Nell’antichità, gli stregoni andavano atta ricerca dell’Incantesimo degli Incantesimi, che li avrebbe resi padroni del mondo e della magia. Alcuni dicevano di averlo trovato, ma tali individui venivano solitamente considerati pazzi.
Io stesso vidi uno di tali maghi «folli». Riusciva a ignorare incantesimi sferrati contro di lui, come se non esistessero, oppure a lanciarli con la sola forza del pensiero. Non penso fosse pazzo, ma in pace con se stesso, non più guidato da impulsi e da vizi. Mi riferì che l’Incantesimo degli Incantesimi era una donna, che il suo nome era Mystra e che i suoi baci erano meravigliosi.
Era una notte calda e quieta. Elminster fece un respiro profondo e contò quanto Farl aveva insistito che prendesse. Aveva un debito… e inoltre, l’altra questione che intendeva affrontare quella notte l’avrebbe probabilmente ucciso. Allora, sarebbe stato troppo tardi per pagare qualsiasi debito.
Quand’ebbe terminato, stette a guardare il cumulo di monete: cento reali, scintillanti al chiaro di luna. Di giorno, al sole, avrebbero ostentato la brillantezza dell’oro… ma forse, per una ragione o per l’altra, lui non sarebbe stato presente allo spettacolo.
Elminster scrollò le spalle. Almeno la vita era di nuovo sua, ed era libero di inseguire qualunque follia desiderasse. Pertanto, rifletté con ironia, eccolo impegnato nell’ultima azione da ladro. Gettò le monete nel sacco, lo legò stretto in modo che non tintinnassero, e si avviò per i tetti, in cerca di una certa stanza da letto.
Le persiane erano aperte, al fine di permettere alla brezza di raffreddare una coppia di sposi dormienti, i cui mobili non potevano certo essere paragonati a quelli dei Trumpettower. El si era molto compiaciuto del loro fidanzamento, anche se gli sarebbe costato gran parte delle monete per cui aveva lavorato. Entrò furtivamente dalla finestra e vedendoli sogghignò.
La giarrettiera nuziale era squisita, fatta di merletti e nastri di seta. Maliziosamente, Elminster allungò una mano e l’accarezzò.
Se l’avesse portata con sé come trofeo? Ma no… non era più un ladro.
Shandathe si stiracchiò quando sentì il tocco leggero sulla coscia. Tuttavia, immersa nel mondo dei sogni, allungò una mano verso quella massa calda e villosa di Hannibur, che stava russando sonoramente come solo sapevano fare i cantanti da osteria dopo essersi ubriacati. Mentre Elminster risistemava la giarrettiera che il fornaio le aveva legato al fianco, la donna sorrise ma non si destò.
Elminster notò anche altri regali: un matterello robusto e un grembiule nuovo giacevano sul tappeto dalla parte di Hannibur… e l’impugnatura di un pugnale fuoriusciva, come un occhio ammiccante, da sotto il cuscino di Shandathe.
Con cautela, depose il suo dono nuziale tra loro. Il fianco morbido di lei e quello peloso dell’uomo erano quasi attaccati, e ci volle tutta la sua abilità di ladro per evitare qualsiasi tintinnio mentre rovesciava le monete in una distesa d’oro scintillante da un capo all’altro del letto. Quand’ebbe ammassato tutti i reali che riuscì, ne rimanevano ancora una decina nel sacco. Appoggiò delicatamente l’ultimo dei suoi doni di nozze tardivi sul ventre di Shandathe, e se ne andò frettolosamente quando il contatto col metallo freddo la indusse a muoversi.
Selûne era alta nel cielo blu intenso sopra Hastarl, mentre Elminster, in piedi su un tetto, guardava oltre la strada vuota e silenziosa la facciata cadente del tempio abbandonato di Mystra.
Il luogo era buio e decadente, e dal suo punto d’osservazione El poté vedere che la porta era chiusa con un imponente chiavistello. A quanto pareva, i maghi non volevano che qualcuno ad Hastarl adorasse la Signora della Magia, in modo che loro potessero farlo in tutta tranquillità nella torre all’interno di Athalgard. Eppure, non avevano osato dissacrare il tempio della dea.
Forse, il loro potere era radicato in esso, e colpirlo avrebbe potuto minare la loro supremazia sulla magia e indebolire la loro morsa sul regno. Forse El poteva forzare la mano di Mystra, come lei aveva forzato la sua quando aveva permesso che i suoi genitori venissero uccisi. O forse, ammise a se stesso mentre fissava il tempio, era solo stanco di non fare nulla di concreto, di sprecare i suoi giorni sui tetti, aspettando occasioni per rubare questo o quel gingillo. I maghi non avrebbero osato dissacrare il tempio di Mystra, ma El sì. Quella notte. Il mondo, o almeno Athalantar, sarebbe stato un luogo migliore senza la magia.
La distruzione di un tempio, tuttavia, era ben lungi dall’essere sufficiente. Ma forse, avrebbe attirato la maledizione di Mystra sulla città, cosicché nessun mago avrebbe potuto esercitare la magia all’interno delle sue mura. O forse il tempio ospitava qualche oggetto magico che avrebbe potuto utilizzare contro i maghi. O, più semplicemente, nascondeva soltanto la sua morte. Qualunque fosse stato l’esito, sarebbe stato ben accetto.
Elminster osservò attentamente la vernice scrostata e sbiadita e i doccioni di pietra immobili, a forma di pipistrello, che adornavano entrambi gli angoli anteriori del tetto. Erano aggrappati alla cima dei pilastri del tempio con molti artigli, e avevano la bocca aperta, famelica. Non emisero alcun bagliore alla sua vista da mago, ma forse i doccioni magici cantati dai menestrelli non emanavano luce… Tutto ciò che di magico riusciva a vedere era molto più in basso, e visibile a tutti. Sulle porte del tempio, a lettere debolmente luminescenti, si leggevano le parole «Io sono l’Incantesimo degli Incantesimi».
Elminster scosse il capo, sospirò, e iniziò a calarsi dal tetto. La vendetta, a quanto pareva, era una missione impegnativa.
Il lucchetto non presentava alcun incantesimo e si arrese facilmente al suo arnese metallico; Farl era stato un buon maestro. El scrutò la strada deserta un’ultima volta, e poi socchiuse la porta, rimase per qualche istante sulla soglia per abituarsi all’oscurità, e scivolò all’interno del tempio, col pugnale pronto.
Polvere e oscurità vuota. Elminster guardò in tutte le direzioni, ma nel tempio di Mystra sembrava non esserci arredamento, solo colonne di pietra. Con circospezione, si spostò di lato per allontanarsi dalla porta – solitamente le trappole erano poste davanti a essa – e fece alcuni passi avanti.
In quel luogo c’era qualcosa che non andava. Oh, certo, si aspettava di sentirsi osservato, di percepire la pelle accapponarsi per la tensione sibilante di incantesimi latenti intorno a lui… e tutto ciò accadde. Ma vi era dell’altro, tuttavia, qualcosa che…
Naturalmente: un luogo grande e vuoto come quello avrebbe dovuto fare eco ai rumori che lui faceva. Ma non si udiva nulla. Elminster aprì una tasca della cintura, prese uno dei piselli secchi che ogni ladro porta con sé per dissuadere eventuali inseguitori, e lo lanciò davanti a lui nell’oscurità.
Non lo udì toccare il pavimento. El deglutì e fece un cauto passo avanti. Si trovava in un vestibolo, separato da una grande stanza aperta mediante una fila di imponenti pilastri di pietra levigata… cilindri normali, da quanto poteva vedere. Nulla si muoveva nella spessa coltre di polvere che ricopriva il pavimento. El diede un’ultima occhiata alla porta che aveva chiuso dietro di sé, e poi si incamminò nell’oscurità.
La stanza enorme era circolare e non si riusciva a vedere il soffitto, costituito probabilmente dal tetto stesso che El aveva visto dall’esterno. Al centro si ergeva un altare circolare di pietra, e tutt’intorno vi erano tre file di balconi. La camera era buia, vuota, e silenziosa.
Non vi era nulla di più. Niente da dissacrare. Nessun accolito.
La porta dietro di lui si aprì improvvisamente, e quando vide entrare uomini con le torce, Elminster corse verso il retro del tempio, cercando pilastri dietro cui nascondersi. Erano in tanti: guardie, almeno due pattuglie, con le lance in mano.
«Sparpagliatevi», esclamò una voce fredda, «e cercate. Nessuno osa entrare nel tempio di Mystra solo per gioco».
L’uomo avanzò, sollevò una mano, e disegnò una sorta di saluto o di gesto rispettoso verso l’altare. Poi affermò con tranquillità: «Ci vuole un po’ di luce», e alle sue parole, nonostante non avesse pronunciato nessun incantesimo, le pietre attorno a Elminster iniziarono a risplendere.
E così tutte le altre, finché un bagliore perlaceo non riempì la stanza, rivelando ai presenti la figura del giovane ladro. I «presenti», in quel caso, erano più di venti guardie, che avanzavano attraverso la stanza con facce arcigne e armi impazienti. L’uomo che aveva parlato stava nel mezzo ed esclamò: «Solo un ladro. Abbassate le armi».
«Che facciamo se scappa, signore?»
L’uomo con la tunica sorrise e rispose: «La mia magia lo obbligherà ad andare dove voglio io, e da nessun’altra parte».
Fece un gesto, ed Elminster avvertì uno strattone improvviso alle estremità… una sensazione di formicolio e d’intorpidimento, simile a quella provata in quel giorno terribile nella prateria sopra Heldon, molto tempo fa. Il corpo non gli apparteneva più, e fu obbligato, in preda a una disperazione nauseante, a voltarsi e a procedere verso gli uomini.
No, verso l’altare. Un blocco circolare di pietra nuda, privo di qualsiasi decorazione. I soldati sollevarono le lance e lo accerchiarono.
«Secondo la legge, chi dissacra i templi deve essere messo a morte», grugnì un soldato anziano, «sul posto».
«Esattamente», gli fece eco il mago, e sorrise nuovamente. «Il luogo, tuttavia, lo sceglierò io. Quando questo stupido raggiungerà l’altare, potrete scagliare le vostre lance. Il sangue fresco sull’altare di Mystra mi consentirà di fare un incantesimo che da tempo desideravo provare».
Elminster continuava il suo cammino verso l’altare, furioso dentro di sé. Era stato uno sciocco a entrare nel tempio. Se lo meritava. La morte avrebbe posto termine alla sua lotta futile contro i maghi. Vi chiedo perdono, padre… madre… Elminster si mise a correre, sperando che ciò lo avrebbe in qualche modo liberato, sapendo di non poter fare nient’altro. Almeno poteva morire con la consapevolezza di aver tentato il possibile.
Il mago si limitò a ridere e ad arcuare un dito. La corsa divenne un piccolo trotto finché El non si ritrovò davanti all’altare e fu costretto a voltarsi nuovamente, faccia a faccia con l’uomo.
Questi si inchinò. «I miei omaggi, ladro. Io sono Lord Ildru, mago di Athalantar. Puoi parlare. Chi sei?»
Elminster scoprì che poteva muovere la bocca. «Ciò che ha detto, Signore», rispose freddamente, «un ladro».
Il mago inarcò un sopracciglio. «Perché sei venuto qui, questa notte?»
«Per parlare con Mystra», ribatté El, con sua sorpresa.
Gli occhi di Ildru si assottigliarono. «Perché? Sei per caso un mago?»
«No», sbottò il giovane, «e sono fiero di non esserlo. Sono venuto per chiedere l’aiuto di Mystra per combattere i maghi come voi… o per maledirla se mi avesse risposto negativamente».
Il mago si accigliò nuovamente. «E che cosa ti fa pensare che Mystra aiuterebbe proprio te?»
Elminster deglutì e si rese conto che non poteva alzare le spalle. Né muovere qualsiasi altra parte del corpo, eccetto la bocca. «Gli dei esistono», affermò lentamente, «e il loro potere è reale. Io ho bisogno di quel potere».
«Oh? Il modo tradizionale», ribatté il mago affabilmente, «consiste nello studiare, a lungo e duramente, per gran parte della propria vita, e nell’abbassarsi a fare l’apprendista, rischiando la vita nel tentare incantesimi che non si comprendono o nel crearne di nuovi. Che arroganza colossale pensare che Mystra ti darebbe qualche cosa solo perché la chiedi!»
«L’arroganza colossale in Athalantar», affermò tranquillamente Elminster, «è quella di voi Signori Maghi. La vostra morsa su questa terra è tanto stretta che nessun altro uomo si può permettere il lusso di essere arrogante».
Si udì un mormorio tra la schiera di guardie. Ildru si guardò attorno e improvvisamente tornò il silenzio. Poi sospirò in modo teatrale. «Sono disgustato dalle tue parole amare. Taci, a meno che tu non voglia supplicarmi».
Elminster si sentì costretto a indietreggiare, e a salire sull’altare.
«Ancora niente lance», ordinò il mago. «Prima devo fare un incantesimo, per sapere se sono tutte chiacchiere e sogni frustrati… o se il giovane nasconde qualche segreto».
Sollevò le mani, sferrò un incantesimo, e poi scrutò attentamente il ragazzo, aggrottando la fronte.
«Nessuna magia», esclamò tra sé e sé, «e tuttavia possiedi un legame con essa, una capacità minore di plasmare… non ho mai visto nulla di simile». Fece un passo avanti. «Quali sono i tuoi poteri?»
«Non ho poteri», sbottò El. «Aborro la magia, e tutto ciò che ha a che fare con essa».
«Se ti libero e studio ciò che hai dentro, per vedere quali sono le tue inclinazioni, sarai fedele alla Corona del Cervo?»
«Per sempre!»
Lo stregone strizzò gli occhi all’udire quella risposta rapida e fiera, e aggiunse, «e ai maghi di Athalantar?»
«Mai!» Il suo grido echeggiò nella stanza, e il mago sospirò nuovamente, osservando il giovane furioso che tentava invano di scendere dall’altare. «Basta così», esclamò con voce annoiata. «Uccidetelo».
Il mago si voltò, ed Elminster vide una decina di soldati alzare le lance, soppesarle, e fare uno o due passi indietro per effettuare un buon lancio.
«Perdonatemi, madre… padre», affermò El con labbra tremanti, «io… io ho provato a essere un vero principe!»
Il mago si voltò di scatto. «Che cosa?»
Le lance erano già in aria, ed Elminster fissò gli occhi del mago e sibilò: «Ti maledico, Ildru dei maghi, con la mia morte e la…»
Si interruppe confuso. Non si sarebbe aspettato di andare tanto lontano nella sua maledizione, e poté vedere che il mago aveva alzato le mani per fare qualche incantesimo, gridando: «Aspettate! Fermi! Niente lance!»
Poté anche vedere le guardie che lo fissavano come se fosse un drago, un drago purpureo con tre teste e un corpo di donna, per giunta!
E le lance… rimasero sospese nel vuoto, immobili, circondate da una luminosità perlacea. Elminster avvertì che poteva muoversi, e si voltò. Vi erano lance provenienti da tutte le direzioni, un cerchio mortale di punte pronte a trafiggerlo, ma non si muovevano, e dallo sguardo sbalordito del mago, capì che non era certo opera sua.
El si tuffò a terra, prima che tale strana magia cessasse. La sua mossa lo portò a faccia in giù contro la sommità dell’altare, in tempo per vedere due occhi fluttuanti svanire, e una fiamma sollevarsi improvvisamente dalla roccia nuda.
Le guardie gridarono e indietreggiarono, e il ragazzo udì il mago urlare di stupore.
La fiamma crebbe, scoppiettando, e da essa scaturirono dardi di fuoco, che consumarono le lance sospese. Queste divennero lance di fuoco, si incurvarono lentamente e svanirono in fumo.
El osservava a bocca aperta. L’altare iniziò a emanare un fulgore dorato, che avvolse lentamente anche lui. Le guardie urlarono terrorizzate. Elminster le vide voltarsi, brandire le spade e cercare di fuggire, ma sembravano luccicare e muoversi lentamente, come fossero personaggi di un sogno. La loro corsa diventava sempre più lenta, mentre lingue di fuoco circondavano i loro corpi, senza bruciarli. Rimasero immobili e silenziosi, di ghiaccio… raggelati nelle stesse fiamme.
Il giovane si voltò a guardare il mago, immobile come tutti gli altri, fiamme dorate tremolavano davanti ai suoi occhi fissi. Aveva la bocca aperta, e le mani alzate per effettuare un incantesimo… ma non si mosse.
Che cos’era accaduto?
La fiamma pulsava e si contorceva. El si girò rapidamente per fronteggiare il suo guizzo mutante, ed essa acquisì la forma di… di un individuo alto, aggraziato, avvolto da una tunica nera, che avanzò lentamente per fermarsi accanto al braciere. Una donna umana… o una maga?
Occhi d’oro colato e fiammelle danzanti incontrarono i suoi. «Salve, Elminster Aumar, principe di Athalantar».
El fece un passo indietro, scioccato. No, prima di allora non aveva mai visto quella donna maestosa… o qualcuno di una simile bellezza. Deglutì. «Chi siete?»
«Una che ti ha osservato per anni, sperando di vedere grandi cose», fu la risposta.
Il ragazzo deglutì nuovamente.
Gli occhi della donna erano abissi scuri e misteriosi, e la sua voce possedeva una cadenza musicale. Sorrise e sollevò una mano vuota, nella quale improvvisamente apparve uno scettro di metallo. Scintille luminose baluginavano e pulsavano per tutta la sua lunghezza. El non aveva mai visto nulla del genere: ardeva di fuoco blu, magico, e il suo aspetto, da solo, denotava un grande potere.
«Con questo», affermò tranquillamente la donna, «puoi distruggere in un attimo tutti i tuoi nemici. Basta che lo desideri e pronunci le parole incise sull’impugnatura».
Rilasciò lo scettro, che si sollevò lievemente e poi fluttuò nell’aria verso di lui. Lo guardò avvicinarsi, strizzò gli occhi, e poi lo afferrò. Un potere silenzioso vibrò nella sua mano. Elminster lo sentì crepitare e divampare attorno a lui, e il suo volto si illuminò. Lo sollevò, voltandosi a guardare le guardie immobili, e avvertì in sé un trionfo crudele. La donna lo osservava. Il giovane rimase immobile a lungo, poi si chinò cautamente e depose lo scettro sul pavimento di pietra ai suoi piedi.
«No», esclamò sollevando gli occhi per incontrare lo sguardo di lei, «non sarebbe giusto usare la magia contro uomini inermi. È proprio ciò che tento di combattere, Signora».
«Oh?», lei sollevò il capo per lanciargli un’improvvisa occhiata di sfida. «Lo temi?»
Elminster scosse le spalle. «Un po’» rispose con sguardo impassibile. «Ho più paura di ciò che di sbagliato potrei fare. Il tuo scettro brucia di potere; tale magia potrebbe nuocere se usata avventatamente. Preferisco non vedere il regno distrutto per opera mia». Scosse il capo. «Possedere un po’ di potere può essere… piacevole. Nessuno però dovrebbe possederne troppo».
«Che cosa significa “troppo”?»
«Per me, Signora, in qualsiasi misura. Odio la magia. Un mago uccise i miei genitori, per capriccio, a quanto pare, o per puro divertimento. Distrusse un villaggio intero in men che non si dica, e nessun uomo dovrebbe essere in grado di compiere tali azioni».
«La magia, quindi, è malvagia?»
«Sì», rispose rapido, poi guardò la sua bellezza e continuò, «o forse no… ma il suo potere porta l’uomo a commettere malvagità».
«Ah», rispose la donna. «Una spada è malvagia?»
«No, Signora, ma è pericolosa. Non tutti dovrebbero averne una a portata di mano».
«Oh? Chi dovrebbe fermare i tiranni, e i maghi, allora?»
Elminster si accigliò irritato. «Tentate di ingannarmi con parole intelligenti, Signora!»
«No», ribatté affabilmente lei. «Cerco di farti riflettere prima che tu offra le tue parole intelligenti e i tuoi fermi giudizi. Ti chiedo di nuovo: una spada è malvagia?»
«No», ribatté El, «perché una spada non può pensare».
La donna annuì. «Un aratro è malvagio?»
«No», rispose inarcando un sopracciglio. «Che cosa intendete?»
«Se una spada non lo è, ma può fare del male, ciò non vale anche per lo scettro?»
Il principe aggrottò la fronte e scosse lievemente il capo, ma non rispose.
Quegli occhi luminosi tenevano prigioniero il suo sguardo. «Che cosa accadrebbe se offrissi questo scettro a un apprendista innocente in qualche altro luogo della terra, non a un mago? Che diresti?»
Elminster fu assalito dalla rabbia. Possibile che tutti gli stregoni amassero fare tali discorsi complicati? Perché giocavano sempre con lui, come se fosse un bambino, o una bestia da uccidere o trasformare con un semplice pensiero? «Sarei contrario, Signora. Nessuno dovrebbe usare un simile strumento senza sapere prima come fare… e conoscerlo a sufficienza per prevedere quali cambiamenti potrebbe apportare a Faerûn».
«Parole sagge per un ragazzo. Molti giovani, e molti maghi, sono tanto capricciosi e tanto orgogliosi che oserebbero fare qualsiasi cosa».
Quelle parole placarono un po’ la sua rabbia. Perlomeno la donna lo ascoltava e non lo congedava a priori. Chi era? Mystra costringeva i maghi a proteggere tutti i suoi templi?
Elminster scosse di nuovo il capo. «Io sono un ladro, Signora, in una città governata da maghi crudeli. Capriccio e orgoglio sono lussi che solo gli stupidi ricchi si possono permettere. Se voglio abbandonarmi a essi, devo farlo di notte, nelle camere da letto o sopra i tetti». Sorrise lievemente. «I ladri – ma anche i contadini, i mendicanti, e i piccoli artigiani, mi pare – devono controllarsi maggiormente di giorno, o sono destinati a perire presto».
«Che cosa faresti», chiese curiosamente la maga dagli occhi scintillanti, «se potessi esercitare la magia e diventare un mago potente come quelli che dimorano qui?»
«Userei i miei incantesimi per allontanare tutti i maghi da Athalantar e liberare il popolo. Poi sistemerei qualche altra cosa e rinuncerei per sempre alla magia».
«Poiché la odi», continuò tranquillamente la donna. «E se così non fosse e qualcuno ti desse il potere e ti dicesse che deve essere usato, che devi essere un mago? Che cosa accadrebbe?»
«Tenterei di essere un buon mago», rispose Elminster, scrollando ancora le spalle. I maghi dei templi erano soliti conversare con ogni intruso per tutta la notte? Era bello parlare finalmente in maniera schietta, con qualcuno che ascoltava e sembrava capire senza giudicare.
«Ti incoroneresti re?»
Elminster scosse la testa. «Non sarei un buon re», replicò. «Mi manca la pazienza». D’un tratto sorrise e aggiunse: «Tuttavia, se trovassi un uomo o una donna adatti, starei dietro di loro. È questo ciò che deve fare veramente un mago: allietare la vita delle persone che vivono nella sua terra».
Il suo sorriso, allora, divenne abbagliante. Elminster percepì un potere improvviso nell’aria attorno a lui, e una sensazione di formicolio nei capelli e sulla pelle. «Ti inginocchierai davanti a me?», domandò la maga avvicinandosi.
Elminster deglutì, la sua bocca divenne improvvisamente secca. Era meravigliosa, e pur tuttavia terrificante, i suoi occhi e i suoi capelli pulsavano di potere come una fiamma che attende di esplodere. Tremante, El rimase immobile e le domandò: «S… Signora, qual è il vostro nome? Chi siete?»
«Sono Mystra», tuonò una voce intorno a lui, simile a un’onda possente che si infrange sulla scogliera. L’eco risuonò più volte nella stanza. «Io sono la Potenza e la Signora della Magia! Sono il Potere Incarnato! Dovunque vi sia magia, lì sono anch’io, dai freddi poli di Toril alle sue giungle più calde, qualsiasi mano o artiglio o volontà eserciti l’incantesimo! Servimi e abbi timore di me! Servimi e amami, come fanno tutti coloro che trattano con me onestamente. Questo mondo è il mio dominio. Io sono la magia, la più potente fra tutte quelle che gli uomini venerano. Io sono l’Incantesimo degli Incantesimi. Altri, non ve ne sono».
L’eco svanì. Elminster sentì i pilastri del tempio tremare attorno a lui. Vacillò intimorito, come un uomo che lotta contro un vento forte, ma rimase in piedi. Poi cadde il silenzio, e il suo sguardo incontrò quello di lei.
Fiamme dorate bruciavano negli occhi della donna. El si sentì avvampare, come se un fuoco incandescente scorresse nelle sue vene, e percepì un dolore che avanzava in lui come un’onda rossa e furiosa.
«Ragazzo», esclamò la dea, in un sussurro terrificante, «osi sfidarmi?»
Elminster scosse il capo. «Sono venuto qui per maledirvi o dissacrare questo luogo oppure chiedervi aiuto, ma ora… no. Vorrei che non aveste permesso ai maghi di uccidere i miei genitori e rovinare il mio regno, e vorrei… sapere perché. Ma non desidero sfidarvi».
«Che cosa provi, allora?»
Elminster sospirò. Già dalle prime parole che lei gli aveva rivolto, aveva capito di dover dire la verità, e quella sensazione permaneva. «Io vi temo e…» Rimase un momento in silenzio, e poi ciò che avrebbe potuto essere un sorriso sfiorò le sue labbra, e continuò «… credo che potrei imparare ad amarvi».
Mystra ora gli era molto vicino, e i suoi occhi erano due pozzi scuri e misteriosi. Sorrise, e improvvisamente Elminster si sentì fresco e riposato, a proprio agio.
«Io permisi ai maghi di usare liberamente gli incantesimi, affinché tutti gli esseri che esercitano la magia potessero sfuggire alla tirannia. Ma da quella libertà si è creata la situazione attuale», affermò. «Se vuoi sconfiggerli, perché non diventare tu stesso un mago? Lo scettro non sarebbe altro che uno strumento in tuo possesso… e sembra più adatto alla tua mano che a quella di chiunque altro l’abbia mai impugnato».
Elminster fece un passo indietro, sollevando le mani in un gesto di difesa inconscio.
Mystra si fermò, il suo sguardo divenne improvvisamente severo. «Ti chiedo ancora: ti inginocchierai davanti a me?»
Con lo sguardo fisso nel suo, El si inchinò lentamente. «Signora, vi confesso che sono sgomento», rispose lentamente, «ma se vi servirò… preferirei farlo con gli occhi aperti».
Mystra rise, i suoi occhi scintillarono. «Ah, è da molto tempo che non incontro un individuo come te!»
Poi il suo volto tornò solenne, e la sua voce si abbassò. «Stendi la tua mano, liberamente e con fiducia, oppure vattene in pace; scegli».
El protese la mano senza esitazione. Mystra sorrise e la toccò. Lingue di fuoco lo consumarono, lo fecero turbinare impotente nel nulla, e oltre, e lo scagliarono in profondità dorate… mentre migliaia di dardi luminosi gli trapassavano il petto come fiamme affamate.
Elminster gridò, o almeno tentò di farlo, mentre veniva gettato lontano nella follia multicolore, in un luogo di luce accecante e dolore pulsante. Urlò, e quando l’oscurità salì rapidamente verso di lui, vi si tuffò a capofitto, urtandola come fosse un muro di pietra. Era… svanito…
Fu di nuovo il freddo a svegliarlo. Elminster si mise a sedere, quasi aspettandosi di vedere il cimitero assopito intorno a lui, e invece si ritrovò nel tempio, silenzioso e scuro. Ora il potere scorreva in esso, un fremito silenzioso e invisibile, che come una rete si estendeva dall’altare spoglio alle guardie e al mago, immobili nel presbiterio circolare.
Ora riusciva a percepire la magia e a vederla!
Intimorito, El si guardò attorno. Era nudo; i suoi abiti erano stati consumati dal fuoco e giacevano in cenere ai suoi piedi; solo la Spada del Leone, accanto a lui, era immutata nel suo stato pietoso. Raccogliendola con un sorriso – la Signora della Magia conosceva evidentemente la sua missione – si alzò in piedi. Il bagliore bluastro della magia avvolgeva l’intera stanza, ma era più intenso dietro di lui. Si voltò e guardò l’altare.
Mystra era svanita, e il suo scettro con lei, ma non appena posò lo sguardo sulla pietra, dall’altare si levarono parole fiammeggianti. Avanzò rapidamente per leggerle. «Impara la magia, e viaggia per i Regni. Saprai quando giungerà il momento di tornare ad Athalantar. Adorami sempre con quella tua mente pronta e quella tua assenza di orgoglio, e ne sarò compiaciuta. Servimi, dapprima, toccando il mio altare».
A mano a mano che leggeva, le parole svanivano. Quando l’altare fu di nuovo nudo e cupo, Elminster si protese, si fermò improvvisamente, tremante di paura, e poi posò una mano ferma sulla pietra gelida.
Credette di udire un riso soffocato, da qualche parte lì accanto… poi le tenebre lo reclamarono nuovamente.
Vi ho mai detto come abbia iniziato a servire Mystra? No? In ogni caso non credereste a una parola di ciò che vi racconterei. Le vie della Signora sembrano strane a molti uomini, gran parte dei quali sono – più o meno – assennati.
Il mondo era avvolto in una foschia bianca. Elminster scosse il capo per liberarsene e udì il canto di un uccellino. Un uccello? Nelle profondità del tempio buio e vuoto? Scosse di nuovo la testa e si rese conto con un sussulto che i suoi piedi nudi erano appoggiati sul muschio e sulla terra, non sulla pietra fredda. Dove si trovava?
El iniziò ad agitarsi per dissipare la foschia… le nuvole erano nella sua mente, non nel mondo circostante. Mentre agitava la testa, udì ancora il richiamo dell’uccellino, e un lieve fruscio, un suono che gli ricordò il vecchio Heldon: una brezza tra le fronde degli alberi.
Si trovava in una foresta. Quando l’ultima nebbia si fu dissolta, El si guardò attorno e trattenne il respiro. Era nel cuore di un bosco, una fitta schiera di arbusti scuri e di alberi dalle foglie bluastre si ergeva attorno a lui, il terreno sotto di essi, scuro e cosparso di muschio, si estendeva a perdita d’occhio.
Il ragazzo era al sole sopra una collinetta, dove numerosi vecchi giganti della foresta erano stati abbattuti e avevano ceduto il posto a una radura raggiungibile dal sole. Era una piccola macchia di muschio illuminato dal sole in cui si trovavano un pietra piatta e un minuscolo laghetto cristallino. La Spada del Leone giaceva sopra la pietra. La magia di Mystra doveva averla portata in quel luogo assieme a lui.
Elminster si protese per afferrarla. Inginocchiandosi avvertì una strana oscillazione al petto. Corrugò la fronte, guardò in basso e vide i seni e le curve morbide di una fanciulla. Elminster osservò sbalordito, e fece scorrere una mano interrogativa sul suo corpo. Era solido e reale… si guardò attorno allarmato, ma vide che era solo. Mystra l’aveva trasformato in una donna!
Afferrando l’impugnatura famigliare e rassicurante della sua spada, El raggiunse carponi il laghetto oltre la pietra e si specchiò nelle placide acque. Studiando la sua immagine riflessa, vide il solito naso adunco e i soliti capelli neri, ma il viso era più morbido, la bocca insolente – ora corrugata per la costernazione – il collo lungo, e sotto di esso, un corpo dai fianchi stretti e piuttosto ossuto. Non era più Elminster.
Mentre guardava in basso, qualcosa sembrò crescere nelle profondità del lago… una cosa bianca e blu, balzellante: una fiamma.
El si risedette. Un fiamma stava bruciando sott’acqua, alimentata dal nulla! Una fiamma che si innalzava e diventava dorata… Mystra!
Allungò una mano anelante per toccare la fiamma non appena questa sfiorò la superficie, senza pensare che avrebbe potuto distruggerlo, finché fu troppo tardi e le sue dita esili avevano già percepito una bruciante sensazione di… freschezza! Una voce sembrò parlare nella sua testa. «Elminster diventa Elmara per vedere il mondo con gli occhi di una donna. Impara come la magia è parte di tutte le cose e forza vivente in se stessa, e pregami al fuoco di un fiammella. Troverai un maestro in questa foresta». La fiamma svanì ed Elminster rabbrividì. Conosceva quella voce.
Guardò di nuovo in basso, meravigliato. Adesso era… “Elmara”, esclamò forte, e lo ripeté, la sua voce molto più musicale di prima.
Scosse il capo, ricordando improvvisamente una notte ad Hastarl, in compagnia di una fanciulla comprata con monete rubate su insistenza di Farl. Ricordò i baci caldi e morbidi, e le spalle graziose, vellutate, sulle quali scorrevano le sue dita, che vagavano timide ed esitanti.
Se ora fosse stato in quella stanza, si sarebbe trovato dall’altra parte. Hmmm.
E così quello era il primo trucco di Mystra. Elmara torse ironicamente le labbra, rabbrividì per l’ennesima volta, e poi fece un sospiro profondo. Elminster, il principe venuto dal nulla, le cui battaglie fallite gli avevano fatto conoscere almeno due maghi, se ne era andato… almeno per ora, forse per sempre. La sua causa, giurò, non sarebbe morta, ma sarebbe stata portata a termine. Ci sarebbero voluti anni, forse, e per ora…
Elmara mormorò: «Che fare ora?» Una brezza soffiò tra le foglie, in risposta.
Scrollò le spalle, si alzò e camminò sopra la collinetta – notando che il suo passo era lievemente diverso, più breve e più ancheggiante – ma non c’era nient’altro che muschio e foglie morte. Era sola, e senz’abiti, un ramoscello pungente sotto ai piedi nudi. Che fare?
In quel luogo non vi era cibo, né riparo. Il sole le scottava la testa e le spalle… era meglio spostarsi all’ombra. La voce di Mystra aveva detto che avrebbe trovato un tutore nella foresta, ma era riluttante a lasciare il laghetto, forse il suo unico legame con la dea… ma no. Mystra aveva affermato che El l’avrebbe pregata al fuoco di una fiammella, e su quella collinetta non vi erano ramoscelli o foglie sufficienti. Secondo la dea lei avrebbe trovato un maestro, e ciò implicava che avrebbe dovuto cercarne uno.
Elmara sospirò, giocherellò pensierosa con la Spada del Leone, e guardò il sole con occhi socchiusi. Il bosco assomigliava alla Grande Foresta sopra Heldon. Se di quella si trattava, andando a sud avrebbe raggiunto i suoi margini, e forse trovato cibo, se non fosse riuscita a trovare qualcosa da mangiare fra gli alberi, e si sarebbe fatta una pur vaga idea di dove si trovava. Il terreno sotto gli alberi era scuro e ondulato, e presentava ovunque scarpate scoscese e piccole gole. Se avesse abbandonato quella collina, senza dubbio non l’avrebbe più ritrovata. Quel pensiero le ricordò il laghetto, allora si inginocchiò e bevve a lungo, non sapendo quando avrebbe rivisto l’acqua.
Il tempo non guarda in faccia a nessun uomo e a nessuna donna, ribadì ironicamente a se stessa, domandandosi quanto tempo le sarebbe occorso per abituarsi al suo nuovo stato. Mentre si incamminavano nella foresta, evitò di guardare indietro, e, pertanto, non vide quel paio di occhi fluttuanti che apparvero sopra la pozza, che la osservavano allontanarsi e sembravano annuire con approvazione.
Aveva camminato tutto il giorno e i suoi piedi erano malconci. Trasaliva a ogni passo, lasciando tracce di sangue. Doveva salire su un albero prima di sera, altrimenti qualche gatto della foresta o qualche lupo avrebbero seguito la sua pista. Se l’avessero azzannata alla gola sarebbe morta senza neanche il tempo di svegliarsi.
Elmara si guardò intorno ansiosamente. La foresta infinita sembrava ora cupa e minacciosa, mentre gli ultimi raggi solari si coloravano d’ambra e lasciavano spazio al tramonto… avrebbe dovuto accendere un fuoco? Avrebbe potuto attirare bestie feroci… ma sì, lo avrebbe acceso comunque. Un fuoco piccolo, che avrebbe lasciato morire prima di addormentarsi. Una fiamma per pregare Mystra. Da allora in poi, l’avrebbe acceso tutte le notti, promise solennemente.
Si chinò e raccolse alcuni ramoscelli secchi da sotto una foglia larga e li distribuì su una roccia vicina. Poi si soffermò, confusa. Come l’avrebbe acceso? Con una pietra focaia, sì, ma non l’aveva con sé, e nemmeno aveva strumenti d’acciaio.
Un attimo dopo, si batté la fronte ed emise un verso di deprecazione. Ma certo, la Spada del Leone! La sollevò, scuotendo la testa per la sua lentezza d’ingegno, e la sfregò sulla roccia.
Ne scaturì una scintilla. Sì! Era il modo giusto. Iniziò a battere l’estremità della pietra con la parte più solida della spada, quella arrotondata appena al di sotto dell’impugnatura, cercando di catturare ogni scintilla con i ramoscelli. I colpi echeggiavano distanti sotto gli alberi e le scintille saltavano e brillavano dove non le voleva, disdegnando il ramoscello secco.
Prima la frustrazione, poi la rabbia si impadronirono di lei; possibile che non riuscisse a far nulla di buono? «Sto tentando, Mystra», mormorò rabbiosamente, «ma…»
Si interruppe quando percepì un bagliore bianco nella parte posteriore della sua mente. Usare la mente per evocare un fuoco? Fino ad allora era riuscita solo a manovrare lievemente gli oggetti, o a rallentare un tantino le cadute, o a fermare piccole emorragie… era davvero in grado di farlo?
Perché non provare? Calò lo sguardo sulla spada ed evocò il fuoco bianco dentro di lei, alimentandolo con la sua rabbia, finché questo non divampò e le riempì la mente. Poi abbassò violentemente la spada sulla roccia. Ed ecco che una scintilla sembrò crescere ed espandersi in una piccola sfera di luce, prima di ricadere sul terreno e svanire.
El spalancò gli occhi. Guardò il punto in cui la scintilla si era spenta, poi scrollò le spalle e ricominciò lentamente a generare il fuoco nella sua mente. Questa volta, la scintilla si fece incandescente e si ingrandì; Elmara strinse i denti e, con la mente, cercò di spostarla da una parte e di mantenerla accesa… e la scintilla si posò sul legno.
Un ricciolo di fumo si sollevò. El lo contemplò e sogghignò, soddisfatta. Soffiò delicatamente sul ramoscello e ne avvicinò altri, più una foglia, affinché prendessero fuoco, se solo gli dei volessero… sì! Si sollevò una fiamma minuscola, una lingua ambrata che iniziò a lambire e ad annerire la foglia e che a mano a mano divenne più alta.
El tremò, avvertendo repentinamente un dolore pulsante nella testa, si leccò le labbra e rivolta alla fiamma mormorò: «I miei ringraziamenti, grande Mystra. Cercherò di imparare, e di servirti a dovere».
La fiamma si innalzò improvvisamente, quasi bruciandole il naso, e poi d’improvviso scomparve, come se non fosse mai esistita. Elmara fissò quel punto vuoto, poi si risedette, con la testa scoppiante fra le mani. Nessuna fiamma normale si sarebbe comportata in quel modo; Mystra doveva averla udita.
Si inginocchiò per qualche istante, nella speranza di cogliere qualche altro segno o parola della dea, ma tra gli alberi non vi era nient’altro che il buio, e un odore lieve di fumo. Ma perché avrebbe dovuto aspettarsi qualcosa di più? Prima di quella notte non aveva mai visto Mystra… e vi erano altre persone e altre faccende a Faerûn, oltre a Elminster di Athalantar.
Elmara, si corresse distrattamente. In ogni caso, che cosa facevano gli dei tutto il giorno?
Improvvisamente uno stivale poggiò delicatamente sul terreno che stava fissando, calpestando fermamente la Spada del Leone. La giovane trasalì e alzò lo sguardo. Occhi fieri, occhi di elfo, la stavano fissando e non sembravano affatto amichevoli. Dalla mano distesa verso di lei si irradiò un bagliore forte, che si trasformò in una spada di luce puntata davanti al suo mento.
«Dimmi», esclamò tranquillamente una voce nitida, «perché dovrei lasciarti vivere».
Delsaran annusò improvvisamente l’aria e alzò il capo. «Fuoco!» L’albero che stava plasmando cadde all’indietro sotto le sue mani quando la magia vacillò. Una rabbia repentina gli fece arrossire la punta delle orecchie. «Qui, nel cuore della vecchia foresta!»
«Sì», confermò Baerithryn, ma lo trattenne posandogli una mano sul braccio. «Ma, piccolo, aspetta». Sollevò l’altra mano, disegnò un cerchio nell’aria con due dita, e pronunciò una parola sommessa.
Un attimo dopo, un volto assorto apparve nell’aria, il viso di una donna umana. Delsaran sibilò ma non proferì parola mentre ascoltavano ciò che diceva: «I miei ringraziamenti, grande Mystra. Cercherò di imparare, e di servirti a dovere».
La fiamma allora si innalzò, e la loro visione esplose in un brulichio di scintille blu. Delsaran rimase a bocca aperta. «La dea l’ha udita», esclamò incredulo, a denti stretti.
Baerithryn annuì. «Dev’essere la ragazza preannunciataci dalla Signora». Si alzò, un’ombra silenziosa nell’imbrunire, e continuò: «Devo guidarla, come promesso. Lasciaci fare… come hai promesso».
Delsaran fece un lento cenno col capo. «La Signora assicura successo», le sue labbra si contorsero ironicamente, «a tutti e tre». Baerithryn appoggiò silenziosamente una mano sulla spalla dell’amico, poi scomparve.
Delsaran fissò con sguardo assente l’albero che stava plasmando, poi scosse il capo. Gli uomini gli avevano ucciso i genitori e le loro asce avevano abbattuto gli alberi della sua infanzia… Perché la Signora aveva mandato loro un umano? Non voleva che la sua gente fosse guidata ad apprendere la vera magia?
«Credo che pensi che gli elfi siano abbastanza saggi da guidarsi da soli», esclamò a voce alta, poi sorrise quasi malinconicamente e si alzò in piedi. Mystra non aveva mai parlato con lui. Scrollò le spalle, appoggiò per un istante le mani sull’albero con fare rassicurante, e poi scivolò via nella notte.
Elmara guardò la spada. «Non esiste una ragione particolare», rispose finalmente. «Mystra mi ha condotto qui, e…», indicò il suo corpo con un gesto, e un rossore improvviso le colorò il volto, «mi ha trasformato. Non intendo fare del male a voi o a questo luogo».
L’elfo la scrutò seriamente per un istante e poi affermò: «Tuttavia, in te vedo la volontà di fare del male a molta gente».
El lo fissò negli occhi, la gola improvvisamente secca. Deglutì e ribatté: «Vivo per vendicare i miei genitori. I miei nemici sono i maghi malvagi di Athalantar».
L’elfo rimase in silenzio, immobile e scuro come gli alberi intorno. La spada di luce non vacillò. Sembrava attendere altre parole.
Elmara alzò le spalle. «Per distruggerli, devo padroneggiare la magia… o trovare qualche metodo per distruggere la loro. Ho… incontrato Mystra. Mi ha detto che avrei trovato una guida in questa foresta… Conoscete un mago o un sacerdote di Mystra in questo luogo?»
La spada scomparve. Battendo le palpebre per abituare gli occhi all’improvvisa oscurità, El udì la voce pronunciare un semplice «Sì». Poi silenzio.
Temendo di rimanere sola nella notte dell’infinita foresta, El domandò rapidamente: «Mi condurreste gentilmente da quella persona?» Con suo stupore, la sua voce tremolò.
«“Quella persona” l’hai appena trovata», rispose l’elfo con una nota di soddisfazione o di silenzioso divertimento. «Dimmi il tuo nome».
«El-Elmara», rispose, e qualcosa le fece aggiungere, «ero Elminster fino a questa mattina».
L’elfo annuì. «Baerithryn», si presentò. «Ero Braer per l’ultimo umano che mi ha conosciuto».
«Chi era?» chiese El spinta da curiosità improvvisa.
Quegli occhi solenni scintillarono. «Una maga… morta trecento estati fa».
El abbassò lo sguardo. «Oh».
«Non sono molto amante delle domande, come avrai modo di constatare», aggiunse l’elfo. «Guarda, ascolta e impara. Questo è il metodo di noi elfi. Gli umani hanno molto meno tempo, continuano a farfugliare domande e poi si affrettano a fare le cose senza aspettare, o capire veramente, le risposte. A tal proposito spero di riuscire a migliorarti… almeno un po’». Si protese e aggiunse, «ora sdraiati».
El lo guardò, e poi ubbidì, domandandosi cosa sarebbe accaduto. Inconsciamente, si coprì le nudità con le mani.
L’elfo sembrò sorridere. «Ho veduto altre donne prima d’ora… e ormai ho visto interamente anche te». Si acquattò silenziosamente e continuò, «dammi il tuo piede».
El lo guardò meravigliata, poi sollevò il piede sinistro. L’elfo lo prese fra le sue mani, e con un tocco lieve come una piuma, alleviò lentamente il suo dolore. El rimase attonita.
«Ora il destro», le ordinò semplicemente. La ragazza lasciò cadere il piede guarito e gli porse l’altro. Di nuovo il dolore svanì. «Hai dato sangue alla foresta», spiegò, «il che soddisfa un rituale che molti considerano spiacevole». La presa sul suo tallone divenne più forte, poi l’elfo emise un rumore strano e lasciò ricadere il piede.
Un attimo dopo, muovendosi come un liquido che scorre silenzioso, l’elfo era inginocchiato accanto alla sua testa. «Permetti», esclamò, e aggiunse, «rimani immobile». Elmara percepì il tocco leggero delle sue dita sugli occhi, ed ecco che lentamente, molto lentamente, il dolore nella sua testa diminuì, per scomparire del tutto.
Insieme a esso svanì anche la stanchezza, e si sentì improvvisamente vigile, zelante e sveglia. «Che – grazie, signore – che cosa avete fatto?»
«Varie cose. Ho usato magia elementare, ciò che tu devi imparare come prima cosa. E poi non mi piace essere chiamato “signore”, vorrei che mi chiamassi “Braer” e che mi vedessi come una persona, non come una sorta di mostro magico». Le parole vennero sussurrate al suo orecchio, ma Elmara sentì che la sua risposta era molto importante.
Sollevò lentamente la testa, e vide quegli occhi che la fissavano a un palmo di distanza. «Per favore perdonami, Braer. Vorrai essere mio amico?» Impulsivamente si protese e baciò il volto che intravedeva appena. Gli occhi dell’elfo brillarono nei suoi quando le sue labbra lo sfiorarono, un naso adunco e ossuto.
Braer non si ritrasse. Le sue labbra non toccarono quelle della donna, ma un attimo dopo Elmara sentì le dita morbide accarezzarle il mento. «Così va meglio, figlia di un principe. Ora dormi».
El si sentì precipitare in un vuoto di tiepida oscurità, ancora prima di potersi chiedere come facesse Braer a sapere che suo padre era stato un principe… forse, riuscì tuttavia a pensare, mentre nebbie sussurranti le offuscavano la mente, tutta Faerûn lo sapeva…
«Hai iniziato come tutti i principianti: intimorita dalla magia. Poi hai imparato a temerla, e a odiare tutti coloro che la possiedono, e successivamente hai compreso che è un’arma troppo potente per essere ignorata. Allora, padroneggiarla o trovare una difesa contro di essa è diventata una necessità».
Braer rimase in silenzio e si protese, osservando attentamente magiche fiammelle blu che danzavano sulla punta delle dita di Elmara. Fece un gesto, e ubbidientemente la giovane le fece salire e scendere, un dito per volta.
«Ti chiederai, ora, perché ho sprecato tanta parte della tua breve vita con giochetti da bambini», esclamò Braer con fermezza. «Non è per farti familiarizzare con la magia, quello l’hai già fatto. È semplicemente per fartela amare per quello che è, non per ciò che puoi fare con essa».
«Perché», domandò Elmara alla maniera degli elfi, il fuoco riflesso danzante nei suoi occhi quando i loro sguardi si incontrarono, «un uomo o una donna dovrebbero amare la magia?»
Il suo maestro rimase in silenzio, come accadeva un po’ troppo spesso per i suoi gusti. Si guardarono negli occhi, finché la ragazza aggiunse: «Potrei pensare che l’amore per essa induca gli uomini a diventare curvi in stanze anguste, a isolarsi e diventare arcigni, oppure a impazzire nel rincorrere un qualche incantesimo inafferrabile o qualche dettaglio, sprecando in tal modo la loro vita».
«Alcune volte ciò accade», confermò Braer. «Ma l’amore per la magia è necessario per coloro che adorano Mystra – per i sacerdoti della dea, se vuoi, sebbene molti non vedano alcuna differenza fra essi e i maghi – non tanto per i maghi. Bisogna amare la magia se la si vuole venerare».
Elmara aggrottò la fronte. Nella sua chioma lunga, folta e ribelle vi erano ora alcuni capelli grigi; aveva studiato la magia per due inverni al fianco di Braer, pregando Mystra ogni sera… senza risposta. Hastarl e la sua vita da ladro le sembravano un sogno lontano, ma riusciva ancora a ricordare i volti dei maghi che aveva visto.
«Alcuni adorano per paura. Ciò ne sminuisce forse il rispetto?»
L’elfo annuì. «Sì», rispose semplicemente, «anche se non se ne rendono conto». Si alzò, leggiadro e silenzioso come sempre. «Ora soffoca quel fuoco e aiutami a trovare la cena».
Si incamminò fra gli alberi, sapendo che la donna avrebbe fatto altrettanto. Elmara si alzò, sorrise lievemente, e lo seguì. Trascorrevano le giornate a parlare mentre lei esercitava la magia sotto la sua guida, e a raccogliere cibo nella foresta. Una volta l’elfo le aveva mostrato come assumere le sembianze di un lupo, poi si era lanciato all’inseguimento di un cervo, con lei che lo seguiva incespicando. In tutti quei giorni trascorsi insieme, El non l’aveva visto fare altro che guidarla, sebbene la lasciasse ogni notte e non tornasse fino all’alba. Sceglieva sempre lui il luogo in cui dormire, e la sua vista da maga le diceva che attorno a lei si creava una sorta di anello magico protettivo.
Braer non sembrava mai stanco, o sporco, o tanto meno impaziente. Il suo garbo era imperturbabile, e non vi fu mai giorno che non si fosse presentato. Non vide altri elfi, né altre creature, sebbene una volta le avesse confermato che si trovavano effettivamente nella Grande Foresta, la dimora presunta del regno di elfi più grande di tutta Faerûn.
La prima mattina nella foresta, Braer le aveva portato una veste grezza di pelle animale, stivali alti, lucenti, di una comodità inaspettata, una cinghia per legare la Spada del Leone intorno al collo (la teneva avvolta in una pelle per evitare di ferirsi il petto), e una sorta di paletta per scavare buchi per i propri bisogni. Per lavarsi, si sfregava con foglie e muschio e si risciacquava nelle piccole pozze e nei rivoli che sembravano costellare quella foresta infinita. Quando commentò che sembravano trovare acqua dietro ogni collina o in ogni gola, Braer aveva annuito e le aveva risposto: «Come per magia».
Quel ricordo sfiorò improvvisamente la mente di Elmara. Guardò davanti a sé l’elfo che scivolava tra gli alberi come un’ombra silenziosa, e improvvisamente si mise a correre per raggiungerlo. Come sempre quando aumentava il passo, rami e foglie scricchiolavano e frusciavano sotto i suoi piedi. Braer si voltò e la guardò accigliato.
El fece altrettanto, e gli porse la domanda che era sorta poco prima nella sua mente: «Braer, perché gli elfi amano la magia?»
Per un attimo fugace, un ghigno di esultanza illuminò il volto dell’elfo. Poi scomparve, e la sua faccia riacquistò l’espressione solita, calma e interessata. El, tuttavia, era certa di aver visto quello sguardo compiaciuto, e il suo cuore si risollevò. Le parole dell’elfo la riempirono di gioia. «Ah… ora inizi a pensare, e a fare le domande giuste. Posso iniziare a insegnarti». Si voltò e continuò a camminare.
«Iniziare a insegnarmi?» domandò Elmara indignata rivolgendosi all’elfo di schiena. «E che cosa avresti fatto nei due anni appena trascorsi?»
«Ho sprecato molto tempo», rispose con tranquillità, rivolto agli alberi di fronte a lui, e il cuore della donna si strinse.
Gli occhi le si riempirono di lacrime, e scoppiò a piangere, cadendo sulle ginocchia. Pianse a lungo, sentendosi sola, perduta, inutile, e quando ebbe esaurito tutte le lacrime, si mise a sedere a fatica, e si guardò intorno. Era sola.
«Braer!» gridò. «Braer! Dove sei?» Il suo grido echeggiò tra gli alberi, ma non si udì risposta. Si accasciò nuovamente, e sussurrò: «Mystra, aiutami. Mystra… aiutami!»
Si stava facendo buio. Elmara guardò ansiosamente in tutte le direzioni. Si trovava in una parte di foresta che non aveva mai visto. Con improvvisa urgenza evocò un fuoco magico, e sollevò la sua mano ardente affinché le facesse da lanterna. Gli alberi attorno a lei sembrarono frusciare e scuotersi per un momento, ma poi ripiombarono in un silenzio teso, vigile.
«Braer», esclamò nell’oscurità. «Per favore… torna indietro!»
Un albero vicino ondeggiò e si inchinò, poi fece un passo avanti. Era Baerithryn e aveva lo sguardo triste. «Mi perdoni, Elmara?»
Elmara gli corse incontro e lo abbracciò, singhiozzando. «Dove sei andato? Oh, Braer, che cos’ho fatto?»
«Mi dispiace, Signora. Le mie parole non intendevano essere un giudizio». L’elfo la tenne fra le sue braccia delicatamente, ma con fermezza, cullandola lievemente da una parte e dall’altra, come fosse un bambino da consolare. Con tenerezza infinita, le sue mani le accarezzarono i lunghi capelli aggrovigliati.
Elmara tirò indietro la testa, le lacrime scintillanti sulle sue guance. «Ma tu sei andato via!»
«Sembravi aver bisogno di un po’ di tempo per addolorarti… uno sfogo», si scusò l’elfo a voce bassa. «Non mi sembrava giusto soffocare ciò che provavi. Inoltre, qualche volta le cose devono essere affrontate e combattute da soli».
La prese per le spalle e l’allontanò delicatamente, fino a poterla guardare negli occhi. Poi sorrise e sollevò una mano, improvvisamente comparve una ciotola fumante, che emanò intorno a loro un profumo divino di selvaggina bollita. «Ti va di cenare?»
Elmara sorrise debolmente e annuì. Braer roteò l’altra mano, e un calice d’argento apparve dal nulla. Glielo porse con gesto elegante. Quando El lo afferrò, Braer effettuò un’altra rotazione ampia della mano, e questa volta comparvero due forchette e due coltelli decorati. Le fece segno di sedersi.
Elamara scoprì di essere molto affamata. Le otarde della foresta erano state cotte in una salsa di funghi e avevano un sapore delizioso e il calice si rivelò colmo del miglior vino di menta che avesse mai bevuto, incredibilmente chiaro e corposo. Divorò tutto; Braer sorrideva e, mentre la osservava, scosse il capo più di una volta.
Quand’ebbe terminato, un ulteriore svolazzo della mano dell’elfo produsse una ciotola di acqua acetata calda e un panno morbido di lino perché la donna potesse lavarsi la faccia e le mani. Mentre si puliva il grasso dal mento, vide che la sua espressione grave era tornata.
«Ti chiedo nuovamente, Elmara: mi perdoni? Ti ho fatto un torto».
«Ti perdono, naturalmente». El allungò la mano appena lavata e strinse una delle sue.
Braer guardò le loro mani, poi di nuovo il volto di lei. «Ti ho fatto ciò che noi della foresta consideriamo una cosa cattiva: ti ho giudicata male. Non volevo sconvolgerti… né desideravo peggiorare le cose lasciandoti sola nel tuo dolore. Ti ricordi che cosa stavamo dicendo?»
Elmara lo fissò. «Sì, che avevi sprecato molto tempo nelle due stagioni passate, e che solo ora potevi cominciare a insegnarmi».
Braer annuì. «Quale domanda mi hai fatto, affinché io rispondessi in quel modo?»
El aggrottò le sopracciglia, poi rispose lentamente, «Ti ho chiesto perché gli elfi amano la magia».
Braer assentì col capo. Agitò una mano e tutte le stoviglie della cena scomparvero, e un anello di fuoco color blu intenso li avvolse improvvisamente. Incrociò le gambe e chiese: «Te la senti di parlare tutta la notte?»
«Naturalmente… perché?», domandò El un po’ perplessa.
«Ci sono alcune cose che dovresti sapere… e sei finalmente pronta per ascoltare».
Elmara lo guardò negli occhi e si protese. «Allora parla», gli sussurrò ansiosamente.
Braer sorrise. «Per rispondere direttamente, per una volta, a una delle tue domande: noi amiamo la magia perché amiamo la vita. Essa è l’energia vitale di Faerûn, ragazza, raccolta nella sua forma grezza e utilizzata per creare effetti specifici da coloro che ne conoscono il modo. Gli elfi, e anche il Popolo Robusto, che dimora nelle profondità della roccia, sotto di noi, vivono a stretto contatto con la terra… sono parte integrante di essa, e in perfetto equilibrio con la natura. Noi ci riproduciamo in numero non superiore a quello che la terra può sopportare e forgiamo la nostra vita in base a ciò che essa può sostenere. Perdonami, ma gli umani sono diversi».
La donna annuì e gli fece cenno di continuare.
Braer le rivolse nuovamente lo sguardo e continuò: «Come gli orchi, gli uomini sanno fare al meglio quattro cose: riprodursi troppo rapidamente; bramare tutto ciò che li circonda; distruggere ciò che ostacola i propri desideri e dominare quello che non possono o non si curano di distruggere».
Elmara continuò a fissarlo. Il suo volto era pallido ma, nuovamente, con un gesto lo invitò a proseguire.
«Parole dure, lo so», riconobbe a bassa voce l’elfo, «ma questo è ciò che i tuoi simili rappresentano per noi. Gli uomini cercano di cambiare Faerûn a loro piacimento. Se noi – o qualsiasi altro – li ostacoliamo, veniamo eliminati. Gli uomini sono rapidi e intelligenti – questo sì – e sembrano imbattersi in idee e modi nuovi più spesso di altre creature… ma per noi, e per la terra, rappresentano un pericolo strisciante. Una malattia subdola che corrode questa foresta e altre parti intatte del regno… e noi con esso. Tu sei la prima della tua razza a essere tollerata nelle profondità di questo bosco per un periodo tanto lungo e vi sono alcuni tra il mio popolo che ti preferirebbero morta, concime per gli alberi».
Elmara lo fissò silenziosamente, il volto bianco e gli occhi incupiti.
Braer sorrise lievemente, e aggiunse: «La morte è una meta poco ambita dalla tua razza, ma più lodevole di molte altre che gli uomini perseguono».
La donna emise un sospiro lungo e tremolante, e domandò: «Perché… mi tollerate?»
L’elfo allungò esitante una mano e strinse una delle sue, proprio come lei aveva fatto poco prima. «Per semplice rispetto della Signora mi sono impegnato a guidarti», rispose, «e a trasformarti, in modo da arrecarci il minor danno possibile, negli anni, se è volontà degli dei che tu viva».
Il suo sorriso divenne più ampio. «Io ho imparato a conoscerti e a rispettarti. Conosco la storia della tua vita, Elminster Aumar, principe di Athalantar. So che cosa speri di fare – e non sarebbe prudente non aiutare un individuo votato a combattere i nostri nemici più potenti e più prossimi, i signori maghi. Il tuo carattere – e in particolare la tua forza nell’accantonare l’odio per la magia al fine di servire la Signora, e il non aver perso il senno quando ti ha trasformato in una donna senza avvertimento – ha reso il mio compito molto più che un dovere o una necessità; tu lo hai trasformato in un piacere».
Elmara deglutì, gli occhi le si riempirono di lacrime, che subito le scivolarono lungo le guance. «Tu-tu sei la persona più gentile e più paziente che abbia mai conosciuto», gli sussurrò. «Ti prego perdonami per aver pianto, prima».
Braer le picchiettò la mano. «Era colpa mia. Per rispondere alla domanda che hai appena pensato: Mystra ti ha reso donna sia per nasconderti dai signori maghi sia per farti percepire il legame tra la magia, la terra, e la vita; le donne riescono a percepirlo meglio degli uomini. Nei giorni a venire, ti posso mostrare come percepire e lavorare con quel legame».
«Riesci a leggere i miei pensieri?», gridò Elmara, ritraendo bruscamente la mano. «Allora perché, per tutti gli dei, non mi hai semplicemente detto ciò che avevo bisogno di sapere?»
Braer scosse il capo. «Riesco a leggere il pensiero solo se carico di emozioni forti, e quando sono molto vicino. Inoltre, pochi sono in grado di imparare veramente se ogni loro pensiero frivolo viene soddisfatto in un istante. Non si prendono la briga di pensare o di ricordare, ma diventano dipendenti dalla persona che li guida».
Elmara aggrottò le sopracciglia e annuì molto lentamente. «Sì», affermò a bassa voce. «Hai ragione».
Braer continuò: «Lo so. È la disgrazia della mia razza».
La ragazza lo osservò per un attimo, poi scoppiò a ridere. Dopo alcuni singhiozzi incontrollati, si interruppe, udendo un rumore che non aveva mai sentito: un suono profondo, secco… Baerithryn degli elfi stava ridacchiando.
Si stava facendo giorno fra gli alberi, quando Braer domandò: «Troppo stanca per continuare?»
Elmara era irrigidita per essere stata troppo a lungo seduta e vacillò per la stanchezza, ma sussurrò ardentemente: «No! Devo sapere! Continua».
Braer inclinò la testa in segno di approvazione, e proseguì: «Sappi allora che la Grande Foresta sta morendo, a poco a poco, anno dopo anno, sotto le asce degli uomini e gli incantesimi dei maghi. Essi conoscono il nostro potere, e incerti del loro, credono di poter ottenere la sicurezza del loro regno solo distruggendoci».
Lentamente, con la mano tracciò un arco per indicare gli alberi silenziosi intorno a loro. «Il nostro potere è radicato nell’alternarsi delle stagioni. È tratto dalla vitalità e dalla forza della terra, e non ha nulla a che fare con incantesimi di battaglia e con la distruzione. I signori maghi sono consapevoli di ciò e sanno come costringerci a combattere in modi e luoghi in cui possono sconfiggerci, pertanto, spesso, non osiamo combatterli apertamente… e sanno anche questo. Ho perso molti amici che si rifiutavano di ammettere che il potere dei maghi fa concorrenza o addirittura supera il nostro».
Braer sospirò e continuò: «Noi possiamo aiutare te, e altri come te, nelle vostre battaglie contro di loro… e lo faremo. Fintanto che rispetterai la terra e che vivrai in armonia con essa, le nostre strade saranno unite, e anche le nostre battaglie lo saranno. Quando avrai bisogno di aiuto contro i maghi e ci chiamerai, verremo in tuo soccorso. Te lo giuriamo».
Dopo un istante, una decina di alberi intorno a loro ondeggiò e fece un passo avanti, e le sue parole vennero ripetute sonoramente. «Te lo giuriamo».
Elmara guardò intorno a sé quegli occhi solenni di elfo, deglutì, e chinò la testa. «E io, in cambio, giuro di non fare mai del male a voi o. alla terra. Mostratemi come si fa, vi prego».
Gli elfi ricambiarono l’inchino e si dissolsero nuovamente nella foresta.
La giovane deglutì nuovamente. «Sono sempre qui, sotto forma di alberi, intorno a noi?»
Braer sorrise. «No. Ti è capitato di fermarti e piangere in un luogo speciale».
El gli rivolse un’espressione feroce, che si trasformò subito in un sorriso, accompagnato da un cenno stanco della testa. «Sono onorata… e ora comprendo a sufficienza la tua gente, per non mettere il piede in fallo a ogni passo». Non poté fare a meno di sbadigliare, poi aggiunse: «Penso proprio di essere pronta anche per dormire. Promettimi che nei giorni prossimi mi mostrerai, finalmente, qualche magia che possa scuotere la terra!»
Baerithryn sorrise. «Te lo prometto». Allungò una mano e le sfiorò una guancia, e quando il suo incantesimo la fece addormentare, la prese per le spalle e la depose teneramente sul terreno ricoperto di muschio.
Si sedette poi accanto a lei e le accarezzò nuovamente la guancia. Nel breve tempo che sarebbe rimasta ancora nella foresta, avrebbe avuto il massimo riguardo per quell’arma contro i maghi. Ma, soprattutto, avrebbe avuto il massimo riguardo per quell’amica preziosa.
La strada di un mago è oscura e solitaria. Questa è la ragione per cui tanti cadono presto nel buio della tomba, o più tardi nel crepuscolo infinito dell’immortalità. Tali sono le brillanti prospettive che la strada della stregoneria è sempre tanto affollata.
Una fiamma danzò improvvisamente sopra la roccia, nell’aria vuota sino a un momento prima. Elmara trattenne il fiato. «Mystra?» domandò, e la fiamma sembrò brillare per un istante, ma poi svanì nel nulla, e non vi fu altra risposta.
Elmara sospirò e si inginocchiò accanto al laghetto. «Speravo in qualcosa di più».
«Sii un po’ meno orgogliosa, ragazza», mormorò Braer toccandole il gomito. «Quello è il massimo che gran parte della mia gente ha visto della Signora».
Lo guardò con curiosità. «Sono tanti gli elfi che adorano Mystra?»
«Non molti… abbiamo i nostri dei, e gran parte di noi ha preferito voltare le spalle al resto del mondo e alle sue spiacevolezze, mantenendo le antiche tradizioni. Il problema è che il resto del mondo sembra sempre stendere la mano per poi infilarci una spada nel sedere mentre noi tentiamo di ignorarlo».
Nonostante il significato tragico di tali parole, El sogghignò all’udirle. «“Sedere”? Non avrei mai pensato di sentire tali parole da un elfo».
Braer storse la bocca. «Se è per questo, non avrei mai pensato che un umano udisse tali parole da un elfo. Ci consideri ancora creature nobili, aggraziate e straordinariamente alte, che si librano silenziosamente su ogni cosa?»
«Io… sì, penso di sì».
L’elfo scosse il capo. «Ti sbagli anche sul resto, allora. Siamo tanto terreni e tanto sporchi quanto la foresta stessa. Noi siamo la foresta, fanciulla. Cerca di non dimenticarlo quando rientrerai nel mondo degli uomini».
«“Rientrare”?» Elmara si accigliò. «Perché dici ciò?»
«Non posso fare a meno di leggere i tuoi pensieri, ragazza. Sei stata più felice qui di quanto lo sia mai stata prima nella tua breve vita, ma sai che hai imparato tutto ciò che c’era da sapere qui, che ti renderà più forte contro i maghi… e ora non vedi l’ora di proseguire il tuo cammino».
Sollevò una mano non appena la ragazza emise un suono di protesta, e continuò: «No, fanciulla; posso vederlo e sentirlo dentro di te, ed è giusto per te. Non potrai mai essere libera, o essere te stessa, finché i tuoi genitori non saranno stati vendicati e non avrai trasformato Athalantar nel regno che hai in mente. Questa è la tua missione ed è un fardello che nessuno a Faerûn può alleggerire, se non tu stessa, mediante il cammino che hai intrapreso». Sorrise ironicamente. «Non volevi lasciare Farl, e ora non vuoi lasciare me. Sei sicura di non voler rimanere una donna per il resto dei tuoi giorni?»
Elmara fece una smorfia e aggiunse pacatamente: «Non sapevo di avere possibilità di scelta».
«Non ora, forse, ma quando… quando inizierai a diventare un arcimago potentissimo. Per ora hai acquisito dimestichezza con la magia, e per la grazia di Mystra sei in grado di evocare e plasmare tutto ciò che riposa nella terra intorno a noi. Pensi davvero che questa preghiera, ora, e tutte quelle delle notti passate, siano state una perdita di tempo?»
«Io…»
«Iniziavi a temerlo, sì. Io ti sto dicendo che non è come credi», affermò Braer quasi severamente, e si alzò con un unico agile movimento. Protese una mano per aiutarla e aggiunse: «Mi mancherai, ma non sarò né triste, né arrabbiato; è tempo che tu lasci questo luogo. Ritornerai quando dovrai farlo. Il mio compito non è stato insegnarti incantesimi che spazzano via dai cieli i maghi e i loro draghi, bensì farti acquisire dimestichezza con la magia e infonderti la saggezza per usarla. Io sono un sacerdote di Mystra, sì, ma esiste una sacerdotessa molto più grande di me. Devi farle presto visita, fuori dalla foresta. Il suo tempio si trova alle Cascate Ladyhouse, è molto più esperta di me sui modi degli uomini… e ti dirà dove andare nei giorni a venire».
Elmara aggrottò la fronte. «Io… hai ragione, sto diventando irrequieta, ma non voglio lasciarti».
L’elfo sorrise. «Ah, ma devi farlo». Poi il suo sorriso scomparve e aggiunse: «E prima che tu vada, vorrei vedere quell’incantesimo lanciato per una volta come si deve!»
Elmara sospirò. «È solo un incantesimo con cui ho qualche problema, uno tra – quanti sono? – più di quaranta?»
Braer inarcò le sopracciglia e sollevò contemporaneamente le mani. «“Solo un incantesimo”? Fanciulla, fanciulla. Niente dovrebbe essere per te solo un incantesimo. Venerare la magia, ricordi? Oppure ai tuoi occhi rappresenta solo una spada più rapida o una lancia più lunga, solo un potere maggiore di quello che puoi ottenere con altri mezzi?»
«Non è come dici!», protestò Elmara, voltandosi rabbiosamente verso di lui. «Oh, prima che venissi qui, forse! Pensi che non abbia imparato nulla da te?»
«Calma, fanciulla, calma. Non sono un mago malvagio, ricordi?»
El lo fissò per un momento, poi sorrise. «Riuscivo meglio a frenare il mio temperamento e la mia lingua quando ero un ladro, vero?»
Braer scrollò le spalle. «Eri un uomo, allora, in una città di uomini – con un amico intimo con cui scherzare – e sapevi, in ogni momento, che una mancanza di controllo avrebbe significato la morte. Ora sei una donna, in armonia con la foresta, di cui percepisci i flussi emotivi ed energetici. Le cose piccole risultano più intense al di fuori della città affollata, più crude, più affascinanti». Sorrise e aggiunse: «Non posso credere di aver iniziato a cianciare tanto – e come un saggio umano, per giunta!»
Elmara rise. «Allora ho avuto un effetto positivo su di te».
Braer si trastullò con la punta di un orecchio, avanti e indietro, un gesto di scherno amichevole tra gli elfi, e affermò: «Mi sembra di aver menzionato un incantesimo, o sbaglio?»
El fece roteare gli occhi. «Ero sicura di non riuscire a fartelo dimenticare per sempre…»
Braer le fece un cenno imperioso che, come ormai sapeva, significava che doveva procedere, e incrociò le braccia sul petto. Elmara accennò un sorrisino da fanciulla innocente, poi si voltò verso la pozza d’acqua. Allargò le braccia, chiuse gli occhi e sussurrò una preghiera a Mystra, sentendo il potere crescere dentro di lei, poi espandersi verso l’esterno. Aprì gli occhi, aspettandosi di vedere gli ormai familiari bagliori magici bluastri sul laghetto, magari sulla roccia dove si era manifestata la fiamma di Mystra, e quando si voltò, vide che il corpo di Braer presentava qua e là segni magici.
«Ahhh!» Sconcertata, fece un passo indietro, lasciando ricadere le mani lungo il corpo. Tutto brillava di un blu accecante, in qualunque direzione guardasse… l’intero mondo pulsava forse di magia?
«Sì», rispose Braer tranquillamente, avendo letto di nuovo i suoi pensieri. «Finalmente riesci a vederlo. Tuttavia», continuò bruscamente, «hai incontrato ancora qualche difficoltà nel compiere una sfera di incantesimi, vero?»
La donna gli rivolse un’occhiata infuriata, ma trasalì nuovamente, stupefatta. L’elfo alto e austero che conosceva la stava guardando, ma nella vista speciale che le conferì l’incantesimo si rivelò illuminato di un grande potere, e il bagliore bianco bluastro intorno a lui si elevò nella sagoma tenebrosa di un drago. «Sei… sei un drago!»
«Qualche volta», rispose Braer scrollando le spalle, «ne prendo le sembianze. Ma in realtà sono un elfo che ha imparato a trasformarsi in un drago… e non viceversa. Io sono l’ultima ragione per cui i maghi diedero la caccia ai draghi di Athalantar».
«L’ultima ragione?»
«Gli altri», affermò tranquillamente, «sono morti. I maghi sono stati molto efficienti in tal senso».
«Oh», esclamò Elmara. «Mi dispiace, Braer».
«Perché?», le chiese lievemente. «Non li hai uccisi tu… sono i maghi a doversene dispiacere e la mia gente conta su di te, affinché un giorno se ne possano pentire».
Elmara si drizzò. «Intendo farlo. Presto».
L’elfo scosse il capo. «No, ragazza, non ancora. Non sei pronta… e un singolo arcimago, indipendentemente dalla sua potenza, non può sperare di avere successo contro tutti i maghi e le creature al loro servizio, se per caso si coalizzano contro di te». Sorrise e aggiunse: «E non hai nemmeno ancora imparato a essere un arcimago. Accantona per qualche tempo la vendetta. La si assapora di più se la si attende a lungo».
Elmara sospirò. «Potrei morire di vecchiaia con i maghi che la fanno ancora da padrone».
«Molte volte ho letto questo timore nella tua mente, da quando ci siamo incontrati per la prima volta», ribatté Braer, «e so che ti accompagnerà fino alla tua morte… o alla loro. È per tale ragione che devi lasciare la Grande Foresta prima che inizi a sembrarti una gabbia».
El fece un respiro profondo, poi annuì. «Quando dovrei partire?»
Braer sorrise. «Non appena avrò fatto comparire un paio di fazzoletti. Gli elfi odiano gli addii lunghi e tristi ancora di più di quanto facciano gli umani».
El cercò di ridere, ma lacrime improvvise le riempirono gli occhi.
«Vedi?», esclamò Braer sotto voce, avanzando per abbracciarla. Ma prima che la tirasse a sé, Elmara vide che anche l’elfo stava piangendo.
La notte era mite e silenziosa e il cielo di colore blu intenso quando El lasciò l’ombra familiare della foresta e si diresse attraverso le colline dolci verso le distanti Cascate Ladyhouse. Lontana dal riparo degli alberi, si sentì improvvisamente nuda, ma frenò il desiderio di affrettare il passo. Da quelle parti, chi andava di fretta rappresentava un bersaglio eccellente per i fuorilegge armati di archi… e poi, senza alcun nemico in vista e con un carico pesante di salsicce, selvaggina arrostita, formaggio, vino e pane sulle spalle, non aveva in realtà alcun bisogno di mettersi a correre.
Raggiunse la strada per Hastarl e quasi immediatamente si ritrovò oltre l’ultimo cumulo di pietra che marcava il confine. Era meraviglioso metter piede per la prima volta nella sua vita fuori dal Regno del Cervo.
Elmara respirò profondamente l’aria frizzante dell’autunno imminente, e osservò il paesaggio intorno a lei a mano a mano che avanzava. Si trovava a passare tra l’erba del sottobosco, alta fino alla vita, in cui, anni addietro, era stato appiccato il grande incendio per cacciare gli elfi da quelle terre, che l’uomo voleva per sé. Ma gli uomini si erano poi accalcati nelle città e nei paesi, vivendo stipati all’inverosimile, lungo il Delimbiyr, e, estate dopo estate, la foresta ricominciava a reclamare le colline. Presto sarebbero tornati anche gli elfi, amareggiati e abili con le frecce come non mai.
In quei luoghi i giovani alberi si innalzavano come una schiera scura di alabarde; sopra di essi due falchi si librarono in circolo nel cielo limpido. La donna proseguì con passo allegro, e non si fermò finché non calò la notte e i lupi non iniziarono a ululare.
Si era aspettata qualcosa di più di poche casupole di pietra diroccata e un granaio cadente, ma la strada saliva fra gli alberi verso un fragore lontano d’acqua; senza dubbio si trattava delle cascate.
La strada si strinse fino a diventare uno sconnessa pista per carri che piegava verso est. Da essa partiva un sentiero che si dirigeva in mezzo agli alberi, lungo il quale si udiva il rumore dell’acqua. Elmara lo imboccò e giunse in un campo interrotto da un’immensa distesa di roccia segnata dal fuoco e percorsa dal fiume impetuoso; davanti a lei si ergeva un alto edificio.
Le sue vecchie pietre erano ricoperte di edera fitta, e la porta era scura, ma alla vista magica della ragazza essa appariva blu, il cuore di una rete di linee luminose che si estendevano attraverso i campi e lungo il sentiero che aveva percorso. La sponda del fiume luccicò sotto i suoi piedi, allora lei balzò bruscamente da una parte e iniziò ad avanzare sul muschio accanto al sentiero.
Poco ci mancò che inciampasse nella donna anziana in vesti nere che, inginocchiata nel fango, stava piantando piccoli germogli color giallo-verde, ricoprendoli abbondantemente di terra.
«Mi domandavo se saresti passata sopra il mio letto senza vedermi», esclamò senza alzare lo sguardo, con tono tagliente ma divertito.
Elmara la fissò, poi deglutì, colta da una timidezza improvvisa. «Le mie… scuse, Signora. In verità non vi avevo visto. Sto cercando…»
«Le glorie di Mystra, lo so». Le mani rugose interrarono un’altra piantina – sembravano tante piccole tombe, pensò El improvvisamente – e la testa dai capelli bianchi si sollevò. Elmara si ritrovò a fissare un paio d’occhi verdi fiammeggianti, che sembravano penetrarla come due lame di smeraldo. «Perché?»
El rimase senza parole. Aprì la bocca due volte, e la terza mormorò: «Io… Mystra mi parlò. Disse che da molto tempo non incontrava una persona come me. Mi chiese di inginocchiarmi davanti a lei, e io ubbidii». Incapace di sostenere quello sguardo intenso, Elmara distolse gli occhi.
«Sì, dicono tutti così. Suppongo ti abbia detto di venerarla bene».
«L’ha scritto, sì. Io…»
«Che cosa ti ha insegnato la vita fino adesso, fanciulla?»
Elmara sollevò nuovamente gli occhi grigio-celeste. Lo sguardo della vecchia sembrava ancora più intenso di prima, ma era determinata a sostenerlo, e così fece.
«Ho imparato a odiare, a rubare, ad affliggermi, e a uccidere», rispose. «Spero che essere una sacerdotessa di Mystra comporti molto di più di questo».
La vecchia bocca rugosa si contorse. «Per molti no. Vediamo se riusciamo a far meglio con te». Abbassò lo sguardo sul letto davanti a lei e picchiettò pensierosa la terra smossa.
«Che cosa devo fare per iniziare?», domandò Elmara, guardando il fango. Non sembrava esserci nulla d’interessante in quel luogo, ma forse la sacerdotessa voleva che si prendesse cura delle piante, come Braer aveva voluto che imparasse le abitudini del bosco. Si guardò intorno… non aveva visto una zappa lì vicino?
Come se avesse letto i suoi pensieri (senz’altro aveva il potere di farlo, pensò ironicamente El), la vecchia scosse il capo. «Dopo tutti questi anni», esclamò, «so farlo da sola, fanciulla. L’ultima cosa di cui ho bisogno sono un paio di mani volenterose ma inesperte, o una lingua impaziente che mi fa domande dal mattino alla sera. No, vattene».
«Andarmene?»
«Vai per il mondo, ragazza; Mystra non recluta giovani pivelli per inginocchiarsi davanti alle sue statue scolpite nella roccia. L’intera Faerûn intorno a noi è il vero tempio della dea».
Sollevò una mano ossuta. «Va, e fai come ti dico, dunque; e ascolta bene, fanciulla. Impara dai maghi, senza assumerne il titolo o le cattive abitudini. Diffondi la parola del potere della magia, del suo mistero e della sua tradizione; fa che gli individui che incontri siano desiderosi di esercitare loro stessi la magia, e dai a quelli più ansiosi un assaggio di incantesimo, in cambio solamente di un po’ di cibo e di un giaciglio. Trasforma donne e uomini in maghi».
El si accigliò, dubbiosa. «Come saprò se sto agendo bene… c’è qualcosa che non dovrei fare?»
La sacerdotessa scosse il capo. «Lasciati guidare dal tuo cuore, ma sappi che Mystra non proibisce nulla. Vai e fai tutte le esperienze che possono capitare a un uomo o a una donna di Faerûn. Ogni cosa.»
El aggrottò nuovamente la fronte, e lentamente si voltò.
Ma subito udì nuovamente quella voce tagliente. «Prima siediti e mangia, sciocchina. L’amarezza mette le ali agli stolti… cerca sempre di trasformare una sosta per il pranzo in un’occasione per pensare, e penserai più tu in una stagione di quanti pensano in tutta la loro vita».
Elmara sorrise debolmente, si tolse il mantello e si sedette, prendendo il sacco che Braer le aveva dato.
La vecchia scosse nuovamente il capo e schioccò le dita. Dal nulla apparve un vassoio di legno con verdure fumanti, proprio davanti a El, seguito da una forchetta, che rimase immobile nell’aria.
Con riluttanza, El l’afferrò.
La donna sbuffò. «Ti spaventa un po’ di magia? Sarai un eccellente avvocato di Mystra».
«Io… ho visto usare la magia per uccidere e distruggere e governare con la paura», affermò Elmara lentamente. «Per questo sono diffidente nei suoi confronti». Strinse la presa intorno alla forchetta. «Non ho scelto io di servire Mystra… lei è venuta da me».
«Ragion di più per esserle grata; alcun maghi sognano di vederla per tutta la vita e muoiono delusi». La testa dalla chioma bianca si chinò nuovamente a contemplare la terra. «Se odi o temi tanto la magia, perché sei venuta qui?»
Silenzio. «Per adempiere un giuramento», rispose finalmente El, «ho bisogno di magia potente… e di capire con che cosa ho a che fare».
«Bene, allora mangia, e poi prosegui il cammino. E, se non ti dispiace, prova a riflettere come ti ho suggerito».
«Riflettere su che cosa?»
«Questo lo lascio decidere a te. Ricorda, Mystra non proibisce nulla».
«Devo riflettere su ogni cosa?»
«Sarebbe un cambiamento gradito».
L’anziana donna osservò la giovane avvolta nel mantello finché non scomparve fra gli alberi. Poi continuò a guardarla: qualche albero non era certo un ostacolo per lei.
Infine si voltò e si avviò verso il tempio, trasformandosi lentamente finché una donna alta e aggraziata in abiti scintillanti e iridescenti non raggiunse la porta. Si girò nuovamente per vedere la fanciulla. I suoi occhi erano scuri, e tuttavia dorati, e piccole fiamme danzavano nel suo sguardo.
«Visto abbastanza?» La voce dall’oscurità oltre la porta si elevò come un rombo profondo.
Mystra scrollò il capo facendo ondeggiare la chioma lucente. «Potrebbe essere la persona giusta. La sua mente è ampia e il suo cuore è profondo».
Il tempio si increspò, si scosse e si mutò, proprio come aveva fatto prima la donna, rivelandosi un drago bronzeo che si innalzò da una casa di pietra molto più piccola.
Il drago spiegò le sue ali immense con un cigolio e un sospiro e inclinò la testa fino a rivolgere uno dei suoi vecchi occhi saggi alla dea. La sua voce era un mormorio tanto profondo che la parte anteriore della casupola di pietra tremò. «Come tutti gli altri… centinaia e centinaia di altri individui. Avere l’abilità non significa saperla usare correttamente, e prendere il giusto sentiero».
«È vero», ribatté Mystra, rivelando una lieve amarezza, poi sorrise e posò una mano sulle sue scaglie. «I miei ringraziamenti, amico fedele. Al prossimo volo insieme».
Il drago le carezzò la guancia con un artiglio massiccio con la stessa delicatezza con cui l’avrebbe fatto una piuma. Poi ripiegò le ali e si trasformò poco alla volta in una donna curva e rugosa, dai capelli bianchi e dallo sguardo verde intenso, una sacerdotessa che senza voltarsi entrò nel tempio, muovendosi con l’andatura lenta e curva dell’età. Mystra sospirò, girò su se stessa, e divenne una rete di luci accecanti che turbinarono sempre più rapidamente fino a scomparire.
Il sacco datole da Braer si rivelò contenere più di venti monete d’argento, avvolte in un pezzetto di pelle nascosto sul fondo. Non si sarebbe tuttavia potuta permettere un letto caldo tutte le notti, almeno fino al giungere delle grandi nevicate. Cespugli e boschetti erano la sua stanza da letto, ma solitamente la donna si riscaldava tutte le sere in una locanda, con un pasto caldo e un posto quanto più possibile a contatto con la terra. Le giovani sole che camminavano per le strade erano poche, ma evocare un po’ di fuoco magico e apparire misteriose teneva sempre alla larga gli spiriti bollenti degli uomini del luogo.
Quella notte si trovava in un’osteria del Mlembryn. A tutti quelli che ascoltavano, raccontava storie sulla gloria della magia, favole tratte da ciò che Braer, Helm e le strade di Hastarl le avevano insegnato. Talora i suoi racconti le assicuravano qualche boccale, e nelle notti in cui gli dei le arridevano, qualcun altro raccontava storie di stregoneria per farle concorrenza, fornendole perciò ulteriori informazioni su ciò che molti pensavano della magia… e nuovi prodigi da raccontare nelle sere seguenti.
Sperava che ciò accadesse anche quella notte; due uomini, seduti sul bordo delle loro sedie, le sembravano smaniosi di rivelare qualcosa, mentre lei si accingeva a raggiungere il culmine della sua storia splendida. «… E fu l’ultima cosa che il re e il suo seguito videro dei nove Maghi Reali: erano sospesi nell’aria leggera, disposti in cerchio, già più in alto della torre più elevata del castello, e ancora continuavano a salire!» Elmara prese fiato in modo drammatico, guardò attorno a sé il pubblico rapito, e continuò.
«Le luci danzavano ancora più rapidamente fra le loro mani, intessendo una ragnatela tanto lucente che avrebbe accecato chiunque avesse sollevato lo sguardo, ma l’ultima cosa che il re vide, prima che scomparissero, fu un drago, che apparve nel mezzo della grande luce, e si dissolse lentamente...»
Improvvisamente, la tenda di uno dei vani nel retro della stanza si aprì, ed Elmara comprese di essere nei guai. Il pubblico anelante distolse affrettatamente lo sguardo dalla donna, e la taverna si riempì d’una tensione improvvisa, centrata su un uomo dalla barba arricciata, splendidamente vestito, che incedeva impettito verso di lei. Le sue dita ornate di anelli luccicavano, e i suoi occhi rifulgevano di rabbia.
«Tu! Straniera!»
Elmara sollevò lievemente un sopracciglio. «Buon uomo?»
«Signore, prego. Sono il Mago Dunsteen, e ti ordino di frenare la lingua, ragazza!» L’uomo si rizzò per darsi importanza, ed El sapeva che, nonostante guardasse solo lei, era consapevole di tutti gli individui presenti nella stanza. «Le questioni di cui parli con tanta leggerezza non sono fantasie, ma stregonerie». Il mago avanzò con imponenza ed esclamò bruscamente: «La magia interessa a tutti per il suo potere ma è, giustamente, un’arte di segreti, segreti che devono conoscere solo gli individui giusti. Se sei saggia, cessa subito i tuoi discorsi di magia».
Al termine delle sue parole, la stanza ricadde nel silenzio, allora Elmara affermò pacatamente: «Mi è stato detto di parlare della magia, dovunque vada».
«Oh? E da chi?»
«Da una sacerdotessa di Mystra».
«E perché», chiese Dunsteen con un sorrisino insinuante, «una sacerdotessa di Mystra sprecherebbe tre parole con te?»
Le guance di Elmara avvamparono, ma rispose tranquillamente come già aveva fatto: «Mi stava aspettando».
«Eh? Chi ti ha inviato in Faerûn a cercare sacerdotesse della Sacra Signora dei Misteri?»
«Mystra», rispose seccamente.
«Oh, Mystra. Naturalmente», la schernì apertamente il mago. «Suppongo che ti abbia parlato».
«L’ha fatto».
«Eh? Dimmi com’è fatta!»
«Dapprima si presenta come un paio di occhi che fluttuano nelle fiamme, e poi si trasforma in una donna alta, dagli occhi scuri e vesti nere».
Il mago Dunsteen rivolse gli occhi al cielo. «Faerûn è dimora di molti pazzi, tanto fuori di sé, ho udito, da illudere anche se stessi».
Elmara depose il suo boccale. «Avete usato molte parole fiere e provocanti, Signore, e ciò mi fa pensare che vi consideriate un mago di una qualche… importanza locale».
Il mago si irrigidì, fulminandola con gli occhi.
Elmara sollevò una mano. «Ho udito molte volte che i maghi sono cercatori di verità. Dunque, un mago tanto importante come voi dovrebbe conoscere abbastanza incantesimi per stabilire se sto dicendo il vero». Si riaccomodò sulla sedia e aggiunse, «voi mi ordinate di non parlare più di magia. Bene, io vi chiedo ora di usare i vostri incantesimi per vedere se ho detto la verità, e di frenare i vostri discorsi di pazzia e le vostre menzogne».
Il mago scrollò le spalle. «Non spreco incantesimi per una donna matta».
Elmara ricambiò l’alzata di spalle, si voltò ed esclamò: «Come stavo dicendo, l’ultima cosa che il re vide dei suoi Maghi Reali, furono le luci che incatenavano un drago evocato da loro stessi, che sputava fuoco contro di loro…»
Il mago fissò la giovane donna, ma Elmara lo ignorò. Allora lui lanciò sguardi feroci nella stanza, ma gli uomini evitarono accuratamente i suoi occhi, e dietro di lui si udirono risate sommesse.
Un momento più tardi, Dunsteen girò su se stesso, facendo turbinare le sue vesti, e si diresse impettito verso il suo angolo privato. Elmara alzò le spalle e proseguì il racconto.
La luna era luminosa, e stava sbucando dallo strato sottile di nubi che avanzavano furtive sopra gli alberi. Elmara si strinse nel mantello, le notti serene come quella gelavano le ossa, e si affrettò nella notte. Prima di recarsi alla taverna, aveva scelto una cavità ricoperta di felci per passarvi la notte.
A una certa distanza, dietro di lei, si udì un rumore di rami spezzati. Non era la prima volta che li sentiva quella sera. Si fermò ad ascoltare un istante, e poi proseguì, accelerando lievemente il passo.
Giunse al suo rifugio e lo oltrepassò, si arrampicò sul pendio opposto, e si acquattò fra i cespugli. Poi si tolse sacco e mantello e rimase in attesa. Come si era aspettata, l’inseguitore non era un giovanotto zelante, desideroso di ascoltare nuove storie di magia, ma un certo signor mago, che ora si muoveva esitante nell’oscurità.
Elmara decise di arrivare subito al dunque. «Buona sera, Signor Mago», salutò tranquillamente, rimanendo acquattata tra le felci.
Il mago si arrestò, fece un passo indietro e mormorò alcune parole.
Un attimo dopo, la notte fu illuminata dalle fiamme. Quando il calore la raggiunse, Elmara si gettò di lato. Dopo essersi ripresa dallo spavento, si fece coraggio e affermò laconica: «Un fuoco da campo sarebbe stato sufficiente».
Poi lanciò una pietra da una parte, e mentre questa ricadeva tra la sterpaglia, balzò in piedi e corse nella direzione opposta, attorno all’orlo della cavità.
La successiva sfera di fuoco del mago esplose ben distante da lei. «Muori, pazza pericolosa!»
Elmara puntò il dito contro il mago, che si stagliava nettamente nella luce lunare, e mormorò le parole di una preghiera a Mystra. La sua mano fu colta da una sensazione di formicolio, e il mago venne scaraventato improvvisamente all’indietro, atterrando violentemente fra i cespugli.
«Che gli dei ti fulminino, straniera!», imprecò rimettendosi dolorosamente in piedi. Elmara udì rumore di vestiti lacerati, e un’altra imprecazione.
«Io non scaglio fuoco alle donne solo perché non si piegano di fronte a me», esclamò El freddamente. «Perché l’hai fatto?»
Il mago avanzò nuovamente nel chiaro di luna. La giovane allora sollevò le mani, pronta a respingere un incantesimo, ma non accadde nulla.
Dunsteen ringhiò di rabbia. El sospirò e sussurrò un incantesimo. Luce blu e bianca avvolse la testa del mago, e i suoi lineamenti si contorsero quando si trovò costretto a dire la verità.
La sfilza di imprecazioni terribili che stava pronunciando si trasformò nelle parole: «Non voglio che il popolo di Faerûn eserciti la magia! A cosa servirebbero allora i miei poteri, eh?» La sua voce si levò in un grido di paura.
«La tua vita è nelle mie mani, mago», gli rispose Elmara, fingendosi disinvolta. Se solo la sua paura lo avesse trattenuto dallo scagliare un’altra sfera di fuoco…
Ingoiando il timore che le saliva dal profondo, la giovane donna recitò un’ulteriore preghiera a Mystra. Quando il prurito alle estremità le indicò che la sua magia aveva fatto effetto, raggiunse l’orlo della cavità, avanzando a mezz’aria e si fermò di fronte al mago. Puntò un dito verso il basso, tremante per lo sforzo di tenersi a mezz’aria. «Non desidero ucciderti, Signor Mago. Mystra mi ha ordinato di diffondere la magia, non di privare i Regni della vita e dell’abilità dei maghi».
L’uomo deglutì e indietreggiò rapidamente. Evidentemente non si considerava tanto potente come aveva fatto credere alla taverna. «E dunque?»
«Tornatene a casa e non seccarmi più», rispose Elmara in tono ieratico, «e io non farò scendere su di te la maledizione di Mystra».
Ciò suonava bene e la sacerdotessa le aveva detto che tutto era lecito. Se Mystra avesse pensato che le sue parole erano inopportune… senza dubbio glielo avrebbe presto fatto sapere.
La notte rimase quieta e silenziosa, interrotta soltanto dai rumori emessi dal mago Dunsteen, che se la dava a gambe tra felci e rovi.
«Fermati!» esclamò El con tono di comando. Mentre cercava di riconcentrarsi sull’incantesimo della verità, si sentì scendere lentamente a terra.
Dunsteen si arrestò bruscamente, come se qualcuno gli avesse stretto un guinzaglio intorno al collo.
La donna, allora, esclamò, rivolta alla sua schiena illuminata dalla luna: «Mi è stato detto di imparare tutto ciò che posso dai maghi che incontro. Dove mi suggeriresti di andare a imparare come si diventa un buon mago?»
L’alone dell’incantesimo della verità risplendette attorno al mago ma questi non si voltò, perciò Elmara non poté vedere il suo sorriso distorto. «Fai visita a Ilhundyl, governatore del Calishar, e chiedilo a lui… otterrai la risposta migliore che un uomo ti possa dare».
Molti intrusi vagavano nel labirinto, chiamando insistentemente, finché Ilhundyl, stanco delle loro grida, non li faceva entrare nella stanza delle udienze, oppure liberava i leoni affinché li sbranassero. La giovane donna, tuttavia, camminava attraverso le mura illusorie e intorno alle trappole dell’ingresso, come se riuscisse a vederle.
Ilhundyl si protese per sbirciare dalla finestra con improvviso interesse, quando Elmara giunse sul lastricato ampio davanti al Grande Cancello, guardò in alto, e poi, senza esitazione si diresse verso la porta nascosta, evitando i golem e le statue, le cui mani di benvenuto potevano sputare fulmini contro lo sfortunato che vi fosse passato attraverso.
Il Mago Pazzo amava la sua intimità, e la sua vita… e non c’era giorno che qualcuno non tentasse di privarlo di entrambe. Pertanto il suo Castello Magico era circondato da trappole meccaniche e magiche. Non una delle sue mani dalle lunghe dita rimase a picchiettare pigramente sul tavolo. Afferrò un martelletto di ottone, lo sollevò, e colpì con esso una certa campana.
A quel segnale, un meccanismo azionato da schiavi sotto terra, fece aprire improvvisamente il pavimento sotto i piedi della donna, che naturalmente scomparve alla vista. Ilhundyl sogghignò e si rivolse al servitore alto e di bell’aspetto che attendeva pazientemente i suoi ordini. Garadic avanzò lestamente. «Signore?»
«Vai a vedere quel corpo», ordinò, «e porta…»
«Signore», esclamò il servo con urgenza; Ilhundyl seguì il suo sguardo ancora prima che indicasse col braccio. Il mago ruotò sulla sedia.
La giovane intrusa stava camminando nel vuoto, avanzava sul nulla, e stava uscendo dalla voragine apertasi sotto di lei. Il Mago Pazzo aggrottò le sopracciglia e si protese per osservare meglio. «Garadic», esclamò bruscamente, «vai e portamela qui. Viva, se riesce a rimanere tale nel tempo in cui sarai da lei».
«Una sacerdotessa di Mystra mi ha detto di imparare la stregoneria dai maghi… e un mago mi ha riferito che siete la persona migliore per aiutarmi».
Ilhundyl sorrise velatamente. «Perché volete imparare la magia, se non volete diventare una maga?»
«Devo servire Mystra il meglio possibile», rispose Elmara fermamente, «come mi ha comandato».
Il mago annuì. «E dunque, Elmara, cercate dei maghi che vi insegnino, in modo da poter servire la Signora dei Misteri».
Elmara assentì col capo.
Ilhundyl agitò le mani, e la stanza cadde nel buio, salvo due sfere luminose sospese sopra di lui e sulla giovane intrusa. Si guardarono negli occhi, poi Ilhundyl parlò nuovamente, con voce echeggiante di toni fatidici.
«Allora sappiate, o Elmara, che dovete diventare apprendista di un mago, e una volta imparato a lanciare fuoco e fulmini, scivolate via senza una parola, andate lontano e unitevi a una banda di avventurieri. Poi visitate i Regni, affrontate il pericolo, e usate i vostri incantesimi seriamente».
Il governatore del Calishar si protese, assottigliò la voce e continuò: «Quando sarete in grado di vincere una battaglia magia dopo magia, cercate il Libro degli incantesimi di Ondil e portatelo all’altare di Mystra sull’isola chiamata “La danza di Mystra”. E offritelo alla dea».
La sua voce cambiò e divenne ancora una volta tuonante. «Una volta entrata in possesso del tomo di Ondil, non sfogliatelo, né tentate di imparare i suoi incantesimi, poiché quello è il sacrificio che la dea richiede! Andate, ora, e fate come vi ho detto».
La luce sovrastante il trono del Mago Pazzo si affievolì, lasciando che Elmara guardasse nel buio. «I miei ringraziamenti», esclamò, e si voltò per andarsene. La sfera di luce l’accompagnò fino alla soglia, poi svanì oltre le grandi porte di bronzo, che si richiusero con il solito boato. Quando il rumore smise di echeggiare, Ilhundyl aggiunse tranquillamente: «E una volta che mi avrai portato quel libro, vai e ucciditi, mia cara maga».
I lineamenti gradevoli di Garadic si fusero senza rumore nell’orribile aspetto del suo vero volto, munito di zanne e ricoperto di scaglie. Il servo fece un passo avanti e chiese con curiosità: «Perché padrone?»
Il mago si accigliò. «Non ho mai incontrato nessuno con un tale potere latente. Se vive, potrebbe diventare padrona dei Regni». Scrollò le spalle. «Ma morirà».
Garadic fece un ulteriore passo avanti, trascinando la coda sul pavimento. «E se non muore, padrone?»
Ilhundyl sorrise ed esclamò: «Farai in modo che ciò accada».