono la giovane maga tracciare piccoli segni nell’aria; ognuno di essi si illuminava brevemente e poi scompariva mentre Elmara disegnava il successivo. Luci illuminavano la sua figura e poi svanivano, e nonostante la sua espressione seria e assorta fosse immutabile, sia Elmara sia i suoi compagni d’armi notarono che a ogni incantesimo, i quattro globi silenziosi sospesi tanto minacciosamente vicino, pulsavano e intensificavano il loro chiarore. Le luci sulla soglia baluginavano e si inseguivano l’un l’altra, sempre più rapidamente, ma non accennavano ad avanzare nel corridoio.
Alla fine El si chinò ed estrasse dagli stivali sei bastoncini di legno diritti e lisci. Avvicinò le estremità tondeggianti di due di essi, che contorcendosi formarono un unico bastone. Allo stesso modo uni tutti gli altri, fino a ottenere un bastone nodoso alto quanto lei.
Lo agitò, come se si aspettasse che andasse in pezzi, ma ciò non avvenne. Poi lo brandì contro un nemico immaginario. Dlartarnan sbuffò; sembrava un giocattolo.
Elmara appoggiò il bastone alla balaustra e si avviò verso di loro, sfregandosi pensierosa le mani. «Sono quasi pronta», esclamò lanciando un’occhiata tagliente alle sfere in attesa. Le sue mani tremavano debolmente.
«Anche noi», affermò Ithym.
Tarthe annuì, abbozzando un sorriso. «Ti dispiace dirci che tipo di incantesimo hai appena fatto… prima che inizi il bagno di sangue?»
«Non ho molto tempo per le chiacchiere; gli incantesimi non durano in eterno», rispose Elmara, «ma ascoltatemi: io posso volare, le fiamme non mi nuoceranno, nemmeno il fuoco del drago, sebbene dubito che il mago che scrisse l’incantesimo lo avesse mai affrontato a suo tempo, e gli incantesimi sferrati contro di me torneranno al mittente».
«Puoi fare tutto ciò?», domandò Tharp pensosamente.
«Non tutti i giorni», rispose Elmara. «Gli incantesimi sono intrecciati in un deodema».
«Ma che bello», esclamò Gralkyn con una nota di sarcasmo. «Ciò spiega ogni cosa… ora posso crepare contento».
«Gli incantesimi sono uniti in uno scudo intorno a me», spiegò El a bassa voce. «Quanto più lo manterrò attivo tanto più si esauriranno le mie energie, lentamente ma inesorabilmente».
«Allora bando alle chiacchiere», ordinò bruscamente Tarthe. «Guidaci nella battaglia, maga».
Elmara annuì, deglutì visibilmente, chinò la testa proprio come fa un guerriero per abbassare la visiera dell’elmo prima della carica – gli uomini si guardarono e sorrisero – afferrò il bastone, e si arrampicò sul parapetto.
Poi balzò nel vuoto e scomparve.
Gli avventurieri si scambiarono occhiate truci e si sporsero dal balcone. Più sotto, Elmara stava scivolando, braccia distese, attraverso la stanza, roteando il corpo, come se stesse saggiando l’aria. Il suo volo si arrestò bruscamente a un palmo da un balcone, poi la donna iniziò a salire verso di loro. Il suo volto era bianco e rigido; la videro deglutire e diventare verde mentre rilasciava il bastone e abbozzava con le mani disegni intricati. Il bastone volava accanto a lei, seguendo ogni lieve cambio di direzione, mentre la maga raggiungeva la parte più lontana della stanza, sferrando un incantesimo. Sembrò ripeterlo due volte e improvvisamente si arrestò, rivolta verso di loro, le braccia alzate sopra la testa, due cerchi di luce spettrale tremolanti attorno alle sue mani. Poi la videro pronunciare, senza tuttavia udirla, una parola che fece tremare la sala e i cerchi luminosi si allontanarono vorticosamente dalle sue mani e svanirono.
Le quattro sfere al centro della stanza iniziarono a muoversi. Le Lame Coraggiose, sollevando guardingamente le armi, le osservarono spostarsi per la stanza; gli esseri al loro interno si stirarono, e come risvegliandosi da un lungo sonno, si voltarono per guardarsi intorno.
Uno degli uomini sussurrò un’imprecazione sincera. I ladri si abbassarono dietro il parapetto del balcone, sbirciando la loro compagna pazza che fluttuava nell’aria e sollevava le mani per un altro incantesimo.
Vi fu un lampo silenzioso. Il mostro dalla pelle rossa aveva sferrato un suo incantesimo, per cercare di uscire dalla sfera, ma questa aveva resistito. Ora sembrava essere in preda al dolore. Elmara aggrottò la fronte, fece un gesto, e la prigione di luce del mostro schizzò attraverso la stanza, acquistando velocità mentre si dirigeva alla volta della sfera contenente il drago. La bestia enorme stava dimenando la coda, contorcendo le spalle, e ruggendo silenziosamente, cercando di frantumare l’angusta prigione che l’avvolgeva. Quando vide gli uomini che la guardavano dal balcone, iniziò a sputare fuoco e gli occhi le si riempirono di odio.
Poi i due globi si scontrarono, e il mondo venne scosso violentemente.
Gli spettatori urlarono, colpiti da un bagliore mai visto prima di allora. Barcollarono all’indietro ancora prima che il balcone tremasse sotto i loro piedi, e si accasciarono a terra accecati. Solo Asglyn, la Spada di Tempus, che si era aspettato una furia di qualche sorta e aveva chiuso in tempo gli occhi, poté vedere il mostro dalla pelle color porpora lottare fra le mascelle del drago, sibilare e mormorare incantesimi inutili prima che quei denti affilati si richiudessero su di lui.
Ciò che rimase del suo corpo purpureo si disperse in una pioggia scura di sangue coagulato quando il drago aprì la bocca e ruggì la sua ira. La terza sfera si stava già avvicinando al drago e i tentacoli occhiuti del suo occupante si agitarono come in preparazione alla battaglia senza dubbio imminente.
Asglyn colse brevemente la figura di Elmara, il volto una maschera di sudore, le mascelle serrate, che guidava la sfera lungo il percorso scelto. Poi il sacerdote chiuse forte gli occhi, proprio un attimo prima della comparsa di un secondo lampo. Ne seguì subito un terzo che gli accese il volto col suo calore. Quando osò aprire gli occhi, vide il mostro avvolto dalle fiamme, mentre il drago sbatteva le sue ali enormi e colpiva il tiranno occhiuto con i suoi artigli. Raggi di luce affilati balenarono dai numerosi occhi del mostro e il drago rispose con ruggiti feroci, che tuttavia contenevano una nota crescente di paura.
Asglyn si guardò intorno. Gralkyn era inginocchiato dietro il parapetto, quasi addosso a lui, le mani premute sugli occhi. Tarthe stava scuotendo la testa, cercando di schiarirsi la vista.
«In piedi, ragazzi!» sussurrò il sacerdote incalzante, poi si irrigidì udendo la voce di Elmara risuonare nella sua testa.
«Scagliate tutto ciò che possa trafiggere o squarciare gli occhi del tiranno, non appena gli dei ve lo permetteranno!»
Asglyn sollevò il suo pesante martello, l’arma che lo aveva accompagnato nelle mille battaglie, e lo scagliò con tutta la sua potenza, facendogli tracciare un arco crescente, in modo che potesse ricadere nel grande occhio centrale del mostro. Vorticò nell’aria ma non lo vide colpire il bersaglio; si era voltato per scuotere e schiaffeggiare i suoi compagni storditi e mugugnanti, sperando che sarebbero riusciti in qualche modo a salvarsi.
L’ennesimo incantesimo di Elmara fece apparire dal nulla lame turbinanti, che scintillarono e ruotarono attorno alle antenne occhiute del mostro, come tante lucciole impazzite. El vide più di un occhio sprizzare sangue o liquido biancastro e diventare scuro prima che il tiranno occhiuto, girando vorticosamente, mandasse in fumo le spade con un raggio indirizzato a lei.
Questo rimbalzò, e si ritorse silenziosamente contro il drago e il mostro con le antenne, che sbuffava e roteava rapidamente. Il primo ruggì di dolore, mentre il secondo non diede alcun segno d’essere stato colpito.
La bestia enorme sputò nuovamente fuoco e, come prima, le fiamme sembrarono arrestarsi contro uno scudo invisibile davanti al tiranno occhiuto. Tuttavia quello scudo non costituì una barriera per gli artigli e la coda della bestia. Elmara vide la coda scaraventare il mostro attraverso la stanza, mentre le sue antenne si arrotolavano e si agitavano inutilmente. Passò accanto al balcone dov’erano stipati gli uomini, che, numerosi, scagliarono pugnali, frecce e spade sopra e davanti al mostro. Questi urlò di dolore e di rabbia mentre giungeva alla fine della corsa. Gli occhi rimastigli si voltarono verso il balcone adiacente.
Fasci luminosi e raggi scintillanti di minore intensità investirono i guerrieri, che terrorizzati corsero invano per il balcone. Questo fu scosso e tremò sotto i loro piedi, e gran parte della balaustra venne improvvisamente disintegrata, svanendo nella furia dell’attacco del tiranno occhiuto.
Tuttavia, nessun incantesimo colpì gli uomini, sebbene lo schianto e lo scintillio delle luci variegate furono quasi accecanti. La magia lambì il balcone e lo percorse nella sua lunghezza prima di rimbalzare contro l’essere sferico; l’ultimo incantesimo di Elmara stava avendo effetto.
I membri della banda che avevano recuperato a sufficienza la vista scagliarono ulteriori pugnali, ma nella violenza dell’incantesimo che aveva investito il balcone, gran parte di essi si disintegrarono o semplicemente caddero nel nulla. Fra la pioggia di lame, il drago inferocito sbatté le ali e si lanciò giù verso l’altro guardiano mostruoso, cercando di uccidere la cosa che gli aveva causato tale dolore. Avvicinandosi, sputò nuovamente fuoco. Il mostro occhiuto, ormai annerito, rotolò tra la tempesta di fiamme cosicché tutte le antenne rimastegli puntarono verso la bestia enorme. Raggi magici colpirono il drago che subito iniziò a urlare. Il mostro si sollevò lievemente per scansarsi, mentre la bestia, oltrepassandolo, si schiantò contro la parete con una tale violenza che le Lame Coraggiose vennero scaraventate a terra. I raggi del tiranno trafissero allora senza pietà il drago agonizzante.
Quando riuscì a liberarsi dal muro, la bestia sembrò molto più piccola, e una nube di fumo si levò dal suo corpo. I balconi distrutti caddero in pezzi quando il drago si mosse, emettendo un lamento terribile, lacerante. Poi le sue urla iniziarono ad affievolirsi. Gli uomini sbalorditi videro pezzi del suo corpo straziato sciogliersi, come neve al sole. Il drago scemò rapidamente e il suo sangue vitale evaporò nel nulla. Oltre la furia dell’incantesimo abbagliante, poterono vedere la sagoma fluttuante di Elmara, che agitando le braccia in modo rapido ma accurato sferrava un altro incantesimo.
Quando il drago svanì in un ultimo residuo di scaglie scure e di sangue ribollente, il mostro dai numerosi occhi si voltò con minacciosa lentezza verso la maga e rotolò affinché il raggio ampio dell’occhio centrale potesse colpirla, l’occhio che esaurì la magia.
Imprigionata da quel campo magico, Elmara cadde, agitando le braccia. I guerrieri la udirono singhiozzare di paura. Il mostro rotolò nuovamente per rivolgere contemporaneamente le antenne contro la giovane donna, come aveva fatto con il drago. Mentre si accingevano a lanciare disperatamente spade, scudi e persino stivali contro quell’essere, gli uomini udirono il tuono freddo e crudele della sua risata.
Raggi e fulmini lampeggiarono nuovamente. Attraverso quella furia luminosa, le Lame videro Elmara sollevare un braccio come per colpire il mostro con una frusta invisibile. Il bastone che aveva con sé scintillò, animandosi improvvisamente.
Il mostro vacillò sotto il suo attacco e iniziò a vorticare selvaggiamente. Gli uomini si acquattarono impauriti mentre i suoi raggi sfrigolavano attraverso il balcone, ma la barriera di El resse ancora, e questi rimbalzarono contro il tiranno dall’enorme occhio.
Tarthe e Asglyn erano spalla a spalla dietro a ciò che rimaneva della balaustra, tesi e impotenti, avendo ormai lanciato tutte le armi a disposizione ed essendo il nemico ormai fuori tiro. Attraverso gli occhi socchiusi videro la loro compagna sfoderare un pugnale dalla cintura e lanciarsi in alto verso il mostro, come una freccia desiderosa di vendetta. Le antenne si contorsero e sprigionarono di nuovo luce esplosiva. La maga volante venne scaraventata di lato dalla forza violenta, e il pugnale nella sua mano si incendiò improvvisamente.
Allora lo scagliò lontano, agitando le dita doloranti, ma col medesimo movimento si portò la mano al petto e dal corpetto estrasse un altro pugnale, no, una vecchia spada spezzata. Ruzzolò nell’aria attraverso una zona di raggi incrociati, e con l’arma in pugno corse verso il nemico.
La magia scaturì improvvisa dalla spada stretta nella mano protesa, si contorse e scintillò quando Elmara colpì il bersaglio, e la sua minuscola zanna d’acciaio affondò nel corpo del mostro come se fosse uno stufato bollente.
La creatura urlò come una cortigiana terrificata e si allontanò dalla maga. El si ritrovò a volteggiare sola nell’aria, mentre la bestia accecata si schiantava contro la parete più vicina, ringhiando di dolore.
La giovane estrasse una bacchetta magica dalla cintura e gliela scagliò contro. Poi si tuffò proprio tra le antenne occhiute, per toccare il corpo roteante immediatamente sopra le mascelle sibilanti, pronte a mordere. Fatto ciò si spinse via col piede e volò a distanza di sicurezza. Dietro di lei, il mostro iniziò a ripetere le sue azioni, rotolando per colpire di nuovo la parete. Poi tornò indietro nel luogo dove Elmara l’aveva trafitto.
Si soffermò un istante, poi finì di nuovo contro il muro, ripetendo esattamente i movimenti precedenti. Gli spettatori osservavano affascinati.
«Per quanto andrà avanti?», domandò meravigliato Tarthe.
«È condannato a schiantarsi contro quella parete finché il suo corpo non cadrà a pezzi», rispose trucemente Asglyn. «Non è una magia che molti maghi osano fare».
«Non ne dubito», si intromise Ithym accanto a loro. Poi rimase col fiato sospeso e indicò il centro della vasta stanza.
Elmara aveva recuperato il bastone ed era volata nel centro dell’ultima sfera, la più piccola. Una mano scheletrica le balzò agli occhi, ma la donna si scaraventò da un lato. La seconda mano, da dietro, si stava già lanciando contro di lei; la videro affondare le dita ossute nel suo collo mentre El si voltava rapidamente, troppo tardi per fermarla.
La maga lanciò il bastone e pronunciò le parole di un altro incantesimo, tracciando con un braccio gesti intricati. Una mano le stringeva sempre più la gola mentre l’altra, quella che aveva colpito, stava volando di nuovo verso il suo viso, con due dita spezzate e penzolanti.
Tarthe sospirò frustrato. El stava lottando, una mano alla gola, scrollando la testa da una parte all’altra per impedire all’altro artiglio scheletrico di cavarle gli occhi. Il suo volto si oscurò, ma i guerrieri videro comparire granelli di luce intorno al suo corpo, che a mano a mano divennero più luminosi.
Poi, senza rumore, entrambe le mani senza corpo si sgretolarono, e la sfera attorno a esse scomparve interamente. Quando l’incantesimo svanì, gli uomini udirono Elmara annaspare nel silenzio improvviso, e le lucine scintillanti della soglia alle loro spalle iniziarono ad avanzare.
Gli avventurieri si fecero da parte con circospezione, mentre le luci multicolori che avevano avvolto Gralkyn si riversarono nel corridoio e invasero il centro della stanza, dirette verso la maga.
«Elmara, attenta!» gridò Tarthe, con voce stridula.
Elmara lo guardò brevemente, vide le luci, e le fissò duramente per un istante. Poi fece un cenno di congedo con la mano e si rivolse nuovamente al libro fluttuante.
Dall’altra parte della stanza, il mostro continuava impotente a sbattere contro il muro, e i suoi tonfi sordi segnavano un ritmo regolare. Elmara si chinò per sfogliare il tomo.
Quando le sue dita lo sfiorarono, le luci si precipitarono su di lei con un forte sibilo e la avvolsero. La donna si irrigidì.
I guerrieri videro il libro allontanarsi dalle sue mani immobili e chiudersi lentamente. Una fascia di metallo luccicante fuoriuscì da un’estremità della rilegatura, si avvolse stretta intorno al tomo. Vi fu un lampo di luce e il libro si chiuse definitivamente.
Le lucine attorno alla maga fluttuante iniziarono a spegnersi e a scomparire, una alla volta. Elmara si scosse, e sorrise. Sembrava riposata, felice, e priva di dolori mentre faceva scorrere le dita lungo la fascia metallica, seguendo i contorni di un’iscrizione. Gli uomini la udirono esclamare eccitata, «Eccolo! Eccolo! Finalmente!»
Si legò il libro contro l’addome, con un pezzo di corda che teneva legata alla vita e, prima di raggiungere il balcone, recuperò tutte le armi che trovò. I suoi compagni la guardarono per un momento con stupore e nuova ammirazione, prima di fare un passo avanti e reclamare le proprie spade e ringraziarla, abbracciando rudemente il suo corpo madido di sudore.
«Spero ne sia valsa la pena», esclamò seccamente Dlartarnan, guardando il libro e soppesando il peso familiare della sua spada. Poi si voltò disgustato, incamminandosi lungo il corridoio che li aveva condotti nella stanza dei balconi. «Spero che questo luogo contenga qualcosa di altrettanto speciale per me, un pugno di gemme, magari, o…»
La sua voce si affievolì, e abbassò la spada in preda alla confusione. La stanza dall’altra parte della soglia non era il luogo scuro in cui avevano trovato le luci, ma una camera più ampia e più luminosa, mai vista prima.
«Altri trucchi!» esclamò rabbiosamente scappando via. «Che cosa facciamo adesso?»
Tarthe alzò le spalle. «Cerchiamo un altro balcone, magari. Ithym, guarda in quella stanza – senza sporgere nulla oltre la soglia – e dicci cosa vedi».
Il ladro sbirciò a lungo, poi scrollò le spalle. «Una tomba, penso. Se quel blocco lungo, laggiù, non è un sarcofago di pietra, io sono un drago. Riesco poi a vedere almeno altre due porte e finestre dietro a quei divisori… così sembra: la luce cambia, come se il sole venisse coperto dalle nuvole, non è una luce magica».
Contemplarono i divisori ovali, e i tendaggi dietro di essi, illuminati da dietro. La stanza era silenziosa e priva di oggetti animati o di ornamenti. Sembrava in attesa.
«La tomba di Ondil», affermò Tharp con aria solenne.
«Sì, ma una via d’uscita, se tutto il resto fallisce», rispose Tarthe, con la voce calma, guardandosi attorno. Il suo sguardo si posò su Elmara, in silenzio in mezzo a loro, poi scosse lievemente il capo, incredulo. Aveva visto accadere tutto ciò, ma non era ancora sicuro di crederci. Forse, alcune delle storie ridicole che i vecchi avventurieri amavano raccontare nelle taverne erano vere…
«Cerchiamo di raggiungere un altro balcone», suggerì Gralkyn. «Io ne potrei raggiungere almeno quattro, di più se El lancia una corda fino alle ringhiere».
«Hai ragione, dobbiamo uscire di qui, subito», esclamò Ithym, «altrimenti nessuno alla taverna udrà mai di una maga che distrusse due mostri e un drago… solo per avere qualcosa da leggere!»
Gralkyn scavalcò la ringhiera e saltò agilmente sul balcone sottostante, mentre sopra di lui si udì una risata violenta.
Qual è la cosa più stupefacente che un mago possa sperare di vedere in una vita di torri abbattute, di spiriti evocati, e di fiumi deviati? La fiamma blu, ragazzo. Se mai ti imbatterai nella fiamma blu, avrai veduto ciò che di più spaventoso può vedere un mago… e di più meraviglioso.
La mano gelida della morte si stava nuovamente stringendo intorno alle Lame Coraggiose. Tutti poterono percepirla. Ormai avevano provato nove balconi, e ogni porta conduceva in qualche modo nella medesima stanza silenziosa della tomba. Intralciava loro la strada come una fossa in attesa, paziente e inesorabile.
«Incantesimi!», sbottò Dlartarnan, acquattandosi su un balcone e appoggiandosi alla sua sciabola. «Sempre incantesimi! Perché gli dei non arridono a una spada roteante e a un piano semplice!»
«Attenzione!», esclamò bruscamente Asglyn. «Tempus dà importanza alla spada prima di tutto il resto, come ben sai, e la presunzione di sapere più degli dei, Dlar, è un piede nella fossa!»
«Sì», assentì il sacerdote di Tyche. «La mia Sacra Signora dà retta a chi si lamenta poco e approfitta di ciò che accade, senza starsene con le mani in mano!»
«Basta così», grugnì Dlartarnan. «Per compiacere i vostri due dei, suppongo che farei meglio a guidarvi in quella tomba, ed essere il primo a perire. Ciò renderebbe felici entrambi, Tempus e Tyche».
Senza altre parole si alzò ed entrò nella stanza, la spada scintillante nella sua mano.
Gli altri si scambiarono sguardi e alzate di spalle, e lo seguirono.
Dlartarnan era già a metà della stanza, davanti alla porta chiusa più vicina delle due, e la stava forzando con la sciabola. «Questa è chiusa», ringhiò, spingendo con forza l’arma, «ma se…»
Vi fu un rumore forte e secco. Un fuoco blu si sprigionò dalla porta, percorrendo rapidamente tutta la struttura e del fumo salì da quella cosa annerita che era stata Dlartarnan di Belanchor prima che cadesse sul pavimento. Le ceneri del guerriero si sparsero in turbini grigio scuro mentre le sue ossa rimbalzavano sulla pietra. Il cranio rotolò e si fermò con un ghigno di rimprovero rivolto ai compagni, che stettero a fissare i resti, sbigottiti.
«Che Tyche vegli sulla sua anima», sussurrò la Mano di Tyche, con labbra tremanti. Come in risposta, la sciabola contorta e quasi fusa di Dlartarnan cadde dalla porta. Con un grido simile al singhiozzo di una fanciulla, colpì il pavimento e si frantumò.
Elmara vacillò, cadde sulle ginocchia, nauseata. La mano consolatoria che Ithym le mise sulla spalla tremò violentemente.
«Che cosa dite di un incantesimo per tentare di aprire l’altra?» suggerì Gralkyn a voce alta.
Asglyn annuì. «Io conosco una formula che potrebbe servire», affermò tranquillamente, «Tempus permettendo».
Chinò il capo brevemente, in preghiera, puntò una mano verso la porta rimanente, e mormorò una frase a mezza voce.
Vi fu un colpo spaventoso. La porta tremò, ma non esplose. Polvere cadde qua e là dal soffitto e una lunga crepa frastagliata si fece strada nel pavimento con un suono acuto, che percosse le loro orecchie come un martello. I guerrieri indietreggiarono allarmati, osservando la crepa che dalla base della tomba si dirigeva verso la porta. Asglyn stava fuggendo, la faccia tesa per la paura, quando un fuoco improvviso avvampò dalle sue membra.
«Noo!» urlò, correndo invano attraverso la stanza. «Tempussss!» Le fiamme si innalzarono violentemente fino a lambire l’alto soffitto a volta, e quando svanirono il sacerdote di Tempus non c’era più.
Interrompendo il silenzio glaciale che seguì, Tarthe esclamò, «Indietro… fuori di qua. Quella magia proveniva dal sarcofago!»
Tharp era il più vicino al corridoio che conduceva al balcone, perciò balzò quasi immediatamente oltre la soglia… e rimase pietrificato, le membra tremanti, preda di una forza invisibile. Gli altri restarono a guardare terrorizzati, mentre le ossa del guerriero esplodevano in un raccapricciante spruzzo di sangue e svanivano in prossimità del soffitto. Ciò che rimase del suo corpo si afflosciò in un cumulo sul pavimento e venne bagnato da una pioggia di sangue, mentre l’elmo e l’armatura tintinnarono sulla pietra.
I cinque sopravvissuti si guardarono l’un l’altro con orrore. Elmara gemette e chiuse gli occhi, il suo viso era pallido, ma non meno di quello di Tarthe, che stese un braccio rassicurante e glielo posò sulla spalla. Othbar, la Mano di Tyche, deglutì ed esclamò: «Ondil sferra incantesimi dalla sua tomba. La sua magia immortale e crudele ci ucciderà tutti se mettiamo un piede in fallo».
Tarthe annuì, il volto teso per la paura. «Che cosa dovremmo fare? Tu ed Elmara siete i più esperti di magia».
«Scavare una via d’uscita nel pavimento?», chiese debolmente El. «Porte e finestre deve averle protette con incantesimi mortali, ma certo non si aspetta che alzeremo le lastre di pietra del pavimento, e probabilmente dovrà svegliarsi dal suo sonno per fare nuovi incantesimi».
«E quando si sveglierà, che faremo?», domandò Gralkyn impaurito. Ithym annuì trucemente, a sottolineare la domanda.
«Lo colpiamo con tutto ciò che abbiamo», rispose Tarthe, «incantesimi e spade».
«Lasciate che prima faccia un incantesimo», esclamò Othbar, con volto pallido e voce tremolante. «Se funziona, Ondil non potrà uscire per un certo tempo dalla tomba e non sarà in grado di fare magie, e noi potremo tentare di uscire».
«Per essere perseguitati tutta la vita dai suoi incantesimi e dalle sue bestie?», chiese Ithym arcignamente.
Tarthe scrollò le spalle. «Almeno avremo la possibilità di recuperare armi e incantesimi a sufficienza, mentre ora può ucciderci in un baleno. Caricate le armi, e io tenterò di sollevare le pietre. Othbar, dicci quando sei pronto».
Il sacerdote di Tyche si inginocchiò in preghiera fervente, chiedendo alla dea di ricordare il suo lungo e fedele servizio. Poi si bucò il palmo con un coltello, e facendo cadere gocce di sangue nell’altra mano, intonò una canzone incomprensibile.
Un attimo dopo, si accasciò al suolo, lasciando cadere le braccia con un tonfo. Gralkyn fece un involontario passo in avanti ma indietreggiò subito, inorridito, quando fili di fumo spettrale si sollevarono dal corpo del sacerdote e si innalzarono silenziosamente, diventando sempre più alti e più esili. A un tratto, gli uomini si trovarono di fronte il fantasma di Othbar. Questi indicò con sguardo serio i compagni e poi le finestre. Tutti guardarono sbalorditi, mentre l’ombra del sacerdote raggiungeva il sarcofago e posava i palmi sul coperchio di pietra.
«Cosa? Ma è…?» Ithym era scosso.
Tarthe si chinò sopra il corpo. «Sì». Quando si rialzò, il volto del guerriero sembrava più vecchio. «Da ciò che ha detto, credo sapesse che l’incantesimo gli sarebbe costato la vita», affermò il capitano, e la sua voce vacillò. «Andiamocene».
«Dalla finestra?», domandò Ithym con le lacrime agli occhi mentre guardava la figura spettrale accanto alla tomba.
«È la strada che ci ha indicato», ribatté a fatica Tarthe. «Prendete le corde».
I due ladri si sbottonarono il giustacuore, rivelando le funi che portavano avvolte intorno all’addome. Elmara prese un capo di ogni fune, e loro girarono su se stessi fino a srotolarle completamente. Ithym raccolse due estremità e le legò insieme.
Cautamente, i due si avvicinarono a una finestra, guardandosi alle spalle per assicurarsi che nulla di visibile piombasse loro addosso. Ithym portava il rotolo di corda sulla spalla e Gralkyn ne teneva un capo tra le mani.
Toccò il ferro battuto decorato del paravento con un’estremità, e poi i tendaggi più oltre, tastando quindi con la mano guantata. Non accadde nulla.
I paraventi ovali rappresentavano scene di draghi volanti, di maghi in cima a pinnacoli rocciosi, di destrieri impennati. Con un’alzata di spalle, Gralkyn scelse quello più vicino, raffigurante il cavallo, e lo aprì facendolo girare sui cardini, che emisero un lieve cigolio di protesta, ma nulla di più. Poi, con la spada, si aprì un varco nella tenda, e dietro di essa apparve un vetro costellato di bolle, attraverso il quale erano visibili il cielo e le colline. Cautamente, il ladro tentò di aprire la finestra con la spada, guardandosi intorno in cerca di trappole. «Non sono state fatte per aprirsi. Il vetro è fisso», esclamò.
«Rompilo, allora», rispose Ithym.
Gralkyn alzò le spalle, prese la spada al contrario e colpì duramente la finestra. Il vetro esplose in mille pezzi e schegge scintillanti si sparsero tintinnando per tutta la stanza.
Improvvisamente granelli di luce brillarono nell’aria dove prima vi era la finestra, e iniziarono a vorticare, dapprima lentamente, poi sempre più veloci.
«Indietro!», gridò Elmara allarmata. «State indietro!»
La luce dell’incantesimo fiammeggiò prima che le parole le uscissero completamente di bocca e una forza di un potere terrificante trascinò ladri e corde fuori dalla piccola apertura, fracassando le loro membra contro le pareti, come fossero bambole di pezza fatte passare in un buco troppo piccolo. Ithym ebbe il tempo di gettare un urlo di disperazione, lungo e straziante, prima di schiantarsi sulle rocce sottostanti.
Tarthe rabbrividì, scosse il capo e si rivolse alla giovane maga. «Rimaniamo solo noi due ora». Indicò col capo il libro legato alla vita di El ed esclamò: «Non c’è nulla lì dentro che ci possa aiutare?»
«La magia di Ondil l’ha sigillato. Preferisco non provare a spezzare i suoi incantesimi nella sua dimora, non finché dura il sacrificio di Othbar». Elmara guardò l’immagine silenziosa e immobile che teneva chiuso il sarcofago e notò le sue estremità tremolanti ed evanescenti. «Già ora tenta di uscire dalla tomba».
Gli occhi di Tarthe si posarono sulle mani tremanti del fantasma di Othbar. «Quanto tempo abbiamo?»
Elmara scrollò le spalle. «Se lo sapessi, sarei Ondil».
Tarthe fece oscillare la sua spada. «Non scherzare su queste cose! Come faccio a sapere che non sei caduta sotto qualche incantesimo che ti ha reso sua schiava?»
Elmara lo fissò, poi annuì lentamente. «Sollevi una questione saggia».
Il capitano socchiuse gli occhi, e sguainò un pugnale, lo sguardo fisso sulla giovane maga. Poi si girò e lo lanciò attraverso la porta dov’era morto Tharp. L’arma roteò nel corridoio e scomparve, invisibile nell’improvviso turbinio abbagliante di centinaia di lame che sfrecciavano sferraglianti nello spazio, vuoto un attimo prima.
«La magia permane», affermò Tarthe con tono grave. «Cerchiamo di scavare davvero una buca?»
El rifletté un momento, poi scosse il capo. «Ondil è troppo forte: questi incantesimi possono essere infranti solo distruggendo lui».
«Dunque dobbiamo combatterlo», concluse trucemente il capitano.
«Sì», rispose la donna, «e devo prepararti prima della lotta».
«Oh?» Tarthe inarcò un sopracciglio e strinse la spada quando Elmara fece per avvicinarsi.
La giovane sospirò e si fermò a distanza di sicurezza. «Io posso ancora volare», affermò a bassa voce. «Se questa torre rimane sospesa per la magia di Ondil, anche tu dovrai essere in grado di farlo se lo uccidiamo, altrimenti crollerai con la torre, e verrai schiacciato quando si schianterà al suolo».
Tarthe deglutì, poi annuì e si mise la spada sulla spalla. «Allora fa’ il tuo incantesimo», invitò.
Elmara aveva appena terminato quando un bagliore improvviso balenò dietro di lei.
Si voltò rapidamente, in tempo per vedere l’immagine del sacerdote svanire, insieme al coperchio che aveva tenuto chiuso. Sospirò nuovamente. «Ondil ha trovato il modo di uscire», mormorò. Improvvisamente annuì, come per rispondere a una domanda che solo lei poté udire, e le sue mani si agitarono freneticamente per sferrare un incantesimo.
Tarthe la guardò incerto e arrischiò un passo avanti, con la spada spianata. All’interno del sarcofago di pietra vi era una cassa scura, semplice, e all’apparenza nuova e sopra di essa, tre libri piccoli e spessi.
«Non toccarli», esclamò El bruscamente, «a meno che tu non voglia baciare uno scheletro!»
Il guerriero indietreggiò di un passo, la spada sempre all’erta. «Dubito di essere pronto per una cosa simile», disse ironicamente. «E tu?»
«Ciò che dev’essere, sarà», rispose laconicamente la giovane. «Stai indietro contro quel muro, il più distante possibile».
Senza voltarsi a verificare se i suoi ordini fossero stati obbediti, raggiunse il sarcofago e appoggiò fermamente una mano su uno dei libri.
Il coperchio di legno scuro scomparve. Con velocità inumana, una figura alta, magra e vestita di una tunica balzò dal sarcofago facendo rovesciare i libri degli incantesimi.
Un paio di mani gelide si aggrapparono a Elmara, e affondarono le dita nella sua carne viva.
Invece di ritrarsi, la ragazza si protese, sorrise a denti stretti alla faccia avvizzita di Ondil e pronunciò l’ultima parola del suo incantesimo. Lo scheletro si ritrovò con nulla tra le mani un attimo prima che il soffitto della stanza si schiantasse su di lui, seppellendo la bara.
La maga riapparve accanto a Tarthe, le spalle al muro, gli occhi sulla bara. Polvere ed echi turbinarono tutt’intorno, mentre El si massaggiava i polsi dolenti e osservava le pietre del soffitto centrale risollevarsi silenziosamente e tornare nella loro posizione originale. Tarthe guardò la donna, poi di nuovo il mago. Il suo sguardo denotava sgomento ma, per la prima volta dopo tanto tempo, anche speranza.
Quando tutte le pietre furono tornate al loro posto, una figura polverosa e malconcia si levò dal sarcofago e rimase a guardarli, ondeggiante. Lentamente, sollevò le ossa scheggiate di un braccio. Il cranio era in gran parte distrutto, ma rimaneva la mandibola, che mormorò qualcosa mentre tentava di muovere il braccio piegato e puntarlo contro di loro. Una luce fredda bruciava nell’orbita ancora integra. Il cranio aperto dai bordi dentellati si voltò a guardare Tarthe, poi Elmara sussurrò una parola, e il soffitto si riabbatté sullo scheletro.
Questa volta nulla si sollevò dal sarcofago, e la giovane fece qualche cauto passo avanti per sbirciare nella bara aperta.
Sul fondo vi erano polvere, ossa scheggiate e frantumate fra i brandelli di una tunica un tempo sfarzosa, e i tre libri di incantesimi. Alcune ossa si spostarono, cercando di sollevarsi. Un braccio semidistrutto si alzò barcollante verso Elmara, che allungò la mano con freddezza, lo afferrò e si mise a tirare.
Una volta liberatolo dal sarcofago, lo scaraventò sul pavimento e lo calpestò ripetutamente, fino a frantumarlo del tutto. Poi guardò nuovamente nella bara, alla ricerca di altri resti cocciuti. Altre due volte afferrò le ossa e le calpestò con i piedi con divertimento di Tarthe, che vedendola scoppiò a ridere.
Elmara scosse il capo e infilando di nuovo la mano nella cassa, prese i libri e mormorò le parole di un ultimo incantesimo. I libri scomparvero pacificamente.
Dietro di lei, la risata di Tarthe si interruppe bruscamente. El si voltò rapidamente, in tempo per vedere un uomo sorridente, vestito di una tunica, dapprima una sagoma confusa, poi una figura in carne ed ossa, innalzarsi da un elmo luccicante sul pavimento… quello di Tharp.
Era un sorriso crudele, e l’uomo si voltò verso Elmara, che si irrigidì, ricordando una faccia impressa per sempre nella sua memoria. Il mago che a cavallo del drago aveva bruciato Heldon!
«Ah, sì, Elmara o dovrei dire Elminster Aumar, Principe di Athalantar? Tharp è stato la mia spia tra le Lame Coraggiose, fin dal principio. Sei stata molto utile anche tu, a scovare ogni sorta di malcontenti, di magie nascoste e di oro. Sì, i signori maghi ti ringraziano in particolare per l’oro… quello non è mai abbastanza». Sorrise mentre il coltello lanciato da Tarthe contro di lui lo attraversò come fosse un fantasma, per schiantarsi rumorosamente contro la parete più lontana della stanza.
Un istante più tardi, si udì il ruggito di un fuoco imponente. Il corpo in fiamme di Tarthe Maermir, capitano delle Lame Coraggiose, venne scaraventato contro il muro opposto, ed El udì il collo del guerriero spezzarsi. Il mago guardò il cadavere bruciante e sogghignò. «Credevi che fossi tanto sciocco da rivelare la posizione del mio corpo reale? Sì? Ah, bene…»
Elmara socchiuse gli occhi e pronunciò una sola parola. Il rumore di un corpo che colpisce pesantemente una parete giunse alle sue orecchie, e l’immagine del mago svanì.
Un attimo dopo, riapparve lì vicino, accasciato contro il muro. Guardò crudelmente Elmara, che stava mormorando un incantesimo più potente, ed esclamò: «I miei ringraziamenti per aver distrutto Ondil. Mi divertirò ad aumentare i miei poteri con la sua magia. Sono in debito con te, fanciulla… pertanto è mio dovere, nonché un piacere, liberarci dei tuoi seccanti attacchi, una volta per tutte!» L’anello che portava al dito scintillò e tutto fu avvolto dalle fiamme.
Agitando le mani nei gesti flebili e inutili di un incantesimo interrotto, El si ritrovò scagliata fuori dalla finestra infranta, dalla quale erano caduti i due ladri, una spirale di fiamme scoppiettanti avvolte intorno al suo corpo. Urlò di dolore, e si agitò per un lungo tratto, al fine di apparire impotente il più a lungo possibile, prima di ricorrere nuovamente all’incantesimo che le permetteva di volare. Il libro legato attorno alla vita sembrava proteggerla dalle fiamme, ma le sue orecchie erano tormentate dallo sfrigolio della sua chioma in fiamme.
Sotto di lei giacevano i corpi frantumati dei due ladri, e un’ampia zona annerita dove la terra emanava ancora fumo, tutto ciò che Briost aveva lasciato del guerriero più giovane e dei cavalli che stava accudendo. A pochi centimetri sopra di loro, Elmara, riluttante, schizzò via, librandosi sopra il terreno, lasciando dietro di sé una traccia di fumo proveniente dai suoi vestiti anneriti. Mentre si allontanava volando pianse tutte le lacrime che aveva, ma non per il dolore crescente delle sue bruciature.
La piccola imbarcazione scoperta ospitava un uomo e una donna. Il vecchio brizzolato, a poppa, affondava la pertica con ritmo regolare e spingeva la barca fra la foschia densa dell’imbrunire.
Guardò la giovane donna dal naso adunco, seduta a prua, e le chiese tranquillamente: «State andando al tempio, fanciulla?»
Elmara annuì. Granelli di luce scintillavano e si agitavano continuamente intorno al fardello voluminoso che teneva con entrambe le mani premuto contro il petto, nascondendone la vera natura. Il vecchio in ogni caso lo adocchiò, ma poi distolse lo sguardo e sputò pensieroso nell’acqua.
«State attenta, ragazza», esclamò, posando l’asta in modo che la barca fosse sospinta dalla corrente. «Non molti ci vanno, ma ancora meno ritornano al molo la mattina successiva. Alcuni non li troviamo più, altri li troviamo in cumuli di cenere o di ossa contorte, e altri ancora sono ciechi o parlano a vanvera, dall’alba al tramonto».
La giovane dal naso aquilino si voltò e lo osservò a lungo con sguardo inespressivo. Poi alzò le spalle, le lasciò ricadere e rispose: «È una cosa che devo fare. Sono costretta». Scrutò oltre, nella foschia e aggiunse a bassa voce: «Come lo siamo spesso tutti, a quanto pare».
Il vecchio alzò a sua volta le spalle, mentre l’isola della Danza di Mystra si profilava all’orizzonte, immersa nella foschia sospinta dal vento, una massa silenziosa e scura sull’acqua.
Diventava sempre più grande a mano a mano che si avvicinavano. Il vecchio virò lievemente. Pochi istanti dopo attraccò delicatamente a una vecchia banchina di pietra, e il timoniere esclamò: «La Danza di Mystra, signorina. Il suo altare si erge sulla collina nascosta dietro quella che si trova davanti a noi. Ritornerò come d’accordo. Che Mystra vi arrida».
Elmara gli fece un inchino e balzò sul molo, lasciando quattro reali d’oro nella mano dell’uomo. Il timoniere tenne ferma la barca nel silenzio, e osservò la giovane mentre risaliva la collina con passo risoluto. Il sole era ormai calato e nuvole purpuree stavano coprendo rapidamente il limpido cielo di Faerûn.
Solo dopo che Elmara fu scomparsa dietro la cresta della sommità spoglia, l’uomo riprese il viaggio. Si voltò e si appoggiò con forza al palo. L’imbarcazione si staccò dal molo, e il volto temprato e vecchio del suo proprietario si illuminò di un ghigno improvviso.
Il ghigno si allargò orribilmente, mentre il volto iniziò a liquefarsi come pappa d’avena andata a male. Dalla carne cadente spuntarono un paio di zanne e un mento troppo aguzzo, e ciò che rimaneva del vecchio gocciolò e si sparse sul fondo della barca. Fu allora che il volto sogghignante e squamoso di Garadic sussurrò: «Fatto, padrone». Sapeva che Ilhundyl stava guardando.
Elmara si arrestò di fronte all’altare: un blocco di pietra scuro, senza ornamenti, che si ergeva solitario sulla sommità della collina. Il vento sibilava fra i suoi vestiti. Offrì una preghiera sincera a Mystra, e il vento sembrò cessare per qualche istante. Quand’ebbe terminato, svolse il Libro degli Incantesimi di Ondil, la fascia ancora scintillante attorno a esso, e lo depose con riverenza sulla roccia gelida.
«Sacra Signora di Tutti i Misteri, vi prego di accettare il mio dono», mormorò Elmara, incerta su cosa avrebbe dovuto aggiungere. Poi rimase in piedi, all’erta e in attesa, pronta a rimanere vigile per tutta la notte, se fosse stato necessario.
Un attimo dopo, un brivido le percorse la schiena. Due mani di donna, spettrali, dalle lunghe dita, si stavano sollevando dalla pietra. Afferrarono il tomo e lentamente iniziarono a ritirarsi. Improvvisamente, un bagliore accecante emanò dal libro, e si udì un forte sibilo.
Elmara trasalì e si protesse gli occhi. Quando riuscì a riaprirli, mani e libro erano scomparsi. La brezza ora accarezzava la roccia nuda, proprio come prima che vi deponesse il libro.
La giovane sacerdotessa stette a lungo di fronte all’altare, sentendosi stranamente vuota e stanca, e tuttavia in pace. Più tardi avrebbe deciso che cosa fare l’indomani… ma per il momento stava comoda lì… a ricordare.
Gli abitanti di Heldon e i fuorilegge nelle forre fuori dal castello, le Mani di Velluto nel viale, le Lame Coraggiose… tante persone care erano andate a incontrare gli dei, lasciandola di nuovo sola.
Persa nei suoi ricordi, Elmara si rese conto solo gradualmente di un bagliore biancheggiante proveniente dal fondo della collina, dietro l’altare.
Fece qualche passo avanti e vide che il bagliore era emanato da una figura femminile, snella, due volte più alta di lei. L’apparizione indossava una tunica, aveva portamento regale, ed era sospesa sopra il suolo. I suoi occhi erano pozze scure, e un sorriso le illuminò il volto quando fece un cenno a Elmara con la mano alzata. Poi si voltò e iniziò a scendere dalla collina, sempre camminando a mezz’aria. Dopo un attimo El la seguì, lottando contro il vento sferzante; scesero dalla collina, poi girarono attorno a un’altra, ma la figura non accennava a fermarsi. Si ritrovarono su una spiaggia sassosa dall’altra parte dell’isola, ma l’apparizione luminosa continuò a camminare, diritta fra – no, sopra! – le onde, allontanandosi sul mare.
Elmara rallentò, osservando il bordo dell’acqua. Onde grigie si infrangevano senza sosta sui ciottoli, risucchiandoli nel mare. Il passaggio di Mystra aveva lasciato sull’acqua una scia luminosa, ininterrotta dalle onde rotolanti. La dea era sempre più distante.
Cautamente, Elmara entrò nella risacca, e vide che i suoi stivali rimanevano asciutti. Una nebbia sottile l’avvolse, ma i piedi non affondarono nell’acqua… stava davvero camminando sulle onde! Rincuorata, iniziò ad affrettarsi e ad allungare il passo per raggiungere la dea.
Si stavano spingendo al largo, allontanandosi sempre più dall’isola.
Il vento soffiava freddo e costante, spingendo il mare verso la spiaggia. Elmara accelerò fino a farsi venire il fiato grosso, senza tuttavia osare mettersi a correre sulle onde in movimento, ma senza riuscire ad avvicinarsi alla figura luminosa davanti a lei.
El stava appena cominciando a chiedersi dove fossero dirette tanto di corsa, quando udì una voce nitida e fredda davanti a lei: «Mi hai deluso».
La figura luminosa si oscurò, svanendo rapidamente sopra le onde scure. Elmara iniziò allora a correre sul serio, ma le onde di fronte a lei divennero sempre più scure, finché il passaggio luminoso scomparve, insieme alla donna e improvvisamente non stava più camminando sull’acqua, bensì sprofondando nelle sue gelide profondità.
Tornò in superficie, e iniziò ad agitarsi, mentre l’acqua fredda si faceva strada nella gola e nel naso facendola tossire e un’onda la schiaffeggiò in volto. Sputò fuori l’acqua e si voltò verso l’isola, in modo che l’onda seguente la sollevasse sotto le spalle e la portasse con sé.
Indietro, verso l’isola, ora solo un puntino scuro nel mare grigio, agitato dal vento. Sola nelle acque gelide, di notte, lontana dall’isola…
Lottando contro il vento, un improvviso turbine di luci scintillanti avvolse la cima della collina, sollevandosi in una nube lampeggiante. Dal suo cuore uscì una figura alta, vestita di una tunica scura.
Raggiunse il blocco di pietra, l’osservò per un attimo, e ordinò freddamente «Alzati!»
Vi furono un sospiro e uno scuotimento da sotto la roccia antistante, da cui iniziarono a fuoriuscire fili di luce perlacea, agitati dal vento impetuoso. Le luci turbinarono, si ispessirono e divennero una figura diafana: una donna con un tomo fra le mani. Porse il libro all’uomo dalla tunica, che protese le braccia con un movimento brusco. Alcune scintille si rincorsero attorno al tomo, e subito svanirono. Soddisfatto, l’uomo lo afferrò.
La faccia spettrale si avvicinò all’uomo. Il suo sussurro supplichevole fu quasi un singhiozzo. «Ora mi lascerete riposare, Sua Potenza il Mago?»
Ilhundyl annuì una volta. «Per un po’», rispose brevemente. «Ora, vattene!»
La forma evanescente dello spirito oscillò sopra il blocco di roccia, come agitata dalla bufera, e si udì ancora la sua flebile voce: «Chi era la giovane maga, e quale sarà il suo destino?»
«La morte è il suo destino, e perciò non è nulla, naturalmente», rispose Ilhundyl, con una punta di rabbia. «Sparisci!»
Lo scheletro gemette e sprofondò nuovamente nella roccia; l’ultima cosa visibile prima che scomparisse del tutto, furono un paio di mani allargate e supplicanti.
Ilhundyl le ignorò, sollevò il pesante libro e sorrise freddamente nella notte ventosa, rivolto verso la cima della terza collina, dove del vero altare di Mystra rimanevano solo alcuni frammenti di roccia. Se c’era una cosa che aveva imparato in tutti quegli anni di incantesimi e di carriera senza scrupoli, era che la Signora apprezzava la potenza della magia più di ogni altra cosa. Perciò Ilhundyl portava fieramente il titolo di «Mago Pazzo» che gli uomini bisbigliavano alle sue spalle. Presto, presto sarebbe stato il mago più potente di Faerûn, e allora sarebbero stati troppo occupati a gridare e non avrebbero avuto il tempo di parlar male o complottare contro di lui.
Si irrigidì, scrutando nella notte. Una fiamma blu si stava innalzando dalle pietre in rovina sull’altra collina, e scintillando diventava sempre più luminosa, sempre più alta.
La bocca di Ilhundyl divenne improvvisamente secca. Una donna dall’aspetto regale, ardente di fuoco blu, due volte più alta di lui, stava scrutando il vuoto che li separava. I suoi occhi scuri e impassibili incontrarono quelli del mago.
L’uomo venne colto da una paura improvvisa, poi mormorò frettolosamente una parola, tracciò un segno nell’aria, e le luci scintillanti lo avvolsero, portandolo lontano…
Elmara gemette, tossì debolmente e aprì gli occhi. L’alba si era di nuovo alzata su Faerûn e, a quanto pareva, lei ne faceva ancora parte. Era distesa per metà nell’acqua e per metà sulla sabbia, la risacca rumoreggiava incessante intorno a lei. Dita di acqua spumosa scorrevano sulla sabbia accanto al suo corpo. El osservò il loro fluire, sentendosi debole e stanca, poi tentò di sollevarsi; grondante d’acqua e di sabbia si mise carponi… era tutta intera, a quanto pareva, e le girava solo un po’ la testa.
La spiaggia era deserta. Una brezza fresca e salata, proveniente dal mare, l’accarezzò e la fece rabbrividire. Era nuda, a eccezione della Spada del Leone, ancora appesa intorno al collo. Elmara sospirò, e si alzò in piedi barcollante. Non vi era alcuna traccia di case o di banchine o di staccionate: solo alberi rachitici, rocce ed erba aggrovigliata, vecchi ceppi, e cespugli dove finiva la spiaggia e iniziava la vegetazione.
Fece un passo avanti, poi si arrestò impietrita. Sulla sabbia di fronte a lei, qualcuno aveva scritto una parola: «Athalantar».
El guardò la scritta, poi le sue membra nude, e rabbrividì. Tossì, scosse la testa, sollevò il mento, e si allontanò dall’acqua, diretta verso il sole nascente.
In un luogo in cui gli incantesimi guardiani baluginavano notte e giorno, nelle profondità del Castello Magico, un uomo si accingeva a leggere.
«Garadic», chiamò freddamente, sorseggiando la sua bevanda.
Il servo squamoso uscì riluttante dall’ombra e aprì cautamente il Libro degli Incantesimi di Ondil, posto su un leggio nel lato opposto della stanza, lontano dal padrone. Incantesimi protettivi, sempre all’erta si raggrupparono e turbinarono intorno al leggio, ma non vi furono fulmini, né accaddero eventi spiacevoli. La prima pagina era bianca.
«Portamelo», ordinò di nuovo freddamente.
Quando il leggio fu di fronte alla sua sedia alta e imbottita, Ilhundyl ripose il calice di vino color smeraldo e congedò con un gesto la creatura squamosa e dinoccolata. Voltò lui stesso la seconda pagina.
Era vuota e bianca come la precedente e come il risguardo. E così anche la successiva… e quella dopo… e quella dopo ancora… tutte le pagine erano vuote! Ilhundyl impallidì e aggrottò le sopracciglia.
Pronunciò una parola che fece affievolire tutte le luci della stanza. Il pavimento emise un breve bagliore e si udì un rumore stridente, mentre una pietra si ritraeva per rivelare un buco. Molto rapidamente, come se fosse in attesa, un viticcio si innalzò dalle invisibili profondità sottostanti. Toccò delicatamente il libro, quasi incurante, e poi lo avvolse solo per ritrarsi, deluso, e tornare da dove era venuto. Ciò significava che non vi erano scritte nascoste, né porte o legami con altri spazi e altri libri. Il tomo era vuoto.
Ilhundyl fu colto da un’ira improvvisa. Si alzò dalla sedia e, furente, si lanciò attraverso porte e tendaggi, che si aprivano autonomamente al suo passaggio. Si fermò, dopo aver percorso metà castello, davanti a una grande sfera di cristallo scintillante, posta su un piedistallo nero e solitario in una piccola stanza dalle molte lampade.
Scrutò nelle profondità della sfera, dentro la quale apparvero fiamme e guizzi luminosi, alimentati dalla sua rabbia. Ilhundyl guardò le fiamme crescere lentamente nel cristallo, e lambire con i loro artigli i confini arrotondati della sfera, poi improvvisamente si mise a gridare. «Le spezzerò le ossa! Se è affogata, la ripescherò, e poi le frantumerò le ossa come uova, e farò sì che mi supplichi per essere liberata! Nessuno osa ingannare Ilhundyl! Nessuno!»
Pronunciò una parola, e dall’ombra del suo nascondiglio, la sagoma alata e bitorzoluta di Garadic si levò frettolosamente e volò rapida attraverso il castello al fianco del suo padrone.
Il mago guardò nella sfera, evocando dalla sua memoria il volto della giovane dal naso adunco. Le fiamme turbinarono e si agitarono per poi placarsi, e Ilhundyl si concentrò per inviare una falce che le tagliasse le gambe all’altezza delle ginocchia, lasciandola gridare e trascinarsi fino al suo arrivo; le avrebbe fornito proprio un valido motivo per gridare e strisciare!
Ma quando le fiamme del cristallo si misero a fuoco, il volto che lo stava fissando con tranquillità, non era quello che Ilhundyl stava cercando. Rimase a bocca aperta per lo stupore.
Il viso barbuto e rugoso abbandonò la sua solita espressione di vaga curiosità e gli sorrise gentilmente, annuì in segno di saluto, ed esclamò: «Buon giorno, Ilhundyl; hai un nuovo libro di incantesimi, vedo».
Il mago sputò all’Alchimista. La saliva crepitò ed evaporò a contatto con la sfera. «Le pagine sono vuote, e tu lo sai!»
L’Alchimista gli sorrise nuovamente, questa volta a denti stretti. «Sì, ma la giovane maga che l’ha offerto a Mystra non lo sapeva. Tu le avevi detto di non sfogliarlo, e lei ha obbedito. Una tale fiducia e onestà è purtroppo rara al mondo d’oggi, vero Ilhundyl?»
Il Mago Pazzo del Calishar ringhiò e sferrò un incantesimo nella sfera. Il mondo al suo interno lampeggiò e tremò, riflettendosi sulle guance di Ilhundyl, ma l’Alchimista si limitò a sorridere, e allora l’incantesimo si ripercosse sibilante sul Mago Pazzo, esplodendo dal cristallo vibrante per poi colpirlo e imperversare nella stanza. Garadic si scansò rapidamente per evitare la forza delle fiamme, ma fu scaraventato ugualmente contro le pareti dall’impeto del fuoco.
«La collera, Ilhundyl, è la rovina di molti apprendisti», affermò con tranquillità il vecchio.
Le urla di frustrazione del mago echeggiarono nella stanza. Poi si voltò, lo sguardo assassino, e scagliò un fuoco lacerante. Garadic non ebbe nemmeno il tempo di emettere un grido.
Un menestrello stava cantando nell’osteria debolmente illuminata dell’Unicorno, quando la giovane donna dal naso aquilino entrò con passo stanco. La taverna sul bordo della strada si trovava nel centro di un gruppo di fattorie, a ovest di Athalantar; per raggiungerla, El aveva camminato tutto il giorno bevendo solo acqua di ruscello.
L’oste udì lo stomaco della forestiera brontolare sonoramente mentre questa avanzava a grandi passi, e la salutò affabilmente: «Un tavolo e un po’ di stufato, signora? Seguiti da arrosto e da buon vino naturalmente…»
La giovane annuì, abbozzando un sorriso sulle labbra severe. «Un tavolo d’angolo tranquillo, se possibile. Scuro e appartato».
L’oste annuì a sua volta. «Ne ho molti del genere… da questa parte, prego.»
La forestiera stavolta non sorrise e si lasciò condurre al tavolo. I suoi abiti scuri erano consunti e anonimi, ma dalle sue maniere si capiva che era colta e aveva frequentato la buona società, pertanto il locandiere non le chiese denaro in anticipo, ma rimase stupefatto quando la donna esile si tolse gli stivali con un sospiro di sollievo e rovesciò un reale d’oro sul tavolo.
«Fatemi sapere quando quello avrà bisogno di compagnia», mormorò, e l’oste, soddisfatto, la rassicurò che avrebbe fatto tutto ciò che comandava.
Il vino – di colore rosso rubino, che bruciava fin giù nello stomaco – era eccellente, come pure l’arrosto, e il canto era piacevole. Le pietre del pavimento erano fredde, perciò Elmara si rimise le scarpe, si avvolse nel mantello, e si appoggiò al muro, spegnendo l’unica candela del tavolo.
Immersa nell’oscurità, si rilassò ascoltando il menestrello che raccontava di draghi femmina e di coraggiose donne-cavaliere che salvavano giovanotti incatenati, destinati a fungere da offerte sacrificali. Era piacevole stare al caldo, con lo stomaco di nuovo pieno, sebbene fosse certa che l’indomani, raggiunti i confini di Athalantar, avrebbe dovuto affrontare pericoli e morte (non la sua, sperava).
Ma non si sarebbe arresa. Mystra si aspettava questo da lei.
La voce dolce del menestrello pronunciò parole che interruppero i pensieri di Elmara sulla delusione di Mystra nei suoi confronti, e la fanciulla si protese per ascoltare con attenzione: non aveva mai udito quella ballata. Una lode speranzosa al coraggioso Re Uthgrael di Athalantar. Ascoltando le calde parole di rispetto per il gran sire mai conosciuto, El si ritrovò gli occhi pieni di lacrime. Poi la voce melodiosa cambiò, si ispessì, fino a diventare un gracchio. Elmara scrutò nell’ombra in direzione dello sgabello accanto al focolare sul quale sedeva il menestrello, e si irrigidì.
Con lo sguardo pieno di paura, il giovane si teneva la gola e si contorceva. Guardava con occhi stralunati l’uomo che si era alzato dalla sedia del tavolo accanto, occupato da uomini arroganti, riccamente vestiti che stavano ridendo della sorte del menestrello. Il tavolo era una giungla di bottiglie vuote, di bicchieri, e di pelli. Elmara vide bacchette magiche alle loro cinture, nonché pugnali… maghi, senza dubbio.
«Che cosa state facendo?» La voce tagliente era quella di un mercante grasso seduto a un altro tavolo.
Il mago, in piedi con una mano protesa, che serrandosi lentamente soffocava il menestrello, voltò la testa per mostrare il suo ghigno: «Non permettiamo che nel regno di Athalantar si pronunci il nome di quell’uomo morto».
«Non siete in Athalantar!», protestò un altro avventore, mentre il cantante continuava a gorgogliare impotente.
Il mago si strinse nelle spalle e si guardò freddamente intorno. «Noi siamo i signori maghi di Athalantar, e questa terra farà presto parte del nostro regno», affermò categorico.
Elmara vide l’oste, che stava uscendo dalle cucine con un vassoio fumante sulla spalla, arrestarsi scioccato alle parole del mago.
Questi si guardò intorno con sorriso beffardo. «C’è qualcuno qui abbastanza stupido da tentare di fermarmi?»
«Sì», rispose tranquillamente Elmara dal suo angolo, rompendo l’incantesimo dello strangolamento. Le sue mani si mossero di nuovo mentre si spostava lateralmente, ancora più in ombra. L’intero tavolo dei maghi – El sospettava che fossero in realtà apprendisti di poco conto, in viaggio per scortare qualche carovana o svolgere compiti minori – scrutò nell’oscurità, cercando di vedere chi aveva parlato. La giovane terminò l’incantesimo, poi fece qualche passo avanti, rivolgendosi al mago ancora in piedi. «Chi possiede grandi poteri magici non dovrebbe mai usarli per intimidire chi non ne ha. Non siete d’accordo?»
«Vi sbagliate», ringhiò il mago, e sollevò le mani per effettuare un’altra magia.
Elmara sospirò e puntò il dito contro di lui. L’uomo si irrigidì a metà incantesimo e si portò le mani alla gola.
«Il vostro incantesimo», spiegò affabilmente la donna al mago che stava soffocando. «Sembra molto efficace… ma allora, forse mi sbaglio».
Le sue parole fecero ruggire di rabbia i sei sedicenti maghi, che balzarono dalle sedie, impugnando le bacchette magiche, e nella fretta rovesciarono bottiglie e caraffe. El guardò i vetri rovesciarsi e rotolare, sorrise, e pronunciò la parola che avrebbe scatenato contro di loro il suo incantesimo.
Numerose bacchette magiche si alzarono e mani infuriate tracciarono gesti nell’aria. Furono pronunciate parole rabbiose e comparvero oggetti strani mentre i sei abili maghi scagliavano sortilegi malvagi al loro nemico solitario.
Ma non accadde nulla.
Elmara, allora, annunciò tranquillamente ai presenti: «Posso impedire a questi uomini di usare i loro poteri… per un po’. Non mi dispiacerebbe scatenare una bella battaglia di incantesimi, ma preferirei non distruggere in tal modo questa locanda. Se volete sbarazzarvene?»
Tutti rimasero un attimo in silenzio, stupefatti. Poi le sedie vennero spinte indietro, e gli uomini afferrarono i pugnali, al che i maghi fuggirono o, meglio, tentarono di farlo. Varie gambe protese fecero inciampare maghi poco abituati a guardare dove mettevano i piedi, e pugni entusiasti misero al tappeto apprendisti poco avvezzi a evitare cose che non fossero sfere di fuoco. Uno di loro sfregiò con un pugnale il viso di un mercante, che a sua volta, ringhiando, estrasse il coltello e ne fece buon uso.
Il tonfo che produsse il corpo del mago cadendo fra le sedie ribaltate sul pavimento della taverna, fece calare di nuovo il silenzio. Solo uno dei maghi era morto; gli altri giacevano privi di sensi, sparpagliati fra i tavoli e le sedie disordinati.
L’oste fu il primo a dire ciò che molti degli avventori stavano pensando. «È stato tutto troppo facile, ma chi sopravviverà quando i loro colleghi si vendicheranno su di noi?»
«Certo, ci trasformeranno in lumache e ci schiacceranno sotto i piedi!»
«Incendieranno la locanda, con noi dentro!»
«Forse», affermò Elmara, «ma solo se la lingua di qualcuno si muoverà troppo liberamente». Con calma, sollevò le mani e operò un incantesimo, poi girò per la stanza toccando i maghi. Gli uomini si affrettarono a farsi da parte; era evidente che consideravano i maghi alla stregua di una disgrazia mortale.
Quand’ebbe terminato, mormorò una parola e, improvvisamente, dove giacevano i sette corpi apparvero sette pietre. Elmara fece un gesto, e le pietre scomparvero, lasciando solo una pozza di sangue scuro a testimoniare la loro presenza alla taverna.
Il mercante più vicino si rivolse alla giovane. «Li hai trasformati in pietre?»
«Sì», rispose, la sua faccia era solcata da un sorriso improvviso. «Vedi… è possibile cavar sangue dalle pietre». Nel mezzo di qualche risata incerta, la donna si rivolse al menestrello. «Hai abbastanza fiato per cantare?»
L’uomo annuì, esitante. «Perché?»
«Se non ti dispiace, vorrei ascoltare il resto della storia su Re Uthgrael».
Il menestrello si inchinò. «È un piacere, Lady…?»
«Elmara», le rispose. «Elmara Aumar… er, discendente di Elthryn di Heldon».
Il giovane la guardò come se avesse tre teste e una corona su ognuna di esse. «Heldon è stato ridotto in cenere nove inverni fa».
El non rispose, e dopo un momento l’uomo le chiese con curiosità: «Ma ditemi: dove avete mandato quelle pietre?»
Elmara scrollò le spalle. «Al largo della Danza di Mystra, dove le acque sono profonde. Quando l’effetto del mio incantesimo svanirà e riacquisteranno forma umana, dovranno nuotare in superficie per sopravvivere. Spero che abbiano polmoni capienti e forti».
A quelle parole, nella taverna tornò il silenzio. Il menestrello tentò di rompere la tensione ricominciando la Ballata del Cervo, ma la sua voce era rauca. Dopo essersi interrotto ben due volte, allargò le braccia e chiese: «Potete attendere fino a domani, Lady Elmara?»
«Naturalmente», rispose El, prendendo posto al tavolo appena raddrizzato dove sedevano prima i maghi. «Come stai?»
«Vivo, grazie a voi», rispose il menestrello tranquillamente. «Posso offrirvi la cena?»
«Se mi permetti di offrire da bere», ribatté Elmara. Un istante dopo si misero a ridacchiare.
Elmara ripose la terza bottiglia, vuota. La contemplò con sguardo grave e chiese, «Qualcuno dei principi è ancora in vita?»
Il menestrello alzò le spalle. «Belaur, naturalmente, anche se ho udito che ora si fa chiamare “re”. Non ne conosco altri, ma ve ne potrebbero essere. Poco importa, ora che i maghi governano apertamente, emanando decreti come se fossero tutti re. L’unico divertimento che abbiamo è guardarli mentre cercano di scannarsi a vicenda. Io non mi faccio vedere spesso.»
«Perché?» Elmara guardò il suo bicchiere semivuoto. Vino… una sostanza traditrice.
«Non è un luogo sicuro per chiunque parli apertamente contro i maghi, inclusi i menestrelli, le cui ballate potrebbero non essere gradite ai maghi o alle guardie di passaggio».
Il giovane si scolò pensieroso il bicchiere. «Athalantar non accoglie bene nemmeno i maghi forestieri… e a meno di non possedere potere sufficiente da sconfiggere tutti i maghi, perché andarci? Se un mago potente si recasse in Athalantar, i signori maghi lo vedrebbero senza dubbio come una minaccia e si coalizzerebbero contro di lui!»
Elmara rise. «Un mago prudente andrebbe altrove, eh?»
Il menestrello annuì. «E rapidamente». I suoi occhi si assottigliarono. «Avete uno sguardo strano, Elmara… Dove andrete domani?»
La giovane lo guardò. Fiamme covavano nelle profondità dei suoi occhi, ora molto scuri, e il sorriso che gli rivolse era tutt’altro che allegro. «Ad Athalantar, naturalmente».
Scegliere la propria strada nella vita è un lusso per pochi a Faerûn. Forse la mancanza di pratica costituisce la ragione per cui molti che hanno la possibilità di fare quella scelta, la sfruttano malamente.
Il primo segno premonitore di guai era la strada deserta.
A quell’ora della mattina, peraltro serena, la via per Narthil avrebbe dovuto essere affollata, avrebbero dovuto esserci carri cigolanti, carrozze tirate da buoi sbuffanti, numerosi venditori ambulanti che conducevano muli, braccianti e pellegrini che si trascinavano a fatica sotto il peso dei loro fardelli, e forse anche uno o due messaggeri a cavallo. Elmara, invece, ebbe la strada tutta per sé finché, giunta in cima all’ultima salita, non vide che il cammino era sbarrato da un grande cancello di tronchi. Quando viveva ad Hastarl, non vi erano cancelli sulle strade di Athalantar – altrimenti l’avrebbe certo saputo dai mercanti che, stanchi, durante i loro viaggi si lamentavano di ogni piccolezza.
Le guardie che stavano oziando su alcune panche dietro il cancello, si alzarono in piedi e brandirono le alabarde. Per tutti gli dei, pensò, erano guardie di Athalantar. Avevano un aspetto annoiato e brutale.
Elmara spostò il suo fardello per nascondere meglio il piccolo oggetto magico che aveva in mano, e si incamminò verso il cancello.
«Ferma, donna», esclamò senza complimenti il capitano delle guardie. «Nome e mestiere.»
Elmara si pose di fronte all’ufficiale dietro il cancello e rispose gentilmente: «Il primo non ti riguarda; per quanto riguarda il secondo, esercito la magia».
I soldati fecero un passo indietro e la loro noia scomparve in un istante. Le alabarde scintillarono mentre le guardie si avvicinavano di nuovo al cancello per minacciare la donna sola. Il capitano corrugò il viso assumendo un’espressione che avrebbe fatto scappare chiunque a gambe levate, ma la straniera rimase impassibile.
«I maghi che non servono il nostro re non sono i benvenuti», affermò la guardia. Mentre parlava, i suoi uomini si disposero alle estremità del cancello, le armi in pugno, e circondarono Elmara.
El li ignorò. «E che re sarebbe?»
«Re Belaur, naturalmente», sbottò il capitano, ed Elmara sentì la punta gelida di una lancia pungolarle la schiena.
«In ginocchio, ora», sbraitò la guardia, «e attendi il mago locale, che vorrà sapere di più sui tuoi affari. Meglio che gli usi più rispetto di quanto tu abbia fatto con noi».
Elmara sorrise a denti stretti e sollevò una mano vuota. Fece un piccolo gesto e rispose: «Oh, lo farò».
Dietro di lei si udirono i primi rantoli, e la punta che le punzecchiava la schiena sparì improvvisamente. Tutt’intorno le guardie vacillarono, si misero a urlare o a vomitare, e col volto bianco caddero in ginocchio. Una si afflosciò completamente a terra, e l’alabarda le cadde dalle mani.
«Che… che cosa stai facendo?» singhiozzò il capitano, col volto contratto dal dolore. «Magia…?»
«Un piccolo incantesimo che vi fa provare ciò che significa avere una spada infilata nelle budella», rispose con calma la giovane dal naso adunco. «Ma se ti disorienta…»
L’ufficiale sentì un’improvvisa fitta allo stomaco, e nel medesimo istante vi fu un lampo nell’aria di fronte a lui. Guardò in basso, e vide una lama d’acciaio scintillante protudergli dal ventre, e sangue rosso-scuro scorrere lungo la spada. Annaspò, si portò inutilmente una mano allo stomaco per calmare il dolore straziante e insopportabile, poi spada e dolore svanirono entrambi.
Il guerriero guardò in basso, sbalordito, il cuoio intatto della sua corazza. Poi alzò riluttante gli occhi e incontrò lo sguardo della giovane, che gli sorrise affabilmente e sollevò l’altra mano.
Il capitano impallidì, aprì la bocca per parlare, la mandibola tremante, e poi fuggì, seguito un attimo dopo dai suoi soldati. Elmara li guardò scappare, sorrise lievemente, e proseguì lungo la strada, diretta alla taverna.
L’insegna sopra la porta indicava che quello era il Ricovero di Myrkiel, e i mercanti le avevano detto che era la migliore (se non l’unica) taverna di Narthil. Elmara la trovò di suo gradimento, e si sedette su una sedia contro il muro in fondo alla stanza, da dove poteva vedere chi entrava. Ordinò un pasto caldo all’ostessa robusta e le chiese se avesse potuto usare indisturbata una stanza per qualche minuto, in cambio di un reale.
La locandiera inarcò le sopracciglia, ma senza una parola prese la moneta che El le porgeva e le mostrò una stanza la cui porta poteva essere sbarrata. Quando la giovane ritornò al suo posto, canticchiando il verso «O per una guardia di ferro!» la cena l’aspettava: pane con burro caldo e stufato di coniglio.
Era ottimo. Aveva quasi finito quando la porta principale del Ricovero si spalancò, per lasciar entrare guardie con le spade sguainate. Un uomo dallo sguardo furioso con una tunica rossa e argento si fece strada a grandi passi.
«Asmartha!» chiamò l’uomo splendidamente vestito. «Chi è questa fuorilegge a cui dai rifugio?» Con un gesto imperioso del capo, indicò la giovane seduta nell’angolo. L’ostessa rivolse un’occhiata rabbiosa a Elmara, ma la ragazza dal naso adunco stava tranquillamente leccando i rimasugli di salsa dall’osso di coniglio, e non vi badò.
Facendo cenno alle guardie di stargli attorno, l’uomo dalla tunica rossa si avviò impettito verso il tavolo di El. Gli altri avventori lo guardarono e frettolosamente spostarono le loro sedie per scansarsi, pur restando abbastanza vicini da poter vedere e udire tutto.
«Una parola, ragazza!»
Elmara sollevò lo sguardo, posandolo su un altro osso. Lo ispezionò, poi lo mise da parte, e ne scelse un terzo. «Potreste averne anche cento», rispose pacatamente prima di ricominciare a mangiare. Si udirono diversi risolini dai tavoli accanto, ma tornò il silenzio quando l’uomo finemente vestito si guardò attorno con aria severa.
«Ho sentito che sei una maga», affermò freddamente, di nuovo rivolto alla donna seduta.
Elmara ripose un altro osso. «No. Ho detto che esercito la magia», rispose senza disturbarsi a guardarlo. Dopo qualche istante, mentre rosicchiava indisturbata un osso dopo l’altro, divenne evidente che non aveva intenzione di aggiungere altro.
«Sto parlando con te, ragazza!»
«Sì, l’ho notato», assentì El. «Continuate». Prese tra le dita un altro osso, decise che non valeva la pena succhiarlo una seconda volta, e lo ripose nel piatto. «Un po’ di birra, per favore», gridò, sporgendosi per guardare oltre la schiera di guardie. Di nuovo i clienti vicini si scambiarono mormorii divertiti.
«Raztan», ordinò freddamente l’uomo, «affonda la tua lama in questa sgualdrina arrogante».
Elmara sbadigliò e si appoggiò allo schienale, rivelando un ventre bombato; Raztan non mancò il colpo e la sua lama affondò tanto facilmente che perse l’equilibrio e finì con la faccia nel piatto di stufato. Tutti, nella stanza improvvisamente silenziosa, udirono la punta della spada raschiare la parete di gesso dietro la giovane donna. Elmara allontanò con calma il piatto e scelse uno stuzzicadenti dal contenitore di peltro davanti a lei.
«Stregoneria!», sbottò una delle guardie, e sfregiò il volto di El. Non fuoriuscì nemmeno una goccia di sangue – e la lama oscillò liberamente attraverso la faccia dal naso aquilino, come se fosse fatta d’aria. Gli spettatori rimasero a bocca aperta.
L’uomo con la tunica storse la bocca. «Vedo che conosci l’incantesimo della guardia di ferro», esclamò per nulla impressionato.
Elmara gli sorrise, annuì, e mosse un dito. Le spade sguainate attorno a lei si contorsero, sibilarono e divennero serpenti grigi. Guardie terrorizzate videro le teste dentate inarcarsi e voltarsi per mordere le mani di chi le brandiva! Simultaneamente lasciarono cadere le armi e indietreggiarono. Un soldato si diresse verso l’uscita, e la sua corsa divenne uno scalpiccio di stivali pesanti quando anche i compagni imitarono il suo esempio. Tutt’intorno alle guardie, le spade, tornate normali, caddero tintinnati sul pavimento.
L’uomo elegantemente vestito indietreggiò, il viso bianco come un lenzuolo. «Parleremo ancora», affermò con una nota d’incertezza nella voce altezzosa, «e quando lo…»
Elmara sollevò entrambe le mani per tracciare un disegno intricato nell’aria, l’uomo le diede le spalle e si diresse rapidamente verso l’uscita. A metà stanza si fermò, oscillò, e gli spettatori lo udirono ringhiare di paura e di frustrazione. Un sudore improvviso gli bagnò la fronte mentre si sforzava di muoversi… ma non riusciva ad avanzare di un passo. La donna si alzò e girò intorno all’uomo impietrito. Occhi terrorizzati ruotarono nelle orbite mentre la osservavano arrivare.
«Chi governa qui?», gli chiese.
L’uomo grugnì ma non rispose.
Elmara sollevò contemporaneamente un sopracciglio e una mano.
«P-pietà», mormorò l’uomo ansimante.
«Non esiste pietà per i maghi», gli rispose la giovane con calma. «Questo l’ho finalmente imparato». Si voltò. «Ti chiedo ancora: chi governa?»
«Io – ah… noi amministriamo Narthil per Re Belaur».
«Grazie, signore», mormorò El educatamente, e fece per tornare al suo posto.
L’uomo con la tunica, improvvisamente libero dal vincolo magico, barcollò e quasi cadde, fece tre passi veloci verso la porta, poi si girò e, coltello in mano, sbraitò un incantesimo. Tutti gli avventori dell’osteria spalancarono la bocca, spaventati. La lama del mago e tutte le spade abbandonate sul pavimento si sollevarono all’unisono e sfrecciarono verso la schiena di Elmara in una pioggia d’acciaio letale. Senza voltarsi, la donna mormorò una parola. Le punte tanto prossime a reclamare la sua vita, deviarono e si diressero verso il mago.
«No!», gridò disperatamente l’uomo, afferrando la maniglia della porta. «Che co…»
Le spade lo trafissero inesorabilmente, sollevandolo da terra e portandolo oltre la porta. Cadde, scalciò una volta, poi rimase immobile, le spade simili a un bosco scintillante sulla sua schiena.
Elmara prese il mantello e il sacco. «Vedete? La pietà non abbonda. Tra i maghi in special modo», aggiunse e uscì in strada.
Si incamminò quindi tranquillamente, e iniziò a sbirciare nelle vetrine delle botteghe, con l’aria di chi ha soldi da spendere, mentre numerosi volti curiosi restavano schiacciati contro i vetri della locanda. Non si era allontanata molto quando udì il suono di un corno da nord, in cima alla strada – della roccaforte di pietra di Narthil. Una porta del grande cancello si aprì e si udì uno scalpitio di zoccoli. Ne uscirono un uomo anziano in tabarro cerimoniale e due guardie in armatura che lo seguivano, armate di lance. Elmara li guardò avanzare verso di lei: non scorse traccia di balestre, allora si strinse nelle spalle e si voltò, dirigendosi nuovamente alla taverna.
La strada si riempì rapidamente di abitanti curiosi. «Chi siete, giovane fanciulla?», chiese un uomo con una cicatrice sul naso.
«Un’amica… una sacerdotessa di Mystra in viaggio, originaria di Athalantar», rispose Elmara.
«Una maga?», domandò un altro con tono arrabbiato.
«Una maga rinnegata?», rincarò la dose una donna accanto a lui.
«Nient’affatto», rispose El, poi si rivolse a una donna prosperosa e dall’aspetto stanco, con indosso un grembiule e gonne rattoppate, che la stava guardando a bocca spalancata come se fosse un pesce parlante. «Come va qui a Narthil, signora?»
Presa alla sprovvista dalle sue parole, balbettò per un attimo, e poi rispose amaramente: «Male, ragazza, da quando questi cani di Athalantar sono arrivati e hanno occupato la città. Da allora ci hanno confiscato il cibo e le figlie, e tutto senza neanche chiedere!»
«Già!», assentirono in molti.
«Più crudeli di molti guerrieri?», chiese Elmara, facendo un cenno con la mano verso la fortezza.
La donna alzò le spalle. «Non tanto crudeli, quanto… arroganti. Questi giovani puledri non si impennerebbero tanto facilmente, né distruggerebbero tutto tanto rapidamente, se dovessero trascorrere dieci giorni a casa mia – o di qualunque altra donna! – pulendo e rassettando!»
«Levatevi!», intimò un uomo, e tutta la gente intorno alla giovane indietreggiò all’arrivo dei tre cavalieri. El li attese tranquillamente.
Al vedere la sua imperturbabilità, il vecchio dal tabarro purpureo adorno di margherite, fermò il cavallo ed esclamò: «Io sono Aunsiber, amministratore di Narthil. Voi chi siete per fare incantesimi contro soldati e maghi onesti del regno?»
Elmara annuì educatamente in segno di saluto. «Una che preferirebbe vedere i maghi aiutare il popolo, invece di tiranneggiarlo, che preferirebbe un re il cui governo significasse pace, stabilità, aiuti per i raccolti, non tasse, discordia, e brutalità».
Come ci si poteva aspettare, vi fu un mormorio di assenso tra gli abitanti della città. Il cavaliere guardò a disagio la folla, facendo un passo di lato col cavallo irrequieto. «Un sogno», affermò poi con voce beffarda.
Elmara inclinò la testa. «Per ora sì… ma non è il mio unico sogno».
Il vecchio guardò giù dalla sella alta e chiese: «E quali sono gli altri, giovane sognatrice?»
«Solo uno», rispose dolcemente la donna. «Vendetta». Sollevò entrambe le mani come per fare un incantesimo, e il viso dell’uomo impallidì. Strattonò le redini, spronò il cavallo, e in un trambusto di sbuffi e di zoccoli, si lanciò al galoppo da dove era venuto. Si udirono fischi e grida d’esultanza tra la folla, ma El si voltò senza proferire parola e tornò alla locanda.
«Che cos’ha detto?», chiese un uomo mentre la giovane entrava nella taverna.
Una donna seduta lì accanto si protese ed esclamò ad alta voce: «Non hai sentito? Vendetta».
Poi vide Elmara nella stanza e si zittì. Un silenzio carico di tensione calò nel locale. El sorrise gentilmente alla donna e raggiunse il bancone. «È pronta quella birra?», chiese con tranquillità, e si compiacque nell’udire almeno uno degli uomini dietro di lei ridacchiare apertamente.
Briost non era in gran forma. Uscì impetuoso dalla camera del Gran Consiglio nel momento in cui il messaggero se ne andò. L’apprendista che stava tentando di origliare grazie a un incantesimo imparato di recente, rimase impietrito, l’aria colpevole; il volto del suo maestro era verde di rabbia.
«Va’ ed esercitati a scagliare sfere di fuoco», sbottò il mago, «o qualunque incantesimo a tuo piacimento. Io devo sbrigare una questione per conto del re. Sembra che un mago forestiero abbia avuto l’audacia di uccidere tutti gli apprendisti di Seldinor in una taverna a ovest di Narthil e lui è “troppo occupato” per vendicarli. Pertanto io ho intenzione di tagliare la testa a quell’idiota per la gloria dei signori maghi!»
La mano che scosse Elmara fu delicata ma insistente. Si risvegliò nel letto migliore del Ricovero di Myrkiel e guardò assonnata la donna china sopra di lei. L’ostessa era avvolta solo in una coperta. «Ragazza, ragazza», le sussurrò nell’oscurità, «faresti meglio ad andartene da qui rapidamente, per i boschi. Corre voce che le guardie stiano venendo a prenderti!»
Elmara sbadigliò, si stirò e rispose: «Grazie, siete molto gentile. Ci sarebbe qualche cosa come sidro caldo, e qualche salsiccia?»
La locandiera la guardò fissa. Poi, ciò che avrebbe potuto essere quasi un sorriso, le solcò il volto mentre girava su se stessa e usciva dalla stanza, i piedi nudi visibili nel buio.
Nella grigia oscurità che precede l’alba, la strada tremava sotto gli zoccoli dei cavalli. Sessanta cavalieri di Athalantar, dall’aspetto tenebroso e crudele, chiusi nelle loro migliori armature da combattimento, si dirigevano a ovest, pronti a dare battaglia. Nel mezzo, l’uomo il cui elmo portava le piume da comandante, si rivolse all’individuo che cavalcava accanto a lui.
«Suppongo che ora mi direte, mago», gli ordinò, «quale faccenda urgente ci costringe a cavalcare durante la notte».
«Siamo in viaggio per vendicarci, Principe», sbottò il mago Eth. «Vi basta o desiderate mettere ulteriormente in dubbio i miei ordini?»
Il Principe Gartos sembrò riflettere un momento, poi esclamò: «No… la vendetta è la ragione migliore per fare una guerra».
Vi fu un grido proveniente dalle fila anteriori, e i cavalli si misero al passo. «State sulla strada, dannazione!», ordinò Gartos stancamente, mentre i destrieri sbuffavano e agitavano la testa tutt’intorno a lui. La banda di cavalieri si fermò confusamente.
«Che cosa succede?», ruggì.
«Il cancello di Narthil, Signor Principe… e non è presidiato».
«Elmi in testa, tutti! Sguainate le spade!», gridò Gartos facendo un gesto imperioso con la mano. I cavalieri attorno a lui obbedirono, e spronarono i cavalli. Un momento dopo galoppavano verso Narthil.
La strada avvolta dall’oscurità di fronte a loro era deserta; da entrambi i lati, le case e le botteghe erano buie. I cavalieri delle prime file rallentarono il passo, guardandosi attorno esitanti. La città sembrava addormentata, ma tutti avrebbero udito dei cavalieri cadere a terra dopo essersi imbattuti in corde tese attraverso la strada. Non vi erano corde e nemmeno dardi spioventi e nessuno li stava sfidando. Se non che…
Una figura solitaria stava risalendo la strada ed era diretta verso di loro: una donna giovane ed esile, vestita con abiti di foggia indefinibile, che teneva in mano una tazza di sidro fumante. Si fermò tranquillamente in mezzo alla carreggiata e si guardò intorno sorseggiando la bevanda. Gli uomini spronarono i cavalli al trotto e poi, in uno scalpiccio di zoccoli, l’accerchiarono.
Elmara si ritrovò a guardare negli occhi duri di un guerriero temprato dalle battaglie, che indossava una magnifica armatura ed era affiancato da un uomo dallo sguardo freddo che portava una tunica senza stemma, ma che in qualche modo ricordava un «signor mago».
«Buongiorno», li salutò cortesemente, sorseggiando il sidro. «Chi siete voi che venite armati a Narthil quando la gente onesta ancora dorme?»
«Io faccio le domande, e tu mi risponderai rapidamente», sbottò il guerriero, voltando il cavallo di lato in modo da poter incombere sulla giovane. «Chi sei tu?»
«Una che vorrebbe vedere la caduta dei maghi arroganti e delle guardie crudeli», rispose El, e alla parola «crudeli» scattò l’incantesimo. Dal suo corpo scaturirono scintille che lampeggiarono in tutte le direzioni, facendo esplodere qualsiasi oggetto metallico toccassero, in un turbine di fiamme bluastre scoppiettanti e gli uomini dentro l’armatura o con la spada tra le mani iniziarono a contorcersi in preda alle convulsioni e caddero dalla sella.
Per un breve istante, il mondo sembrò inondato di luce brillante e di cavalli scalpitanti che, nitrendo terrorizzati, fuggirono senza uomini con un rumore assordante di zoccoli, lasciando Elmara sola di fronte a due cavalieri, pallidi sui loro destrieri, circondati da un incantesimo luminoso protettivo sferrato frettolosamente.
«Ora tocca a me», affermò la donna con gli occhi scintillanti. «Chi siete voi?»
Il guerriero sguainò lentamente la spada con fare minaccioso, ed El vide rune magiche fiammeggiare lungo la lama. «Il Principe Gartos di Athalantar», asserì fieramente, «l’uomo che ti ucciderà, strega, sicuro come il fatto che presto sarà giorno». Mentre il guerriero parlava, le mani del mago, silenzioso accanto a lui, si mossero rapidamente, ma un attimo dopo i suoi occhi si spalancarono: Elmara era svanita improvvisamente.
Poi il destriero del mago Eth si impennò e si slanciò in avanti, e dietro l’uomo si materializzò un grosso peso. Aveva appena iniziato a girarsi quando una mano lo colpì sul naso e sulla bocca, facendolo lacrimare, e subito un’altra gli assestò un pugno sulla gola.
Gorgogliando e respirando a fatica, il mago barcollò sulla sella, e sentì qualcosa che gli veniva strappato dalla cintura prima che il suolo scuro si alzasse violentemente per colpirlo alla tempia, e gli facesse chiudere gli occhi, per sempre…
Elmara saltò giù dal cavallo ancora prima che l’uomo cadesse dalla sella; Gartos fu molto rapido. Aveva capito dove l’aveva portata il suo incantesimo, si girò, e affondò la spada nel vuoto sopra la sella del mago Eth.
Elmara atterrò duramente, scartò di lato per rallentare la velocità del balzo, e guardò la bacchetta magica che aveva sottratto. Ah, ecco! Quando alzò lo sguardo, un paio di zoccoli si stavano levando sopra di lei, allora puntò il bastone magico, e cautamente pronunciò la parola incisa sull’impugnatura. La bacchetta pulsò e da essa si sprigionarono un paio di dardi luminosi che deviarono bruscamente nell’aria per colpire Gartos dritto in faccia. Il principe tirò indietro la testa, ringhiò di dolore, e colpì alla cieca con la spada mentre il cavallo si dava al galoppo. Elmara si tuffò a terra e rotolò su un fianco; poi puntò la bacchetta alla figura in armatura che le stava passando rapidamente accanto e pronunciò nuovamente la parola.
Ne scaturì nuovamente un lampo di luce, che anche questa volta colpì il bersaglio, e le braccia scintillanti nell’armatura metallica sobbalzarono in preda al dolore. La spada del guerriero cadde a terra, il destriero disarcionò il cavaliere e si lanciò al galoppo. Elmara vide gente assonnata sbirciare dall’uscio delle case mentre lasciava cadere la bacchetta magica ai suoi piedi, puntava le mani verso il cavallo, e pronunciava poche parole sotto voce.
Il principe ruzzolò facendo un gran rumore e rimase immobile, mentre il cavallo si allontanava rapidamente nel sole nascente.
El recuperò la bacchetta, si guardò intorno per verificare che non vi fossero altri nemici e raggiunse il guerriero. Gartos giaceva supino e aveva il volto contratto dal dolore e dalla rabbia.
«Ho un’altra domanda, guerriero», affermò El. «Che cosa conduce le guardie di Athalantar a Narthil?»
Gartos ringhiò furioso senza proferire parola. Elmara inarcò un sopracciglio, e sollevò le mani minacciando un altro incantesimo.
L’uomo guardò le sue dita muoversi, e brontolò: «F-ferma il tuo incantesimo. Mi hanno ordinato di trovare chi ha ucciso alcuni apprendisti all’Unicorno, ad ovest di qui… tu?»
Elmara annuì. «Li ho sconfitti e li ho spediti altrove; dovrebbero essere ancora vivi. Perché a un principe del regno viene ordinato di recarsi da qualche parte?»
La bocca del guerriero si contorse ironicamente. «Persino il re fa quanto gli chiedono i maghi più anziani… e il re mi ha nominato principe».
«Perché?»
L’uomo a terra scrollò le spalle. «Si fidava di me e voleva conferirmi il diritto di comandare le guardie senza che qualche giovane mago idiota mi ostacolasse».
Elmara annuì. «Chi era il mago che ti accompagnava?»
«Eth, il mio cane da guardia, mandato dai signori maghi per controllare che non facessi nulla per Belaur che avrebbe potuto arrecar loro danno».
«Fai sembrare Belaur un prigioniero».
«Lo è», rispose semplicemente, ed Elmara vide i suoi occhi spostarsi rapidamente da una parte all’altra, in cerca di qualcosa.
«Dimmi di più su questo mago Eth», ordinò la giovane, facendo un passo avanti ed estraendo la bacchetta magica dalla cintura. Sarebbe stato meglio continuare a far parlare il guerriero, in modo che non avesse il tempo di tramare un attacco.
Gartos alzò di nuovo le spalle. «Ne so poco; i maghi non parlano molto di sé. È chiamato “Artiglio di pietra”; da giovane ha ucciso un gigante con i suoi incantesimi… ma questo è tutto ciò che… Thaerin!»
Al grido dell’uomo, si produsse una luminosità pulsante. Elmara si voltò rapidamente, in tempo per vedere la spada con le rune sfrecciare di punta su di lei.
Balzò di lato. Il guerriero ringhiò: «Osta! Indruu hathan haharl!» e la spada virò, di nuovo verso El.
Lasciò cadere la bacchetta e alzò disperatamente le mani… e la spada passò attraverso le sue dita infilzandosi a fondo nel suo corpo. La giovane emise un grido. Il cielo albeggiante turbinò sopra di lei mentre barcollava all’indietro, grondante sangue; cercò di parlare e cadde a terra, in preda al dolore più straziante che avesse mai provato.
Udì la risata fredda di Gartos mentre la sua vista si rabbuiava, poi cercò con tutte le sue forze di aggrapparsi a qualcosa… qualsiasi cosa… Con l’ultimo respiro mormorò: «Mystra, aiutami…»
Il Principe Gartos si rimise in piedi. Era debole, aveva la nausea e non riusciva a sentire i piedi che, tuttavia, sembrarono obbedirgli. Grugnendo, fece qualche passo vacillante e si sedette, l’armatura cigolante. Narthil girava vorticosamente attorno a lui.
«Facile», mormorò, scuotendo il capo. «Bene, ora…» I suoi uomini giacevano sparpagliati lungo la strada, nessun cavallo in vista. «Thaerin», grugnì, «Algos!» Gartos protese la mano, osservò la spada sfilarsi dal corpo della donna e fluttuare, scura e umida, verso le sue dita in attesa. Piccola strega, chi si credeva di essere per sconfiggere i maghi di Athalantar? Armeggiò con la sua gorgiera, la spostò, e afferrò l’amuleto che teneva al collo, chiuse gli occhi e tentò di concentrarsi sulla faccia del mago Ithboltar.
Dita forti spostarono le sue. Aprì di colpo gli occhi, e si trovò di fronte il volto spaventato e pallido della locandiera, che gli affondò un pugnale nella gola e lo tenne fermo in posizione. Il sangue schizzò in tutte le direzioni. Il Principe Gartos tentò di deglutire, ma non riuscì, allora tentò di sollevare la spada. Le rune beffarde danzanti davanti ai suoi occhi furono l’ultima cosa che vide prima di sprofondare nell’oscurità…
«Gartos farà in modo che la strega muoia», asserì fermamente Briosi, e un sorriso gli solcò lentamente il volto. «Eth si assicurerà che esegua il suo compito».
«Hai fiducia nelle capacità di Eth?» Domandò Undarl. I maghi seduti intorno al tavolo guardarono tutti in direzione della sedia alta del Mago Reale, giusto in tempo per vedere il suo anello rosso-fuoco animarsi di luce improvvisa.
Briost alzò le spalle, domandandosi (non per la prima volta) quali poteri fossero assopiti in quel gioiello. «Si è dimostrato abile e prudente… fino adesso».
«Questa era tuttavia una prova, vero?», domandò Galath eccitato.
«Naturalmente», ribatté Briost in tono paziente. Perché, si chiese, a queste riunioni doveva sempre partecipare qualche zelante giovanotto? Certamente in tali occasioni si poteva trovare un lavoro per un tipo come Galath: insegnargli a svolgere un rotolo di pergamena, magari, o a mettersi la tunica da solo, col cappuccio dietro e il tabarro davanti? Qualunque cosa, purché si togliesse dai piedi…
Galath si protese entusiasticamente: «Ha fatto rapporto?»
Nasarn l’Incappucciato sbuffò e lanciò un’occhiata fredda lungo il tavolo. «Se ogni mago a cui affidiamo una missione lo facesse, le nostre orecchie risuonerebbero delle loro chiacchiere in ogni momento del giorno… e della notte!» Col suo sguardo imperturbabile, il naso affilato, e la tunica nera impolverata, il vecchio assomigliava a un avvoltoio appollaiato in attesa di una preda.
Undarl annuì. «Non mi aspetto che un mago sprechi la sua magia per disturbare i colleghi con chiacchiere inutili; il rapporto viene fatto solo se accade qualcosa di serio… se il mago intruso si rivela una spia di un altro regno, per esempio, o il capo di un esercito invasore».
Galath arrossì imbarazzato e staccò lo sguardo dal volto calmo del Mago Reale. Numerosi altri maghi gli sorrisero divertiti quando guardò brevemente e involontariamente da una parte e dall’altra del tavolo. Briost sbadigliò apertamente mentre si lisciava una manica della tunica verde-scuro e cercava una posizione comoda sulla sedia. Anche Alarashan, il tipo di uomo che sarebbe salito su un carro volgare, sbadigliò, e lo sguardo afflitto di Galath si posò sul tavolo di fronte a lui.
«Il tuo entusiasmo ti fa onore, Galath», aggiunse Undarl Cavalcadrago con espressione impassibile. «Se Eth ci chiederà aiuto o se gli accadrà qualcosa, assegnerò a te il compito di sistemare le cose a Narthil».
Galath si rizzò con tale rapidità e orgoglio, lievitando visibilmente sotto i loro occhi, che più di un mago sputacchiò per soffocare l’improvviso accesso di risa. Briost roteò gli occhi rivolgendoli al soffitto e si domandò se Galath sapesse come aprire un libro d’incantesimi, o se l’avesse invece sbucciato come una patata.
La volta di pietra sopra la sua testa non rispose… ma se ne stava lassù nella stanza di Athalgard da quasi un secolo, e aveva sicuramente imparato a essere un soffitto paziente.
Il dolore bruciò, la pervase, e minacciò di spazzarla via. Nel vuoto scuro, El si aggrappò alla luce bianca della sua volontà. Doveva resistere, in qualche modo…
Il dolore aumentò quando la lama incantata si spostò e scivolò lentamente – oh, molto lentamente, nel suo sangue! – fuori dal suo corpo, lasciandole una sensazione di vuoto e di… aperto. Era stata violata. Faerûn non doveva vedere le sue viscere in quel modo, sangue bollente riversarsi nel sole… ma lei non poteva far nulla, proprio nulla per fermarne il flusso. Le sue mani si mossero lievemente, o così le sembrò, mentre cercava di portarle alla ferita, ma ora la luce e i suoni attorno a lei si stavano affievolendo, e il suo corpo stava diventando freddo. Sprofondava, e sprofondava in un vuoto che l’avvolgeva completamente, sprezzante della sua debolezza e freddo come il ghiaccio.
Elmara ansimò e tentò di fare appello alla propria volontà. La luce bianca che era sempre stata in grado di evocare, scintillò debolmente davanti ai suoi occhi, come un fuoco da bivacco nella notte. La giovane si spinse verso la luce, abbracciandola, aggrappandosi a essa, finché non si ritrovò alla deriva in una foschia bianca.
Ora il dolore era diminuito. Qualcuno sembrò muoverla, rotolarla delicatamente… per un attimo fu colta dal panico, in quanto il movimento indebolì la sua presa sulla luce bianca, che sembrò sfuggirle di mano ed El si attaccò a essa con tutta la sua volontà, fino a sentirsi nuovamente immersa nella foschia.
Qualcosa – una voce – echeggiò intorno a lei, turbinando dolcemente e risuonando in lontananza come una tromba, ma non riuscì a comprendere le parole… se mai ne avesse pronunciate. Il vuoto intorno a lei sembrò farsi più scuro, ed El si aggrappò disperatamente alla luce. Questa sembrò aumentare d’intensità, e da lontano udì quella voce gridare di sorpresa e allontanarsi, balbettando per la paura, oppure era stupore?
Era sola, alla deriva in un mare di luce e dalle nebbie perlacee di fronte a lei qualcosa di familiare avanzava per abbracciarla. Fuoco di drago! Fiamme ruggenti incorniciarono una strada che conosceva bene, ed Elmara cercò di gridare.
Il Principe Elthryn era in piedi nel mezzo di Heldon in fiamme, il fuoco riflesso sui suoi stivali neri, lucidi come specchi, e brandiva la Spada del Leone, intera e scintillante. Si girò, i lunghi capelli al vento, e guardò Elmara. «Pazienza, figlio mio».
Poi fumo e fiamme turbinarono fra loro, e sebbene lo chiamasse disperatamente, a gran voce, non vide più Elthryn, ma al suo posto un alto edificio di pietra, in cui maghi crudeli finemente vestiti erano chini su una sfera decorata sostenuta da tre giovani alate fatte di oro lucente. Uno era Undarl Cavalcadrago, il Mago Reale che aveva distrutto Heldon. Un altro mago stava stendendo la mano sulle acque, agitando rabbiosamente le dita. «Dov’è?» ringhiò e gli parve per un istante di vedere Elmara. Socchiuse gli occhi, poi li spalancò – ma quella stanza iniziò a turbinare e ad allontanarsi nel vuoto di luce, ed Elmara si ritrovò improvvisamente al cospetto di Mystra, maestosa nell’aria di fronte a lei, sorridente, con le braccia aperte.
Inciampando nella fretta, El corse attraverso un terreno ignoto verso di lei. Gli occhi le si riempirono di lacrime e scoppiò a piangere. «Lady Mystra!» singhiozzò. «Mystra!» La luce intorno alla dea si affievolì, e la sorridente Signora dei Misteri iniziò a svanire… svanire…
«Mystra!» El allungò disperatamente le braccia, la vista offuscata dalle lacrime. Stava cadendo… cadendo nel vuoto, ancora una volta, infreddolita e gemente, sola, la sua luce scomparsa.
Stava morendo. Elmara Aumar doveva essere già morta, il suo spirito errante… ma no! Nell’oscurità lontana El vide una minuscola luce scintillare e sfolgorare – e poi correre verso di lei, brillante e roteante. Gridò per lo stupore e per la paura mentre la luminosità accecante la raggiungeva e l’avvolgeva nuovamente. Anche il sorriso di Mystra sembrò risplendere tutt’intorno a lei, caldo e confortante, infinitamente saggio.
Fra le nebbie ora più rade, la giovane ebbe un’altra visione: si alzò dopo aver pregato Mystra in ginocchio e si avvicinò a un tavolo su cui giaceva un tomo grande, elegantemente rilegato, e circondato da piccoli oggetti che riconobbe quali componenti per incantesimi. Si sedette al tavolo, aprì il libro e iniziò a studiare… la foschia l’avvolse, e quando si diradò nuovamente, El vide se stessa sferrare un incantesimo e poi osservare come una sfera di fuoco esplodesse proprio di fronte a lei. Una sfera di fuoco? Era un incantesimo tipico dei maghi, non delle sacerdotesse…
La foschia luminosa turbinò e poi si aprì nuovamente, rivelando forme di fuoco ardente, inestinguibile e immobile, nel nulla. El le contemplò. Quei fuochi erano magici e familiari. Guardò le loro spire e le loro lingue danzanti… e – sì! Erano gli incantesimi che aveva memorizzato in principio, sospesi nella sua mente in attesa di essere liberati!
Sì, esclamò una voce calda e potente, echeggiando intorno a lei, e aggiunse: Guarda. Uno dei fuochi si mosse improvvisamente, contorcendosi come un serpente. D’un tratto si illuminò di una luce troppo brillante per poter essere osservata, e la voce ordinò, fa’ così e stai a guardare!
Il fuoco divampò e scomparve, tingendo di ambra la foschia. Elmara si sentì improvvisamente meglio, come se la tensione e il dolore si fossero allentati e nel contempo il peso nella sua mente diminuì, come se un incantesimo fosse scomparso dalla sua memoria.
Di nuovo, ripeté la voce mentale di Mystra. Un’altra fiamma si contorse, si srotolò, e divampò. Quando scomparve, la donna si sentì più forte e il dolore diminuì ulteriormente, allora rimase a crogiolarsi nel calore crescente delle nebbie ora dorate.
Ora fallo da sola, le comandò la voce, ed El tremò, improvvisamente intimorita e nervosa. Sapeva che un passo falso poteva mandare in pezzi e la sua mente… ma le fiamme si stavano srotolando e contorcendo, mentre la sua volontà la invadeva e si riversava al di fuori per guidarle. Ora più splendenti… sì! Così, e – ecco fatto!
Una luminosità dorata sembrò diffondersi attraverso le nebbie mentre i fuochi dell’incantesimo svanivano. Elmara si sentì rinvigorita, come se il dolore che l’intorpidimento non le aveva permesso di sentire se ne fosse improvvisamente andato, scivolando dal suo corpo come un mantello consunto che si è strappato e il peso degli incantesimi nella sua mente svanì nuovamente.
Mystra le aveva mostrato come trasformare gli incantesimi memorizzati in energia vitale e far sì che quella forza primordiale stimolasse la sua guarigione. Sospesa in un vuoto mentale dalle tinte ambrate, El contemplò senza fiato quel processo meraviglioso e complicato l’oscurità fredda ora sembrava lontana. Si rese conto che avrebbe potuto identificare incantesimi particolari se avesse fissato abbastanza a lungo le fiamme. Fluttuò, riflettendo il dolore residuo come un mantello dolente attorno a lei, finché non avesse scelto l’ultimo incantesimo utile.
Fare quella magia fu questione d’un batter d’occhi, e il dolore si alleviò ulteriormente. Avrebbe continuato a vivere!
Con quel pensiero, El si accorse che desiderava alzarsi, e d’un tratto si mosse, scendendo dolcemente fra nebbie dorate nella luce…
Vi fu una scossa e un’esplosione di suoni e luci improvvisi. Attraverso una foschia ambrata, fluttuante, poté vedere le nuvole nel cielo limpido del mattino e, più scuro e più vicino, un anello di volti dall’aria sciocca, che la guardavano a bocca aperta. El riconobbe il viso ansioso di Asmartha, la locandiera, e le sorrise.
«S-sì», esclamò con la voce densa di sangue, «sono viva».
Si udì più di un urlo, e nella cerchia di teste si aprirono improvvisamente diversi varchi. El sorrise lievemente ma il suo cuore si riempì di gioia quando la donna ricambiò il suo sorriso, e allungò una mano forte per toccarla.
«Ho visto», esclamò la donna, la voce rauca per la sorpresa. «Eri morta – squartata come un maiale macellato – e ora sei tutta intera. Gli dei esistono davvero… dev’essere così. Ti ho vista guarire, proprio sotto i miei occhi. Gli dei erano qui!»
Il viso di Asmartha si contorse in una risata isterica, ampia, e lacrime le scesero lungo le guance. Sfiorò delicatamente il viso di El con un dito, scosse il capo ed esclamò: «Mai visto nulla del genere. Quale dio ti arride, fanciulla?»
«Mystra», rispose Elmara. «La grande Mystra». Cercò di mettersi seduta, e subito due braccia forti l’aiutarono afferrandola per le spalle. «Sono una sacerdotessa della Signora dei Misteri», spiegò alla locandiera e poi, sfiorata da un pensiero improvviso, aggiunse lentamente: «Ma devo imparare a essere qualcosa di più».
«Cioè?»
«Se devo dar battaglia ai maghi e ai loro soldati, faccia a faccia, incantesimo contro incantesimo», affermò El a bassa voce corrugando la fronte, «devo diventare una vera maga».
«Non sei una maga?»
Elmara scosse il capo. «Non ancora». Forse non lo sarò mai, pensò improvvisamente, se non riesco a trovare un mago che mi insegni… E dove avrebbe mai potuto trovarne uno fidato? Non in Athalantar, dove ogni stregone era un signore mago… e nemmeno nel Calishar. Ci dovevano essere per forza maghi in altre terre, certo, ma da dove iniziare la ricerca?
Braer. Naturalmente. Doveva recarsi nella Grande Foresta e chiedere al suo maestro. Qualunque cosa le avesse detto, sarebbe stata una risposta fidata. «Devo andare», disse la giovane alzandosi in piedi.
Il mondo iniziò a oscillare e a girarle tutt’intorno, El barcollò, ma uno degli uomini di Narthil appoggiò una mano ferma sulla sua spalla e le fece riacquistare l’equilibrio. «I maghi possono trovarmi con i miei incantesimi», affermò Elmara incalzante. «Ogni momento che passa, metto in pericolo tutti voi». Fece un respiro profondo e tremolante, poi un altro, immergendosi nelle nebbie per srotolare un’altra fiamma.
Asmartha fece un passo indietro quando la ragazza si irrigidì, e una luce biancastra emanò dal suo corpo. Poi svanì, e la locandiera vide che la giovane dal naso adunco stava bene, nonostante il vestito lacero, zuppo di sangue, e l’aspetto pallido e provato del suo volto.
«Il mio sacco», mormorò, e si voltò verso la taverna. L’ostessa trotterellò frettolosamente al suo fianco per evitare che cadesse, ma El sorrise e la rassicurò: «Sto bene ora e sono felice come non lo ero da molto tempo. Mystra mi arride».
«Lo credo bene», ribatté il donnone, mentre entravano nel Ricovero. La porta si richiuse con un gran baccano dietro le loro spalle.
Elmara se ne andò com’era venuta, sola, il sacco sulle spalle, diretta a nord-est oltre le colline. La locandiera la guardò allontanarsi, sperando in cuor suo che non le accadesse nulla. Un tempo Asmartha aveva sognato una vita avventurosa, durante la quale avrebbe visto tutte le meraviglie di Faerûn e fatto amicizia con gli elfi… ed ecco che la ragazza dei suoi sogni se ne stava andando.
La donna sorrise guardando la cresta di una collina lontana, mentre la minuscola sagoma scura della sua ospite scompariva oltre la cima. Scosse il capo. Forse gli dei sarebbero stati accanto a quella fanciulla temeraria e l’avrebbero protetta nella sua lotta contro i maghi potenti, e la giovane sarebbe tornata a Narthil un giorno, e avrebbe avuto tempo di raccontare a una locandiera vecchia e grassa tutte le sue avventure… ma più probabilmente ciò non sarebbe mai accaduto.
Asmartha sospirò, si pulì distrattamente le mani nel grembiule e rientrò nella taverna. Ora le conveniva ordinare agli uomini di portare via quei corpi, altrimenti la strada avrebbe emanato un odore nauseabondo prima di sera, e le bestie sarebbero scese in paese per nutrirsi dei cadaveri.
Fu così che un buon uomo brontolone di Narthil si ritrovò chino sul principe morto. Allungò una mano per impossessarsi della spada del guerriero, ma subito dopo si ritrasse impaurito. La spada tremolò, muovendosi autonomamente. Le rune incise sull’acciaio pulsarono e si illuminarono improvvisamente. Poi l’arma si sollevò da terra, come afferrata da mani invisibili, indugiò un istante davanti all’uomo terrorizzato, e volò via, scivolando lentamente nell’aria, di punta e dritta come una freccia scoccata da una balestra. Si diresse a nord-est, verso le colline erbose.
L’uomo l’osservò allontanarsi, deglutì, e mormorò una preghiera a Tempus, Signore delle Battaglie. Dove sarebbero andati a finire, se anche le spade erano magiche? E alla fin fine, che bene aveva fatto quell’arma bizzarra alla carogna che giaceva ai suoi piedi? No, la magia non era cosa di cui fidarsi, mai. L’uomo guardò in basso e contemplò il guerriero morto che fissava il sole con occhi spenti, poi scosse il capo, si sputò sulle mani, e afferrò il Principe Gartos per i piedi. Hmm… la spada era andata persa, ma quegli stivali non erano niente male!
Indisturbata, la spada incantata risalì una collina e proseguì il suo viaggio a nord-est. Un incantesimo operato da lontano le ordinava di ricongiungersi con l’essere di cui per ultimo aveva versato il sangue, una giovane strega finora sconosciuta ai signori maghi. Una donna che aveva sconfitto guardie, messaggeri, maghi, e anche principi di Athalantar – e perciò, doveva morire. La spada continuò a volare, assetata di sangue.
Rifletti mago arrogante: persino il più potente degli arcimaghi non conosce incantesimi abbastanza potenti per ingannare la morte. Alcuni diventano scheletri… e continuano a vivere nella morte. Il resto di noi trova la tomba, e la nostra cenere non è più gloriosa di quella del prossimo. Pertanto quando intimidisci qualche contadino con le tue sfere di fuoco, ricorda: noi tutti abbiamo incantesimi mortali.
L’estate di quell’Anno dei Fiori Sanguinanti era stata calda e umida, e se gli dei fossero stati parsimoniosi con la pioggia autunnale, ci si poteva aspettare un raccolto abbondante lungo il Fiume Shining.
Phaernos Bauldyn, proprietario dell’Ambletrees Arms, era appoggiato allo stipite della porta e guardava l’ultima luce del sole a ponente oltre le colline occidentali. Una terra magnifica, quella… ma sarebbe stato più felice se non fosse stata governata dai maghi che facevano gli spacconi dovunque andassero, trattando le persone come schiavi, o come bestie… o peggio ancora.
Sospirò. Fintantoché non fossero stati tanto pazzi o arroganti da affrontare gli elfi nella Grande Foresta, incantesimo dopo incantesimo, o da offendere qualche dio e da essere giustiziati sul posto, non riusciva a immaginarsi Athalantar libera. Phaernos aggrottò la fronte, sospirò di nuovo, e si voltò a prendere la candela, poiché si stava facendo buio. Si allungò e accese la lampada sopra la porta, evitando abilmente la cera gocciolante, come faceva da sempre. Mentre abbassava la candela e la spegneva, la vide arrancare lungo la strada, diretta verso di lui: una ragazza sola, alta, magra, dai capelli scuri, fradicia, con i vestiti appiccicati al corpo e il mantello inzuppato, che lasciava dietro di sé un rivolo d’acqua.
«Sei caduta dentro, ragazza?» le domandò, avanzando per offrirle il braccio.
«Ho dovuto attraversare il fiume a nuoto», rispose brevemente lei, e poi sollevò la testa e gli sorrise. Era magra e aveva gli occhi infossati, ma il suo sguardo color grigio-azzurro era vigile e vivace sopra il naso adunco.
Phaernos annuì mentre si voltava per farle strada. «Un letto per la notte?»
«Se potessi asciugarmi davanti al fuoco», rispose, «ma ho poco denaro. Voi siete il padrone della locanda?»
«Sì», rispose Phaernos, aprendo l’ampia porta d’entrata. La sua ospite osservò i vecchi scudi inchiodati sopra di essa e sembrò essere divertita.
«Perché me lo chiedi?», le domandò mentre entravano nel locale scarsamente illuminato. Pochi contadini e abitanti del villaggio erano seduti accanto al fuoco, tra le mani un boccale di birra o una ciotola di brodo. Sollevarono lo sguardo lievemente incuriositi.
«Posso pagarvi con incantesimi», esclamò tranquillamente la ragazza fradicia.
Phaernos si allontanò da lei nel silenzio improvviso e affermò brevemente: «Non siamo abituati ai maghi da queste parti. Molti di loro usano la magia solo per aiutare se stessi».
«Allora quei maghi dovrebbero essere privati dei loro poteri», rispose lei.
«E come credi che sia possibile una cosa del genere, ragazza?», le domandò uno degli avventori seduto accanto al fuoco.
«Ho riscontrato che il modo più efficace è ucciderli il più rapidamente possibile, non lasciando loro il tempo di fare incantesimi», ribatté la donna pacatamente. «Non sono amica dei maghi». Il silenzio che seguì quelle parole fu interrotto solo dal debole gocciolio dei suoi vestiti.
Dopodiché, nessuno la importunò, né le rivolse la parola. Phaernos la condusse senza parlare in cucina, le indicò una panca accanto al focolare, e le porse un mantello. Le cuoche si affaccendarono a fornirle stracci per asciugarsi e qualche avanzo di cibo, ma poi tornarono al proprio lavoro. A Elmara quella pace non dispiacque: era esausta. Due colline oltre Narthil, aveva fatto lo sbaglio di usare un incantesimo che la portasse in un solo passo dal punto in cui era alla collina più distante che riusciva a vedere. La magia le aveva succhiato tutte le energie, sfinendola. Poi, la nuotata attraverso il fiume non aveva migliorato la situazione e, infreddolita com’era, non poteva certo avvolgersi nel mantello e dormire all’aperto.
Elmara si asciugò come meglio poté, si avvolse nel mantello, e si assopì, sognando di giacere tremante in un cespuglio bagnato mentre i maghi sotto forma di lupi ululavano e le passavano accanto, cercandola con mascelle spalancate dai denti affilati.
Era passato molto tempo, quando sentendosi toccare delicatamente, si svegliò; l’oste era chino su di lei. La ragazza si irrigidì e si allarmò, pronta a sferrare un attacco o a fuggire.
Phaernos la guardò con volto inespressivo ed esclamò: «La locanda è chiusa per la notte e tutti i clienti sono andati a casa; sei l’unica ospite per stanotte. Dimmi come ti chiami e cosa intendevi per… pagare con incantesimi». Alle sue parole, due delle donne si avvicinarono per ascoltare.
«Sono Elmara», rispose, «vengo da lontano. Non sono una maga, ma so fare qualche incantesimo. Vorreste una cantina più larga?»
Phaernos la guardò in silenzio per un attimo, e poi il suo volto si distese in un sorriso. «Una fogna più capiente sarebbe più utile».
«Posso fare entrambi», asserì Elmara alzandosi, «se mi lasciate dormire qui stanotte».
Phaernos annuì. «Affare fatto, ragazza… se mi segui, ti mostrerò un letto in cui nessun mago ti potrà trovare».
La donna gli lanciò un’occhiata sospetta e domandò a voce bassa: «Che cosa sapete di me?»
L’oste scrollò le spalle. «Nulla… ma un amico mi ha chiesto di badare a Elmara, se mai fosse passata di qui».
«Chi è quest’amico?»
«Si fa chiamare Braer», rispose l’uomo fissandola negli occhi.
El sorrise e si rilassò, lasciando cadere stancamente le spalle. «Prima mostratemi la cantina e il pozzo nero», esclamò. «Può essere che me ne vada prima dell’alba».
Phaernos annuì nuovamente, senza dire nulla, e uscirono insieme dalla porta. Quando questa si richiuse, le due cuciniere si scambiarono occhiate – e simultaneamente si fecero il segno contro lo sfavore di Tyche, e tornarono ai loro piatti.
Al mattino, Elmara si svegliò e vide che i suoi abiti bagnati erano stati appesi ed erano ormai asciutti, e sopra il suo sacco malconcio era stato posto un fardello di stoffa, che si rivelò contenere salsicce, pesce essiccato, e pane secco. Sorrise, si rivestì rapidamente, e uscì dalla stanza, al che vide l’oste dormiente stravaccato su una sedia accanto alla porta, con una vecchia spada sulle ginocchia.
Deglutendo per mandar giù la commozione improvvisa che le chiuse la gola, Elmara scivolò lungo le scale e uscì dalla porta della cucina, oltrepassò il pozzo e si avviò fra gli alberi. Forse sarebbe stato più saggio non aver parlato di maghi o incantesimi la sera precedente… ma la stanchezza le aveva fatto dimenticare la prudenza.
Sarebbe stato meglio allontanarsi da Ambletrees prima che si fosse sparsa voce di una maga. Elmara camminò tra gli alberi fin dove fu possibile, prima di uscire allo scoperto nei campi, diretta a nord verso Far Torel. Tuttavia si tenne alla larga dalla strada. Phaernos aveva detto che molti soldati erano passati di là negli ultimi dieci giorni, per sferrare forse un attacco agli elfi della Grande Foresta, come sperava e temeva nello stesso tempo.
Elmara dubitava che i maghi avrebbero osato tanto, come invece si augurava l’oste. No, era più probabile che ordinassero alle guardie di incendiare il bosco e di uccidere con la balestra qualunque elfo fosse uscito per combattere le fiamme. Sospirò e continuò il suo cammino. Forse avrebbe dovuto trascorrere anni percorrendo Athalantar in lungo e in largo come un’ombra, evitando di cadere nelle grinfie dei maghi e dei loro soldati spavaldi, cercando di imparare tutto il possibile sui maghi che governavano le varie terre. Per vendicare i suoi genitori e liberare il regno, avrebbe dovuto trovare un modo per sconfiggere alcuni dei maghi più forti in luoghi isolati, in modo da avere il minor numero di testimoni possibile e da far sembrare le loro morti opera di maghi nemici o di apprendisti ambiziosi.
Forse, pensò, avrebbe potuto sedurre un mago e convincerlo a fidarsi di lei, e imparare tutto ciò che conosceva prima di distruggerlo. El sospirò, si fermò per un attimo pensierosa, e poi proseguì. Non solo il pensiero le dava il voltastomaco, ma non aveva neanche idea di come far sì che un mago, che poteva avere tutte le donne che voleva, la degnasse di qualcosa di più di un semplice sguardo. Un incantesimo per cambiare aspetto sarebbe stato subito notato, e non era nemmeno particolarmente bella. Rallentò la sua rapida andatura e si mise ad ancheggiare, con le movenze da lince di una prostituta che aveva visto una volta ad Hastarl, ma subito scoppiò a ridere, scuotendo la testa al pensiero di come dovesse apparire.
Avvicinarsi ai maghi come un ladro, allora… Sì, sapeva ancora come fare, nonostante il suo corpo, più leggero, più morbido, e con quei seni e quei fianchi, avesse un diverso equilibrio e non possedesse tutta la forza di un uomo. Doveva fare nuovamente un po’ di pratica.
Presto, pensò improvvisamente. Se Far Torel era un campo armato, ci sarebbero state pattuglie e sentinelle… e si sarebbe imbattuta in loro se avesse continuato a camminare allo scoperto senza fare attenzione. D’altra parte, se qualcuno l’avesse vista avvicinarsi di soppiatto, avrebbe destato sospetti, al contrario di un viaggiatore che percorreva la strada principale. Era tempo di sfidare nuovamente la sorte, pensò tra sé, sorridendo ironicamente. Per abitudine si guardò attorno, e ciò le salvò la vita ancora una volta.
Una spada luccicante solcata da rune stava rapidamente puntando alla sua schiena, una spada che non aveva dimenticato. Il ricordo orribile della sua trafittura le balenò alla mente, e con la bocca piena del gusto amaro della paura, Elmara urlò parole che non poteva scordare. «Thaerin! Osta! Indruu hathan baiarl! La spada si fermò tremolante, virò, e proseguì incerta tra gli alberi. Raggiunse una radura mentre El la guardava, coi pensieri che si affollavano disperatamente nella sua mente, ma poi fece marcia indietro e puntò nuovamente verso la donna.
Mentre la spada si dirigeva rapida al suo viso, balbettò l’unica preghiera a Mystra che le rimaneva e che avrebbe potuto funzionare.
«Namaglos!», gridò l’ultima parola disperatamente, e la lama esplose in migliaia di scintille di fronte a lei. Elmara rabbrividì di sollievo, cadde in ginocchio, e si accorse di avere le guance bagnate di lacrime. Le asciugò rabbiosamente e pronunciò a fatica le parole di un’altra preghiera.
Anche Tyche, a quanto pareva, l’aveva aiutata. Non vi erano maghi nei dintorni. Quella spada era stata sicuramente inviata da qualcuno a Narthil, o magari da un mago distante dalla città, forse da Athalgard. Qualunque fosse la sua origine, nessuno la spiava con sfere magiche, e non sembrava esserci anima viva a portata di incantesimo.
El ringraziò entrambe le dee perché le sembrò la cosa più giusta da fare, poi si alzò in piedi e procedette cautamente. Forse sarebbe stato opportuno cercare un nascondiglio e pregare Mystra per conoscere ulteriori incantesimi.
Othglar sputò pensieroso nella notte, spostò il suo didietro dolorante sul tronco, e poi grugnì e si rialzò impaziente, calciando in aria per sgranchirsi le gambe. Quei maghi erano tutti impazziti: chi mai in Athalantar avrebbe osato attaccare quasi quattromila uomini armati? E poi laggiù, in quel luogo sperduto, a chilometri e chilometri di marcia da Hastarl e dalle postazioni fluviali a sud lungo il fiume!
Othglar scosse il capo e camminò fino all’orlo del promontorio di roccia per guardare in basso. Centinaia di fuochi da campo scintillavano nella valle sottostante. Rifletté su quanto fossero deprimenti e familiari, poi si grattò le costole, sputò nuovamente, si slacciò la brachetta e appoggiò l’alabarda contro un albero.
Stava pensierosamente innaffiando gli alberi, invisibili nell’oscurità sotto di lui, quando qualcuno gli rese l’alabarda, assestandogli un forte colpo sull’orecchio. La testa di Othglar si inclinò da una parte, e l’uomo cadde in avanti nella notte senza emettere alcun suono.
Una mano esile ripose l’alabarda al suo posto mentre, più sotto, si udì brevemente il tonfo della guardia giunta in fondo alla scarpata.
Poi l’aggressore si avvolse infreddolito nel mantello scuro e contemplò lo stesso panorama che Othglar, per nulla impressionato, stava osservando. La vista da maga di Elmara individuò solo tre piccoli punti di luce blu – probabilmente emessi da pugnali o anelli. Nessuno di essi era né vicino, né in movimento.
Bene. Contò i fuochi da campo e sospirò silenziosamente. Vi erano abbastanza soldati da iniziare una guerra contro gli elfi, che avrebbe rovinato sia Athalantar sia la Grande Foresta. Doveva agire… e ciò significava mettere in pratica una delle preghiere più pericolose, più lunghe e più potenti che conoscesse.
Camminando cautamente carponi, Elmara trovò una cavità poco sotto all’orlo della scarpata, un luogo in cui chiunque fosse giunto al posto di guardia non le sarebbe piombato addosso. Si inginocchiò e si svestì, riponendo tutti gli oggetti di metallo dentro il sacco, che allontanò da sé.
Si rivolse verso i fuochi, sussurrò dolcemente una supplica a Mystra, allargò i piedi nudi per ottenere maggiore equilibrio, e iniziò l’incantesimo.
Prendendo il pugnale meno amato dei tanti che possedeva, si ferì i palmi di entrambe le mani fino a farli sanguinare e tenne il coltello proteso orizzontalmente di fronte a lei, immobilizzato fra le mani sanguinanti.
Mentre mormorava le parole magiche, poteva sentire il sangue colarle dai polsi e le forze scemare, sottratte dall’incantesimo.
Tremante per la debolezza, Elmara sollevò il pugnale fino a farlo scintillare alla luce lunare e lo guardò scurirsi e sbriciolarsi lentamente. Quando si frantumò in un mucchio di schegge arrugginite, si pulì le mani sfregandole e si accasciò a terra, soddisfatta. Prima dell’alba, ogni pezzo di metallo tra lei e la foresta sarebbe stato ruggine polverosa e inutilizzabile. Ciò avrebbe dato ai maghi qualcosa a cui pensare. Se anche avessero pensato che la causa era la magia degli elfi, l’attacco alla Grande Foresta non si sarebbe potuto attuare.
Elmara strinse i pugni e volse lo sguardo alla luna, sussurrando un’altra preghiera a Mystra, per curarsi le ferite. Non ci volle molto tempo, ma quand’ebbe terminato si sentì stremata. Tornò dove aveva lasciato il sacco. Doveva rimettersi almeno il mantello e gli stivali, e scomparire, prima che…
«Oho! Che cos’abbiamo qui, eh?»
La voce era roca ma allegra, tenuta bassa per evitare di essere udita. «Eh eh», il suo proprietario uscì ridacchiando dall’ombra della notte e l’afferrò fermamente per un braccio: «Ora capisco perché Othglar non aveva fretta di fare rapporto… vieni qui, fanciulla, e dammi un bacio».
Elmara si sentì trascinata in un abbraccio. Le labbra invisibili che la baciarono erano contornate di barba ispida e solleticante, ma quando poté di nuovo respirare non si ritrasse. Doveva evitare a tutti i costi che il soldato desse l’allarme.
«Oh, sììì», mormorò, come aveva fatto molto tempo addietro quella ragazza ad Hastarl. «Dorme, ora, e mi ha lasciato tanto sola…»
«Oh-oh!», ridacchiò ancora la guardia. «Gli dei sono davvero generosi stanotte!» Le sue braccia si strinsero attorno a lei.
El soffocò una reazione di panico e mormorò: «Baciatemi ancora, Signore». Mentre quelle labbra ispide cercavano le sue, Elmara mise un braccio attorno ai muscoli contratti della schiena dell’uomo, rabbrividì per il gusto della birra pessima che il soldato aveva bevuto, e trovò finalmente ciò che stava cercando: il pugnale infilato nella cintura. Lo sganciò e tenne le labbra dell’uomo attaccate alle sue mentre, con l’impugnatura del coltello, gli assestava un colpo alla nuca con tutta la sua forza.
La guardia emise un suono di sorpresa e si accasciò a terra, atterrando pesantemente nella boscaglia. L’impugnatura del coltello era umida e appiccicosa; Elmara soppresse un improvviso conato di vomito e lasciò cadere l’arma. Far rotolare l’uomo inerte oltre la roccia fu molto faticoso, e le costò sudore, nonostante fosse nuda. «Sei stato fantastico», gli sussurrò ardentemente all’orecchio, poi lo spinse giù dalla scarpata.
El si infilò gli stivali e fece un passo sul muschio morbido prima di legarseli saldamente ai piedi. Poi si avviò furtivamente nell’oscurità, tornando dalla strada per dove era venuta e sperando di non incontrare postazioni di guardia o pattuglie. Le rimaneva qualche incantesimo, certo, ma sarebbe stata a malapena in grado di sferrarlo. Non osò attraversare l’accampamento per raggiungere la foresta – anche se vi fosse riuscita per qualche miracolo degli dei, gli elfi avrebbero potuto ucciderla prima di sapere chi fosse.
No, sarebbe stato meglio tornare al luogo della dea, accanto a quel piccolo laghetto, e cercare Braer da lì, anche se quella zona era situata molto più a ovest.
Inciampando per la stanchezza, Elmara discese lentamente la collina nell’oscurità, domandandosi quanto tempo sarebbe passato prima che fosse svenuta. Sarebbe stato interessante vedere…
Alla fine del secondo giorno nel fienile, la giovane era ancora debole come un gattino appena nato. Era caduta due volte dalla scala, e si era arrampicata a fatica fin lassù, con un avambraccio dolorante, forse rotto. Ora era guarito, ma la preghiera che l’aveva risanato le aveva lasciato un mal di testa lancinante, un senso di vuoto e di nausea, e per riprendersi aveva dormito a lungo.
Nemmeno in quel momento si sentiva pronta a muoversi. «Mystra, proteggimi», mormorò, e si riassopì.
«Per tutti gli dei!»
La voce allarmata la fece svegliare di soprassalto. Elmara voltò la testa.
Il volto barbuto di un contadino meravigliato la stava osservando a mezzo metro di distanza, una lanterna tremolante nella mano. Si sforzò di non ridere per la sua espressione; sicuramente anche lei avrebbe avuto la stessa reazione se avesse trovato una ragazza con indosso solo un mantello e gli stivali nel suo fienile. Ha avuto una reazione dignitosa, pensò.
Quando la donna non riuscì più a trattenere il riso, il contadino si portò nervosamente una mano alla bocca, la trovò aperta, la chiuse, e si schiarì la gola emettendo lo stesso rumore che le pecore facevano nei pascoli sopra Heldon. Di nuovo Elmara scoppiò a ridere.
L’uomo sbatté le palpebre, trovando evidentemente la sua allegria tanto sconcertante quanto la sua presenza, e mormorò: «Uh… er… aghumm. Buona sera, uh… signorina».
«Che la fortuna sia con la fattoria e con tutto ciò che contiene», esclamò formalmente El, rotolandosi per averlo di fronte. Il contadino arrossì, scostò riluttante gli occhi, e scese frettolosamente dalla scala.
Oh, sì – questi. Elmara si avvolse nel mantello e si mise in ginocchio per guardare giù oltre il bordo del fienile. L’uomo barbuto sollevò lo sguardo come se si aspettasse che la donna si trasformasse improvvisamente in un gatto della foresta e balzasse su di lui. Sollevò un forcone e lo brandì con presa incerta.
«Ch-chi siete, ragazza? Come siete arrivata qui? State… state… bene?»
La fanciulla esile dal naso adunco gli sorrise debolmente, e affermò: «Sono una nemica dei maghi malvagi. Nascondetemi, se volete».
Il contadino la guardò terrorizzato, deglutì, si drizzò e ribatté: «Mi darò da fare affinché stiate al sicuro». Poi aggiunse goffamente: «Se c’è qualche cosa che io… o i miei uomini… possiamo fare… uh, non osiamo sfidarli, con i loro incantesimi e il resto…»
El gli sorrise di nuovo. «Mi avete offerto rifugio e parole amichevoli, e per me è sufficiente. È tutto ciò che molti in Athalantar necessitano, ma non ricevono».
L’uomo sogghignò improvvisamente, fiero e compiaciuto come se fosse stato nominato cavaliere, e si girò su se stesso. «Torno subito, ragazza», esclamò esitante.
«Non dite a nessuno che sono qui!», gli sussurrò con urgenza Elmara.
L’agricoltore annuì vigorosamente e uscì. Poco dopo tornò con una tazza di latte fresco, un avanzo di pane, e una fetta di formaggio.
«Vi ha visto qualcuno?», gli domandò la giovane, col mento appoggiato al bordo del fienile.
L’uomo scosse il capo. «Pensate che voglia guardie o maghi per tutta la fattoria, che bruciano ciò che non distruggono, e usano la magia per farmi parlare? Niente paura, fanciulla!»
Elmara lo ringraziò. Lui non vide la sua mano, ardente di fuoco sotto il mantello, recuperare il suo aspetto normale. «Che gli dei siano con voi questa notte», esclamò con voce rauca e commossa.
L’uomo spostò i piedi, fece un inchino imbarazzato, e rispose: «E con voi, ragazza. E con voi». Sollevò la mano in segno di saluto come erano soliti fare gli uomini nei campi, e si affrettò a uscire.
Una volta uscito, Elmara si coprì col mantello e si mise a guardare dall’abbaino con occhi scintillanti. Osservò la luna levarsi alta nel cielo, e pensò a molte cose.
Se ne andò prima dell’alba: era meglio essere prudenti.
Il suo viaggio a ovest era stato rapido. Si allontanava in caso qualcuno avesse denunciato la sua presenza. Le truppe stavano abbandonando Far Torel, verso le postazioni più sicure del sud. Sembrava che i piani dei maghi di versare sangue elfo fossero stati abbandonati… almeno per il momento. Quelle notizie rallegrarono Elmara nel suo viaggio, mentre collezionava vesciche che curava solo quando non riusciva più a sopportarle.
Camminava perlopiù all’alba e al tramonto, attraverso la campagna. Quando voltò a nord verso Heldon, vide che la strada era sbarrata da numerosi accampamenti di soldati, e da un gruppo di apprendisti guidati da numerosi maghi guardinghi, e con un sospiro di rassegnazione decise di dirigersi a ovest nella Valle Infestata, e raggiungere da lì la Grande Foresta. Non avrebbe mai pensato che la lotta contro i maghi avrebbe comportato tanto camminare…
In un tardo pomeriggio si ritrovò di fronte un’altra battaglia. Mentre si inerpicava su per una collina, si soffermò a osservare curiosa una breccia aperta di recente nella staccionata di una fattoria. Il campo era vuoto, ma la sommità del pascolo successivo era un luogo molto affollato. Un gruppo numeroso di guardie di Athalantar accerchiava una figura solitaria – una donna con una tunica – e le scagliava contro dardi di balestra.
Un vecchio era appoggiato a un bastone robusto accanto al cancello che separava i due campi. Le sue labbra tremavano di rabbia e i suoi occhi fiammeggiavano di odio. Quando Elmara giunse accanto a lui, voltò la testa come un leone furioso e le bloccò la strada con il bastone.
«Stai indietro, ragazza», la avvertì. «Quei cani sono assetati di sangue – e ti uccideranno senza tanti complimenti. Non avrebbero osato farlo quand’ero più giovane, ma gli dei e il passare degli anni mi hanno tolto tutto, tranne la mia intelligenza e questa fattoria…»
La donna sulla sommità del pascolo conosceva la magia; le frecce infatti venivano deviate da scudi invisibili, e la maga evocava piccole sfere di fuoco che scagliava contro alcuni dardi. Abbassò le spalle come fosse molto affaticata, e quando scosse la testa per togliersi dagli occhi i lunghi capelli aggrovigliati, il suo gesto denotò stanchezza. I soldati stavano logorando rapidamente la sua resistenza.
Elmara batté una mano sul braccio dell’uomo, girò intorno al bastone e si avviò rapidamente verso il cerchio di guardie. Mentre si avvicinava, una freccia colpì la maga a una spalla. La donna vacillò e cadde in ginocchio con un singhiozzo, portandosi una mano alla macchia scura che si allargava a vista d’occhio nel punto in cui fuoriusciva il dardo.
«Prendetela», ordinò il capitano al di fuori dell’accerchiamento, con un gesto imperioso della mano avvolta da un guanto di ferro.
Le guardie si lanciarono verso di lei, ma la donna stava mormorando qualcosa, facendo gesti rapidi con una mano insanguinata. I soldati al trotto rallentarono, e uno di loro si accasciò al suolo, seguito subito da un secondo. Poi da un terzo, e da un quarto.
«Indietro!», ruggì il capitano. «Indietro, prima che vi faccia addormentare tutti!» Quando gli uomini indietreggiarono formando un cerchio scomposto e lasciando molti dei loro compagni sparpagliati a terra, il comandante lanciò loro un’occhiata, e ringhiò: «Uccidetela. Preparate le balestre!»
La maga in ginocchio guardava con occhi cupi, impotenti, mentre i soldati intorno a lei sollevavano e caricavano le balestre.
Elmara si sedette rapidamente sul terreno fangoso e pronunciò una delle preghiere più potenti che conosceva, scegliendo accuratamente il tempo.
«Fuoco!»
Al comando del capitano, i soldati scoccarono i dardi, ed Elmara si protese, gli occhi fiammeggianti, per vedere l’effetto del suo incantesimo. Vi fu un rapido scambio di posizioni: il comandante delle guardie si ritrovò nel mezzo del cerchio e la maga al suo posto fuori da esso. Una ventina di frecce colpirono il bersaglio, e molte di esse penetrarono l’armatura opulenta e incontrarono la faccia, non protetta dalla visiera. L’uomo barcollò e urlò, trafitto da numerosi dardi, quindi sollevò la mano e lentamente, cadde a faccia all’ingiù, immobile.
Le guardie stavano ancora guardando sbalordite il corpo del comandante quando El sferrò un secondo incantesimo. Tutte le armature assunsero un colore rosso-scuro, e gli uomini iniziarono a grugnire, a dimenarsi, e a gridare, scuotendosi disperatamente e cercando di togliersi le bardature d’acciaio.
Diventavano calde, sempre più calde. Ora gli uomini stavano urlando. La puzza di carne e capelli bruciati si unì all’odore pungente del metallo, mentre i soldati gettavano disperatamente pezzi di armatura in tutte le direzioni, e si rotolavano nudi nel prato.
Elmara si voltò e tornò dal vecchio. Questi trasalì al suo arrivo, stringendo il bastone al petto come per difendersi, ma rimase immobile.
«Ora dovreste essere in grado di affrontarli», affermò tranquillamente, guardando gli uomini che gridavano e si contorcevano, e aggiunse: «Ho paura di avervi rovinato gran parte del raccolto».
Dal nulla, raccolse una manciata di gemme, le mise nella mano del vecchio sbalordito e lo abbracciò, sussurrandogli all’orecchio grande e peloso: «Sembrate un uomo buono. Cercate di stare in vita; avrò bisogno dei vostri servizi quando questa terra sarà mia».
Poi si voltò e si allontanò.
Darrigo Trumpettower rimase immobile con le gemme nella mano, che apparivano come tante lacrime versate, e la fissò a lungo.
L’esile donna dal mantello consunto attraversò il campo a grandi passi, diretta a ovest. La maga sanguinante fluttuava dietro di lei, come trascinata su un letto leggero e invisibile.
Solo una guardia si mosse nel tentativo di fermarla, sollevò la balestra, la caricò, e l’appoggiò alla spalla. L’uomo sentì la mano che deviava la sua arma, ma non il bastone robusto che lo fece accasciare al suolo, né altro. Il dardo scoccò verso il sole, e nessuno vide se mai lo avrebbe raggiunto.
Darrigo Trumpettower, in piedi accanto al soldato morto, grugnì con sguardo feroce: «Almeno posso esser fiero di qualcosa prima di morire. Forza, Lupi! Venite a stroncare un vecchio, e vantatevi come degli eroi!»
Quello era il momento di usare una preghiera che aveva sempre voluto tentare ma per la quale non aveva mai trovato l’occasione giusta. I dettami di Mystra erano abbastanza severi: le sue sacerdotesse non potevano mai invocarla a proprio beneficio, e Braer l’aveva avvertita di quante poche risorse avesse a disposizione. Ora però sentiva che era arrivato il momento adatto.
La litania per fermare le emorragie non era fra quelle più usate da Elmara, pertanto dovette prima pregare la dea. La notte era ormai scesa sulla Valle Infestata quando la giovane prese la maga ferita tra le sue braccia e pronunciò le parole di un’ultima preghiera che le avrebbe trasportate nell’unico rifugio sicuro a cui riusciva a pensare: la grotta sotto il pascolo che dava sulle rovine di Heldon.
Quando le colline illuminate dalla luna scomparvero e si ritrovarono immerse nell’oscurità della terra Elmara sorrise stancamente. Non aveva mai sentito parlare di una signora maga, e le guardie, d’altra parte, non avrebbero osato attaccarne una. Se la maga fosse vissuta, avrebbe potuto diventare la guida e l’alleata di cui El necessitava nella sua lotta per la libertà di Athalantar.
«Da sola, non posso sconfiggere i maghi», mormorò, ammettendolo finalmente. «Gli dei sanno che sono a stento in grado di tenere a bada una spada incantata!»
Molto tempo dopo, Elmara sospirò disperatamente. La donna non si era svegliata, e la sua carne guarita era bollente sotto le sue dita. Il dardo era forse avvelenato? Le preghiere della giovane avevano fatto sciogliere la freccia, fermato l’emorragia, e cicatrizzato la spalla lacerata… ma in realtà, sapeva poco sulle formule di guarigione: Mystra offriva ai suoi fedeli preghiere per evocare barriere e incantesimi che spazzavano via i nemici e facevano crollare gli ostacoli, ma era parsimoniosa in ordine alle magie guaritrici.
Ancora incosciente, la donna giaceva su un letto di mantelli. La sua carne febbricitante era madida di sudore, e di tanto in tanto mormorava parole che El non riusciva a cogliere, e muoveva lievemente le membra sui mantelli fradici. La sua pelle – persino le labbra – era cadaverica.
Tutti gli sforzi di Elmara per concentrare la sua volontà e infondere guarigione nel corpo della maga fallirono clamorosamente. El avrebbe potuto trasformare incantesimi di guarigione memorizzati in energia curativa per se stessa… ma Mystra non le aveva fornito i mezzi per aiutare altri individui.
La donna stava morendo. Forse sarebbe sopravvissuta fino al mattino o un po’ più a lungo,… o forse no. Elmara non sapeva neanche il suo nome. Il corpo della maga si agitò nuovamente, ricoperto da uno strato di sudore che si riformava in continuazione, indipendentemente da quante volte lo asciugasse.
Elmara guardò la donna che aveva salvato, e le tamponò la fronte. Doveva fare di più, oppure al mattino si sarebbe trovata nella caverna con un cadavere. Con improvvisa risolutezza, prese la borsa della maga – che conteneva una buona manciata di monete – e uscì fuori dalla grotta, lanciando un incantesimo che avrebbe protetto l’entrata dai lupi.
A sud di Heldon, avrebbe dovuto esserci ancora un santuario dedicato a Chauntea, Madre delle Fattorie e dei Campi. Forse, con un po’ di denaro avrebbe potuto convincere il sacerdote a seguirla e a guarire la donna. Ma sarebbe stato troppo sperare che avesse tenuto la bocca chiusa; in ogni caso, avrebbe dovuto cercarsi un nuovo nascondiglio.
Elmara sospirò trucemente e si affrettò a scendere dal pascolo, per quanto veloce potesse procedere nel buio della notte. Elminster da piccolo aveva spesso giocato in quei luoghi, perciò ora non le era difficile trovare un passaggio fra gli alberi. Ma quanto tempo era passato ormai?
Terminati gli alberi, si ritrovò di fronte le rovine di Heldon, e si fermò bruscamente. Più in là brillavano alcune luci: varie torce bruciavano dove non avrebbero dovuto. Non si muovevano come se fossero tenute da uomini in cerca di qualcosa, ma erano fisse e alte, come se ardessero costantemente. Che cos’era accaduto alle ceneri del suo villaggio?
Passata la stanchezza, Elmara procedette guardinga, con passo felpato, mantenendosi nell’ombra più scura. Di fronte a lei si ergeva una palizzata, un muro scuro che si estendeva a perdita d’occhio, che circondava… che cosa circondava? Percorrendolo con lo sguardo, la giovane vide un elmo in un angolo, dove il muro girava.
Cautamente indietreggiò, e ripercorse i suoi passi nella notte, fino a raggiungere un masso sul quale si arrampicava spesso da bambina. Celata alla vista di chiunque guardasse dalla palizzata, fece un incantesimo che la trasformò in un’ombra silenziosa e si diresse nuovamente verso la palizzata.
In tal modo poteva muoversi rapidamente, senza preoccuparsi di alcun rumore. Si affrettò a perlustrare il perimetro delle mura. Al loro interno vi era una piazza, alla quale si poteva accedere da due cancelli. La fessura sotto uno di essi era sufficientemente larga da potervi passare sotto forma di ombra… ed ecco che era entrata. Si alzò in piedi nell’ombra del cancello e si guardò rapidamente intorno. L’incantesimo non sarebbe durato in eterno, e non desiderava affatto combattere per uscire da un accampamento difeso da chissà quanti soldati.
Sicuramente ve ne erano in quantità: due baracche piene, come minimo, a giudicare da ciò che riusciva a vedere, sembravano guardiole. Legname tagliato era impilato ovunque; Elmara scrollò stizzosamente il capo. Se fosse stata un mago elfo infuriato, una sfera di fuoco oltre la palizzata avrebbe trasformato quel campo debolmente illuminato in un’enorme pira funebre. Forse, non era un cattivo suggerimento.
Magari in un secondo tempo. Aveva un lavoro da svolgere, come sempre. Dove vi sono orde di soldati, vi sono sempre sacerdoti di Tempus, o di Helm, o di Tyr, o di Tyche, o dei quattro contemporaneamente, pensò la giovane… di Tempus senza dubbio.
L’ombra corse dietro le baracche e i magazzini, cercando un angolo dove una spada si ergeva conficcata in un blocco di legno, fungente da altare. Ah… ecco, laggiù. Ma dov’era il sacerdote? El si avvicinò silenziosa all’edificio più vicino. All’interno vi era una stanza con armature ammaccate appese alle pareti, trofei di Tempus, senza dubbio, e l’uomo sudicio che dormiva sotto di esse puzzava di birra. Se quello era il sacerdote, pensò disgustata, la sua impresa era già fallita, e avrebbe fatto meglio ad uscire e a cercare il santuario di Chauntea prima che l’incantesimo svanisse.
Ma prima… al centro vi era una casa splendida. Il covo dei maghi locali, certamente, da dove proveniva un baccano smorzato; forse stavano bevendo e il sacerdote avrebbe potuto trovarsi con loro.
La casa era sorvegliata, ma le due guardie erano annoiate e risentite per i festeggiamenti, e una si incamminò lentamente verso il compagno per scambiare due chiacchiere. L’ombra raggiunse la postazione abbandonata dal soldato e poi la porta. Quindi scivolò oltre le tende e i servitori e si ritrovò in una stanza grande e rumorosa.
Un globo fluttuante di luce magica faceva concorrenza alle numerose candele che illuminavano il locale sontuoso, affollato di uomini in tuniche eleganti e di donne vestite esclusivamente di gemme. Tutti i membri dell’allegra compagnia erano sdraiati su cuscini o divani, rovesciando più vino di quanto non ne tracannassero e parlando a gran voce di ciò che avrebbero fatto nelle ore e nei giorni a venire, e in che modo.
Alla vista di Elmara, quel luogo era inondato di luce blu, ma una stanza interna, parzialmente nascosta da una delle molte porte in fondo al locale, brillava di una luce ancora più intensa. Non volendo rischiare di vedersi privata della sua ombra da qualche incantesimo protettivo, o di essere vista da qualcuno con il potere di smascherare i travestimenti magici, El scivolò rapidamente lungo la stanza della festa e raggiunse la porta invitante.
La stanza che stava al di là era riccamente ammobiliata e pregna di incantesimi che agli occhi della giovane maga sembrava immersa in una fitta tenebra blu. El percorse furtivamente il tappeto e passando sotto un arco si ritrovò in una camera da letto, occupata quasi interamente da un enorme letto a baldacchino.
Ora, se fossi un mago e dovessi nascondere un mucchio di strumenti magici, dove…? Sotto il letto, naturalmente.
Le sponde del letto alto non rappresentavano di certo una barriera per un’ombra, e lo spazio sottostante costituiva quasi un’altra piccola stanza nella quale si poteva stare seduti. Sotto il letto vi erano uno scrigno e due casse, e il bagliore blu che fuoriusciva da essi era quasi accecante. Quando Elmara si protese per sbirciarvi dentro, il suo incantesimo svanì, e ricadde con un tonfo sul tappeto impolverato, a carponi. Si irrigidì, rimanendo in ascolto, ma non udì alcun rumore d’allarme, e non vide nessuno entrare nella stanza.
La cassa piccola conteneva forse gemme e monete, mentre quella più grande e lo scrigno era più probabile che ospitassero pozioni medicamentose, se mai ve ne fossero state in quella stanza. Se ciò che si mormorava ad Hastarl fosse stato vero, con esse un mago era in grado di salvare gli uomini feriti e guadagnarsi la loro gratitudine, oppure poteva ricattarli in cambio dei loro servizi… e senza di esse, un mago avrebbe potuto trovarsi in balia di sacerdoti o di uomini inferiori a conoscenza della magia medicamentosa, che avrebbero potuto fare altrettanto con lui.
Qual era tuttavia il contenitore giusto? El estrasse il pugnale, e si tastò dietro un orecchio in cerca di una delle due forcine che portava con sé. Poche abili mosse, e il coperchio della cassa emise un clic. Si sdraiò sul pavimento accanto a essa, e sollevò cautamente il coperchio con la punta del coltello.
Non accadde nulla. Allora sollevò guardingamente la testa per guardarvi dentro, ma tutto ciò che vide erano monete. Bah!
Si accinse ad aprire lo scrigno, quando una persona entrò nella stanza, no, erano due persone: un uomo che stava ridendo pregustandosi qualche cosa e qualcun altro. Una ragazza per i suoi piaceri, senza dubbio. La porta sbatté rumorosamente, e venne chiusa con un chiavistello.
Il letto scricchiolò proprio sopra la testa di Elmara. Chinandosi involontariamente, la giovane corrugò le labbra e smise di armeggiare col lucchetto. Avrebbe sicuramente emesso un forte clic quando l’avrebbe forzato.
Non dovette attendere molto a lungo; l’uomo scoppiò a ridere per le proprie battute di spirito, e i suoi ruggiti furono ampiamente sufficienti a coprire il rumore dello scrigno che si apriva. Svuotarne il contenuto sul tappeto mentre la coppia si dondolava e si rincorreva sul letto proprio sopra di lei richiese tutta la sua abilità e la sua pazienza, ma il lavoro di El venne ricompensato: lungo un lato, sotto una tunica emanante luce magica alla sua vista, vi era una fila di tubetti metallici, ognuno tappato con un turacciolo sigillato con ceralacca, e diligentemente etichettato. Uno conferiva il potere di volare, e gli altri erano tutti unguenti medicamentosi. Sì!
Con un sorriso trionfale, El li infilò nei suoi stivali e richiuse cautamente lo scrigno, gettando un’occhiata anelante al libro di incantesimi fissato al coperchio. No; il suo compito ora consisteva nell’uscire di lì, più velocemente possibile, senza far scattare alcun allarme.
Non era cosa facile. Non osava neanche sperare di poter fare un incantesimo sotto il letto di un mago, nemmeno se questi era in preda alle passioni, senza essere udita.
E poi lo udì grugnire, sopra la sua testa, ed esclamare: «Ahhh, sì, per tutti gli dei! Ora fuori, ragazza, fuori! Ho ancora lavoro da fare prima di dormire! Rimani nei dintorni, intendo, sarò di nuovo da te più tardi!» Chiavistello e porta si aprirono, poi vennero nuovamente chiusi.
Elmara si irrigidì sotto il letto. Conosceva alcuni incantesimi mortali, ma una sfera di fuoco non è consigliabile se si vuole sopravvivere a una lotta in una stanza piccola… e lo è ancor meno se si desidera farlo senza allertare una fortezza brulicante di soldati.
Ma possedeva anche qualcosa di più piccolo: una fiamma particolare. Hmmm.
E le tende si aprirono davanti a lei, e un uomo inginocchiato allungò la mano sotto il letto, cercando le sue ricchezze.
Fissò sbalordito Elmara, poi allungò rapidamente le mani e l’afferrò per le orecchie, trascinandola verso di lui.
«I miei omaggi», esclamò lei, poi mormorò le poche parole dell’incantesimo, e lo baciò.
Una fiamma uscì dalle sue labbra socchiuse ed entrò nel corpo del mago che si dimenò incoerentemente. L’uomo si impietrì, l’afferrò convulsamente, e poi si accasciò sul tappeto, battendo i denti quando il mento urtò il pavimento.
Un po’ di fumo fuoriuscì dalla bocca e dalle orecchie del morto, mentre la giovane trascinava lo scrigno accanto a lui, lo riapriva, e gli infilava la testa dentro, in modo che quando l’avessero trovato avrebbero potuto pensare che qualcosa in esso contenuto l’avesse ucciso.
Freddamente, El uscì da sotto il letto. La porta era chiusa a chiave. Ottimo. Si chinò di nuovo sotto il baldacchino e si impadronì del libro di incantesimi. Scorrendo le pagine rapidamente, trovò l’incantesimo che cercava.
Era molto simile all’incantesimo-preghiera che le aveva insegnato Braer. Inginocchiandosi con il tomo aperto davanti a lei, pregò ferventemente la Signora dei Misteri.
Una luce sembrò pervaderla e improvvisamente si ritrovò appena fuori dal suo nascondiglio sopra il pascolo, il libro fra le mani. «I miei ringraziamenti, Mystra», esclamò rivolta alle stelle, poi entrò.
Il profumo speziato della zuppa di tartaruga inondò la caverna. Intenta a evitare che bruciasse, Elmara sentì appena la voce flebile proveniente da dietro le sue spalle.
«Chi… chi sei?»
Si voltò e vide la maga completamente sveglia per la prima volta. Due grandi occhi incavati si fissarono nei suoi. La donna sollevò una mano per spostare una ciocca opaca di capelli dal viso, e il suo braccio tremò. Doveva esserci qualcosa sulla punta di quel dardo. Persino con le pozioni, la maga aveva impiegato molto tempo a guarire.
El continuò a mescolare la zuppa con un osso lungo – tutto ciò che rimaneva di un cervo ucciso a suon di incantesimi giorni addietro – e rispose: «Elmara di Athalantar. Io… venero Mystra». Quegli occhi enormi rimasero fissi nei suoi, quasi volessero rimanere aggrappati a un ultimo appiglio, e la giovane aggiunse: «E sarò nemica dei signori maghi di questo regno finché non saranno tutti morti, o io stessa non lo sarò».
La donna emise un sospiro lungo e tremante, e si riappoggiò al muro della grotta. «Dove… che posto è questo?»
«Siamo in una caverna a nord di Athalantar» le rispose El. «Ti ho portata qui più di dieci giorni fa, dopo averti salvata dai soldati nella Valle Infestata. Come hai fatto a trovarti in mezzo a quel cerchio di frecce?»
La maga alzò le spalle. «Io… appena arrivai in Athalantar, incontrai una pattuglia di soldati. Questi fuggirono, corsero a chiamare rinforzi, e tornarono per uccidermi. Da ciò che dissero, sembra che qualcuno avesse dato loro ordini di uccidere qualunque mago non fosse un signor mago. Ero stanca e distratta… e fui sopraffatta».
Sorrise e allungò una mano per toccare quella di Elmara. «Grazie», esclamò debolmente, lo sguardo scuro e profondo sul viso bello e bianchissimo. «Sono Myrjala Talithyn, di Elvedarr in Ardeep. Mi chiamano “Occhiscuri”».
El annuì. «Zuppa?»
«Oh, sì», rispose Myrjala, mettendosi seduta contro la parete della caverna. «Ho vagabondato», affermò lentamente, «nei miei sogni, e ho visto molte cose».
Elmara attese, ma la donna non aggiunse altro, perciò immerse una ciotola – tutto ciò che aveva – nella zuppa, ne asciugò i fianchi grondanti, e la porse a Myrjala. «Che cosa ti ha condotto in questo regno?», domandò.
«Stavo cavalcando per visitare i territori elfi a nord del Torrente Unicorno, quando incontrai alcuni soldati, che uccisero il mio cavallo. Dopodiché, ho proseguito a piedi fino al luogo dove mi hai trovata», rispose la donna, guardandosi attorno. «Ora dove sono?»
«Sopra le rovine di Heldon», ribatté El semplicemente, leccandosi la zuppa dalle dita.
Myrjala annuì, bevve il brodo fumante e rabbrividì perché era troppo caldo. Poi sollevò i suoi liquidi occhi neri per guardare nuovamente la giovane, ed esclamò: «Ti devo la vita. Come posso ricambiare?»
Elmara si guardò le mani, e le vide tremare per l’eccitazione. Risollevò lo sguardo e mormorò: «Insegnami. So fare qualche incantesimo, ma sono una sacerdotessa, non una maga. Devo conoscere a fondo la magia, se voglio sperare di distruggere un giorno tutti i maghi malvagi».
Alle ultime sue parole Myrjala inarcò le sopracciglia scure, ma si limitò a esclamare: «Dimmi che cosa hai imparato finora».
Elmara scrollò le spalle. «Ho imparato a fulminare i nemici, e a usare la loro rabbia contro se stessi… So creare e scagliare fuoco, e saltare di luogo in luogo, diventare un’ombra, e arrugginire o dominare l’acciaio. Ma non so nulla delle strategie magiche contro un nemico sveglio, o dei dettagli sugli effetti di molti incantesimi, o di come meglio combinarli fra loro, o…»
Myrjala annuì. «Hai imparato molto; tanti maghi neanche s’accorgono di avere tali lacune e se qualcuno osa farglielo notare, lo uccidono in men che non si dica, invece di ringraziarlo».
Bevve un altro sorso di zuppa e aggiunse: «D’accordo, ti insegnerò. È meglio che qualcuno lo faccia; Faerûn brulica già di maghi selvaggi. Quando avrai imparato a fidarti di me, potrai dirmi perché vuoi a tutti i costi uccidere i maghi di queste terre».
Molti pensieri si rincorsero nella mente di El. «Ah», iniziò, «Io…»
Myrjala la interruppe con un gesto della mano. «Più tardi», affermò con un sorriso. «Quando sarai pronta». Fece una smorfia, e aggiunse: «E quando avrai imparato quanto sale va in una minestra».
Risero insieme, per la prima volta.
Sappi, apprendista, e tienilo bene a mente: non esiste pazzo più grande di un mago. Più è potente, più è folle, perché noi che esercitiamo la magia viviamo in un mondo di sogni, e inseguiamo sogni… e alla fine i sogni ci distruggono.
E fuoco fu, vorticante di vita furiosa dove l’aria era stata vuota pochi attimi prima. Crebbe rapidamente in due punti dell’ampia caverna, finché il viso intento di Elmara non fu illuminato da due enormi sfere infuocate. Si udì un doppio ruggito, sempre più alto e sempre più furioso mentre le sfere turbinanti diventavano sempre più grandi. El spostava lo sguardo dall’una all’altra, il sudore le scorreva lungo il volto, come acqua sulle rocce, e le gocciolava regolarmente dal mento. Dall’altro lato della caverna, Myrjala stava immobile, con sguardo inespressivo. Le sfere gemelle divennero ancora più grandi, e sembrarono cogliere le fiamme dall’aria a mano a mano che giravano su se stesse.
«Ora!», sussurrò El, più a se stessa che all’insegnante, e congiunse le braccia tremanti.
Ubbidientemente, le due sfere di fuoco enormi si mossero, convergendo attraverso la caverna. Elmara fece un cauto passo indietro senza distogliere lo sguardo dalle fiamme, e poi un altro ancora. Era meglio essere distanti quando le due sfere si sarebbero toccate!
Vi fu un lampo accecante, e lingue di fuoco deformate balzarono selvaggiamente in tutte le direzioni; la caverna fu scossa dalla forza di uno scoppio devastante. Elmara venne raggiunta da un calore insopportabile, e la potenza dell’esplosione la investì, la sollevò da terra e la scagliò indietro contro… il vuoto. La violenza della deflagrazione la superò ruggendo, e scemò lentamente. La giovane si ritrovò immobile a mezz’aria mentre gli echi dello scoppio rimbombavano e rotolavano tutt’intorno a lei e frammenti di roccia e polvere cadevano da un soffitto invisibile nell’oscurità.
«Myrjala?», domandò ansiosamente al buio. «Maestra?»
«Sto bene», rispose una voce calma da un punto molto vicino, ed El si sentì rigirare fino a incontrare gli occhi intensi della maga più anziana, che fluttuava in piedi nell’aria accanto a lei. Myrjala si protese, le toccò il braccio e insieme iniziarono a discendere. «Per proteggere entrambe», spiegò, «ho dovuto tessere il mio scudo magico intorno a te, e poi farmi attrarre da esso; le mie scuse, se ti ho spaventata».
El agitò una mano mentre raggiungevano insieme il pavimento della caverna. «Le mie scuse», affermò, «per aver scatenato un inferno troppo potente per questo luogo…»
Myrjala sorrise, e congedò quelle parole a sua volta con un gesto della mano. «Era ciò che volevo vedere. Hai seguito perfettamente le mie istruzioni, cosa che molti apprendisti non riescono a fare nel doppio dei tuoi anni di studio».
«Ho acquisito esperienza nel seguire i dettami per diventare sacerdotessa», ribatté El, adagiandosi sul pavimento di pietra ancora caldo.
La donna alzò le spalle. «Come molte sacerdotesse avventuriere, forse. Ti è stato dato uno scopo, e hai plasmato il tuo cammino verso la tua meta». Si chinò a raccogliere la sua tunica dal pavimento e con essa si asciugò il volto. «La vera obbedienza si impara quando trascorri anni faticando per svolgere un compito infinito, con poche speranze di miglioramento o ricompensa, seguendo ordini meschini di individui insignificanti, che hanno padroneggiato la frusta o la lingua da tiranno senza veri poteri per meritarsi un tale vanto».
«È ciò che ti è accaduto?», domandò El incalzante, e Myrjala roteò gli occhi.
«Più di una volta», rispose. «Ma non tentare di deviare la mia attenzione dalla tua formazione: sai sferrare incantesimi al pari di alcuni arcimaghi, ma non li padroneggi ancora tutti». Si protese e assunse un’espressione seria. «Chi veramente padroneggia la magia sente l’incantesimo quasi come una cosa viva, e pertanto ne riesce a controllare minuziosamente gli effetti, e può usarlo in modi originali e inaspettati, anche per modificare le magie di altri. Io riesco a capire quando un apprendista sviluppa un tale sentimento per un incantesimo… e finora hai acquisito quest’intimo controllo per meno della metà di quelli che sai fare».
Elmara annuì. «Non sono abituata a parlare della magia in questi termini… tuttavia ti capisco. Continua».
La maga annuì a sua volta. «Quando torni alla preghiera, invocando Mystra perché ti infonda potere, vedo armonia in ogni incantesimo, ma si tratta di una percezione della dea e del flusso di energia magica primitiva, non di una padronanza della struttura e dell’orientamento dell’incantesimo in corso».
«E come dovrei fare per acquisire tale dominio su tutti i miei incantesimi?»
«Come sempre, esiste un unico modo», rispose Myrjala, scrollando le spalle. «La pratica».
«Come in “pratica fino alla nausea”», esclamò la giovane con un sorriso forzato.
«Adesso ci capiamo», rispose la maga con un sorriso zelante. «Vediamo come te la cavi nel creare una catena di fulmini che colpisca e segua le sfere di luce che ora evocherò… verde è mancato, mentre se diventano color ambra significa che hai colpito il bersaglio».
Elmara emise un grugnito e indicò i rivoli lucenti di sudore che scorrevano sul corpo ricoperto di polvere. «Non mi dai tregua?»
«Solo nella morte» rispose calma Myrjala. «Solo nella morte. Cerca di non dimenticare che quando molti maghi lo fanno… è troppo tardi».
«Perché siamo venute qui?», domandò Elmara, guardandosi intorno nell’oscurità fredda e umida. Myrjala le posò una mano rassicurante sul braccio.
«Per imparare», fu tutto ciò che disse.
«Imparare che cosa, esattamente?», chiese El, osservando dubbiosa iscrizioni che non sapeva leggere, casse di roccia dalla forma bizzarra e scrigni di pietra liscia come il vetro, irti di corni incurvati verso l’alto. Per quanto strane fossero quelle forme, era in grado di riconoscere una tomba quando vi si trovava all’interno.
«Quando non sferrare incantesimi e cercare di distruggere», rispose Myrjala, la voce echeggiante da un angolo distante della stanza. Granelli di luce vorticanti le avvolsero improvvisamente il corpo e quando svanirono anche la maga era scomparsa.
«Maestra?», chiamò El, più tranquilla di quanto non lo fosse nella realtà. In risposta, nell’oscurità vicina le iscrizioni, fino a quel momento semplici solchi nelle pareti di roccia e nel pavimento, si riempirono di un’improvvisa luce verde-smeraldo. El si voltò a guardarle, domandandosi se riuscisse a cogliere qualche significato e poi, con un brivido improvviso di paura, vide fili di luce sollevarsi da esse, condensarsi e avvolgersi per confluire in un…
Elmara preparò affrettatamente l’incantesimo distruttivo più potente: e rimase in attesa, carica di tensione.
Di fronte a lei, il fantasma di un uomo si stava formando dal nulla: alto, magro, e regale, con una strana veste lunga adornata di corni rivolti verso l’alto, come quelli degli scrigni, se ne stava sospeso nel nulla sopra il pavimento inciso di rune. Occhi di smeraldo fissavano El con uno sguardo potente, profondamente saggio, e la giovane udì la sua voce nella testa. «Perché sei venuta a disturbare il mio sonno?»
«Per imparare», rispose rapidamente El, senza abbassare le mani.
«Gli studenti giungono raramente con incantesimi pronti a uccidere», fu la risposta. «Quello è più spesso l’atteggiamento di chi viene per rubare». Colonne verticali di luce smeraldina scaturirono improvvisamente dal pavimento della stanza, e dal soffitto un’accozzaglia di ossa discese in ognuna di esse, fluttuando pigramente nella luce. Più di una ventina di crani fissavano Elmara. La giovane guardò i teschi e poi di nuovo il fantasma.
«È ciò che rimane dei ladri che hanno osato introdursi qui?»
«Esattamente. Vennero per cercare i tesori gloriosi di Netheril… ma l’unico tesoro che giace in questo luogo sono io». La voce fece una pausa, e lo spettro si avvicinò un po’. «Ciò cambia lo scopo della tua visita?»
«Io sono stata un ladro, ma non sono venuta per rubare, nulla se non lezioni», rispose Elmara.
«Ti permetterò di averne un po’», ribatté la voce fredda.
«Permettere di averle? Puoi negarle?»
«Naturalmente. Ho imparato la magia in Thyndlamdrivvar… non come sembrano fare i maghi di oggi, che estorcono incantesimi alle tombe o da tutori stolti come ragazzini che rubano mele dall’albero del vicino».
«Chi sei?», sussurrò El, seguendo con lo sguardo la danza dei teschi.
«Mi chiamano Ander. Prima di passare in questo stato, ero un arcimago di Netheril, ma la città in cui ho vissuto e le mie grandi opere sembrano essere svanite sotto le grinfie del tempo. Tutti i miei sforzi… da ciò puoi trarre una valida lezione giovane apprendista».
El si accigliò. «Che cosa sei diventato?»
«Ho superato la morte per mezzo della mia arte. Apprendo da conversazioni come questa – per quanto la mia conoscenza possa essere offuscata da menzogne che possono essermi state dette – che tutto ciò che i maghi di oggi riescono a fare è preservare il loro corpo, trascinandosi come carcasse in rovina, in putrefazione, fino a che non collassano del tutto… voi li chiamate “morti viventi”, credo».
La ragazza annuì in maniera incerta. «Sì».
Gli occhi verdi dello spettro risplendettero di una luce un po’ più intensa. «Ai miei tempi imparammo a controllare i nostri corpi, perciò possiamo diventare solidi o assumere la forma che vedi ora, e passare da uno stato all’altro a piacere. Con una pratica lunga, si può persino imparare a solidificare solo una mano, e a lasciare invisibile il resto».
«È una cosa che può essere insegnata?»
Gli occhi di smeraldo scintillarono di allegria. «Sì, a coloro che vogliono sconfiggere la morte».
«Perché», domandò El a bassa voce, «un individuo dovrebbe voler sconfiggere la morte?
«Per vivere in eterno… o per terminare una missione che consuma la propria vita, come la vendetta sui signori maghi sta consumando la tua… o per…»
«Come fai a saperlo?»
«Posso leggere il pensiero, quando sono a questa distanza», rispose il mago fantasma di Netheril.
Elmara indietreggiò, sollevando le mani con nuova risolutezza, e lo stregone immortale sospirò nella sua mente.
«No, no, non sferrare il tuo incantesimo meschino, ragazza. Non ti ho fatto alcun male».
«Ti nutri di pensieri e di ricordi?» domandò El colta da un sospetto improvviso.
«No. Mi nutro di forza vitale».
Elmara fece un altro passo indietro, e si sentì toccare lievemente la spalla. Si voltò e si ritrovò a fissare il ghigno interminabile di un cranio fluttuante, ballonzolante a pochi centimetri dal suo naso. Scattò all’indietro emettendo un piccolo grido. Il mago sospirò nuovamente.
«Non la forza vitale di esseri intelligenti, idiota. Pensi che non abbia principi morali, solo perché vedi ossa e trappole mortali? Che cosa c’è di tanto malvagio nella morte? È una cosa che capita a ognuno di noi».
«Che tipo di forza vitale, dunque?», domandò la giovane.
«Ho una creatura imprigionata al di là di quel muro… è chiamata grande progenie, e partorisce le creature che ha divorato, uccello dopo uccello dopo uccello, in questo caso».
«Dov’è la porta che conduce a questa stanza di mostri?», chiese El sospettosamente.
«Porta? Che bisogno ho io di porte? I muri non costituiscono per me un ostacolo».
«Perché mi stai rivelando tutto ciò?»
«Ah, ecco i discorsi di un mago vivo, timoroso e diffidente degli altri, geloso del potere, che accumula insegnamenti come pietre preziose, e se li tiene tutti per sé. Perché non dovrei dirtelo? Tu sei interessata, e io sono solo. Mentre parliamo, io apprendo ciò che voglio udire dalla tua mente, perciò non importa di che cosa discutiamo».
«Sai tutto di me?», sussurrò El cercando Myrjala con gli occhi.
«Sì, tutti i tuoi segreti, e le tue paure. Tuttavia non preoccuparti. Non li rivelerò agli altri, né attaccherò te. Per quanto possa sembrare improbabile, riesco a vedere che davvero non intendi rubare, o scagliare magie contro di me».
«Dunque cosa farai di me?»
«Ti lascerò andare. Ricordati di tornare, magari fra dieci anni, a parlare di nuovo con Ander. La tua mente per allora sarà ricca di nuovi ricordi e di insegnamenti per me».
«Io… cercherò di tornare», affermò El titubante. Nonostante la paura l’avesse ormai abbandonata, solo gli dei sapevano se sarebbe sopravvissuta tanto a lungo, o se sarebbe stata ancora capace di fare magie… e se non sarebbe diventata invece una prigioniera di qualche signor mago.
«Questo è tutto ciò che un mortale può promettere», asserì Ander, avvicinandosi ulteriormente. «Accetta da me questo dono, dal momento che non sei venuta con l’intenzione di rubare».
Un fascio di luce discese di fronte al naso di Elmara, e al suo interno vi era un libro aperto, un libro dalle pagine circolari. Quando la ragazza guardò le rune che ricoprivano la prima pagina, queste sembrarono contorcersi e riformarsi finché non riuscì improvvisamente a leggerle. Era un incantesimo che trasformava completamente e permanentemente il sesso del mago che l’avrebbe eseguito. El deglutì. Si era quasi abituata a essere donna, ma… La pagina si stava strappando dal libro, proprio di fronte ai suoi occhi. Involontariamente, la giovane gridò a quella distruzione, ma il fantasma le rispose con una risata.
«Che bisogno ho di questo incantesimo? Posso assumere qualunque forma solida io scelga! Prendilo!»
Come intontita, Elmara allungò la mano nella luce e afferrò la pagina. Non appena la toccò, si ritrovò bruscamente immersa nell’oscurità. Gli occhi di smeraldo, il mago fantasma, e le ossa erano improvvisamente scomparsi.
Tutto ciò che rimaneva in quella stanza silenziosa era il suo flebile fuoco magico, e la pagina accartocciata nella sua mano. Si guardò attorno per un momento, e poi cautamente arrotolò la pergamena e la infilò nel corpetto.
Si irrigidì quando una risata sommessa risuonò profondamente nella sua testa, seguita dalle parole, Ricordati di Ander, e ritorna. Mi piaci, uomo-donna. El rimase a lungo nel buio, in silenzio e immobile, prima di esclamare: «Anche tu, Ander. Tornerò a farti visita». Poi si incamminò verso il punto in cui Myrjala era scomparsa. «Maestra?», chiamò. «Maestra?»
Tutto rimaneva buio e silenzioso. «Myrjala?» chiamò ancora titubante, e a quel nome, granelli di luce scintillarono di fronte a lei, e la ragazza vide per un attimo gli occhi scuri e amichevoli della sua insegnante, prima che le luci avvolgessero anche lei e la portassero fuori dalla tomba.
«Ciò è molto importante per te», affermò El, in piedi sulla sommità di una collina spoglia nella regione più occidentale della Valle Infestata.
«E lo è ancora di più per te. Questa rappresenta la tua prova più difficile», rispose Myrjala, «e se la supererai, avrai compiuto qualcosa di più utile per Faerûn di quanto non facciano molti maghi. Ma bada: questo compito ti costerà almeno una stagione, ed esaurirà parte della tua forza vitale».
«Di che cosa si tratta?»
La maga indicò con il braccio la forra sottostante, un luogo ricoperto di pietre nude, di erbacce, e di ceppi d’albero inceneriti, consumati da un incendio remoto. «Riporta in vita questo luogo, dal punto in cui nasce questa sorgente fin dove si ricongiunge al Darthtil, a mezza giornata di cammino da qui».
El la fissò. «Ridargli la vita mediante gli incantesimi?»
La maestra annuì.
«Da dove devo iniziare?»
«Ah», esclamò Myrjala, sollevandosi da terra. «Tentare, e rimediare agli errori, per poi tentare nuovamente costituisce la parte migliore del lavoro. Ci incontreremo di nuovo qui, tra un anno».
Il suo corpo fu avvolto da una luce, e scomparve.
El chiuse la bocca per tacere proteste e domande ormai inutili, poi la riaprì di nuovo ed esclamò tranquillamente: «Che gli dei ti assistano, Myrjala», e rimase a guardare la forra arida. Prima di iniziare la sua impresa doveva studiarla attentamente.
Gli artigli del drago avvolsero Elmara. La ragazza li guardò tranquillamente chiudersi su di lei, senza reagire, e le unghie gigantesche scemarono un istante prima di toccarla. Poi la brezza impetuosa dissolse le ultime nebbie dell’incantesimo, ed El si ritrovò di fronte Myrjala, sulla cima spoglia della collina, in quel giorno piovoso e ventoso di Elient, nell’Anno della Scomparsa dei Draghi. Le nuvole correvano veloci, basse nel cielo grigio e greve.
«Perché non mi hai colpita?», le domandò la maga inarcando le sopracciglia. «Hai escogitato qualche altro modo per rompere un incantesimo di artigli di drago?»
Elmara allargò le mani. «Non mi veniva in mente alcun modo per colpirti seriamente», affermò, «con gli incantesimi che mi sono rimasti. Sapevo che avrei potuto correre il rischio e sopravvivere, semplicemente. Al contrario, se avessi reagito, avrei potuto perdere una maestra… e, peggio, un’amica».
Myrjala la guardò negli occhi. «Sì», assentì tranquillamente, e fece un gesto circolare con la mano.
Improvvisamente, le due donne si ritrovarono in una cavità nel cuore della collina, il loro rifugio. L’una di fronte all’altra, separate da un fuoco accesosi da solo, opera di Myrjala, naturalmente.
Talora El rifletteva su quanto poco sapesse della vita e dei poteri della sua tutrice, sebbene di tanto in tanto, durante la sua formazione, si fosse resa conto di quanto dovesse essere potente la maga conosciuta in tutta Faerûn col nome di «Occhiscuri». Proprio in quel momento, mentre osservava la donna, ebbe un curioso presentimento.
La maga più anziana fissava il fuoco con occhi tristi. «Il tuo operato nella forra è supremo… hai fatto meglio di quanto abbia fatto io quando mi venne affidato lo stesso compito. Ora sei più forte di Myrjala nell’arte della magia». Sospirò, e aggiunse: «E adesso devi avventurarti da sola per sperimentare nuovi modi di usare gli incantesimi, e di modificare quelli che sai per renderli veramente tuoi… affinché tu possa padroneggiare completamente ciò che eserciti, senza stare per sempre nell’ombra di un mentore».
Lacrime non versate brillarono negli occhi scuri che sollevò per incontrare lo sguardo inorridito di Elmara. «Altrimenti», aggiunse lentamente, «trascorreranno i giorni e gli anni, ed entrambe ci indeboliremo sempre più, aggrappandoci per sempre alle gonne l’una dell’altra in cerca di sostegno».
Elmara rimase a fissarla in silenzio.
«Un mago è sempre solo», affermò Myrjala dolcemente, «e questa è la ragione. Sei d’accordo con le mie parole?»
El la guardò tremante, e sospirò. «Dunque dobbiamo separarci», mormorò, «e io devo andare da sola… ad affrontare i signori maghi».
«Non sei ancora pronta per la tua vendetta. Vivi, e impara ulteriormente dapprima. Vieni a cercarmi quando ti sentirai pronta per sfidare la Corona del Cervo e, se potrò, ti aiuterò. Tuttavia, se non ci dividiamo», asserì la maga a bassa voce, «non conquisterai nulla da sola, ed è proprio questo che devi fare».
Trascorse qualche attimo di grave silenzio, prima che Elmara annuisse riluttante. Poi lentamente disse: «C’è un segreto che non ti ho mai svelato; e non desidero che rimanga ancora nascosto. Se dobbiamo proseguire per strade diverse, trovo sia sbagliato non dirti la verità».
Slegò i lacci della tunica e la lasciò cadere. Myrjala osservò mentre Elmara, nuda nella luce del fuoco, mormorava le poche parole, ancora vivide nella sua mente da quel giorno in cui l’aveva condotta nella tomba… e il suo corpo mutò. Myrjala lasciò cadere le mani che aveva sollevato per un rapido incantesimo se ve ne fosse stato bisogno, e fissò l’uomo nudo oltre il fuoco.
«Questa è la mia vera natura», affermò lentamente l’uomo dal naso aquilino. «Sono Elminster, figlio di Elthryn… principe di Athalantar».
Myrjala lo scrutò con aria triste, gli occhi scurissimi. «Perché hai preso le sembianze di una donna?»
«Mystra mi ha trasformato per nascondermi dai maghi, poiché ormai conoscevano il mio aspetto… e, credo, per costringermi a imparare a guardare il mondo con gli occhi di una donna. Quando ti ho curato, mi hai conosciuto come donna… Temevo che il rivelarti la mia vera identità ti avrebbe sconvolto e avrebbe rovinato la fiducia tra noi».
Myrjala annuì. «Ero giunta ad amarti», rispose tranquillamente, «ma ciò… cambia le cose».
«Anch’io ti amo», affermò Elminster. «Ed è una delle ragioni per cui sono rimasta donna. Non volevo cambiare ciò che condividiamo».
La maga allora girò intorno al fuoco e l’abbracciò. «Elminster… o Elmara, o chiunque tu sia… vieni e mangia, un’ultima volta. Nulla potrà cambiare l’ottimo lavoro che abbiamo fatto insieme».
Era buio, e il fuoco si era quasi spento. Myrjala era un’ombra oltre le deboli fiamme quando voltò la testa e domandò dolcemente: «Dove andrai?»
Elminster alzò le spalle. «Non lo so… a ovest nel Calishar, forse».
«Nel Calishar?» Stai attento, Elminster…», la sua voce esitò sul nome poco familiare, pronunciandolo con difficoltà «… poiché quella terra è dominata da Ilhundyl, il Mago Pazzo».
«Lo so. Per ciò voglio andarci. Ho un conto in sospeso. Non posso continuare a vivere lasciando tutto incompiuto».
«Molti lo fanno».
«Io non sono “molti”, e non posso farlo». Fissò a lungo il fuoco. «Mi mancherai, ragazza… abbi cura di te».
«Che gli dei assistano anche te, Elminster». Poi si sciolsero in lacrime e si abbracciarono.
Quando si separarono, la mattina seguente, entrambi stavano piangendo.
Non appena vide l’intruso, Ilhundyl fece liberare i leoni nel labirinto, ma le bestie rimasero impietrite con la bocca aperta quando l’incantesimo dell’uomo le investì. Il mago dal naso adunco che aveva paralizzato i leoni si mise ad avanzare a grandi passi. Senza nemmeno rallentare l’andatura, si fece strada infallibilmente fra le mura e le porte illusorie, e attraversò la terrazza davanti al Grande Cancello, verso la porta nascosta. Ilhundyl strinse le labbra, e pronunciò parole che pensava non avrebbe mai dovuto usare.
Le statue di pietra si voltarono, scricchiolando. Nuvole di polvere caddero dalle loro articolazioni, e fulmini balenarono dai palmi delle loro mani. Le saette blu raggiunsero l’uomo dal naso adunco, ma questi le ignorò, ed esse colpirono lo scudo invisibile che lo avvolgeva, crepitando innocuamente.
Ilhundyl tamburellò con le sue lunghe dita sul tavolo di fronte a lui. Poi sollevò l’altra mano, fece un gesto e mormorò qualcosa. Alcuni golem uscirono dai solidi muri di roccia del Castello Magico e si mossero pesantemente verso il mago che continuava ad avanzare. Mentre gli andavano incontro, l’intruso solitario pronunciò un incantesimo. L’aria di fronte a lui si riempì improvvisamente di spade roteanti, che in una nuvola accecante fecero scaturire scintille dai colossi, che continuarono ad avanzare rigidamente e pesantemente attraverso quella tempesta d’acciaio.
Ilhundyl osservò la scena impassibile, poi si protese per suonare un campanello che stava sul suo tavolo. Quando una giovane donna in livrea accorse, col volto ansioso, il mago comandò con toni freddi e calmi: «Ordina a tutti gli arcieri di portarsi sulle mura del Grande Cancello. Devono uccidere a tutti costi quell’intruso».
La giovane si affrettò fuori dalla stanza mentre i golem si stringevano intorno all’intruso, sollevando enormi braccia per schiacciarlo come uva matura contro le pietre. Il mago alzò le mani. Forze invisibili tagliarono una fetta di pietra, staccando dal suo piede una gamba in movimento, e lentamente, ma con forza imponente, il primo golem cadde a terra.
Il Castello Magico tremò, e Ilhundyl si alzò rabbiosamente dalla sedia, in tempo per vedere crollare il secondo golem, inciampare nei resti del primo, e cadere a sua volta.
Che gli dei fermino l’intruso! L’uomo era già pericolosamente vicino alle mura. Ma dov’erano quegli arcieri? E immediatamente una grandine furiosa di dardi si abbatté, con grande gioia del Mago Pazzo, sul corpo dell’intruso, che sussultò, si voltò, e cadde, trafitto.
Il sorriso di Ilhundyl svanì improvvisamente quando il corpo urlante si rialzò da terra. Un’altra freccia gli trapassò la testa, che cadde penzolante di lato, il giovane mago barcollò e cadde con un tonfo, solo per risollevarsi nuovamente senza l’ombra di dardi nella testa. Altre due frecce lo colpirono e il corpo sussultò, agitando le gambe, per balzare nuovamente in piedi in forma diversa.
«Fermi!», ringhiò Ilhundyl. «Cessate il fuoco!» Le sue mani si gettarono sul campanello, sapendo che era troppo tardi. Il tempo di udire e di trasmettere gli ordini, e gli arcieri erano morti. Il nemico stava usando un incantesimo che cambiava una persona con un’altra, per mezzo di una doppia telepatia!
Era un incantesimo che doveva assolutamente imparare… il giovane mago doveva esser catturato vivo. O per lo meno distrutto in modo da non danneggiare il libro di incantesimi.
Ilhundyl uscì a grandi passi dalla stanza e scese nella Grotta del Vento, dove erano allineate figure di vetro levigato e forato, che emettevano lugubri canti quando il vento vi passava attraverso. Abbattere quel mago gli sarebbe costato tutte le sue Mani Alate, ma vi sarebbe riuscito, a qualsiasi costo. Ne poteva sempre creare delle…
Era a pochi rapidi passi dal passaggio a volta che conduceva nella torre settentrionale quando l’armatura borchiata accanto a esso scese rumorosamente dal suo piedistallo e s’incamminò verso di lui, sollevando le sue armi. Ilhundyl mormorò una parola e rigirò un anello sul dito, poi sferrò un incantesimo pronunciando poche frasi, rapide e rabbiose. Dalle sue dita scaturì dell’acido che si trasformò in una sfera purpurea di fiamme pungenti, sempre più grande a mano a mano che avanzava. La sfera sibilante colpì l’armatura e spruzzò il pavimento oltre a essa. Fumo si sollevò dalle pietre, corrose dall’acido; i pezzi di acciaio fuso che erano stati l’armatura ricaddero nel buco sempre più largo del pavimento, dissolvendosi in vapore e goccioline.
Un’altra armatura era già sulla porta, proveniente dall’altra stanza. Ilhundyl sospirò a quei trucchi infantili e scagliò una seconda, e ultima, sfera di acido. Questa volta vi fu un lampo quando le fiamme purpuree colpirono qualche cosa nell’aria e rimbalzarono sul padrone del Calishar. Ilhundyl ebbe il tempo di un singolo passo prima che l’acido lo inzuppasse.
Si sollevò fumo e il mago cadde senza emettere alcun suono, dissolvendosi in vapore piuttosto che in sangue e ossa. Dal nulla, nella parte più lontana della galleria, il Mago Pazzo riapparve alla vista, ed esclamò con disprezzo: «Idiota! Ti pensi l’unico mago in tutta Faerûn a usare immagini e incantesimi per ingannare?»
Fece un gesto imperioso con la mano, e punte di pietra irruppero improvvisamente dall’aria alla sua destra. Il mago puntò l’indice, e ubbidientemente esse volarono verso la figura in armatura. Molto prima che la raggiungessero, una forza invisibile le fece virare da parte, e distruggere le multiformi statue di vetro. Le sculture del vento tanto care a Ilhundyl si infransero in mille pezzi, e gli occhi del Mago Pazzo si infiammarono di rabbia.
«Sette mesi per costruirle!», ringhiò. «Sette mesi!»
Raggi color ambra balenarono dalle mani protese dell’arcimago verso la figura corazzata. D’un tratto il bersaglio si smaterializzò, e i raggi, non incontrando alcun ostacolo, proseguirono e colpirono il muro opposto della stanza. Le pietre del muro sembrarono ribollire brevemente quando i fasci di luce le trapassarono, aprendo un’enorme breccia, e attraversarono la stanza per poi penetrare nello stesso modo la parete distante della torre settentrionale. All’esterno, una guardia gridò per avvisare i suoi compagni del pericolo.
Il governatore del Calishar, furioso, stava ancora guardando la distruzione da lui stesso causata, quando la figura in armatura apparve a destra dietro di lui, nel punto in cui erano apparsi gli spuntoni di roccia e i suoi pugni d’acciaio oscillarono verso il basso, abbattendo apparentemente solo aria con colpi potenti. L’immagine visibile di Ilhundyl cadde sul pavimento senza emettere alcun rumore e cessò di esistere. Un istante più tardi, il Mago Pazzo riapparve all’estremità più lontana della galleria in preda a una furia cieca. «Hai osato?»
Ringhiò una sfilza di parole che echeggiarono e risuonarono di potere, e il Castello Magico tremò intorno a lui. Nuovi spuntoni sbucarono dal pavimento, trafiggendo da sotto la figura in armatura, e poi, con un boato tonante, una ventina di blocchi di pietra si staccarono dall’alto soffitto e spiaccicarono l’intruso. Mentre la polvere causata dallo schianto si depositava pigramente sul pavimento, lungo le pareti della galleria si aprirono dei pannelli, da cui fuoriuscirono fluttuando tre creature dall’enorme occhio e dalle numerose antenne occhiute che si muovevano rigidamente avanti e indietro, in cerca di un nemico. Da una botola del soffitto scese una gabbia luminosa appesa a una catena, che si aprì una volta svanita la luce magica, e liberò sei serpenti alati di colore verde, che subito si lanciarono per la galleria con le mascelle spalancate, in cerca di una preda. Qua e là sul pavimento, blocchi di pietra si ribaltarono lentamente per rivelare glifi magici luminosi.
Con sguardo duro, il Mago Pazzo attese con le mani sollevate per scatenare ulteriore distruzione, mentre la stanza tornava lentamente al silenzio. I tiranni occhiuti fluttuavano minacciosamente nell’aria, non trovando nulla contro cui dirigere i propri raggi, e i serpenti volanti saettavano con eccitazione di qua e di là. Uno di essi si lanciò contro Ilhundyl, e il mago lo seccò con un’unica breve parola. Di nuovo piombò il silenzio. Forse era davvero riuscito a uccidere l’intruso.
Il mago pronunciò un altro incantesimo per sollevare i blocchi di pietra dall’armatura spiaccicata. Questi si sollevarono ubbidientemente, e poi si spostarono di lato. Ilhundyl rimase a bocca aperta, guardando terrorizzato mentre i blocchi, i mostri occhiuti, i serpenti e le schegge di vetro, cominciavano a muoversi insieme in una lenta spirale di fronte a lui.
«Basta!», gridò Ilhundyl, e pronunciò l’incantesimo distruttivo più potente che conosceva. La spirale tentennò e si arrestò per un breve istante… e poi riprese, accelerando finché tutte le cose non iniziarono a vorticare rapidamente.
Ilhundyl indietreggiò, saggiando per la prima volta dopo anni il gusto gelido della paura. Altre sculture del vento si infransero quando il vortice scagliò su di esse blocchi di pietra o mostri occhiuti, e le loro schegge scintillarono unendosi in un cerchio alla spirale, che ora avanzava lungo la galleria verso il mago.
Il Mago Pazzo fece qualche passo indietro, poi si voltò e si mise a correre, agitando le mani nei passaggi frettolosi e intricati di un incantesimo. Improvvisamente, apparvero diversi Ilhundyl in fuga in tutta la stanza, tremolanti qua e là in una danza complessa. La spirale turbinante li travolse tutti. Un corpo fu rapidamente scaraventato contro un muro, si accasciò come una bambola rotta e scomparve. Un altro Ilhundyl apparve improvvisamente su un balcone della galleria, e scagliò un cristallo luminoso nel vortice sottostante. La gemma lampeggiò una volta, e in quel lampo di luce svanì insieme a tutti gli oggetti vorticanti, lasciando la stanza completamente vuota, tranne le figure di vetro infrante sui loro piedistalli.
Ilhundyl le guardò dall’alto e comandò freddamente: «Appari».
Il mago dal naso adunco si materializzò sul balcone accanto a lui, dentro i suoi scudi protettivi!
Ilhundyl trasalì, cercando freneticamente di pensare a un incantesimo da usare senza alcun rischio contro un nemico tanto vicino. «Perché sei venuto qui?», sibilò.
Gli occhi dell’intruso si fissarono freddamente nei suoi. «Mi hai ingannato, sperando di mandarmi incontro alla morte. Come i maghi di Athalantar, tu governi col terrore e la magia brutale, usando incantesimi per uccidere o menomare i tuoi sudditi o trasformarli in bestie».
«E allora? Che cosa vuoi da me?»
«Tale domanda è più opportuno farla prima di attaccare», rispose seccamente Elminster, e poi ribatté: «La tua distruzione. Metterò fine alla vita di tutti i maghi che si comportano come te».
«Allora dovrai vivere molto, molto a lungo», affermò il mago lentamente, «e non ho alcun interesse perché ciò accada».
Pronunciò tre parole, le sue dita si mossero, e fulmini balzarono da uno scudo posto in alto sul muro opposto della galleria. La loro rete intricata e luminosa investì crepitante il balcone. Il governatore del Calishar ritrasse gli scudi protettivi mentre i dardi color bianco e blu danzavano e sfrigolavano intorno a lui, lasciando il suo nemico esposto alle energie furiose. Il margine dello scudo iniziò a scemare, mentre i fulmini si infrangevano violentemente su di esso, e il Mago Pazzo vide Elminster vacillare.
Ruggì trionfante e sollevò la mano sinistra per scagliare una saetta dall’anello che portava all’anulare. Non poteva in alcun modo mancare il suo avversario, a pochi passi da lui; il fulmine colpì e rimbalzò!
Ilhundyl urlò quando il suo stesso incantesimo gli attanagliò le budella, e tentò di fuggire, lottando per raggiungere la porta a volta che conduceva fuori dal balcone. Poi la mano di El toccò il pavimento di pietra e il balcone si ruppe e crollò lungo il muro e il Mago Pazzo con esso, ruggendo una parola disperata.
A pochi centimetri dal pavimento, la sua magia fece effetto, e la loro caduta a piombo si trasformò in una lieve planata. Nel tumulto, nessuno dei due notò un paio di occhi fluttuanti e luminosi apparire a un’estremità della galleria, e osservare tranquillamente la battaglia.
Ilhundyl si voltò verso il muro e sollevò nuovamente la mano. Un altro anello scintillò, e dalla parete fuoriuscì lentamente un braccio massiccio, che si protese verso El con dita di pietra. Il giovane mago sputò un incantesimo, la mano tremò, esplose in frantumi di pietra, e scagliò Elminster fuori dal balcone crollato. Il giovane scivolò sul pavimento rovesciando un’altra scultura di vetro.
Il governatore del Calishar ringhiò un’altra magia, lanciando i suoi pollici verso Elminster. Il principe si sentì sollevare dalle schegge di vetro e gettare attraverso la stanza. Allora allargò le braccia in un ampio gesto, e un istante prima di sfracellarsi violentemente contro la parete della galleria, il soffitto iniziò a cadere. Ilhundyl sollevò per un attimo lo sguardo ai blocchi di pietra, e poi si mise a correre, farfugliando parole di un altro incantesimo.
Fuori dal Castello Magico, il giovane dal naso adunco planò sul terreno, in posizione eretta e all’erta. Toccò con i piedi le pietre del terrazzo, si voltò verso la torre settentrionale, e poi provò un dolore lancinante quando qualcosa di invisibile lo ferì alle costole!
Era come un fuoco vorace! El balzò indietro, piegandosi in due per il dolore, e sollevò le mani per proteggersi il viso. La seconda sferzata della lama invisibile gli recise la punta di un dito. Ora poteva vederne il contorno, una linea di forza scintillante del suo stesso sangue. Ilhundyl si materializzò dietro di essa, un ghigno maligno stampato sul viso, e colpì nuovamente le mani di El con la lama che aveva evocato.
«Un uomo senza mani fa pochi incantesimi», rise crudelmente, sferzando e tagliando. El sibilò un incantesimo mentre scansava i colpi e si abbassava, e con uno stridio selvaggio la lama magica si frantumò in stelle di forza luminose.
L’esplosione lo fece rotolare impotentemente lontano, la testa rimbombante. Il giovane si dimenò e grugnì. Per qualche istante, il principe dal naso aquilino non poté far altro che rimanere sdraiato sulle pietre e contorcersi dal dolore.
Ilhundyl rabbrividì e si torse le mani, scacciando il dolore che l’esplosione gli aveva causato. Una volta ripreso il controllo delle sue dita tremanti, invocò attorno a lui uno scudo protettivo e avanzò barcollando. La sua smorfia di dolore si trasformò in un freddo sorriso di aspettative.
Quando fu abbastanza vicino da poter toccare l’intruso fremente, il Mago Pazzo sferrò l’incantesimo più potente e complesso che conosceva, e si protese per infilare un dito nell’orecchio di Elminster.
Se gli fosse riuscito, avrebbe sottratto all’intruso tutti gli incantesimi e il sapere. Entrando nella mente dell’uomo impotente, Ilhundyl penetrò il dolore devastante che vi trovò, e cercò la sua volontà per spezzarla. Ma d’un tratto sentì la sua sonda artigliata e sferzata. Gettò indietro il capo, grugnendo di dolore, ma non interruppe il contatto… non ancora. Sarebbero occorse ore per memorizzare di nuovo quell’incantesimo, e se il prigioniero fosse morto, i suoi sforzi sarebbero stati vani, o se il mago si fosse ripreso sarebbe ricominciata la battaglia.
Improvvisamente si ritrovò a precipitare in un vuoto scuro nella mente dell’uomo, e dal nulla apparve una lama bianca fiammeggiante che cominciò a colpirlo e a tagliuzzarlo. Urlando, il Mago Pazzo si allontanò dal giovane sdraiato scompostamente, e ruppe il contatto. Per tutti gli dei, che dolore! Scuotendo il capo per rischiararsi le idee, si trascinò fuori attraverso una nebbia giallastra.
Una volta ripresosi, si voltò e vide Elminster alzarsi faticosamente in ginocchio, e tastare invano nel suo sangue coagulato per recuperare un anello con le dita che erano state mozzate. Rabbiosamente, Ilhundyl sibilò le parole di un incantesimo breve e semplice e indietreggiò per veder morire il nemico.
L’incantesimo si manifestò: artigli ossuti si materializzarono dal nulla e si lanciarono su Elminster, colpendo e scalfendo con unghie affilate.
Il mago sorrise mentre eseguivano il loro compito raccapricciante… e improvvisamente rimase a bocca aperta. Gli artigli stavano svanendo! E si ritrassero nell’aria, lasciando il relitto sanguinante di un uomo ancora vivo.
«Che cosa succede?», domandò furiosamente rivolto all’intera Faerûn, e avanzò a grandi passi.
«Il destino», rispose una voce bassa da dietro. Ilhundyl si voltò bruscamente.
Una donna dagli occhi scuri si stava materializzando dalla sua porta principale, uscendo lentamente dal legno scuro per sfidarlo. Era alta e snella, e indossava una tunica verde-scuro. Occhi liquidi e neri sovrastati da sopracciglia arcuate incontrarono i suoi e Ilhundyl vide in essi la sua morte. Stava ancora balbettando un incantesimo quando fuoco bianco, più brillante di qualsiasi cosa avesse mai visto, scaturì da una delle esili mani della donna.
Ilhundyl guardò impotente il suo viso meraviglioso e spietato. E poi le fiamme ruggenti lo investirono, e il volto bianco della donna e il cielo dietro di esso scomparvero dalla sua vista.
Attraverso il sangue che gli gocciolava negli occhi, Elminster vide il Mago Pazzo spazzato via e consumato in un unico istante ruggente.
«Che-che incantesimo era?», gracchiò El.
«Non un incantesimo, ma fuoco magico», gli rispose Myrjala allegramente. «Ora alzati, folle, prima che i rivali di Ilhundyl vengano a impadronirsi di tutto ciò che possono. Dobbiamo andarcene prima che arrivino».
La maga si voltò e distrusse il Castello Magico con il medesimo fuoco. Il Grande Cancello scomparve, e le sale al di là di esso crollarono sotto le fiamme.
Elminster si rimise faticosamente in piedi, sputando sangue. «Ma tutte le sue magie! Perdute, ora, tutto…»
Myrjala si girò verso di lui. Le esili mani che avevano scagliato fuoco magico un istante prima, ora stringevano un vecchio tomo, spesso e ammaccato. La donna lo mise tra le mani martoriate di El, che quasi lo lasciò cadere per il dolore causato dal contatto. «La sua importante opera è qui; ora andiamocene!»
Gli occhi di Elminster si assottigliarono e la fissarono; il suo tono sembrava in qualche modo diverso. Ma forse si sentiva semplicemente troppo male per udire correttamente… annuì stancamente.
Myrjala gli sfiorò la guancia, e si ritrovarono improvvisamente in un altro luogo: una caverna rimbombante, le cui pareti erano ricoperte qua e là da funghi luminosi emananti una flebile luce blu e verde.
Elminster inciampò e con uno sforzo riacquistò l’equilibrio, cullando il libro di incantesimi. «Dove siamo?»
«In uno dei miei rifugi», rispose la donna, guardandosi attorno attentamente. «Questo luogo un tempo faceva parte di una città elfa. Siamo nelle profondità di Nimbral, un’isola del Grande Mare».
Il giovane si guardò attorno e poi posò gli occhi sul libro che teneva fra le mani. Quando sollevò gli occhi vitrei in cerca dei suoi, avevano in sé uno sguardo strano. «Lo conoscevi?»
Gli occhi di Myrjala erano molto scuri. «Conosco molti maghi, Elminster», rispose con una nota d’avvertimento nella voce. «È molto che giro… e non sono vissuta tanto a lungo sfidando avventatamente ogni arcimago che incontravo».
«Non vuoi ancora che vada ad Athalantar, vero?», domandò El lentamente, senza distogliere lo sguardo dalla maga.
Myrjala scosse il capo. «Non sei pronto. La tua magia è ancora brutale, evidente e prevedibile, destinata a soccombere se contrastata da una forza più grande».
«Insegnami la saggezza, dunque», affermò il giovane, instabile sui piedi.
La donna si voltò. «Sentieri separati, ricordi?»
«Tu mi stavi proteggendo», esclamò El alle sue spalle, disperatamente. «Mi stavi seguendo… perché?»
Myrjala si girò lentamente, gli occhi lucenti di lacrime. «Perché… ti amo», sussurrò.
«Rimani con me, allora» ribatté Elminster. Il libro gli cadde di mano, dimenticato, ma dovette ricorrere a tutte le forze rimastegli per avanzare di un passo e metterle le braccia devastate intorno al collo. «Insegnami».
La maga esitò, gli occhi scuri sembrarono penetrarlo.
Poi, quasi rabbrividendo, annuì.
Un fuoco scuro e trionfante invase gli occhi di El quando le loro labbra si incontrarono.
Mirtul fu un mese secco e ventoso nell’Anno dei Leucrotti Vagabondi, specialmente nelle terre calde e polverose dell’est.
Elminster, in piedi in cima a un promontorio sferzato dal vento, stava osservando un castello dei re maghi sotto di lui. Per raggiungerlo, lui e Myrjala avevano cavalcato per dieci giorni e più lungo una strada disseminata di schiavi morti e imputriditi nel sole.
Ecco finalmente i loro assassini. Mediante l’incantesimo degli occhi di falco, Elminster vide fruste sanguinanti sollevarsi e abbassarsi nel cortile del castello, che lasciavano i corpi aperti degli ultimi schiavi. I corpi erano ormai senza vita, ma i maghi non smettevano di colpire, tessendo una magia malvagia con la forza vitale degli uomini e delle donne uccisi.
Colto dalla rabbia, El inveì con incantesimi di propria invenzione. Le magie scesero nell’aria in una rete splendente, ed Elminster scese dal promontorio per seguirle. Stava camminando nell’aria sopra il castello quando questo iniziò a crollare. Si arrestò a guardare, furiosamente immobile sopra la polvere, le urla, e il tumulto.
Qualcosa si innalzò da una finestra frantumata, uomini con la toga sul dorso. Il giovane allora scagliò un fulmine per colpirli. La creatura volante andò in pezzi provocando un’esplosione brillante, e gli uomini vennero scaraventati come bambole di pezza e ricaddero sulle rovine. Non si rialzarono. El attese che tutte le pietre fossero crollate, che il rombo si placasse e che la polvere si depositasse, poi si voltò e con sguardo truce tornò sul promontorio accanto a Myrjala.
La donna sollevò gli occhi scuri dalle macerie del castello, e gli domandò a bassa voce: «Era questa la cosa più saggia e meno rovinosa da fare?»
Gli occhi di El scintillarono di rabbia. «Sì, se ciò servirà da monito ad altri folli intenzionati a usare una magia tanto feroce».
«Alcuni maghi lo faranno in ogni caso. Ucciderai anche loro?»
Il principe alzò le spalle. «Se è necessario. Chi potrà fermarmi?»
«Te stesso» rispose Myrjala guardando il castello. «Ricorda Heldon, non è vero?» domandò tranquillamente, senza guardarlo.
El aprì la bocca per confutarla, e poi la richiuse rimanendo in silenzio, guardando la donna allontanarsi dal promontorio e procedere lentamente nell’aria. Il suo sguardo si posò sulle rovine sottostanti, e il giovane rabbrividì, colto da un’improvvisa vergogna. Sospirando, distolse lo sguardo da ciò che aveva fatto, poi guardò nuovamente il castello. Non conosceva alcun incantesimo che potesse farlo risorgere.
Era una calda notte del mese di Flamerula, nell’Anno degli Eletti. Elminster si svegliò madido di sudore, balzando in piedi per fissare la luna con occhi da pazzo. Myrjala si mise a sedere sul letto accanto a lui, i capelli che le avvolgevano le spalle, gli occhi scuri colmi di ansia. «Stavi gridando», affermò.
Elminster si allungò verso di lei, e la donna lo prese fra le sue braccia come una madre che culla un bambino spaventato.
«Ho visto Athalantar», sussurrò El, gli occhi fissi nel buio. «Stavo camminando per le strade di Hastarl, e vedevo maghi sogghignanti dovunque volgessi lo sguardo. E quando li guardavo, cadevano a terra morti coi volti terrorizzati…»
Myrjala lo strinse a sé e disse tranquillamente: «Sembra che tu sia pronto per Athalantar, finalmente».
Elminster si voltò per guardarla. «E se sopravvivo ai signori maghi… che cosa accadrà poi? Questo voto mi ha spinto per molto tempo… che cosa dovrò fare della mia vita?»
«Che domande! Governare Athalantar, naturalmente».
«Ora che il trono è quasi a portata di mano», ribatté El lentamente, «mi ritrovo a desiderarlo sempre di meno».
Le braccia intorno a lui si strinsero. «È una buona cosa», esclamò la donna tranquillamente. «Ero stanca di aspettare che crescessi».
Elminster la guardò accigliato. «Sono diventato troppo grande per una vendetta cieca? Credo… perché fare tutto ciò, dunque?»
Myrjala lo fissò nell’oscurità, gli occhi neri grandi e misteriosi. «Per Athalantar. Per i tuoi genitori… e per coloro che vivevano e ridevano a Heldon prima che il drago si avventasse su di loro. Per la gente della taverna dell’Unicorno, e per gli abitanti di Narthil… e per i tuoi compagni fuorilegge, morti sulle Colline del Corno».
El strinse le labbra. «Lo faremo», affermò con tranquilla determinazione. «Athalantar sarà libera dai maghi malvagi. Lo giuro su Mystra: porterò a termine il mio impegno o perirò nell’intento».
Myrjala lo strinse fra le braccia senza rispondere, ma El riuscì a percepire il suo sorriso.