PARTE I Il brigante

1. Fuoco di drago e distruzione

Draghi? Splendide creature, ragazzo, finché le vedi solo sugli arazzi, o come maschere durante le feste, o a distanza di tre regni…

Astragal Hornwood, Mago di Elembar parlando a un apprendista.

Anno della Zanna

Il sole batteva luminoso e caldo sul pilastro di roccia che si ergeva sulla sommità dell’alto pascolo. Molto più in basso, il villaggio, ammantato dagli alberi, giaceva sotto un velo di nebbia verde-azzurra – nebbia magica, disse qualcuno, evocata dagli elfi della nebbia, la cui magia era sia buona sia malvagia. Naturalmente si parlava più spesso delle malvagità poiché molti a Heldon non amavano gli elfi.

Elminster faceva eccezione. Sperava di poter incontrare gli elfi un giorno, incontrarli davvero s’intende, di toccarne la pelle liscia e le orecchie a punta, di conversare con loro. Un tempo quei boschi erano appartenuti a loro, e ne conoscevano tuttora i posti segreti, in cui si rintanavano gli animali. Gli sarebbe piaciuto conoscere tutto ciò un giorno, quando sarebbe diventato un uomo, libero di andare dove voleva.

El sospirò, assunse una posizione più comoda contro la sua roccia preferita e, come d’abitudine, scorse con lo sguardo i pendii scoscesi del pascolo, per assicurarsi che le pecore fossero al sicuro. Non correvano pericoli.

Il giovane ossuto, dal naso adunco, si mise allora a scrutare il paesaggio che si estendeva verso sud; non era la prima volta che lo faceva. Dopo essersi scostato i capelli corvini ribelli con la mano sottile, tenne le dita sollevate per ripararsi dal sole gli occhi penetranti, color grigioazzurro, che cercavano invano di scorgere le torri lontane dello splendido Athalgard, situato nel cuore di Hastarl, vicino al fiume. Come sempre, riusciva a vedere la debole foschia bluastra che indicava la curva più vicina del Delimbiyr, ma niente di più. Suo padre gli diceva spesso che il castello era troppo lontano per poterlo vedere da lì, e talora aggiungeva che la distanza considerevole tra la roccaforte e il villaggio era buona cosa.

Elminster era desideroso di sapere che cosa significassero tali parole, ma quello era uno dei molti argomenti di cui il padre non parlava volentieri. Ogniqualvolta glielo chiedeva, il suo viso si impietriva, i suoi occhi grigi incrociavano quelli di Elminster con uno sguardo più severo del solito… e dalla sua bocca non usciva alcuna parola. El odiava i segreti, o perlomeno quelli che non conosceva. Un giorno, in un modo o nell’altro, li avrebbe saputi tutti, e avrebbe visto anche il castello, che i menestrelli dicevano essere meraviglioso… e magari, sì, avrebbe potuto anche camminare lungo i suoi merli…

Una brezza soffiò lievemente sul prato, piegando per un attimo l’erba. Era l’Anno delle Foreste Ardenti, e il mese di Eleasias. Le notti si stavano già facendo molto fredde. Dopo sei stagioni trascorse sull’alto pascolo con le pecore, El sapeva che tra non molto sarebbe iniziato l’inverno.

Il giovane pastore sospirò e si strinse nel suo giustacuore di pelle consumato e rappezzato. Era appartenuto a un forestiero, e sotto una toppa sulla schiena vi era ancora un buco dai bordi scuri e sfilacciati, lasciato da una freccia, la freccia di un elfo, sosteneva qualcuno, che aveva ucciso l’uomo. Elminster indossava la vecchia giacca, con fibbie per il fodero, squarci al posto degli emblemi di signori morti da tempo, e orli consumati da avventure passate, dalle emozioni che la sua storia gli faceva provare. Talora, tuttavia, avrebbe desiderato che gli stesse un po’ meglio.

Un’ombra sovrastò il prato, ed El sollevò lo sguardo. Da dietro udì il verso, acuto e penetrante, del vento, un verso mai sentito prima. Si voltò, le spalle contro la roccia, e si alzò in piedi per vedere meglio. Avrebbe potuto anche non disturbarsi; il cielo sopra il pascolo era completamente oscurato da due ali enormi, simili a quelle di un pipistrello, e tra esse vi era una sagoma squamosa di color rosso scuro, più grande di una casa! Due zampe dai lunghi artigli pendevano da sotto il ventre che terminava con un collo lunghissimo, e una testa con occhi crudeli e una bocca spalancata, munita di denti seghettati grandi quanto Elminster! Molto distante, oltre la collina, la sua coda sferzava l’aria…

Un drago! Elminster si scordò di deglutire e si limitò a fissarlo.

Immensa e terribile contro l’azzurro cielo del nord, la bestia volò maestosamente verso di lui, aprendo le ali pesanti per rallentare la sua corsa. Portava un uomo sul dorso!

«Drago al cancello», mormorò il ragazzo senza pensare, quando d’un tratto quella testa gigantesca si inclinò di lato e si trovò a fissare gli occhi vecchi, saggi e crudeli dell’immensa creatura alata.

Erano profondi e impassibili; due pozzi di malvagità tenebrosa nei quali si immerse, affondando, affondando…

Gli artigli del drago colpirono violentemente il pilastro di roccia, e si udì il rumore secco di pietre frantumate. S’impennò due volte, giungendo tanto in alto quanto la torre più alta del villaggio, e le sue grandi ali sbatterono una sola volta. L’assordante rombo di tuono che ne derivò, scaraventò Elminster giù per il dirupo, mentre il gregge ruzzolava e belava intorno a lui, in preda al terrore. Atterrò duramente su una spalla. Doveva fuggire, andarsene…

«Per tutte le spade!» pronunciò l’imprecazione più ardita che conoscesse quando sentì qualcosa di invisibile ostacolare la sua corsa frenetica. Si sentì le vene ribollire e tremare… un incantesimo! Una strana forza lo costrinse a voltarsi e ad avvicinarsi lentamente alla faccia del drago. Elminster aveva sempre sperato di vedere da vicino la magia in azione, ma invece dell’eccitazione selvaggia che si aspettava, provò una sensazione alquanto spiacevole. Rabbia e paura si impadronirono di lui quando la sua testa venne spinta a forza verso l’alto. No, non gli piaceva affatto.

Il drago aveva piegato le ali, ed ora se ne stava appollaiato sul pilastro di roccia come un avvoltoio, un avvoltoio alto quanto una fortezza, con una lunga coda avvolta intorno alla collinetta occidentale del pascolo. Elminster deglutì a fatica, la bocca improvvisamente asciutta. L’uomo era sceso e, in piedi su una roccia inclinata accanto al drago, sollevò una mano imperiosa per indicare Elminster.

Elminster con lo sguardo suo malgrado inchiodato sentì di nuovo quella sensazione orribile, le proprie membra governate dalla volontà crudele di un’altra persona, e si ritrovò a fissare gli occhi dell’uomo. Guardare il drago era stato terribile, ma in qualche modo splendido. Quello era peggio. Quegli occhi freddi promettevano dolore e morte… e forse qualcosa di più. El assaporò il gusto metallico della paura.

Negli occhi a mandorla dell’uomo si leggeva un divertimento crudele. El si sforzò di guardare un po’ più in basso e di lato, e vide la pelle bruna intorno a quegli occhi spietati, i riccioli ramati, e un ciondolo scintillante sul petto glabro dell’uomo. Sotto di esso, sulla pelle, erano visibili alcuni segni, seminascosti dalla tunica color verde scurissimo. Portava inoltre anelli d’oro e di un metallo blu scintillante, e morbidi stivali, i più raffinati che El avesse mai visto. Il debole bagliore blu della magia – fenomeno che suo padre aveva detto che solo lui poteva vedere e del quale non doveva fare parola con nessuno – emanava dal ciondolo, dagli anelli e dai segni sul petto dell’uomo, nonché da ciò che sembravano essere le estremità di bacchette di legno liscio, sporgenti da fessure nella parte superiore ed esterna degli stivali. Lo strano bagliore era più intenso attorno al braccio proteso dell’uomo… ma Elminster non ebbe bisogno di altri segni segreti per capire che quello era un mago.

«Qual è il nome di quel villaggio?» la domanda fu fredda, rapida.

«Heldon». Elminster pronunciò quel nome senza nemmeno pensare. Sentì la saliva, mista a sangue, inondargli la bocca.

«Ora c’è il suo signore?»

«S-sì», mormorò Elminster contro la sua volontà.

Gli occhi del mago si assottigliarono. «Dimmi il suo nome». Sollevò la mano e il bagliore blu si fece più intenso.

Egli sentì il desiderio improvviso di rivelare ogni cosa a quello straniero rude, ogni cosa. Fu colto da una paura gelida. «Elthryn, Signore», rispose con labbra tremanti.

«Descrivimelo».

«È alto, signore, e magro. Sorride spesso e ha sempre modi gent…»

«Di che colore sono i suoi capelli?» sbottò il mago.

«C-Castani, signore, con sfumature grigie sulle tempie e sulla barba. È…»

Il mago fece un gesto brusco, ed Elminster sentì nuovamente il corpo muoversi autonomamente. Tentò di opporre resistenza, piagnucolando, ma si ritrovò improvvisamente a correre pesantemente fra l’erba, impotente contro la magia, che lo faceva inciampare per la fretta e lo spingeva all’impazzata giù dal pendio erboso verso il punto in cui il pascolo terminava… in un precipizio. Mentre si dibatteva in mezzo ai cespugli e l’erba alta, El si aggrappò mentalmente a una piccola vittoria: almeno non aveva svelato al mago che Elthryn era suo padre.

Piccola vittoria, indubbiamente. L’orlo del precipizio sembrò balzargli addosso; il vento della sua corsa folle urlava nelle sue orecchie; le morbide colline della campagna di Athalantar, sotto di lui, apparivano meravigliose nella nebbia.

Elminster precipitò a capo fitto oltre il burrone e percepì improvvisamente che quell’orribile forza che controllava il suo corpo era svanita. Mentre le rocce sottostanti si avvicinavano rapidamente, lottò contro la paura e la furia, nel tentativo di salvarsi la vita.

Talvolta riusciva a spostare le cose col pensiero. Talvolta… per favore, o dei, fate sì che accada anche ora!

La forra era stretta, le rocce molto vicine. Solo un mese prima un agnello vi era caduto dentro ed era morto prima ancora che il suo corpicino malconcio e ciondolante toccasse il fondo. Elminster si morse il labbro. Poi, il bagliore bianco che stava cercando, apparve e pervase a poco a poco la mente, nascondendogli la vista delle rocce che gli sfrecciavano accanto. Tentò disperatamente di aggrapparsi all’aria e si voltò lateralmente, come se per un istante gli fossero cresciute le ali.

Improvvisamente si ritrovò a ruzzolare nei rovi, la pelle bruciante come se avesse ricevuto una decina di frustate. Urtò il terreno e la roccia, poi qualcosa di elastico, una vite?, e venne sbalzato via, continuando la caduta.

«Ahi!» Questa volta atterrò duramente sulla roccia. Il mondo gli roteava attorno. Gli riusciva difficile riprendere fiato, e una nebbiolina biancastra gli offuscò gli occhi.

O dei proteggete…

La nebbia si sollevò e poi si allontanò e, dall’alto, si udì un rumore orribile di ossa spezzate.

Qualcosa di scuro e umido cadde e gli passò accanto, proseguendo il volo nelle oscure profondità sottostanti. El scrollò la testa per schiarirsi la mente e si guardò intorno: le rocce vicine erano chiazzate di sangue fresco. Il cielo sopra di lui si rabbuiò, ed Elminster, immobile, con il capo reclinato da una parte, si sforzò di apparire morto. Le braccia, le costole e un fianco pulsavano e dolevano… ma era ancora in grado di muovere tutto. Il mago o la bestia sarebbero scesi per assicurarsi che fosse morto davvero?

Il drago si librò sopra il pascolo, con una zampa di pecora penzolante dalla mandibola, e sparì dalla sua vista. Quando ripassò languidamente sopra il dirupo, due pecore lottavano nella sua bocca, e mentre la bestia si allontanava, El udì di nuovo quello scricchiolio.

Elminster rabbrividì, in preda alla nausea e a un senso di vuoto. Si aggrappò alla roccia, come se la sua durezza e la sua solidità potessero suggerirgli che fare. Poi udì nuovamente il fragore delle ali e rimase quanto più possibile immobile, la testa ancora goffamente reclinata, a fissare il cielo limpido con la bocca aperta.

Sorvolando il dirupo, il mago, a cavalcioni del drago, lanciò un’occhiata dura al ragazzo rannicchiato, poi si protese e urlò qualcosa che Elminster non riuscì a capire, e che echeggiò sibilante nell’imboccatura della forra. Allora le spalle possenti del drago avanzarono impetuosamente e la bestia si sollevò lievemente, solo per poi lanciarsi in picchiata verso Heldon, tanto rapidamente che il battito secco delle sue ali si trasformò in un urlo acuto.

El riuscì ad alzarsi in piedi, e con passo incerto e traballante si trascinò verso il fondo del precipizio, mugugnando di dolore a ogni minimo movimento. Vi era una parete che aveva già scalato in precedenza… le dita sanguinanti si aggrapparono alle rocce taglienti. Una paura tremenda si stava impadronendo di lui, quasi lo soffocava.

Finalmente raggiunse il margine erboso del pascolo, vi rotolò sopra, ansimando, e guardò in basso verso il suo villaggio. Gli era rimasto un po’ di fiato per gridare.

Fuori, una donna urlò. Poco dopo, l’incessante baccano proveniente dalla fucina si arrestò improvvisamente.

Accigliato, Elthryn Aumar si alzò frettolosamente dalla sedia e rovesciò le mattonelle d’argilla con cui stava facendo i conti della fattoria. Sospirò di fronte alla propria goffaggine, prese la spada dal muro e si incamminò a grandi passi verso la strada, sfoderando nel contempo l’arma. Conti che non avrebbero quadrato per tutta la mattina, e ora quel… che cosa stava accadendo adesso?

La Spada del Leone, il più antico tesoro di Athalantar, ostentò tutto il suo splendore nella luce del sole. Magie potenti erano sopite nell’antica lama assetata di sangue, massiccia nelle mani di Elthryn. Gli abitanti del villaggio urlavano e si precipitavano verso sud, lungo la strada, i volti bianchi di terrore. Elthryn dovette scansarsi bruscamente per lasciare il passo a una donna tanto grassa che era strano riuscisse a correre, una delle cucitrici di Tesla, poi si voltò a guardare verso nord, la massa scura della Grande Foresta. La via era invasa dai suoi vicini, che gli passavano accanto in preda al panico, diretti a sud, verso la strada principale; alcuni stavano addirittura piangendo. Nella direzione da cui provenivano si vedeva una strana foschia, fumo. Briganti? Orchi? Qualcosa uscito dai boschi?

Si avviò di corsa su per la strada, brandendo la sua spada superba, mentre un odore acre, di bruciato, gli solleticava le narici. La paura gli aveva già attanagliato la gola, quando, aggirando il negozio del macellaio, vide il fuoco.

La sua casa era un inferno di fiamme. Forse lei non era in casa, ma no… no…

«Amrythale», mormorò. Lacrime improvvise lo accecarono, e subito le asciugò con una manica. Da qualche parte in tutta quella confusione c’erano le sue ossa.

Era al corrente delle voci di paese, secondo cui la donna aveva usato la stregoneria per accasarsi con uno dei più ragguardevoli principi di Athalantar, ma Elthryn l’aveva amata davvero. E lei altrettanto. Fissò con orrore il rogo e rivide il suo viso sorridente. Mentre le lacrime gli scorrevano lungo le guance, il principe si sentì pervaso da una furia cieca.

«Chi è stato?» ruggì. Le case e le botteghe, ora vuote, di Heldon fecero eco al suo grido disperato, ma in risposta si udirono solo le fiamme crepitanti… e poi un boato tanto forte e profondo che gli edifici intorno a lui tremarono, e persino i ciottoli della strada si mossero sotto i suoi stivali. Tra la polvere che si innalzò improvvisamente dalla strada, il principe sollevò lo sguardo e lo vide volteggiare sopra gli alberi con sprezzante indolenza: un vecchio drago, immenso, dalle squame scure come sangue secco. Sopra la bestia sedeva un uomo dalle lunghe vesti, con in pugno una bacchetta magica; un uomo che Elthryn non conosceva, ma era indubbiamente un mago, e ciò poteva significare una cosa sola: la mano crudele di suo fratello maggiore Belaur si stava infine chiudendo a pugno su di lui.

Elthryn era stato il prediletto del padre, e Belaur lo aveva sempre odiato per quella ragione. Il re gli aveva donato la Spada del Leone, tutto ciò che gli rimaneva del padre. Gli era stata spesso utile… ma era un lascito, non un incantesimo miracoloso. Quando udì il mago prorompere in una risata e protendersi per scagliare un fulmine sui paesani in fuga, il Principe Elthryn guardò in cielo e vide la propria morte volteggiare su ali superbe.

Si portò la Spada del Leone alle labbra, la baciò, e richiamò alla memoria il viso scarno e serio del figlio: un naso adunco in un viso incorniciato da una zazzera indomabile di capelli neri come l’ebano. Elminster, con tutta la sua solitudine, la sua serietà e la sua semplicità, e con il suo segreto, i poteri mentali che gli dei di Faerûn concedevano solo a pochi eletti. Forse avevano in serbo qualcosa di speciale per lui. Aggrappandosi a quell’ultima, sottile speranza, Elthryn brandì la spada e mormorò fra le lacrime:

«Vivi, figlio mio». «Vivi per vendicare tua madre… e restituire l’onore alla Corona del Cervo. Ascoltami!»

Mentre si scapicollava lungo il pendio alberato, ancora molto distante dal villaggio, Elminster si irrigidì e si arrestò improvvisamente contro un albero, gli occhi fiammeggianti. Il mormorio spettrale della voce di suo padre giunse nitido alle sue orecchie; stava invocando il potere della sua spada incantata, che El gli aveva visto usare solo una volta, quando la madre si era smarrita in una bufera di neve. Conosceva il significato di quelle parole: suo padre stava per morire.

«Sto arrivando, padre!» gridò agli alberi sordi intorno a lui. «Sto arrivando!», ripeté, e proseguì la sua corsa incespicando incurante nei cespugli, saltando avventatamente mucchi di arbusti abbattuti, sapendo che non sarebbe mai arrivato in tempo…

Truce in volto, Elthryn Aumar divaricò i piedi, sollevò la spada e si preparò a morire da vero principe. Il drago passò oltre, ignorandolo, mentre il suo cavaliere puntava due bacchette magiche e abbatteva senza sforzo gli uomini in fuga con fulmini e saette mortali. Poi la bestia alata sorvolò nuovamente il principe, e il mago puntò allora la bacchetta con gesto incurante verso l’uomo solitario armato di spada.

Vi fu un lampo di luce bianca, e tutto il mondo sembrò danzare. Un fulmine saettò e si avvinghiò intorno a Elthryn, ma lui non sentì alcun dolore. La spada che teneva fra le mani assorbì la magia in un susseguirsi rabbioso di archi di fuoco incandescenti, finché tutto non fu terminato.

Il principe vide il mago voltarsi sulla sella e lanciargli un’occhiata accigliata. Tenendo la Spada del Leone sollevata, in modo che lo stregone potesse vederla, e magari scendere per impossessarsene – speranza vana, pensò – Elthryn alzò lo sguardo per maledire l’uomo, pronunciando le parole lente e gravi che gli erano state insegnate molto tempo prima.

Il mago fece un gesto, poi spalancò la bocca incredulo: la maledizione aveva rotto l’incantesimo sferrato su Elthryn. Puntò allora l’altra bacchetta magica contro il principe. Ne scaturirono violente saette che si infransero sulla spada incantata. Questa risuonò e risplendette della loro furia, vibrando nelle mani di Elthryn. Poteva fermare gli incantesimi… ma non il fuoco di drago. Il principe sapeva che gli restavano solo pochi istanti da vivere.

«O Mystra, fa’ che mio figlio si salvi», mormorò mentre il drago virava nell’aria con lentezza maestosa e si lanciava in picchiata su di lui, «e fa’ che abbia il buonsenso di fuggire lontano». D’un tratto non gli rimase più tempo per pregare.

Il fuoco scintillante del drago ruggì attorno a Elthryn Aumar, sopraffatto e spazzato via mentre ringhiava la sua sconfitta e gettava la spada tra le fiamme feroci…

Elminster irruppe nel villaggio, nei pressi di ciò che rimaneva della casa del mugnaio, un cumulo di macerie fumanti. Una mano annerita dal fuoco assassino sporgeva da sotto le rovine del camino, protesa invano verso il nulla.

Elminster la vide, deglutì, e si affrettò ad aggirare l’ammasso di macerie. Dopo aver fatto pochi passi, tuttavia, rallentò esitante e si fermò allibito. Non c’era motivo di aver premura: ogni edificio di Heldon era stato raso al suolo oppure era in fiamme. La parte inferiore del villaggio era nascosta da un fumo denso, e piccole fiamme ardevano qua e là, dove alberi o cataste di legna avevano preso fuoco. Al posto della sua casa vi era un mucchio di cenere; poco più in là, la bottega del macellaio era crollata sulla strada, ridotta a un cumulo di legna bruciata e a una catasta di oggetti schiacciati. Il drago se ne era andato; Elminster era solo con i morti.

Scuro in volto, Elminster ispezionò il villaggio. Trovò cadaveri, schiacciati o carbonizzati fra le rovine delle loro case, non vi era traccia di sopravvissuti, né alcun segno di sua madre e di suo padre… ma sapeva che non sarebbero mai fuggiti. Soltanto quando si incamminò, affranto, verso il pascolo – dove altro sarebbe potuto andare? – calpestò qualcosa fra lo spesso strato di ceneri che ricopriva la strada: l’elsa semifusa della Spada del Leone.

La sollevò con mani tremanti: gran parte dell’oro si era fuso e rimanevano solo pochi centimetri di lama, sulla quale non vi era traccia del magico bagliore blu. Tuttavia, quell’elsa consumata gli infondeva sicurezza. El la strinse al petto, e la terra d’un tratto tremò.

Pianse a lungo inginocchiato fra le ceneri, incurante del passare del tempo. Poi perse i sensi e quando si risvegliò, con la guancia appoggiata ai ciottoli duri, il sole era basso e faceva molto freddo.

Si sedette e osservò il crepuscolo sulle rovine di Heldon; presto, dalla Grande Foresta sarebbe scesa la notte. Le sue mani intorpidite formicolavano a contatto con l’impugnatura dell’arma. Si alzò lentamente, guardando ciò che era rimasto della sua casa; nelle vicinanze si udì l’ululato di un lupo, subito seguito da un altro ululato in risposta. Elminster guardò la sua arma inutile e rabbrividì. Era tempo di andarsene, prima che i lupi scendessero a sfamarsi.

Lentamente sollevò al cielo la spada spezzata. Per un istante colse l’ultimo flebile bagliore del tramonto, ed Elminster la fissò duramente e mormorò: «Ucciderò quel mago, e vendicherò tutti, o morirò nell’intento. Ascoltatemi… madre, padre. Ve lo giuro».

In risposta si udì l’ululato di un lupo. El mostrò i denti nella medesima direzione, agitò la spada, e si mise a correre verso il pascolo.

Nel frattempo, Selûne si alzò serenamente sulle fiamme morenti di Heldon, immergendo le rovine in una luce scintillante, bianca come le ossa. Elminster non si volse a guardare indietro.

Si svegliò improvvisamente, nella fitta oscurità di una caverna, nella quale una volta si era nascosto mentre giocava a “cerca l’orco” con altri bambini. Ciò che rimaneva della Spada del Leone era adagiato sotto il suo corpo. Elminster rimase immobile ad ascoltare. Qualcuno aveva parlato molto vicino.

«Nessun segno di incursione… nessuno trafitto», mormorò una voce grave e forte. Elminster si irrigidì, e senza muovere un muscolo scrutò nell’oscurità.

«Suppongo che tutte le capanne abbiano preso fuoco da sole, dunque», affermò sarcasticamente la voce ancora più profonda di un altro uomo. «E il resto è cascato solo perché era stanco di stare in piedi, eh?»

«Basta, Bellard. Sono tutti morti, certo, ma non c’è traccia di spade o di frecce. I lupi hanno fatto la festa a qualche cadavere, ma nessuno è stato frugato. Ho trovato perfino un anello d’oro sulla mano di una donna…».

«Chi uccide col fuoco, allora… e abbatte le case?»

«I draghi», osservò un’altra voce, ancora più bassa e sinistra.

«Draghi? E non li abbiamo visti?» domandò beffarda la voce sarcastica.

«Lungo il Delimbiyr accade più di una cosa che non vedi, Bellard. Che cos’altro può essere stato? Un mago, sì… ma quale mago è tanto potente da bruciare case, mucchi di fieno, tratti di pascolo, nonché tutte le costruzioni in pietra?» Dopo un breve silenzio la voce continuò. «Bene, se riuscite a darmi un’altra risposta intelligente, parlate. In caso contrario, saccheggeremo solo all’alba, quando non ci potranno vedere dall’alto, senza allontanarci troppo dalla foresta».

«No! Non me ne starò qui seduto come una vecchietta mentre gli altri si impadroniscono del denaro e degli oggetti rimasti, per poi spartirmi gli scarti con i lupi».

«Vai allora, Bellard. Io resto qui».

«Sì, con le pecore».

«Certamente. Così ci sarà qualcosa da mangiare – oltre a qualche paesano abbrustolito – quando avrai terminato… o avevi per caso intenzione di portarle con te e di controllarle mentre scavi fra le rovine?»

Ci fu uno sbuffo di disgusto, e qualcuno rise.

«Helm ha ragione, come sempre, Bel. Ora taci; andiamo. Magari potrebbe prepararci la cena prima che faccia notte, se gli parlassi una volta tanto in tono gentile e la smettessi di agitare quella linguaccia tagliente… che cosa ne dici, Helm?»

La voce arcigna rispose: «Niente promesse. Il fumo potrebbe attrarre qualche bestia in agguato. Se qualcuno di voi, invece, trovasse un bel calderone – grande e robusto, mi raccomando – sarebbe tanto gentile da portarmelo, vero? Così potrò cucinare abbastanza cibo per tutti in una sola volta».

«E il tuo elmo puzzerebbe meno di fagioli per un po’, eh?»

«Esattamente. Non dimenticatelo».

«Non sprecherò le mie mani per una pentola», rispose Bellard scontroso, «se troverò monete e spade».

«No, no, testa dura, metti il tuo bottino nella pentola, no? In tal modo potrai portare più cose, giusto?»

Tutti ridacchiarono. «Ti ha fregato, Bel».

«Di nuovo».

«Sì, sbrighiamoci». Si udì un rumore di piedi strascicati e di pietre rotolate all’ingresso della caverna. Poi cadde il silenzio.

Elminster attese a lungo, ma udì solo il vento. Dovevano essersene andati tutti. Cautamente, si alzò, si stirò le membra irrigidite, e avanzò nell’oscurità, oltre l’angolo, finendo quasi infilzato dalla punta di una spada. L’uomo all’estremità opposta della lama domandò con calma: «E tu chi saresti, ragazzo? Sei scappato dal villaggio?» Indossava un’armatura di cuoio sbrindellata, guanti arrugginiti, un elmo ammaccato e graffiato, e aveva una barba folta e ispida. Da quella distanza, Elminster riusciva a sentire il fetore di un essere sudicio dentro un’armatura, la puzza di olio e di fumo di legno.

«Quelle sono le mie pecore, Helm», affermò tranquillamente. «Lasciatele stare».

«Tue? Per chi le raduni, se laggiù sono tutti morti?»

Elminster incontrò lo sguardo impassibile dell’uomo e si vergognò quando lacrime improvvise gli riempirono gli occhi. Balzò indietro, asciugandosi gli occhi, ed estrasse la Spada del Leone dal suo giustacuore.

L’uomo lo guardò con commiserazione ed esclamò: «Mettila via, ragazzo. Non avrei motivo di sfidarti, nemmeno se tu avessi una spada decente. Avevi parenti laggiù», continuò, facendo un cenno con la testa, senza mai levare gli occhi da Elminster, «a Heldon?»

«Sì», rispose El con voce lievemente tremolante.

«Dove andrai ora?»

Il ragazzo alzò le spalle. «Avevo intenzione di restare qui», ribatté con tono amaro, «e mangiare le pecore».

Gli occhi di Helm incontrarono quelli arrabbiati del giovane. «Allora dovrai cambiare i tuoi piani. Devo avanzartene una per far sì che te ne vada?»

El fu colto da una rabbia improvvisa. «Ladro!» ringhiò rabbiosamente, indietreggiando. «Ladro!»

L’uomo scrollò le spalle. «Mi hanno chiamato con nomi peggiori».

Elminster vide che le sue mani stavano tremando, allora le avvicinò alla parte anteriore del suo giustacuore, insieme alla spada. Helm gli sbarrava l’unica via d’uscita. Se ci fosse stato un sasso abbastanza grande…

«Non saresti tanto tranquillo se ci fossero i cavalieri di Athalantar nelle vicinanze! Ammazzano i briganti, lo sai», esclamò autoritariamente Elminster, mangiando le parole come aveva sentito fare a suo padre quand’era arrabbiato.

La risposta lo stupì. Si udì un improvviso strascicamento di stivali sulla roccia, e l’uomo lo afferrò improvvisamente per il bavero e lo sollevò. «Io sono un cavaliere di Athalantar, ragazzo, che ha prestato giuramento al Re Cervo in persona, che gli dei veglino su di lui. Se non ci fossero tanti dannati maghi giù ad Hastarl, che ci tiranneggiano con quei briganti assoldati che chiamano “guardie leali”, cavalcherei in un regno pacifico, e senza dubbio tu avresti ancora una casa, e la tua gente sarebbe ancora viva!»

I vecchi occhi grigi risplendettero di una rabbia pari a quella di Elminster. Il ragazzo deglutì, senza distogliere lo sguardo.

«Se sei un vero cavaliere», esclamò, «allora lasciami andare».

Cautamente, con una lieve spinta che allontanò entrambe, l’uomo lo lasciò. «Bene, allora, ragazzo… perché?»

Elminster estrasse di nuovo la sua mezza spada e la sollevò.

«La riconosci?», chiese con voce tremula.

Helm batté più volte le palpebre, scosse la testa e poi si irrigidì. «La Spada del Leone» esclamò aspramente. «Dovrebbe trovarsi nella tomba di Uthgrael. Come fai ad averla, ragazzo?» Allungò la mano per prenderla.

Elminster scosse il capo e infilò il pezzo di spada nel suo giustacuore. «Questa è mia, era di mio padre, e…» soffocò un nodo alla gola, e continuò «… e penso che sia morto con la spada in mano, ieri sera».

Lui ed Helm si fissarono a lungo negli occhi, poi El chiese curiosamente: «Chi è questo Uthgrael? Perché dovrebbe essere sepolto con la spada di mio padre?»

Helm lo guardò come se avesse tre teste, ed una corona su ciascuna di esse. «Ti risponderò, ragazzo, se mi dici il nome di tuo padre». Si sporse in avanti, gli occhi improvvisamente scuri e intensi.

Elminster si rizzò orgogliosamente e rispose: «Mio padre è, era, Elthryn Aumar. Tutti lo chiamavano il Signore senza corona di Heldon».

Helm rimase a bocca aperta: «Non… non dirlo a nessuno, ragazzo», esclamò rapidamente. «Hai sentito?»

«Perché?» domandò Elminster socchiudendo gli occhi. «So che mio padre era un uomo importante, e che…» Si interruppe, ma un attimo dopo, furioso per la sua debolezza, continuò: «… è stato ucciso da un mago con due bacchette magiche, a cavallo di un drago. Un drago rosso scuro». Il suo sguardo si incupì. «Non dimenticherò mai il volto di quell’uomo». Estrasse nuovamente quanto rimaneva della Spada del Leone, la agitò e aggiunse ferocemente: «Un giorno…»

Fu sbigottito nel vedere il cavaliere sudicio sogghignare, non un ghigno beffardo, bensì un sorriso di piacere.

«Che cosa c’è?» domandò El, improvvisamente imbarazzato, nascondendo ancora la spada. «Perché ridi?»

«Ragazzo, ragazzo», mormorò l’uomo gentilmente, «sediamoci là». Ripose la spada nel fodero e indicò una roccia vicina. Elminster lo guardò sospettoso, e l’uomo sospirò, si sedette e sganciò una fiaschetta metallica dalla cintura. Gliela porse. «Vuoi bere?»

Elminster lo guardò e si rese improvvisamente conto di avere molta sete. Si avvicinò di un passo. «Se mi dici ciò che voglio sapere», rispose, «e prometti di non uccidermi».

Helm lo guardò quasi con rispetto e rispose: «Hai la mia parola, la parola di Helm Spadadipietra, cavaliere della Corona del Cervo». Si schiarì la voce e aggiunse: «E ti risponderò se vorrai dirmi un’ultima cosa». Si protese verso il ragazzo. «Qual è il tuo nome?»

«Elminster Aumar, figlio di Elthryn».

«Figlio unico?»

«Basta», sbottò Elminster prendendo la fiaschetta. «Hai ricevuto la tua risposta; ora dammi le mie».

L’uomo sogghignò ancora. «Per favore, Signor Principe? Solo un’altra!»

Elminster lo fissò. «Mi prendi in giro? “Signor Principe”?»

Helm scosse la testa. «No, ragazzo, Principe Elminster. Ti prego, devo sapere. Hai fratelli? Sorelle?»

Elminster scrollò il capo. «Nessuno, né vivo né morto».

«Tua madre?»

Elminster allungò le mani. «Avete trovato sopravvissuti al villaggio?» chiese improvvisamente, ancora arrabbiato. «Vorrei le mie risposte, adesso, Signor Cavaliere». Bevve un sorso lungo e lento dal fiasco.

Un fuoco ribollente gli invase il naso e la gola, e iniziò a tossire; le sue ginocchia urtarono duramente il terreno roccioso e attraverso le lacrime Elminster vide Helm protendersi rapidamente per salvare lui e la fiaschetta. Due mani forti lo aiutarono a sedersi e lo scossero gentilmente.

«L’acquavite non è di tuo gradimento, ragazzo? Tutto bene ora?»

Elminster riuscì a fare un cenno, con la testa inclinata. Helm lo picchiettò rozzamente sul braccio e affermò: «Benissimo. Sembra che i tuoi genitori abbiano pensato che fosse meglio non dirti niente. Sono d’accordo con loro».

El sollevò rabbiosamente la testa, ma attraverso gli occhi lacrimanti vide Helm che, sollevando una mano guantata, gli chiedeva di aspettare.

«Tuttavia ti ho dato la mia parola… e tu sei un principe di Athalantar. Un cavaliere mantiene le sue promesse, se pur avventate».

«Parla dunque», lo incalzò Elminster.

«Che cosa sai dei tuoi genitori? Della tua stirpe?»

Elminster alzò le spalle. «Nulla» rispose amaramente, «oltre ai nomi dei miei genitori. Mia madre era Amrythale Goldsheaf; suo padre era un abitante della foresta. Mio padre era orgoglioso di questa spada, era magica, ed era contento che non potessimo vedere Athalgard da Heldon. Questo è tutto».

Helm roteò gli occhi, sospirò, e ribatté: «Bene allora. Siediti e ascolta. Se vivrai, tieni per te ciò che ti dico. I maghi di Athalantar, di questi tempi, danno la caccia alla gente del tuo sangue».

«Sì», gli rispose Elminster amaramente, «lo so».

Helm sospirò. «Io… perdonami, Principe. Mi ero dimenticato». Allargò le mani guantate come per farsi strada, e continuò: «Questo regno, Athalantar, è chiamato Regno del Cervo dal nome di un uomo: Uthgrael Aumar, il Re Cervo, un grandioso guerriero, nonché tuo nonno».

Elminster annuì. «Questo lo sospettavo dal tuo discorso sul “principe”. Allora perché ora non indosso ricche vesti e non mi trovo in qualche palazzo di Athalgard?»

Helm gli offrì ancora quel sorriso compiaciuto e ridacchiò. «Sei veloce – e hai nervi d’acciaio – proprio come lui, ragazzo». Allungò un braccio dietro di sé, trovò un sacco di tela malconcia, e rovistò al suo interno, continuando a parlare. «Per risponderti ti racconterò ciò che accadde. Uthgrael era il mio signore, ragazzo, e il più grande spadaccino che abbia mai conosciuto». La voce si trasformò in un sussurro e ogni traccia di sorriso svanì dal suo volto. «Morì nell’Anno dei Ghiacci, combattendo contro un orco vicino a Jander. Molti morirono durante quell’inverno da lupi, e con loro la colonna portante di Athalantar».

Helm trovò ciò che cercava: un tozzo di pane duro e grigio. Glielo porse senza parlare. Elminster lo prese, ebbe un moto di ringraziamento, e fece segno al cavaliere di continuare. Le labbra di Helm abbozzarono nuovamente un sorriso.

«Uthgrael era vecchio e pronto a morire; dopo i funerali della Regina Syndrel, si incupì e attese ansiosamente l’occasione di morire in battaglia; più di una volta glielo lessi negli occhi. Il capotribù degli orchi che lo sconfisse lasciò il regno nelle mani dei sette figli del re, solo maschi».

Helm scrutò nelle profondità della caverna, rievocando altri tempi e altri luoghi, e volti che Elminster non conosceva. «Cinque dei principi erano guidati dall’ambizione, e furono tutti uomini crudeli e spietati. Uno di loro, Felodar, era interessato all’oro più che a ogni altra cosa e lo cercò dappertutto – fino al caldo regno di Calimshan e oltre, ragazzo, dove si trova tuttora, per quel che ne so – ma gli altri rimasero tutti ad Athalantar».

Il cavaliere si grattò per un momento, lo sguardo ancora lontano, e aggiunse: «Vi erano altri due figli. Uno era troppo giovane e timido per costituire una minaccia per qualcuno. L’altro – tuo padre, Elthryn – era un uomo calmo e giusto, e agli intrighi di corte preferì una vita da contadino. Si ritirò qui e sposò una ragazza comune. Pensammo che ciò significasse la sua rinuncia al trono. E, temo, anche lui».

Helm sospirò, incontrò lo sguardo intenso di Elminster, e continuò il suo racconto. «Gli altri principi lottarono per il controllo del regno. La gente di città distanti come Elembar, sulla costa, li chiama “I Principi Belligeranti di Athalantar”. Esistono perfino canzoni su di loro. Il vincitore, finora, è stato il figlio maggiore, Belaur».

Il cavaliere si protese improvvisamente e afferrò le braccia di Elminster. «Mi devi ascoltare bene», affermò con urgenza. «Belaur ha avuto la meglio sui fratelli, ma la sua vittoria è costata a lui, e a tutti noi, il regno. Ha comprato i servizi dei maghi di tutta Faerûn per conquistare la Corona del Cervo. Oggi siede sul trono, ma il suo intelletto è offuscato dal bere e dalla loro magia e i suoi signori maghi sono i veri governatori di Athalantar. Perfino i mendicanti di Hastarl lo sanno».

«Quanti sono i maghi? Come si chiamano?» domandò con calma Elminster.

Helm lo lasciò e si risedette, scuotendo la testa. «Non lo so, e dubito che lo sappia qualcuno in Athalantar al di sotto dei capitani di spada del Cervo, tranne forse i domestici di Athalgard». Lanciò un’occhiata penetrante a Elminster. «Hai giurato di vendicare i tuoi genitori, Principe?»

Elminster annuì.

«Aspetta», esclamò bruscamente il cavaliere. «Aspetta finché sarai più grande, e avrai accumulato denaro a sufficienza per poter comprare tu stesso dei maghi. Ne avrai bisogno, a meno che tu voglia trascorrere il resto dei tuoi giorni come una rana purpurea nella vaschetta di profumo in qualche palazzo, per il divertimento di qualche apprendista minore dei signori maghi. Sebbene abbiano dovuto coalizzarsi, e fare a pezzi la Torre del Drago pietra per pietra, due estati fa sconfissero il vecchio Shandrath – l’arcimago più potente mai esistito in tutte le terre degli uomini». Sospirò. «E quelli che non poterono eliminare con gli incantesimi, li eliminarono con la spada o col veleno. Theskyn, il mago di corte, ha fatto quella fine. Era l’amico più anziano e più fidato di Uthgrael».

«Li vendicherò tutti», dichiarò tranquillamente Elminster. «Prima che io muoia, Athalantar sarà libera dai maghi, fino all’ultimo, anche se dovessi farli a pezzi con le mie stesse mani. Lo giuro».

Helm scosse la testa. «No, Principe, non giurare grandi cose. Gli uomini che fanno giuramenti sono condannati a morire per adempierli. Ne sono ossessionati e sprecano tutta la loro vita».

Elminster lo guardò tenebrosamente. «Un mago ha ucciso mia madre, mio padre e tutti i miei amici, e le altre persone che conoscevo. La vita è mia e la spreco come voglio».

Il viso di Helm fu nuovamente solcato da un sorriso di compiacimento. Scosse la testa. «Sei un pazzo, Principe… un uomo prudente se ne andrebbe da Athalantar e non si volterebbe indietro, né pronuncerebbe una sola parola del suo passato, sulla sua famiglia o sulla Spada del Leone… per vivere magari una vita lunga e felice in un altro luogo». Si protese nuovamente per stringere l’avambraccio di Elminster. «Ma non puoi far ciò ed essere ancora un Aumar, Principe di Athalantar. Pertanto morirai nel tuo intento». Scosse nuovamente il capo. «Almeno ascoltami e aspetta finché avrai una chance, prima di far sapere a qualcun altro a Faerûn che sei vivo… o concederai a un signor mago solo pochi minuti di crudele divertimento».

«Sanno di me?»

Helm gli lanciò un’occhiata compassionevole. «Sei un agnellino per la corte, ragazzo. Il mago che hai visto sopra Heldon indubbiamente aveva ricevuto ordini di eliminare il Principe Elthryn e tutti i suoi consanguinei, prima che il figlio, di cui conoscevano l’esistenza, potesse crescere e avere ambizioni regali proprie».

Vi fu un momento di silenzio quando il cavaliere vide il giovane impallidire. Quando il ragazzo parlò, tuttavia, Helm ebbe un’altra sorpresa.

«Signor Helm» esclamò tranquillamente Elminster, «dimmi i nomi dei signori maghi e potrai avere le mie pecore».

Helm sghignazzò. «Davvero, ragazzo, non li conosco e i miei compagni si prenderanno le tue bestie qualunque cosa accada. Ti dirò invece i nomi dei tuoi zii; è necessario che tu li conosca».

Gli occhi di El scintillarono. «Parla dunque».

«Il maggiore, il tuo nemico principale, è Belaur. Un uomo grosso e prepotente, nonostante abbia visto solo ventinove inverni. È crudele nella caccia e in battaglia, ma di tutti i principi è il più abile con le armi. Si crede più intelligente di quanto non sia, ed era il favorito di Uthgrael finché non mostrò la sua crudeltà e il suo temperamento costantemente collerico. Si proclamò re sei estati fa, ma molti lungo il Delimbiyr non lo riconoscono come tale, poiché sanno che cosa è accaduto.

Elminster annuì. «E il secondo figlio?»

«Si pensa che sia morto. Elthaun era un donnaiolo linguacciuto, ogni sua terza parola era falsa. Tutto il regno lo conosceva come maestro dell’intrigo, ma fuggì da Hastarl poco prima che giungessero i soldati di Belaur. Si mormora che alcuni signori maghi lo trovarono lo stesso anno a Calimshan, nascosto in uno scantinato di qualche città, e usarono degli incantesimi per rendere la sua morte lunga e lenta».

«Il terzo». Elminster li stava contando sulle dita; Helm sogghignò.

«Cauln venne ucciso prima che Belaur reclamasse il trono. Era un tipo meschino e sospettoso, a cui piaceva vedere i maghi lanciare fuoco e cose simili. Lui stesso si considerava un mago e con l’inganno venne sfidato a duello da un mago, che si pensò fosse stato ingaggiato per l’occasione da Elthaun. Il mago trasformò Cauln in un serpente, scelta molto appropriata, e poi lo fece scoppiare dall’interno mediante un incantesimo che non ho mai visto né sentito nominare. Poi i primi signori maghi che Belaur aveva assoldato lo colpirono a turno, “per la sicurezza del regno”. Quando venne diffusa la notizia, ricordo che gridarono “Morte per tradimento!” nelle strade di Hastarl».

Helm scosse la testa. «Poi venne tuo padre. Era sempre tranquillo e insisteva sull’uguaglianza fra nobili e cittadini comuni. La gente lo amava per quella ragione, ma a corte era poco considerato. Si ritirò presto a Heldon, e gran parte di Hastarl lo dimenticò. Non ho mai saputo che Uthgrael avesse un’alta considerazione di lui, ma quella spada che porti lo conferma».

«Quattro principi finora», esclamò Elminster, annuendo come per imprimerseli meglio nella memoria. «Gli altri?»

Helm contò sulle sue dita tozze. «Poi veniva Othglas, un uomo grasso e allegro, che si rimpinzava alle feste quasi tutte le notti. Era più largo di un barile e riusciva a malapena a reggersi in piedi. Gli piaceva avvelenare chi lo disprezzava e si fece strada a corte, eliminando i nemici e chiunque pronunciasse una parola ad alta voce contro di lui, e favorendo i suoi sostenitori».

Elminster lo fissò accigliato. «Fai sembrare i miei zii come un branco di malvagi».

Helm lo guardò fermamente. «Era ciò che si diceva lungo il Delimbiyr, sì. Ti sto solo riferendo ciò che fecero. Se sei giunto al medesimo giudizio formulato dalla maggior parte della gente, sicuramente gli dei saranno d’accordo con te».

Si grattò ancora, bevve un sorso dal fiasco e aggiunse: «Quando Belaur si impossessò del trono, i suoi maghi prediletti fecero chiaramente intendere che sapevano che cosa stesse tramando Othglas e minacciarono di ucciderlo davanti a tutta la corte. Pertanto scappò a Dalniir e si unì ai Cacciatori, che venerano Malar. Dubito che il Signore delle Bestie abbia mai avuto prima, o dopo di allora, un sacerdote tanto grasso».

«È ancora vivo?»

Helm scosse il capo. «Quasi tutta Athalantar sa che cosa accadde; i maghi si assicurarono che sentissimo. Lo trasformarono in un cinghiale durante una caccia, e venne ucciso dai suoi sacerdoti minori».

Elminster, suo malgrado, alzò le spalle, ma tutto ciò che disse fu: «Chi viene dopo?»

«Felodar, quello che partì per il Calimshan. Oro e gemme sono la sua passione; lasciò il regno prima che Uthgrael morisse, alla ricerca di quei tesori. Dovunque andasse, favoriva il commercio con il nostro regno, e il re ne era molto compiaciuto; Felodar conferì ad Athalantar quel poco di fama e di ricchezza che gode al di là del Delimbiyr. Penso che il re non sarebbe stato tanto contento se avesse saputo che Felodar si arricchiva con il commercio di schiavi, droghe e magia nera. Lo fa tuttora, per quel che so, ed è immerso fino al collo negli intrighi del Calimshan». Helm ridacchiò improvvisamente. «Ha perfino assoldato dei maghi e li ha mandati qui per lanciare incantesimi contro quelli di Belaur».

«Uno a cui non puoi mostrare le spalle neanche per un istante?», chiese Elminster ironicamente, ed Helm sogghignò e annuì.

«Per finire, c’è Nyrmm, il più giovane. Un marmocchio timido, debole, e cupo, se ben ricordo. Venne allevato dalle donne di corte dopo la morte della regina, e probabilmente non è mai uscito dai cancelli di Athalgard in tutta la sua vita. Scomparve circa quattro estati fa».

«Morto?»

Helm scrollò le spalle. «Probabilmente, o prigioniero dei maghi, che volevano avere un altro erede di Uthgrael in loro potere, in caso accada qualcosa a Belaur».

Elminster allungò la mano verso la fiaschetta, ed Helm gliela porse. Il giovane bevve cautamente, starnutì una volta, e la restituì. Si leccò quindi le labbra ed esclamò: «Non sembra molto nobile essere principe di Athalantar».

Helm alzò le spalle. «Sta al principe farla diventare una cosa nobile; un dovere che la maggior parte di essi, al giorno d’oggi, pare aver dimenticato».

Elminster guardò la Spada del Leone, di nuovo, inspiegabilmente, nelle sue mani. «Che cosa dovrei fare ora?»

Helm scrollò a sua volta le spalle. «Va verso ovest, sulle Colline del Corno, e aggregati ai briganti. Impara a vivere duramente, usa la spada e uccidi. La tua vendetta, ragazzo, non si limita purtroppo a sorprendere un mago in un cesso e infilzargli una spada nel didietro. Gli dei ti hanno messo contro troppi principi, troppi maghi, e troppi soldati mercenari leccapiedi. Anche se si mettessero in fila con le brache calate, il tuo braccio si stancherebbe prima di concludere il lavoro».

Sospirò ed aggiunse: «Hai detto bene prima, sarà il lavoro della tua vita. Devi essere un po’ meno sognatore e un po’ più cavaliere, e tenerti alla larga dai maghi finché non avrai imparato a sopravvivere in più di una battaglia, quando i soldati di Athalantar cercheranno di ucciderti. La maggior parte di loro non vale molto nella lotta, ma al momento nemmeno tu. Va’ sulle colline e offri la tua spada ai banditi per almeno due inverni. Le città sono dominio indisturbato dei maghi. Sono in vigore leggi ingiuste, pertanto i buoni devono diventare necessariamente fuorilegge, o cadaveri, se vogliono rimanere tali. Diventa quindi un bandito e impara tutto ciò che puoi». Senza sorridere, aggiunse: «Se sopravviverai, viaggia per Faerûn fino a trovare un’arma abbastanza affilata da uccidere Neldryn, poi torna e agisci».

«Uccidere chi?»

«Neldryn Hawklyn, probabilmente il più potente fra i signori maghi».

Elminster lo guardò con occhi grigio-blu improvvisamente fiammeggianti.

«Hai detto di non conoscere il nome di nessun mago! È questo ciò che un cavaliere di Athalantar chiama “verità”?»

Helm sputò di lato, nell’oscurità. «Verità?» Si protese. «Che cos’è la “verità”, ragazzo?»

Elminster si accigliò. «È quello che è», affermò freddamente. «Non conosco significati nascosti».

«La verità», rispose il cavaliere, «è un’arma. Ricordalo».

Per un attimo rimasero in silenzio, poi Elminster esclamò: «Va bene, ho imparato la tua bella lezione. Dimmi allora, o saggio cavaliere: a cos’altro di tutto quello che hai detto posso credere? Su mio padre e i miei zii?»

Helm soffocò un sorriso. Quando la voce di quel ragazzo diventava tranquilla, preannunciava pericolo. Meritava senz’altro una risposta leale. Il cavaliere rispose semplicemente: «Tutto. Per quanto ne so. Se sei ancora affamato di nomi dei quali vendicarti, aggiungi questi alla lista: Seldinor Stormcloak e Kadeln Olothstar, ma non conosco i loro volti e non li riconoscerei neppure se vi sbattessi il naso in una vasca da bagno di un postribolo».

Elminster guardò fisso l’uomo barbuto e puzzolente. «Non sei quello che pensavo fosse un cavaliere di Athalantar».

Helm lo guardò a sua volta. «Pensavi di vedere una brillante armatura, Principe? In groppa a un cavallo bianco alto quanto una casa? Maniere cortesi? Sacrifici nobili? Non in questo mondo, figliolo, non da quando è morta la Regina della Caccia».

«Chi?»

Helm sospirò e distolse lo sguardo. «Mi sono scordato che non conosci nulla del tuo regno. La Regina Syndrel Hornweather, tua nonna, la moglie di Uthgrael, e Signora di tutte le sue cacce al cervo». Guardò nell’oscurità e aggiunse a bassa voce: «Era la più bella donna che avessi mai visto».

Elminster si alzò improvvisamente. «Grazie di tutto, Helm Spadadipietra. Devo andarmene prima che i tuoi compagni lupi tornino dal saccheggio. Se gli dei lo vorranno, ci incontreremo ancora».

Helm sollevò lo sguardo. «Lo spero, ragazzo. E spero anche che ciò accada quando Athalantar sarà nuovamente libera dai signori maghi, e i miei “compagni sciacalli”, i veri cavalieri di Athalantar, potranno ancora cavalcare».

Helm protese le mani, in una il fiasco, nell’altra il pane.

«Va ad ovest, sulle Colline del Corno», spiegò frettolosamente, «e bada che nessuno ti veda. Viaggia al tramonto e all’alba, nei campi e nei boschi. Attento ai soldati di pattuglia. Là fuori, prima ti ammazzano e poi ti chiedono il tuo mestiere. Non dimenticare mai: le spade che i maghi pagano non sono cavalieri, oggi i soldati di Athalantar non hanno onore». Sputò e aggiunse: «Se incontri dei briganti di’ che ti manda Helm e che si possono fidare di te».

Elminster prese il pane e la fiaschetta. I loro occhi si incontrarono, e fece un cenno di ringraziamento col capo.

«Ricorda», continuò Helm, «non dire a nessuno il tuo vero nome e non fare domande stupide su principi e maghi. Fingi d’essere qualcun altro finché non verrà il momento della tua vendetta».

Elminster annuì. «I miei rispetti, Signor Cavaliere, e i miei ringraziamenti». Si voltò con tutta la solennità dei suoi dodici inverni e si avviò a grandi passi verso l’imbocco della caverna.

Il cavaliere lo seguì, sorridendo. Poi esclamò: «Aspetta, figliolo, prendi la mia spada; ne avrai bisogno. È meglio che tu tenga nascosta quell’elsa».

Il ragazzo si fermò e si voltò, cercando di celare l’emozione. Una spada tutta sua! «Tu che cosa userai?» chiese Elminster, afferrando l’arma semplice e pesante che gli porgevano le mani sudice del cavaliere. Seguì poi un tintinnio di fibbie e uno strusciare di pelle, e alla spada si aggiunse il fodero.

Helm si strinse nelle spalle. «Me ne procurerò un’altra. Si suppone che debba servire tutti i principi del regno con la mia spada, quindi…»

Elminster sorrise improvvisamente e agitò l’arma in aria, tenendola con entrambe le mani. Era tremendamente rassicurante; con quell’arma in pugno si sentiva potente. Diede una stoccata a un nemico immaginario e la punta della spada si sollevò un po’.

Helm gli fece un sorriso intenso: «Sì… prendila e va’!»

Elminster fece alcuni passi sul prato… poi si voltò e ricambiò il sorriso del cavaliere. Si girò nuovamente verso il pascolo illuminato dal sole, la spada rinfoderata cullata cautamente nelle sue mani, e si mise a correre.

Helm prese un pugnale dalla cintura e una pietra da terra, scosse il capo, e uscì a uccidere le pecore, chiedendosi quando avrebbe sentito parlare della morte del ragazzo. Il primo dovere di un cavaliere è ancora quello di far splendere il regno negli occhi dei ragazzini… altrimenti chi saranno i cavalieri di domani, e che ne sarà del regno?

A quel pensiero il suo sorriso scemò. Che cosa sarebbe stato di Athalantar?

2. I Lupi d’Inverno

Sappi che lo scopo delle famiglie, almeno per i Morninglord, è quello di rendere ogni generazione migliore della precedente: più forte, magari, o più saggia; più ricca, o più abile. Alcuni hanno successo in uno di questi intenti; i migliori e i più fortunati riescono in più di uno. Ciò è il compito dei genitori. Il dovere di un governante consiste nel costruire, o mantenere, un regno che permetta a molti dei sudditi di migliorare, nel corso delle generazioni, sotto più aspetti.

Thorndar Erlin, Sommo Sacerdote di Lathander, Insegnamenti della Gloria del Mattino.

Anno della Furia

Elminster era rannicchiato nel cuore gelido e bianco di una violenta bufera di neve, nel Martello d’Inverno, il mese crudele in cui uomini e pecore venivano trovati congelati, e i venti ululavano giorno e notte tra le Colline del Corno, sollevando turbini accecanti di neve sugli altipiani aridi. Correva l’Anno dei Maestri del Sapere, ma a Elminster ciò non importava minimamente. Gli importava invece il fatto che fosse un’altra stagione fredda, la quarta dall’incendio di Heldon e che si stava stancando di vivere in quel modo.

Una mano amichevole gli batté su una spalla ben imbottita, e lui ricambiò il gesto. Sargeth aveva una vista da falco; il suo tocco significava che aveva individuato la pattuglia attraverso la cortina di neve. El lo osservò raggiungere l’altra postazione e dare il segnale. I sei briganti, avvolti in numerosi strati di stoffa rubata o sottratta ai cadaveri, e somiglianti ai grassi golem striscianti dei racconti dell’orrore, uscirono dal calore del loro nascondiglio di neve, armeggiarono per sguainare le spade con mani coperte da spesse bende di stracci e s’incamminarono dondolando nella fenditura.

Il vento e la neve sferzavano violentemente i loro volti mentre scendevano nello spazio angusto fra le rocce. Engarl lottava per rimanere in piedi poiché le folate di vento strattonavano la sua lunga lancia. L’aveva presa a un soldato a cui non serviva più… Engarl l’aveva atterrato con una sassata prima che le foglie iniziassero a cadere.

I banditi scelsero le rispettive postazioni, si inginocchiarono nella coltre bianca, e cominciarono a scavare. La tempesta non accennava a smettere, e quando si acquattarono immobili, vennero ricoperti da un velo bianco, fino a sembrare semplici cumuli di neve nella bufera.

«Che gli dei maledicano tutti i maghi!» La voce trasportata dal vento sembrò essere sorprendentemente vicina.

E così anche la risposta. «Potresti dire di meglio».

«Io sì, ma non i miei piedi congelati. Preferirebbero trovarsi accanto a un fuoco scoppiettante, di nuovo a…»

«Tutti i nostri piedi vorrebbero essere là. E presto sarà così, dei permettendo. Ti scalderai uccidendo qualche fuorilegge, se hai la vista abbastanza aguzza da individuarli. Ora taci!»

«Forse», commentò tranquillamente El, sapendo che il vento avrebbe smorzato le sue parole, «gli dei hanno altri progetti».

Fece appena in tempo a sentire una risata in risposta, proveniente dalla sua sinistra: Sargeth. Un attimo dopo udì un forte scricchiolio sulla neve, e il nitrito acuto di un cavallo spaventato. I fratelli avevano attaccato. Arghel colpì per primo, e poi Baerold lanciò il grido…

Si udì un ruggito simile all’urlo di trionfo di un lupo, come solo Baerold riusciva a fare. I cavalli si impennarono, nitrirono e recalcitrarono nella neve alta in ogni direzione. Si trattava di una pattuglia a cavallo.

Elminster spuntò dalla neve come uno spettro desideroso di vendetta, con la spada sguainata. Rimanere immobili poteva significare essere schiacciati e travolti dai cavalli. Vide un guizzo di luce attraverso il vorticoso candore, quando il soldato più vicino estrasse la sua arma.

Un istante più tardi, la lancia di Engarl, sobbalzando sgraziatamente, colpì il soldato alla gola. Questi annaspò, gorgogliò e, quando il cavallo si slanciò in avanti, cadde con la testa penzolante, portando con sé la lancia. Elminster non si curò dell’uomo morente; un altro soldato era sbucato da destra e stava cercando di passare oltre il ragazzo, attraverso la fenditura.

El corse nella neve scivolosa più veloce che poté, nel modo insegnatogli dai banditi, oscillando goffamente da un lato all’altro per evitare di slittare. Tutti i briganti sembravano orsi ubriachi quando correvano nella neve alta. Ma se lui era lento, il cavallo lo era ancor di più; i suoi zoccoli scivolavano nelle buche che segnavano la pista, e tra uno scalpitio e l’altro il cavaliere rischiò più volte di essere disarcionato.

Il soldato vide Elminster e si protese per colpirlo. Il ragazzo si abbassò, lasciò che la spada sibilasse oltre la sua testa, e si avventò contro la gamba dell’uomo, aggrappandosi con una mano mentre, con la spada nell’altra, bloccava un secondo colpo del cavaliere.

L’uomo con l’armatura perse l’equilibrio, emise un grido disperato, agitò selvaggiamente il braccio libero nel vano tentativo di trovare un appiglio e cascò pesantemente dalla sella, ruzzolando nella neve ai piedi di Elminster. Il giovane bandito gli conficcò la spada nel collo, mentre uno spruzzo di neve ricopriva ancora il viso dell’uomo, rabbrividì sentendo gli spasmi provocati dalla sua spada e poi si lasciò cadere fiaccamente nella neve. Quattro anni prima aveva scoperto che non gli piaceva uccidere… e non aveva ancora superato la sua repulsione.

Tuttavia, sulle colline frequentate dai fuorilegge, o si uccideva o si veniva uccisi; Elminster si allontanò rapidamente dall’uomo, guardandosi attorno in quella confusione di neve vorticante e di cavalli agitati.

Alla sua sinistra si udì un grugnito, un ruggito di dolore, e il tonfo pesante di un corpo e di un’armatura che urtavano il suolo ammantato di neve, subito seguito da un lamento che cessò improvvisamente. El rabbrividì ancora, ma cautamente tenne la spada sollevata. Talvolta accadeva che i banditi si stancassero di qualche membro della banda e decidessero di compiere un errore, con la scusa della tempesta, eliminando qualcuno che non era affatto una guardia di Athalantar.

El non si aspettava tale tradimento dai compagni… ma solo gli dei conoscevano il cuore degli uomini. Come la maggior parte dei briganti delle Colline del Corno, perlomeno, quelli che riverivano Helm Spadadipietra e odiavano i signori maghi, non attaccavano la gente comune. Non volendo che la collera dei maghi ricadesse sui contadini, i cui fienili rappresentavano talora un giaciglio caldo e le cui radici congelate, dimenticate sotto terra, erano un cibo prezioso per gli uomini affamati, i banditi evitavano ogni contatto con i loro vicini delle colline. Ma ciò nonostante questi ultimi non avevano imparato a fidarsi di loro. I soldati di Athalantar pagavano cinquanta pezzi d’oro a testa a chi li avesse condotti dai banditi. E più di un fuorilegge era stato preso per eccesso di fiducia.

La dura legge consisteva nel non fidarsi di alcun essere vivente, dagli uccelli alle volpi la cui fuga allarmata avrebbe potuto attirare l’attenzione delle pattuglie, ai mercanti ambulanti che in cambio di oro avrebbero potuto parlare di fuochi o di sentinelle incontrati nel cuore delle colline, noto nascondiglio dei briganti.

Sargeth avanzò a grandi passi tra i fiocchi di neve che cadevano incessanti, perpendicolari per l’assenza improvvisa del vento. Stava sogghignando sotto la nuvola di vapore che gli fuoriusciva dalla bocca. «Tutti morti, El: una decina di soldati… e uno di essi portava un sacco pieno di cibo!»

Elminster, Eladar per i banditi, borbottò: «Nessun mago?»

Sargeth ridacchiò e gli posò una mano sul braccio. Lasciò tracce di sangue, il sangue coagulato di qualche soldato ora immobile nella neve. «Pazienza», esclamò. «Se sono i maghi che vuoi uccidere, cominciamo dai soldati e, per tutti gli dei, vedrai che i maghi si faranno vivi».

Elminster annuì. «Che altro?» Intorno a loro il vento aveva ripreso a soffiare con nuovo vigore, ed era difficile vedere attraverso la tormenta.

«Un cavallo è ferito. Lo macelleremo e lo avvolgeremo nei loro mantelli. Ora sbrighiamoci; i lupi sono affamati quanto noi. Engarl ha trovato una decina di pugnali e almeno un elmo decente. Baerold sta raccogliendo stivali, come al solito. Vai ad aiutare Nind a tagliare la carne».

Elminster tirò su col naso. «Lavoro di sangue, come sempre».

Sargeth rise e gli batté una mano sulla schiena. «Dobbiamo farlo tutti per vivere. Fai finta di preparare tanti banchetti, e prova a non masticare troppa carne cruda, come fai di solito… a meno che non ti piaccia congelarti il culo nella neve…»

Elminster borbottò e si diresse nel punto indicato da Sargeth. Un grido di felicità lo indusse a voltare improvvisamente il capo. Era Baerold, che conduceva per le redini un cavallo sbuffante. Ottimo; avrebbe potuto trasportare per un po’ il loro bottino prima di essere ucciso, per non lasciare più tracce di zoccoli sulla neve.

Intorno a loro, il sibilo del vento si affievolì e anche la nevicata si fece meno intensa. Da ogni parte giungevano imprecazioni; i banditi sapevano che avrebbero dovuto lavorare velocemente se il tempo si fosse rasserenato, poiché perfino i maghi più incapaci, appostati nei castelli dei dintorni, erano in grado di individuarli quando il cielo era limpido.

Col favore degli dei, si levò un’altra bufera subito dopo aver lasciato la fenditura, e anche se qualcuno fosse già stato sulle loro tracce non sarebbe più stato in grado di seguirli. I fuorilegge procedettero a fatica, seguendo Sargeth e Baerold, che conoscevano ogni pendio di quelle colline perfino nella violenta tormenta. Quando giunsero alla sorgente profonda, che non gelava mai, un luogo che sapevano essere sottoposto agli incantesimi dei maghi lontani, Baerold sussurrò poche parole di conforto al cavallo e poi affondò la sua ascia da guardiaboschi con forza brutale e si allontanò rapidamente dagli zoccoli recalcitranti dell’animale.

I banditi abbandonarono i resti fumanti della carcassa affinché li trovassero i lupi; poi si rotolarono nella neve per ripulirsi un po’ dal sangue e proseguirono il loro cammino. Si diressero a nord nella bufera incalzante, arrampicandosi su per le forre anguste e buie, fino alla Caverna del Vento, dove le brezze gelide sussurravano incessantemente in una fessura senza luce. Uno alla volta si chinarono per passare dalla stretta apertura, attraversarono al buio la caverna accidentata, e raggiunsero la pietra debolmente illuminata che segnava l’imboccatura del passaggio successivo. Procedettero lungo la cavità scura finché non videro il bagliore pallido di un’altra pietra. Sargeth bussò lentamente sul muro per sei volte, fece una pausa, e poi bussò un’ultima volta. Giunse un colpo di risposta, l’uomo fece due passi e svoltò in un passaggio laterale nascosto. I banditi lo seguirono nella galleria stretta, che odorava di terra e di pietra umida, e scendeva ripida sotto le Colline del Corno.

Più avanti la luce aumentava, una grotta piena di funghi luminosi emanava un debole bagliore dalle sfumature color birra. Una volta sbucati in essa, Sargeth pronunciò con calma il suo nome all’oscurità oltre la grotta, e gli uomini di guardia abbassarono le balestre e domandarono: «Tutti sani e salvi?»

«Sani e salvi, e abbiamo carne da arrostire», rispose Sargeth con aria trionfale.

«Cavallo», chiese aspramente una seconda voce, «o soldato a fette?»

Dopo essersi scambiati dei risolini procedettero lungo un altro passaggio, attraverso una caverna dove spuntoni di roccia sporgevano dal suolo e dal soffitto simili a fauci congelate di un mostro enorme, e giunsero in un passaggio illuminato da un vivace bagliore rosso. Una scala robusta conduceva in un’ampia caverna, sempre avvolta nel vapore. La luce e il vapore provenivano da una fessura all’estremità opposta della cavità, attorno alla quale vi erano vari individui seduti o sdraiati avvolti in coperte. A ogni passo, l’aria umida diventava sempre più calda, e i guerrieri stanchi si ritrovarono vicino alle acque bollenti della sorgente, dove mani di benvenuto si alzarono per stringere le loro. Erano di nuovo a casa, nel luogo chiamato orgogliosamente Castello Senza Leggi.

Era un buon posto, arredato con mucchi di coperte e vecchi mantelli. Gli gnomi l’avevano mostrato a Helm Spadadipietra molto tempo addietro, e di tanto in tanto i banditi vi trovavano ancora legna da ardere, torce pronte da accendere o casse di dardi lasciate nei passaggi laterali più profondi, vicino alle fosse usate come latrine dai fuorilegge. Una volta, Mauri, un’anziana rugosa fuorilegge, aveva detto a El che loro non avevano mai visto gli gnomi. «Ma vogliono che restiamo qui. Il Popolo Robusto approva tutto ciò che indebolisce i maghi, poiché l’eccessivo potere degli uomini significa la loro distruzione… Infatti ci riproduciamo già come conigli, e se mai dovessimo vincere la magia degli elfi, saremmo per loro una minaccia mortale… Li abbiamo già superati come numero e, se mai supereremo le loro magie, non potranno che fissare le loro tombe…»

La donna dal viso ricoperto di bitorzoli e di peli ispidi osservò la banda avvicinarsi, poi abbozzò un sorriso sdentato e domandò: «Cibo, miei prodi guerrieri?»

«Sì», scherzò Engarl, «e quando avremo festeggiato, ti riforniremo volentieri». Ridacchiò per la sua battuta, ma in risposta si udirono solo gli sbuffi sonori dei banditi che dormivano lì accanto; non era avanzato nulla da mangiare, se non quattro patate avvizzite che Mauri aveva conservato per due giorni nelle pieghe sudice del suo enorme petto, e avevano iniziato a masticare gli amari funghi luminosi per placare lo stomaco dolorante in attesa che una delle bande tornasse con un po’ di carne.

Ora si affrettarono ad accendere un fuoco su una sorta di fornello costruito con lame di spada arrugginite incrociate fra loro.

Gli uomini si scrollarono la neve restante dagli stivali e srotolarono i fardelli insanguinati. Mauri si chinò, e schiaffeggiò le mani dei fuorilegge per vedere cosa avevano portato alla sua mensa.

La banda di Sargeth era la migliore; lo sapevano tutti. El, il meno abile con la spada ma il più veloce con i piedi, era contento di farne parte e restava in silenzio quando i compagni litigavano o davano in escandescenze. Durante quasi tutto l’inverno faceva troppo freddo ed erano troppo stanchi per permettersi di litigare tra loro. Una volta un mago trovò la Caverna del Vento e morì in una gragnola di dardi di balestra, ma, a eccezione di quell’occasione, Elminster aveva visto raramente gli odiati maghi di Athalantar da quelle parti; i fuorilegge attaccavano tanto spesso le pattuglie di soldati, che i maghi avevano smesso di cavalcare con loro.

Un furfante sorridente, dalla barba rossa, che tutti conoscevano come Javal, soffiò per alimentare il fuoco ed esclamò con soddisfazione: «Ne abbiamo presi altri due che venivano da Daera ieri sera».

«È meglio smettere per un po’», grugnì Sargeth, mentre, con i suoi compagni, si toglieva i guanti, il copricapo, e le pellicce più pesanti, «altrimenti penseranno che le ragazze del locale lavorino con noi e le bruceranno, oppure ci organizzeranno una trappola».

Il sorriso di Javal scomparve. Fece una smorfia e un lento cenno col capo. «Hai ragione come sempre, Sar».

Sargeth si limitò a grugnire e stese le mani al calore crescente del fuoco. I soldati del Corno di Heldreth, la fortezza più remota di Athalantar, comperavano i favori delle ragazze del villaggio. Una decina di estati addietro alcune donne avevano trasformato una vecchia fattoria in una casa di piacere e inoltre vendevano ai loro clienti vino di fiore selvatico. I banditi avevano ucciso più di una volta i soldati ubriachi e soli che tornavano al castello. «Sì, meglio lasciar perdere fino a primavera».

«Che cosa, lasciare che uccidano e saccheggino fino a primavera? Quanti soldati potete permettervi di perdere ancora?»

La voce del mago era fredda, più fredda delle merlature gelide su cui si trovavano, che davano sulle acque ghiacciate del Torrente Unicorno. Il maestro di spada di Sarn Torel allargò le mani forti e pelose ed esclamò rassegnato: «Nessuno, Signor Mago. Ecco perché non oso mandarne altri… ogni uomo che da qui si dirige a ovest sa di andare incontro alla propria morte. Sono molto vicini alla sfida aperta ora… e devo anche far rispettare la legge qui nelle strade. Se le carovane di mercanti e i venditori ambulanti sono tanto pazzi da viaggiare di regno in regno nella neve alta, lasciamo che si difendano da soli, e lasciamo pure che i banditi congelino nelle colline senza che le nostre spade li intrattengano».

Il mago gli lanciò un’occhiata ancora più fredda della sua voce.

Il maestro di spada fu colto dal terrore e afferrò fermamente il merlo di pietra davanti a lui per evitare di indietreggiare mostrando in tal modo la propria paura. Abbassò lo sguardo sul muschio congelato che riempiva le fessure e le incrinature nella pietra e desiderò ardentemente di trovarsi altrove. In un luogo più caldo, dove non si era mai sentito parlare di maghi.

«Non ricordo che il re abbia chiesto un vostro parere sui vostri doveri, sebbene non abbia alcun dubbio che sarà più interessato a scoprire in quale modo… creativo… divergano dai suoi», rispose il mago con voce ora morbida come la seta.

Il maestro di spada si sforzò di voltarsi e fissare quegli occhi scuri che luccicavano di malizia. «È vostro desiderio, dunque, signor Mago», chiese, enfatizzando la parola quanto bastava affinché sapesse che considerava il re un guerriero più saggio di tutti i boriosi signori maghi, che di certo non avrebbe disprezzato la prudenza del suo maestro di spada, «che mandi ulteriori soldati in pattuglia dalla fortezza Corno?»

Il mago esitò, poi, di nuovo gentilmente, esclamò: «Fatemi sapere la vostra volontà, Maestro; forse riusciremo a raggiungere un compromesso».

Il guerriero respirò profondamente e tenne lo sguardo fisso negli occhi scuri e fatali del mago. «Mandate al Corno una slitta piena di maghi, anche apprendisti, a patto che li comandi quel mago esperto. Venti soldati, non uno di più, cavalcheranno con loro fino al Corno, e da lì, con l’aiuto della magia cacceranno e distruggeranno quei fuorilegge».

Si fissarono per un istante gelido e interminabile, poi, lentamente, il Mago Kadeln Olothstar abbozzò un sorriso, un sorriso lieve, ma il maestro di spada si domandò se fosse vero. «Un piano indubbiamente intelligente. Sapevo che oggi avremmo raggiunto l’accordo». Per un momento guardò verso nord le fattorie coperte di neve oltre il fiume, poi aggiunse: «Spero che si riesca a trovare velocemente una slitta adeguata, senza che si debba perder tempo a costruirla».

Il maestro di spada indicò in basso oltre le merlature con una mano inguantata. «Vedete quei tronchi vicino al mulino? Sarà tutto pronto prima di domani mattina; vi fisseremo sopra un paio di baracche, di quelle che servono per coprire i pozzi».

Il mago sorrise lievemente: un serpente che contempla la preda in trappola. «Partiranno domani stesso. Avrete dodici maghi, Maestro di spada, uno di loro sarà Landorl Valadarm».

Il guerriero annuì, domandandosi se Landorl fosse uno stupido o se si fosse semplicemente guadagnato la disapprovazione di Kadeln. Sperava si trattasse del secondo motivo. In tal caso, sarebbe almeno stato utile se quei maledetti fuorilegge avessero attaccato la slitta. I due si scambiarono un sorriso a denti stretti e si voltarono le spalle a vicenda, per mostrare che non avevano alcun timore, poi si allontanarono con fare indifferente. Ogni loro passo gridava al mondo la loro forza e la loro temerarietà.

Le merlature di Sarn Torel si ergevano silenziose, immobili e incuranti, come a ribadire che sarebbero sicuramente sopravvissute alla morte dei due uomini. Ci voleva ben altro per impressionare le mura di un castello!

Elminster stava felicemente soffiando sulle sue dita bruciacchiate, leccando i rimasugli di carne di cavallo, quando una delle sentinelle irruppe nella caverna e gridò: «Pattuglia! Hanno scoperto l’ingresso e ucciso Aghelyn, e probabilmente altri. Alcune delle guardie sono corse subito indietro per riferire dove ci nascondiamo!»

Dappertutto si udirono imprecazioni e tutti si alzarono in piedi, gridando. Sargeth si fece largo tra la confusione e urlò: «Balestre e spade; tutti tranne Mauri. I ragazzi e i feriti stiano di guardia nella grotta illuminata, tutti gli altri con me, avanti

Mentre correvano nell’oscurità, imprecando e sbattendo le armi contro la roccia invisibile, nella fretta, Sargeth aggiunse, «Brerest! Eladar! Cercate di evitare la battaglia e inseguite i soldati che stanno tornando dai maghi: tu sei il più veloce a piedi e anche abbastanza grande da brandire una vera spada. Li voglio tutti morti, altrimenti siamo finiti».

«Sì», Elminster e Brerest ansimarono e raggiunsero rapidamente l’imbocco della Caverna del Vento. Un dardo sibilò accanto a loro e colpì la roccia vicino alla testa di Sargeth; una seconda freccia li mancò completamente, ma Elminster si fermò dietro a un masso ricoperto di neve in tempo per vederne un terzo colpire Sargeth nell’occhio, e spingerlo indietro come un sacco di patate, facendolo scivolare dal muro di roccia.

Elminster appoggiò il suo pugnale nella neve, afferrò la vecchia balestra più volte aggiustata, caduta dalle mani di Sargeth e usò tutta la sua forza. L’arma sferragliò rumorosamente, ma i suoi compagni stavano avanzando, tirando con gli archi, e le grida gli dicevano che alcuni dei dardi stavano colpendo il bersaglio.

Finalmente riuscì a caricarla. «Tempus, assistimi», mormorò Elminster sfregando le dita sulla punta del pugnale fino a far uscire sangue per suggellare la preghiera al dio della guerra. Poi posò la balestra a terra, si tolse l’elmo e lo agitò da un lato del masso.

Un dardo gli sibilò accanto. Elminster raccolse l’arco e in un attimo fece il giro del masso. Come si aspettava, il soldato si stava alzando per veder morire il suo bersaglio, ed era sotto tiro, dietro un gruppo di banditi gementi e di soldati che uccidevano freddamente.

El prese attentamente la mira e mancò il bersaglio. Imprecando, balzò indietro, ma Brerest lo oltrepassò con una balestra carica, si preparò e scagliò il dardo.

Il soldato aveva iniziato a ritirarsi, in cerca di riparo. Il dardo lo colpì in faccia, la testa ruotò, e l’uomo cadde barcollando.

Elminster gettò a terra l’arco, afferrò il pugnale e corse veloce nella neve, scansando disperatamente gli uomini che combattevano. Mancavano pochi passi alla prima roccia dietro la quale potersi riparare, quando un soldato spuntò da dietro un secondo masso, e puntò la balestra in direzione della mischia davanti alla caverna. Vedendo Elminster girò rapidamente l’arma verso il ragazzo. Sarebbe stato impossibile mancarlo.

Elminster si arrestò bruscamente, poi cambiò direzione e si gettò nel cumulo di neve più vicino. Atterrò duramente in un turbine di neve, scivolò sulla viscida roccia sottostante e si acquattò aspettandosi di sentire in ogni momento il colpo mortale.

Non accadde nulla. El si ripulì il volto dalla neve e sollevò lo sguardo.

Brerest o uno degli altri era stato fortunato. Il soldato giaceva piegato sulla sommità della roccia, inerme e gemente, con una freccia nella spalla.

«Grazie, Tempus», esclamò Elminster soddisfatto, poi fece due passi di corsa e si lanciò a piedi oltre il primo masso, per atterrare chiunque vi fosse dietro.

Il soldato era in ginocchio e stava armeggiando con la balestra inceppata. Nell’atterraggio, Elminster lo sbatté a terra come una bambola di pezza, poi estrasse il pugnale e lo colpì alla gola. «Per Elthryn, principe di Athalantar!» sussurrò, e si ritrovò a soffocare le lacrime quando il volto di suo padre riaffiorò nella sua memoria.

Non ora, si disse disperatamente, e corse verso il masso successivo. L’uomo ferito lo vide e cercò di spostarsi di lato, grugnendo. Elminster affondò il suo pugnale e ringhiò: «Per Amrythale, la sua principessa!» Poi si abbassò, raccolse la balestra carica dell’uomo e risollevò lo sguardo appena in tempo per colpire un altro soldato, sbucato dal suo riparo con una lancia in mano. Più avanti, un altro soldato fu colpito alla mano da un dardo di un bandito, gridò e cadde dietro alla sua roccia, singhiozzando.

Il frastuono delle armi vicino alla caverna era cessato. El arrischiò un’occhiata, e vide solo uomini morti. Giacevano in mucchi sanguinanti davanti all’entrata… e pochi passi più in là scorse Brerest, a terra con un dardo nel cuore.

Per tutti gli dei! Sargeth, Brerest… e tutti gli altri, se quei soldati riusciranno a raggiungere i maghi. Quanti soldati c’erano? Quattro morti, sicuramente, pensò Elminster mentre correva abbassato, più tutti quelli vicino alla caverna. La gragnola di frecce che sibilavano nel dirupo era cessata… erano tutti morti?

No, rimaneva il soldato ferito alla mano, e forse altri due, che giacevano più avanti dietro a qualche roccia. Dovevano essere almeno due pattuglie, calcolò il ragazzo, e non più di tre soldati per gruppo, forse tre in tutto, erano stati incaricati di far rapporto ai maghi. Per avere qualche speranza di raggiungerli doveva assolutamente trovare i cavalli con i quali erano venuti, e… ma certo! I soldati mancanti, almeno due, stavano di certo badando ai cavalli di sotto.

Elminster strisciò intorno al masso, stando chinato, e prese quattro pugnali e una lancia dai due uomini morti. Una freccia di un bandito sibilò fuori dalla caverna e per poco non lo colpì alle spalle; sospirò e strisciò nella neve.

Aveva quasi raggiunto il soldato singhiozzante, quando ne spuntò un altro da dietro una roccia che si apprestò a prendere di mira l’ingresso della caverna. Elminster scagliò la lancia; era in aria prima che l’uomo potesse vederla.

Il soldato non ebbe il tempo di cambiare il bersaglio. Lanciò una freccia inutile giù per il dirupo mentre la lancia lo colpiva al petto, facendolo precipitare di spalle nella neve, agonizzante.

Elminster raggiunse di corsa il soldato sanguinante e lo colpì ancora con il suo pugnale. «Per Elthryn, principe di Athalantar!» ringhiò, e il soldato sotto le sue ginocchia ebbe il tempo di guardarlo sbalordito prima che la sua vista si offuscasse.

Elminster si allontanò rotolando. Frecce e lance da entrambe le estremità della forra si incrociarono nell’aria sopra il soldato morto, dove il ragazzo era stato poco prima inginocchiato. A tentoni nella neve, Elminster uccise l’uomo che stava ancora stringendo la sua mano sanguinante. «Per mia madre Amrythale!»

Ansimando, prese la balestra dell’uomo e si abbassò dietro la roccia per riprendere fiato e caricare l’arma. Ora i suoi stivali erano pieni di pugnali di scorta e l’arco fu subito pronto. Si accucciò, lo sollevò tra le braccia e aggirò l’ultima roccia con le dita sul grilletto.

Non c’era nessuno. Elminster rimase immobile per un istante e poi si inginocchiò. Un’altra freccia di un fuorilegge gli sibilò accanto per cadere nella neve sotto il dirupo. El la guardò scomparire e sollevò lo sguardo. Avrebbe potuto arrampicarsi fin sul bordo della gola e vedere dall’alto dove erano andati i soldati; la neve aveva smesso di cadere e il vento era cessato, e le colline erano imbiancate di neve fresca.

Certo, per arrampicarsi avrebbe dovuto uscire allo scoperto… ma d’altronde Tyche metteva un pizzico di rischio nella vita di tutti.

Elminster sospirò, estrasse la freccia e se la infilò in uno stivale. Lasciò l’arco carico, se lo mise in spalla e risalì il pendio.

Aveva percorso pochi passi quando una freccia colpì la neve a una spanna dalla sua testa. El la afferrò, si staccò dalle rocce innevate e dall’erba ghiacciata, e si lasciò scivolare giù per la scarpata, fingendo d’essere morto. Cadde con la faccia nella neve, cercando di mantenere la balestra intatta.

Le lacrime lo accecarono per un momento, ma a quanto pareva non si era rotto il naso. Batté le palpebre, sputò la neve dalla bocca e controllò l’arma: era intatta; emise un gemito per coprire il rumore e la caricò.

Un soldato con una seconda balestra spianata, spuntò da un boschetto innevato lì vicino, cercando l’uomo che aveva colpito. I due si intercettarono nello stesso istante. Entrambi spararono; ed entrambi mancarono il bersaglio. Elminster balzò in piedi quando la freccia sibilò accanto… avrebbe corso per sempre intorno al dirupo, ansimando e scivolando?… afferrò i pugnali dai suoi stivali e corse verso il boschetto, una lama luccicante in entrambi i pugni. Temeva che il soldato avesse un terzo arco pronto a colpire…

Non si sbagliava. Il soldato sbucò di nuovo con un ghigno trionfale in volto ed Elminster gli lanciò un pugnale. Il sorriso dell’uomo si trasformò in una smorfia di paura e sparò di fretta.

Il dardo sfrecciò verso Elminster, che si lanciò disperatamente all’indietro. Mentre cadeva a terra, il suo coltello incrociò la freccia con un fragore e una scintilla. Il pugnale schizzò via e il dardo lo sfiorò, ferendogli il mento e facendogli voltare la testa. El urlò di dolore e cadde in ginocchio, sentendo lo scricchiolio degli stivali del soldato che si dirigeva correndo verso di lui. Il ragazzo si voltò, scuotendo la testa e grugnendo per il dolore. L’uomo era a pochi passi da lui, la spada alzata pronta a colpire, quando El gli lanciò in faccia il pugnale che teneva nell’altra mano. L’arma rimbalzò innocuamente sul paranaso dell’elmo, ma la spada dell’uomo mancò il giovane e colpì il suolo innevato e le rocce sottostanti; il guerriero urlò e cadde pesantemente sopra la mano sinistra di Elminster.

Questi urlò. Per tutti gli dei che dolore! L’uomo rotolò sopra la sua mano, cercando di far presa nella neve con gli stivali.

Il ragazzo singhiozzò e tutto divenne prima verde, poi giallo… una gran confusione. Si portò la mano libera alla cintura. Nulla di utile. L’uomo grugnì ed El sentì il suo respiro caldo quando questi si voltò e si trovarono faccia a faccia. Il soldato cercò di abbassare la spada su di lui e il suo peso spingeva la Spada del Leone, avvolta nelle pelli, contro il petto del giovane.

Disperato, Elminster strappò il collo del suo giustacuore. Le sue dita trovarono l’elsa della spada. Nelle lunghe notti del suo primo inverno sulle colline aveva affilato il moncone di spada fino a farlo diventare appuntito e tagliente, ma ciò nonostante l’arma non era nemmeno lunga quanto la sua mano. Ma proprio le sue ridotte dimensioni furono la sua salvezza. Mentre il volto del soldato lo fissava a distanza ravvicinata e il suo gomito si sollevava per assestare il colpo di grazia, Elminster gli conficcò la Spada del Leone in un occhio.

«Per Elthryn, principe di Athalantar!» sibilò, e quando il flusso di sangue caldo lo investì, si ritrovò a sprofondare in un’oscurità rossa, umida…

Era sospeso in un luogo buio e silenzioso. Udiva intorno a lui sussurri indistinti e un rumore sordo, lento e ritmico… Elminster percepì il dolore alla mano e un malessere diffuso. Nella sua testa? Sì, ora ecco crescere e pulsare un bagliore bianco… quello che vedeva quando si concentrava. Il bagliore aumentò e il dolore diminuì.

Ah, così! Elminster sforzò la mente e la luce bianca si affievolì. Si sentì un po’ stanco, ma il dolore era diminuito… si sforzò ancora, e di nuovo si sentì debole, ma ora non sentiva più quasi alcun male.

Ancora. Riusciva a respingere il dolore. Poteva veramente curare se stesso? Elminster si distrasse… e improvvisamente tutti i suoi mali tornarono, e sentì il suolo freddo e duro sotto le spalle e il sudore appiccicoso che gli ricopriva tutto il corpo. Dal luogo dei sussurri, tornò nuotando in superficie, e si ritrovò nella luce…

Il cielo era azzurro e senza nuvole. Elminster era sdraiato sulle rocce innevate, irrigidito dal freddo e dolorante. Cautamente, rotolò su un lato e si guardò intorno. Non vide nessun movimento, meglio così; la testa gli girava e gli pulsava, e dovette riabbassarsi per prendere fiato. Nuovamente, l’oscurità lo chiamò… e lui si sentì tanto bene, la sua testa era tanto pesante…

Poco dopo, si destò. Gli avvoltoi volavano in circolo nel cielo sopra il dirupo, sbattendo pesantemente le ali ed emettendo versi minacciosi.

L’ultimo soldato giaceva morto accanto a lui, con la Spada del Leone conficcata nella faccia. Elminster trasalì alla vista, ma afferrò la spada, gli girò l’impugnatura e la estrasse. Mentre la puliva nella neve, guardò furtivamente il cielo che si stava offuscando nuovamente, era di un color grigio acciaio nell’ultima luce del giorno, e si alzò. Aveva un compito da portare a termine se voleva continuare a vivere.

Si sentiva debole e un po’ intontito. Nello spazio aperto di fronte alla Caverna del Vento, otto o più soldati e una ventina di fuorilegge giacevano morti, la maggior parte infilzati da frecce che spuntavano dalle sagome immobili. Gli avvoltoi volavano in circolo, alti nel cielo, e presto sarebbero arrivati i lupi. Probabilmente avrebbero trovato abbastanza cibo senza bisogno di entrare nelle grotte, dove i più deboli avrebbero fatto la guardia fino all’arrivo di nuove pattuglie assassine. Avrebbe dovuto uccidere altri soldati per impedire che ciò accadesse… era stanco d’uccidere. El sogghignò debolmente mentre scendeva per il dirupo, distogliendo lo sguardo dai morti sparsi qua e là. Era proprio un fuorilegge impavido!

All’imbocco del dirupo c’era una vasta zona calpestata, che mostrava tracce di un andirivieni di cavalli. I soldati dovevano aver dato per morti i loro compagni. El rilassò le spalle. Non poteva raggiungere i cavalli con la neve tanto alta. Lui e gli altri superstiti erano condannati… a meno che non raccogliesse tutte le balestre e le spade che poteva, non le portasse agli ultimi banditi in attesa nell’oscurità, e non trasformasse le grotte in una trappola mortale per i soldati. Ma qualcuno sarebbe certo sopravvissuto e avrebbe potuto identificare il covo per attacchi successivi, e inoltre, che cosa sarebbe successo se avessero iniziato a lanciare sfere di fuoco nelle caverne? No.

Elminster si lasciò cadere su un masso per riflettere. Il suo movimento improvviso gli salvò la vita; una freccia di una balestra gli passò a pochi centimetri dalla testa e scomparve in un cumulo di neve vicino. Il più giovane principe di Athalantar, forse l’ultimo principe di Athalantar, si tuffò rapidamente nella neve, di faccia, e si dimenò nella sostanza gelida fino a rannicchiarsi dietro la roccia. Sbirciò nella direzione da cui era giunta la freccia.

In alto, sull’orlo del crinale sopra il dirupo, c’era un soldato. Ne avevano lasciato uno per inchiodare i banditi nel loro covo, o pedinarli se fossero usciti. Ecco spiegata la ragione per cui molti fuorilegge erano morti per dardi da balestra!

Elminster sospirò. Bene, il cavallo del soldato era senz’altro da qualche parte proprio sotto di lui, dall’altra parte del crinale. Se solo fosse riuscito a raggiungerlo e a portarsi in tempo fuori tiro…

Sì, e magari le rane potrebbero volare… Elminster aggrottò la fronte e cercò di ricordare dov’erano cadute le balestre. L’ultimo soldato, quello che lo aveva quasi ucciso… sì! Doveva avere tre archi e averli lasciati cadere dopo aver sparato in quel boschetto, laggiù! El fece un respiro profondo, poi iniziò a strisciare sulla pancia nella neve. Un’altra freccia gli passò accanto, vicino, ma forse non ci sarebbe stato tempo per un secondo tiro.

«Tempus, Tyche, aiutatemi: ho bisogno di entrambi», mormorò Elminster, affrettandosi nella fredda neve polverosa. Raggiunse finalmente il boschetto, chinandosi quando un terzo dardo scrollò la neve dai tronchi intorno a lui, cozzò contro un alberello e cadde spezzato nella neve alla sua sinistra. Com’era diversa dalle battaglie che cantavano i menestrelli!

Mentre stava riflettendo trovò il primo e il secondo arco sprofondati nella neve. Erano bagnati, ma forse ugualmente utilizzabili. Una sacca e le frecce che conteneva erano sparpagliate accanto alle balestre.

Elminster armeggiò con calma per caricare le armi del soldato morto. Dal crinale soprastante poteva sentire il debole sferragliare dell’argano dell’altro soldato. Il terzo arco giaceva a pochi passi dal boschetto; Elminster non osò raggiungerlo. Quando entrambi gli archi furono carichi e pronti, Elminster iniziò a spostarsi lateralmente ai margini della macchia.

Una freccia scosse le fronde di un albero nel luogo in cui si era trovato poco prima. Il ragazzo sogghignò a denti stretti e fece un passo in avanti per vedere meglio. Il soldato si era appena chinato per prendere la seconda balestra. El appoggiò a terra una delle sue e sollevò l’altra, mirando il punto in cui l’uomo era scomparso.

Non appena vide un movimento, sparò.

Tyche era con lui. L’uomo si alzò proprio nella traiettoria della freccia; Elminster lo udì gridare di sorpresa, lo vide alzare le mani e lasciar cadere la balestra, che ruzzolò nel dirupo lungo il pendio coperto di neve, seguita poco dopo dal corpo del soldato.

Elminster scaricò il suo secondo arco, sparò a vuoto per liberare gli ingranaggi, poi raccolse tutti e tre gli archi, la sacca con le frecce, e si affrettò ad aggirare il crinale.

Ecco il cavallo, solo e incustodito, grazie agli dei! In pochi attimi, Elminster legò l’equipaggiamento con una sfilza interminabile di cinghie, e montò in sella, spronando la bestia a seguire la pista dei soldati. Il cavallo si mise in marcia senza tante storie, ma scivolava nella neve, procedendo a un’andatura un po’ più spedita di un trotto e un po’ più lenta di un galoppo. Il percorso era ben tracciato, pertanto Elminster affondò i talloni nei fianchi del cavallo e lo fece accelerare. Doveva arrivare al Corno di Heldreth prima che un mago lo vedesse nella sua sfera e lo uccidesse da lontano.

Presto la cavalcata divenne faticosa, le balestre gli rimbalzavano sulla schiena e il vapore del suo fiato si disperdeva dietro di lui nell’aria scura. La notte stava scendendo velocemente sulle colline. Non poteva fallire, la vita dei banditi intrappolati nel Castello Senza Leggi era nelle sue mani.

Mentre cavalcava, sorrise a un ricordo improvviso: le lezioni di suo padre sul dovere di ogni uomo e donna del regno, dal contadino al re. El, allora, pensava fosse normale che il padre si dilungasse a parlare dei doveri del re e del principe piuttosto che di quelli del contadino e del mugnaio, in quanto erano senz’altro più importati: si trattava del potere superiore, delle responsabilità più onerose. E non aveva sospettato nemmeno per un momento d’essere un principe o che lo sarebbe diventato alla morte del padre. Ricordava chiaramente le sue parole: «Il primo dovere di un re è nei confronti dei sudditi. Le loro vite sono nelle sue mani, e deve sempre pensare ad assicurare loro un futuro brillante e sicuro. Tutto dipende da lui, e tutti sono perduti se viene meno ai suoi doveri. L’ubbidienza gli è dovuta, sì, ma deve guadagnarsi la lealtà. Alcuni re muoiono senza comprenderlo. E i principi non sono altro che giovani testardi che imparano a essere dei re».

«Che altro, padre?» domandò al vento mentre cavalcava veloce verso il Corno. Ma il vento non si degnò di rispondere.

3. Troppa morte nella neve

Se cammini in inverno

nella neve alta

attento a ciò che dici,

poiché l’eco è in agguato.

Runa della Neve della Costa della Vecchia Spada

Almeno Tyche aveva ascoltato le sue preghiere. Mentre cavalcava per una valle scura, lungo la chiara pista lasciata dai soldati, li avvistò sotto di lui, intenti a preparare i fuochi. Le tracce nella neve rivelavano che si erano incontrati e uniti con un’altra pattuglia invece di raggiungere il castello, ancora molto lontano. La notte sarebbe presto calata sulle colline, e loro si erano fermati per accamparsi.

«Grazie, Tyche», esclamò El rivolto al vento, arrestando il cavallo stanco. Tutti i nemici erano riuniti e presto li avrebbe avuti sotto tiro.

Ma come tutti i doni della Fortuna, anche questo era a doppio taglio. Tutto ciò che doveva fare era uccidere i cinque soldati che erano scappati dal Castello Senza Leggi, e tutti quelli che si erano uniti a loro. Per un breve istante, desiderò essere un grande mago per poterli uccidere tutti in una volta, oppure cavalcare un drago per riunire, bruciare, e disperdere.

Elminster tremò al ricordo di Heldon e toccò la Spada del Leone, appesa al collo sotto i suoi abiti. «Il Principe Elminster è un guerriero», sussurrò al vento con grande dignità; poi ridacchiò, e più sobriamente aggiunse: «Uccide un uomo per riscaldarsi, aiuta a tagliare il suo cavallo, lo mangia, poi va in battaglia e ne uccide altri otto. E come se ciò non bastasse, ora sta per lanciarsi, da solo, su una ventina o più di soldati armati e pronti. Che cos’altro potrebbe essere se non un guerriero?»

«Un idiota, sicuramente», rispose una voce fredda da molto vicino. Elminster si voltò sulla sella. Un uomo con una tunica scura lo stava guardando sospeso nel vuoto, gli stivali ben al di sopra della neve intatta.

El si portò una mano alla cintura, trovò uno dei pugnali recuperati e lo scagliò. L’arma roteò, scintillando nella luce dei fuochi appena accesi, passò attraverso l’uomo e andò a seppellirsi oltre, nella neve alta.

Solo metà bocca dell’uomo sorrise. «Questa non è altro che un’immagine riflessa, sciocco», affermò freddamente. «Arrivi al galoppo, dopo aver seguito le tracce fino al nostro campo… chi sei e perché sei venuto?»

Elminster aggrottò la fronte, facendo il finto tonto, mentre i suoi pensieri correvano. «Ho già raggiunto Athalantar?» Guardò il mago e aggiunse: «Sto cercando un mago, per comunicargli un messaggio. Voi siete un mago?»

«Sfortunatamente per te lo sono», rispose l’uomo, «Principe Elminster. Oh, sì, ho udito il tuo discorsetto orgoglioso. Sei il figlio di Elthryn, dunque, quello che stavamo cercando».

Elminster sedeva immobile sulla sua sella, sforzandosi di pensare. Un mago era in grado di sferrare un incantesimo mediante la propria immagine? Una fredda voce interiore gli rispose: perché no?

Meglio muoversi, in caso… Spronò il cavallo con le ginocchia fino a farlo trottare oltre, poi lo fece girare e muovere in circolo. «Quello è il nome che ho assunto per portare morte a un certo signor mago», ribatté, oltrepassando l’immagine, che si voltò nell’aria e lo fissò in silenzio. Hmmm…

«Altri maghi», aggiunse Elminster accigliato, «hanno progetti propri».

Il mago scoppiò a ridere. «Sì, è naturale, ragazzo presuntuoso… da sempre. Mi vedi tremare di fronte alle tue parole sinistre? Che cos’altro fai, balli e giochi a carte?»

Elminster si sentì avvampare di rabbia. Cavalcare fin lì solo per essere beffato da un mago lontano, mentre i soldati certamente lo stavano già accerchiando… Spronò il cavallo e si allontanò dall’immagine del mago, rispondendogli tranquillamente: «Sì, naturalmente».

Galoppò lungo la via da cui era venuto, ma svoltò e si inerpicò sul pendio più vicino per guadagnare altezza e poter guardare indietro. L’immagine del mago non si era mossa, ma mentre la osservava, lampeggiò e scomparve, lasciando dietro di sé solo un cerchio di neve calpestata dove il cavallo aveva girato in tondo. Accidenti, laggiù in fondo due bande di soldati a cavallo, armati di spade e balestre si erano messe rapidamente in marcia in direzioni diverse e stavano per accerchiarlo.

Era ormai scesa la notte, ma le stelle in alto brillavano e Selûne sarebbe presto sorta. Fin dove poteva vederlo quel mago?

Gli vennero in mente due piani: sfuggire all’accerchiamento facendo un giro largo sul suo cavallo stanco, raggiungere il campo, sperando di trovare il mago e ucciderlo con le sue balestre prima che potesse sferrare un incantesimo. Questo era sicuramente ciò che un bardo o un cantastorie si sarebbe aspettato da lui. Ma persino ai suoi occhi quell’idea appariva folle e avventata.

L’altro piano consisteva nell’intercettare una delle bande, nascondersi nella neve con tutte le balestre, e liberare il cavallo. Se un gruppo di soldati l’avesse seguito, avrebbe avuto il tempo, forse, di uccidere quelli che gli venivano incontro, acciuffare in qualche modo uno dei loro cavalli e quindi attaccare il campo. Poi, dopo aver avuto la meglio su un mago che prevedeva il suo arrivo, si sarebbe messo sulle tracce dell’altra banda e l’avrebbe eliminata con le frecce… era un piano pazzesco quanto il primo.

Citò un verso di una ballata che aveva sentito una volta, «Principi impetuosi si fanno largo tra i folli e trovano la gloria», e guidò il cavallo a destra per intercettare la banda di soldati che riusciva a vedere meglio. Gli sembrava di aver contato nove cavalieri, ma non aveva idea di quanti ve ne fossero nell’altro gruppo.

Il cavallo esausto inciampò due volte e per poco non cadde quando gli zoccoli sprofondarono in una buca ricoperta di neve.

«Adagio», gli mormorò El, sentendo improvvisamente tutti i propri dolori e la stanchezza. Tutto ciò che poteva fare nella sua mente era alleviare per un po’ il dolore, e far cessare l’emorragia, pensò toccandosi il mento. Non era un guerriero invincibile.

E con ciò? Quell’attacco era di un pazzo, non di un guerriero invincibile… ma allora, anche fuggire sarebbe stata un’azione da folle, senza nemmeno la consolazione di aver combattuto per la memoria dei genitori e per il giorno in cui i maghi non avrebbero più comandato Athalantar, e i cavalieri avrebbero cavalcato di nuovo…

«I cavalieri di Athalantar cavalcheranno ancora», mormorò rivolto al vento, che subito disperse le sue parole. Giunse finalmente in un luogo adatto per l’imboscata, un canalone stretto sul pendio riparato di un’altura innevata, e fermò il cavallo.

Smontò rigidamente dalla sella, dai tempi dell’incendio di Heldon non faceva una cavalcata tanto lunga, e le gambe doloranti glielo ricordavano fin troppo bene; si tolse gli archi da tracolla e prese ciò che gli occorreva. «Portami fortuna», sussurrò al vento che, come prima, non rispose. Respirando profondamente l’aria pungente, diede una pacca sul posteriore del cavallo e gridò. La bestia partì di scatto, poi si fermò a guardare indietro, e proseguì quindi al trotto nella neve. Elminster era solo nella notte.

Non avrebbe dovuto attendere molto: nove soldati in armatura stavano cavalcando nella sua direzione, seguendo le tracce di sangue. Elminster si inginocchiò nella neve proprio sotto la cresta dell’altura e iniziò ad armeggiare forsennatamente con le balestre.

Non appena ebbe caricato le tre armi ed ebbe ripreso fiato, udì lo scricchiolio del cuoio e lo stridere del metallo trasportati dal vento. I soldati si stavano avvicinando. Sdraiato nella neve, la condensa del fiato intorno al volto, sistemò le balestre, piantò quattro pugnali nella neve per poterli afferrare velocemente e rimase in attesa.

Aveva una vaga possibilità di successo solo nel caso che le guardie non avessero avuto le balestre cariche e non l’avessero visto in tempo. Elminster scrollò la testa pensando alla sua imprudenza e si ritrovò la bocca improvvisamente secca. Qualsiasi cosa fosse accaduta, non mancava ormai molto.

Si udì un improvviso scalpitio di zoccoli, alcune grida, e un cozzare d’armi. Che cosa stava…? El non ebbe nemmeno il tempo di fare congetture, un soldato si stava avvicinando rapidamente al galoppo, chino sul collo del cavallo. Il principe di Athalantar sollevò cautamente la balestra, la puntò e sparò.

Il cavallo si lanciò in avanti, si impennò ed emise un nitrito allarmato vedendo la scarpata ripida. Non ebbe nemmeno il tempo di rallentare o cambiare direzione, poiché il suo cavaliere scivolò di lato e rimase aggrappato alle redini. La bestia recalcitrò, cercando di liberarsi delle redini che gli strattonavano la testa, ma i suoi zoccoli scivolarono nella neve e il cavallo cadde sopra l’uomo. Insieme scivolarono giù per la collina. L’animale si rialzò rapidamente e si impennò, scuotendo la testa come per schiarirsi le idee. Il cavaliere, invece, rimase sdraiato immobile nella neve calpestata.

Non vi erano altri soldati in vista e da oltre il ciglio dell’altura coperta di neve giunsero le grida e lo stridore di una battaglia. Elminster aggrottò la fronte, stupito, e si rimise i pugnali nella cintura. Tenendo il secondo arco a portata di mano, avanzò cautamente per sbirciare oltre la cresta.

Alcuni uomini a cavallo combattevano tra loro nell’oscurità della notte sopra la collina. Un gruppo indossava corazze che sembravano fatte coi pezzi di una cinquantina d’armature diverse e, per tutti gli dei, da dove sbucavano? L’altro era costituito da soldati, in numero molto inferiore, ed era prossimo alla sconfitta. Mentre Elminster li osservava, un soldato di Athalantar abbandonò la mischia, e spronando disperatamente il cavallo, partì al galoppo su per le colline.

Il principe di Athalantar si alzò, piantò i piedi nella neve, sollevò la balestra e sparò. La freccia passò sopra la spalla del guerriero, che continuò indisturbato la sua fuga. El imprecò e corse a prendere il terzo arco, poi tornò sul bordo della collina. Il cavaliere era distante e più piccolo, ma mentre il suo cavallo si inerpicava sul pendio successivo, costituiva ancora un buon bersaglio. Elminster mirò con attenzione, sparò e vide la sua freccia andare a segno.

Il soldato alzò le braccia, cercò di afferrare con le mani il dardo infilzato nella schiena e cadde dalla sella. Il cavallo proseguì la corsa senza di lui.

«Non pensavo di avere con me degli arcieri, stanotte!»

Il ragazzo si voltò sorpreso, al riconoscere quella voce allegra, «Helm!»

Il cavaliere dal volto coriaceo indossava la stessa armatura di pelle consunta, gli stessi guanti arrugginiti, lo stesso elmo ammaccato e portava la medesima barba ispida e probabilmente, a giudicare dall’odore, non se li era mai tolti, né si era mai lavato, dal giorno che si erano conosciuti nella caverna sopra Heldon. Il cavallo nero che montava era tanto sfregiato quanto il suo cavaliere e la lunga spada incurvata che teneva in pugno era malconcia e grondante di sangue fresco.

«Come sei arrivato qui?» chiese Elminster sogghignando, con l’improvvisa speranza che forse, dopotutto, non sarebbe morto quella notte.

Il cavaliere di Athalantar si protese dalla sella. «Veniamo dal Castello Senza Leggi» rispose con le sopracciglia inarcate. «Molti uomini valorosi giacevano morti, ma Mauri disse che Eladar non era fra quelli».

«Quando mi sono trovato a corto di soldati da uccidere, sono venuto qui», rispose serio Elminster. «Avevano trovato il castello e dovevo uccidere gli altri prima che potessero fare rapporto. Si sono accampati – vedi quei fuochi – e, da qualche parte laggiù, c’è un’altra banda di soldati, probabilmente più numerosa di questa», affermò puntando il dito nella notte. «Mi stavano accerchiando».

«Onthrar! A me!», gridò Helm voltandosi un istante. Poi esclamò: «Unisciti a noi, allora; li calpesteremo insieme. Ci sono selle libere in abbondanza!»

El scosse la testa. «Devo fare un lavoretto laggiù», rispose indicando col capo l’accampamento immerso nel buio. «Dove ci sono i maghi».

Il ghigno feroce di Helm scomparve. «Ti senti pronto?» chiese con calma. «Davvero, figliolo?»

Il giovane allargò le braccia, la balestra in una mano. «Almeno uno di loro che sa chi sono e mi ha visto in faccia».

Helm aggrottò la fronte e annuì, spronò il cavallo e diede a Elminster una pacca sulla spalla. «Allora spero di rivederti ancora vivo, Principe». Mentre si voltava domandò: «Potrebbe essere d’aiuto un aspro attacco al campo?»

El scosse il capo. «No, Helm, limitatevi ad ammazzare quei soldati. Se li prenderete tutti, il Castello Senza Leggi sarà sicuro per uno o due inverni ancora, a condizione che tutti i fuorilegge abbiano il buonsenso di abbandonarlo quest’estate. Quando la neve si scioglierà, i maghi passeranno al setaccio metro per metro queste colline, con gli incantesimi e tutte le guardie che riusciranno a radunare».

Helm annuì. «Parole sagge. Al prossimo incontro, dunque». Sollevò la spada in segno di saluto, Elminster alzò la balestra in risposta, e si allontanò mentre la neve ricominciava a cadere.

I soffici fiocchi cadevano incessantemente. Elminster si dissetò con un pugno di neve, recuperò le balestre, le preparò e si incamminò verso il campo. Fece un’ampia curva verso destra, sperando di poterlo raggiungere dall’altra parte… sempre che i maghi, con i loro incantesimi, non potessero vedere in ogni direzione…

Senza dubbio rimanevano a corto di magie, nello stesso modo in cui i soldati esaurivano le frecce. Doveva solo sperare che non si disturbassero a cercare un ragazzo solitario a piedi nella neve. Se avesse rivisto il giorno, rifletté, sarebbe stato molto in debito con gli dei…

Le lanterne da tempesta scintillavano in alto sui treppiedi di alabarde. La neve turbinava incessantemente nel loro chiarore, nel punto in cui, nel cuore del campo, il mago Caladar Thearyn guardava accigliato una sfera luminosa sospesa nell’aria davanti a lui. Sebbene la notte fosse fredda, il sudore gli imperlava la fronte per lo sforzo di mantenere la sfera in vita, e in pochi istanti avrebbe dovuto tenerla salda perché avrebbe lanciato in essa un altro incantesimo… un incantesimo dai numerosi fulmini baluginanti che, se fosse riuscito, sarebbe apparso improvvisamente nella sfera distante collegata alla sua, che ondeggiava come un fantasma pallido sulle colline coperte di neve non lontano da lì, proprio di fronte alla schiera di banditi che cavalcava veloce.

Il mago mormorò l’incantesimo che avrebbe legato le due magie e sentì il potere crescere in lui. Allargò le mani esultante e notò, senza guardare, le facce intimorite e la ritirata frettolosa delle sue guardie del corpo.

Un lieve sorriso gli solcò il volto quando cominciò a evocare i fulmini. Eseguì due gesti complicati, uno svolazzo elegante e pronunciò un’unica parola. Ma ecco che al termine dell’incantesimo la sua mano si abbassò pesantemente.

Il dardo diretto al cuore lo colpì alla spalla, intorpidendogli il braccio e facendolo voltare. La sfera cadde a terra con un’esplosione di luci crepitanti, che soffocò l’urlo di dolore e di spavento del mago. Questi si accasciò, tenendosi la spalla quando un’altra freccia gli sibilò accanto. Un soldato, per evitarla, si lanciò a capofitto nella neve ormai battuta, e i suoi compagni sguainarono la spada e corsero verso la fonte delle frecce.

Freddamente, Elminster li guardò avanzare verso di lui, l’ultima balestra pronta a colpire. Proprio come sospettava… da una tenda uscì un altro uomo con la tunica; non era molto più vecchio di lui, ma aveva tra le mani una bacchetta magica; si guardò intorno per individuare la causa di tanto trambusto, al che il giovane lo colpì alla gola con l’ultimo dardo pronto. Poi appoggiò la balestra, sganciò la grossa sacca contenente le altre frecce e la lasciò cadere, ed estrasse invece la spada.

I soldati infuriati gli corsero incontro. El si lanciò verso di loro, la spada in una mano e un pugnale nell’altra. Il primo uomo cercò di spostargli la spada di lato e di trafiggerlo con la sua, ma Elminster incastrò le spade e spinse finché non si trovarono faccia a faccia, lo stridore del metallo nelle orecchie, e conficcò il suo pugnale negli occhi dell’avversario.

Spingendo di lato l’uomo in preda agli spasmi, il principe corse incontro all’uomo successivo urlando, «per Athalantar!» Il soldato scartò sulla sinistra, gridando a un compagno di dirigersi a destra e di stringerlo. El scagliò un pugnale nel volto del secondo uomo. Helm aveva ragione: alcuni guerrieri erano degli incapaci. Questi sollevò entrambe le mani per ripararsi la faccia e con un affondo basso Elminster gli trafisse l’addome. Mentre El liberava la spada, l’altra guardia si avvicinò guardinga. Elminster si chinò, estrasse un pugnale dalla cintura dell’uomo, che si muoveva appena, e corse di lato. I nemici restanti stavano ancora girando intorno, quando Elminster scappò via, diretto al campo.

Giunto all’interno del cerchio di lanterne, El incontrò un uomo dall’armatura scintillante. Si lanciò subito sulla spada, riuscì a scostarla con la sua, e lo colpì col pugnale. L’armatura non cedette tuttavia alla punta, ma a quel punto il ragazzo aveva già superato il soldato e stava andando a sbattere contro un treppiedi di alabarde. Queste caddero, e la lanterna che sostenevano andò in mille pezzi e incendiò una tenda con un ruggito improvviso.

Si udirono delle urla. Nella luce intensa delle fiamme, El vide il mago allontanarsi barcollando, la freccia ancora infilzata nella spalla, ma alcuni uomini con le spade luccicanti si interposero tra lui e lo stregone.

Elminster ringhiò e scartò sulla destra, zigzagando fra le tende, lontano dalle luci. Si scontrò con un uomo che usciva da una tenda e lo colpì freneticamente; il soldato sorpreso cadde sulla tenda senza rumore. Stancamente, El si diresse fuori dall’accampamento. Se solo avesse potuto aggirarlo per tornare a prendere le balestre, e… ma i soldati gli erano alle calcagna. Perlomeno non c’era alcun arciere nel campo, altrimenti lo avrebbero già ucciso.

Il ragazzo salì di corsa su una collina e si allontanò dalle fiamme che ora imperversavano nell’accampamento. Si voltò e vide due uomini che lo inseguivano. Rallentò il passo e iniziò il suo ampio giro. Lasciò che si avvicinassero e intanto riprese fiato. Ansimando, raggiunse un altro crinale e vide uomini e cavalli radunati di sotto: la banda di Helm. Alcuni di essi sollevarono lo sguardo e sguainarono le spade, ma Helm lo vide e fece un cenno con la mano: «Eladar! Fatto?»

«Un mago morto, ma l’altro è solo ferito», affermò senza fiato. «Mezzo… accampamento… mi sta inseguendo».

Helm sogghignò. «Stavamo facendo riposare i nostri cavalli e ripulendo i soldati. Alcuni di loro indossano armature troppo belle per loro. Cambiato idea a proposito dell’attacco?»

El annuì, esausto. «Sembra… un’idea migliore… adesso», esclamò respirando pesantemente.

Helm sogghignò, si voltò, impartì ordini veloci ai suoi uomini e poi indicò un cavallo. «Prendi quello, Eladar, e seguimi».

Lasciando quattro banditi con il bottino e i cavalli extra, gli sbrindellati cavalieri di Athalantar si avviarono lungo la strada per la quale era venuto il ragazzo. Uno di loro si era impossessato di un piccolo arco da cavallo, e mentre si apprestavano a raggiungere la cresta della collina, lo tese e scagliò una freccia, con una lieve rotazione delle spalle. Uno dei soldati che avevano inseguito Elminster si portò le mani alla gola e cadde nella neve, dimenando le gambe.

Gli altri si voltarono e scapparono. Con un urlo uno dei cavalieri si lanciò al galoppo, agitando la spada mentre spronava il cavallo. Atterrò un soldato e ne infilzò un altro con la spada. L’uomo cadde e non si rialzò più.

«Sembri portarci fortuna», urlò Helm mentre cavalcava. «Ti va di aiutarci ad abbattere le mura di Hastarl?»

El scosse il capo. «Mi sono stancato di uccidere, Helm», gli rispose, «e temo che più facciamo del nostro meglio, più i maghi si accaniranno contro di noi in primavera. Qualche mercante forestiero morto è una cosa; intere pattuglie di soldati trucidate sono un’altra. Non ci lasceranno impuniti, altrimenti la gente lo verrà a sapere, e si ricorderà, e si farà certe idee».

Helm annuì. «Comunque, non fa male assestare qualche colpo e nuocere seriamente a questi cani. Hai fatto un bel lavoro!» Con aria compiaciuta indicò le tende incendiate. «Spero tu abbia risparmiato le tende del cibo!»

Elminster poté soltanto ridacchiare mentre si gettavano fra le guardie in fuga, sbraitanti. I cavalieri fecero a pezzi i soldati mentre i cavalli si impennavano e calpestavano feriti e fuggiaschi, e il campo sprofondò presto nel silenzio.

Helm si mise a dare ordini. «Voglio sentinelle lì, lì e lì, a coppie, in sella, lontane dalla luce. Il resto: sei in una tenda, e riferite ciò che trovate. Non distruggete nulla, mi raccomando. Se trovate un mago vivo, o qualcun altro, avvertite!»

I cavalieri si misero subito al lavoro. Si udirono grida di gioia quando nella tenda della cucina vennero trovate slitte di metallo cariche di carne, patate e barili di birra. Cavalieri dallo sguardo sinistro portarono a Helm alcuni libri di magia e rotoli di pergamena, ma del mago ferito non vi era traccia, e nessuna delle guardie era sopravvissuta.

«Bene… per stanotte resteremo qui», esclamò Helm. «Legate tutti i cavalli che trovate, poi faremo festa. Domattina prenderemo tutto ciò che riusciremo a portare, e torneremo al castello; monteremo le tende nella forra accanto alla Caverna del Vento, come riparo per i cavalli. Poi pregheremo Auril e Talos affinché la neve fresca ricopra le nostre tracce!»

Vi fu un grido d’approvazione generale ed Helm si avvicinò a Elminster ed esclamò: «Volevi lasciare le colline, ragazzo… penso che sia meglio così. Io devo nascondere questi libri e altro materiale magico celato, e stavo pensando a quella caverna nel pascolo sopra Heldon. Là ci sono pietre a sufficienza per murarli, tu sai dove… e potrai cacciare cervi e cose del genere fino all’estate, quando tornerò a cercarti. Se i soldati ti fiutano, va’ a nasconderti nella Grande Foresta: lì non oseranno inoltrarsi molto».

Si grattò il mento. «La vita del guerriero a cavallo non ti si addice, ragazzo, ma direi che hai imparato meglio di tanti altri a maneggiare balestre e spade, e restare a tremare nelle caverne come un fuorilegge… Forse i vicoli e le folle di Hastarl ti offriranno un nascondiglio più consono, ora, e sarai più vicino a maghi che non sono assetati del tuo sangue, per imparare da loro tutto ciò che potrai, prima di intraprendere la tua vendetta». Il cavaliere posò gli occhi vivaci sul giovane principe. «Che ne dici?»

Elminster annuì lentamente. «Sì… un bel piano» mormorò.

Helm sogghignò, gli diede un colpetto sulla spalla e poi lo afferrò, mentre il ragazzo si accasciava di lato nella neve, il mondo vorticante in un’improvvisa foschia verde e gialla… La fatica si impossessò di lui, ed Elminster si lasciò trasportare…

«Si trattano bene questi soldati», commentò brevemente Helm il giorno dopo, mentre sedevano a mangiare manzo affumicato e pane duro spalmato con burro d’aglio. Tutt’intorno, sospiri profondi e rutti di soddisfazione rivelarono che molti dei cavalieri erano ormai sazi. E dal russare tra i barili vuoti si poteva dedurre in che modo qualcun altro aveva trascorso le ore notturne.

Elminster annuì.

Helm gli rivolse uno sguardo penetrante. «Che cosa ti passa per la testa, figliolo?»

«Mi piacerebbe non dover più uccidere alcun uomo», affermò El tranquillamente, guardando le macchie di sangue nella neve intorno a lui.

Il cavaliere annuì. «Te lo si leggeva negli occhi la scorsa notte». Sorrise improvvisamente e aggiunse: «Tuttavia hai tenuto a bada più guerrieri tu la scorsa notte che molti soldati nella loro lunga carriera».

Elminster agitò una mano. «Sto cercando di dimenticare».

«Scusami, ragazzo. Te la senti di affrontare il viaggio a piedi o vuoi un cavallo? A cavallo sarà più facile, a patto che tu riesca a trovare fieno a sufficienza, perché mangiano come dei veri maiali, te lo assicuro. Tuttavia, attirerai più rapidamente l’attenzione, specialmente quando attraverserai il torrente ad Upshyn. Se puoi, aggregati a qualche carovana, in qualunque modo tu decida di viaggiare. Se qualcuno vedrà i libri di magia e i rotoli di pergamena che porti, sarà la tua fine». Il cavaliere si grattò la barba e proseguì: «Se scegli di andare a piedi, ti faccio presente che il viaggio sarà lento e faticoso, anche se riuscirai a tenerti caldo, e bada di tenere i piedi asciutti con questo tempo, altrimenti andrai incontro alla morte…».

«Andrò a piedi», asserì Elminster. «Prenderò un arco e tutto il cibo che riuscirò a portare, così come… niente armatura, a patto che possa avere dei guanti buoni e un fodero migliore».

Helm sogghignò: «Una legione di soldati morti provvederà cortesemente».

Elminster non se la sentì di ricambiare il sorriso. Ne aveva uccisi parecchi, uomini che avrebbero dovuto proprio in quel momento cavalcare orgogliosamente verso Athalantar. Era tutta colpa loro.

«Sono loro che devono morire», mormorò fra sé, «affinché Athalantar possa vivere».

Helm annuì. «Bella frase, “Sono loro che devono morire, affinché Athalantar possa vivere!” Un grido di battaglia; penso che lo userò».

Elminster sorrise. «Assicurati che chi ti sentirà sappia a chi si riferisce il “loro”».

Helm ricambiò con una smorfia. «Questo è stato un problema di molti, nel corso degli anni».

La volpe che l’aveva seguito per un breve tratto gli diede un’occhiata finale, con gli occhi scuri e scintillanti, poi fuggì tra le felci gelate. El la osservò allontanarsi, chiedendosi se non fosse la spia di un mago, ma il suo istinto gli disse che non era così. Attese qualche istante, poi, più silenziosamente che poté, si avviò tra gli alberi e raggiunse il prato retrostante la locanda. «Cerca la botola vicino al fienile», gli aveva detto Helm, ed ecco il fieno contro il muro posteriore della scuderia, riparato da un tetto infossato, costruito su alcuni pilastri, che conoscevano a malapena il significato del termine «diritto». Tutto corrispondeva alla descrizione del cavaliere: l’ingresso posteriore della Locanda di Woodsedge.

Elminster si avvicinò, sperando che non ci fossero cani a dare l’allarme. Per il momento non ne vide. Ringraziò silenziosamente gli dei e scavalcò il cancello basso del praticello dalla parte della locanda, aggirò furtivamente il fienile e trovò la botola. Era tenuta chiusa soltanto dal suo peso; non dovette nemmeno posare la spada per aprirla e scendere all’interno.

Chiuse il portello dietro di sé e rimase immobile, la stalla era silenziosa, e più calda della notte. Un cavallo si mosse e scalciò pigramente contro una parete del recinto. Il ragazzo esaminò la stalla e notò un recinto pieno di badili, rastrelli, secchi e matasse di redini appese, e un recinto pieno di paglia. Rinfoderò la spada, prese una forca dai denti lunghi, e tastò cautamente il fieno, ma non sentì nulla di solido. Allora aprì il cancelletto ed entrò.

Un attimo dopo era già sepolto nella paglia, nascosto alla vista e protetto dal freddo da una spessa coltre di fieno. Cercò di rilassarsi, e si concentrò affinché la sua mente lo conducesse nel vuoto fluttuante dei sussurri… per sprofondare nel bagliore bianco, e dormire…

Il fieno frusciò e gli graffiò le mani. Elminster spalancò gli occhi: si stava sollevando dal suo giaciglio… stava volando! La sua testa sbatté duramente contro una trave del soffitto.

«Le mie scuse, Principe», esclamò una voce fredda e familiare. «Temo d’avervi svegliato». Elminster si sentì rivoltare in aria e a un tratto si ritrovò di fronte al mago che stava in piedi nel corridoio tra le stalle, un sorriso tenebroso sulle labbra. Il bagliore bluastro della magia pulsava intorno alle mani dell’uomo e avvolgeva il ciondolo che portava al collo.

El fu colto da una rabbia improvvisa quando cercò di afferrare la Spada del Leone, ma scoprì di non poter muovere le braccia. Era in balia del mago! Aprì la bocca e constatò che poteva parlare. «Chi siete?» domandò lentamente.

Il mago abbozzò un elaborato inchino e rispose affabilmente: «Caladar Thearyn, al tuo servizio». Il giovane si sentì trascinare in avanti e nel contempo vide un forcone dai lunghi denti scostarsi dal muro della stalla e dirigere una delle punte acuminate verso il suo occhio sinistro. Lentamente, sempre più vicino.

Elminster guardò il mago, oltre il forcone, soffocando la necessità di deglutire. «Il vostro modo di combattere non è leale, mago», esclamò con freddezza.

L’uomo scoppiò a ridere: «Quanti anni avete, mio principe… sedici? E vi aspettate ancora che il mondo sia un luogo leale? Bene, siete uno sciocco». Sogghignò. «Vi credete un guerriero e combattete con pezzi di metallo affilati… bene, allora: io sono un mago e combatto con gli incantesimi. Dove sta la slealtà in tutto questo?»

La luce bluastra della magia iniziò a pulsare violentemente attorno alle mani del mago e il forcone avanzò ulteriormente. La bocca del ragazzo era insopportabilmente asciutta ora, e il ragazzo deglutì suo malgrado.

Il mago rise. «Adesso non siamo più tanto coraggiosi, vero? Ditemi Principe di Athalantar, quanto siete disposto a fare per me se vi lascio vivere?»

«Vivere? Perché non uccidermi, mago? So che volete farlo», esclamò El ostentando più spavalderia di quanta ne provasse.

«Altri maghi», citò l’uomo beffardamente, «hanno progetti propri». Scoppiò in una risata crudele. «Quale Principe di Athalantar avete un grande valore. Se accade qualcosa a Belaur – o se sarà necessario farlo accadere – mi farebbe comodo avere un asso nella manica… nel caso dovessero nascere dei dissapori». Il forcone si avvicinò ancora di più. «Naturalmente, la cecità non ti sarà d’ostacolo quando ti trasformerò in… una tartaruga magari, o in una lumaca. O meglio, un verme! Potrai nutrirti col sangue dei tuoi amici, i briganti, quando li uccideremo. Se non riusciremo a prenderli, naturalmente, morirai di fame…»

La voce sarcastica del mago si trasformò in una fredda risata. Elminster iniziò improvvisamente a sudare, mentre una paura gelida gli saliva lentamente dalla gola. Era sospeso in aria, tremante e indifeso, e chiuse gli occhi.

Un istante più tardi la forza dell’incantesimo lo costrinse a riaprirli e a guardare il mago fisso negli occhi. Scoprì di non poter più parlare, né emettere alcun suono, all’infuori del sibilo del respiro.

«Niente grida, adesso», esclamò gentilmente il mago. «Non voglio svegliare la brava gente della locanda – ma voglio vedere la tua faccia quando il forcone affonderà i suoi denti». Elminster poté solo fissare con orrore il forcone che avanzava minaccioso, sempre più vicino…

Dietro il mago, una porta laterale si aprì silenziosamente e un uomo robusto con dei baffi arricciati si affacciò alla stalla, tenendo una pesante ascia sollevata sopra la testa. La fece ricadere con forza. Si udì un tonfo sordo, e la testa del mago, divisa in due, ciondolò metà da una parte e metà dall’altra. Vi fu un violento fiotto di sangue, ed Elminster e il forcone caddero improvvisamente sul pavimento.

In un istante si rialzò, afferrò la Spada del Leone e si precipitò…

«Indietro, mio Principe!» urlò l’uomo, trattenendolo con una mano enorme. «La sua morte potrebbe essere collegata a qualche incantesimo!»

L’uomo indietreggiò di un passo e osservò attentamente il corpo, con l’ascia insanguinata pronta sulla spalla. Anche Elminster rimase a guardare, e vide i deboli bagliori bluastri scemare da ogni cosa, tranne che dal ciondolo. Poi, lentamente uscì dal recinto. «Quel ciondolo è magico», affermò tranquillamente, «ma non riesco a vedere nient’altro. Vi ringrazio».

L’uomo si inchinò. «È un onore, se sei colui che ha detto il mago».

«Lo sono», rispose il giovane. «Sono Elminster, figlio di Elthryn, ora defunto. Helm Spadadipietra ha detto che potevo fidarmi di voi… se siete Broarn».

L’uomo si inchinò ancora. «Sono io. Siate il benvenuto nella mia locanda, ma devo avvertirvi, signore, che sei soldati dormono sotto questo tetto stanotte e almeno un mercante che riferisce ai maghi tutto ciò che vede».

«Questa stalla è sufficiente», rispose Elminster con un sorriso. «Sono fuggito dai maghi e dai soldati attraverso le Colline del Corno, fino a qui… e cominciavo a domandarmi se esistesse un luogo libero da quelle carogne».

«Non esiste alcun luogo dove nascondersi dalla magia potente», ribatté Broarn con tono serio. «Perché queste terre non appartengono più agli elfi, bensì agli uomini».

«Credevo che la loro magia fosse più potente di quella degli umani», esclamò stupito El.

«Sì, se unissero le loro forze, ma gli elfi non amano la guerra e trascorrono gran parte del tempo a litigare fra loro. Molti, inoltre, sono… un po’ poltroni, come diremmo noi; pensano di più a divertirsi e meno a lavorare». Il locandiere uscì dalla porta dalla quale era entrato, e tornò con una coperta in mano.

«I maghi umani ne sanno meno», continuò Broarn, uscendo nuovamente e riapparendo con un vassoio coperto e un vecchio boccale ammaccato, grande quanto la testa di Elminster, «ma sono sempre alla ricerca di vecchie magie o tentano di crearne di nuove. I maghi elfi si limitano a sorridere, e dicono di sapere già tutto ciò di cui hanno bisogno – o, se sono arroganti, affermano di sapere tutto ciò che c’è da sapere – e non fanno nulla».

Elminster vide uno sgabello e vi si sedette. «Ditemi di più», lo incalzò. «Per favore. Ciò che il mago ha detto a proposito dei miei modi semplici è alquanto vero. Vorrei conoscere un po’ di più il mondo».

Broarn sorrise e gli porse vassoio e boccale; il suo sorriso si allargò quando Elminster sollevò il coperchio, vide il pollo freddo e cominciò a divorarlo. «Ah, ma siete abbastanza intelligente da riconoscerlo, signore, mentre molti non lo sono. Per Athalantar c’è poco da dire: i signori maghi tengono questa terra per la gola e non intendono mollare la presa. Tuttavia, per quanto si diano delle arie, non sono riusciti a sostenere un apprendistato di magia nelle terre del sud».

Elminster sollevò lo sguardo con la bocca piena e inarcò le sopracciglia. Il locandiere annuì. «Sì, le terre laggiù sono sempre state ricche e affollate. Il regno più grande è il Calimshan; il luogo da cui provengono quei mercanti dalla pelle scura con le teste fasciate, che arrivano tutti avvolti nelle pellicce, in primavera e in autunno».

«Non li ho mai visti», affermò tranquillamente Elminster.

Il locandiere si lisciò i baffi. «Vi hanno tenuto segregato, ragazzo. Comunque, per farla breve, esiste un’enorme terra senza legge a nord del Calimshan, tutta foreste e fiumi, dove i nobili vanno sempre a caccia… o meglio vi andavano. Un arcimago, ossia un mago di gran lunga più potente di questi signori maghi», Broarn si interruppe per sputare pensosamente sul mago morto ai suoi piedi, «si è stabilito lì e ora governa gran parte del paese, il Calishar, come sono soliti chiamarlo; non so se lo abbia ribattezzato, con la sua mania di cambiare ogni cosa. La gente lo chiama il Mago Pazzo, perché per esaudire i suoi capricci non bada a ciò che distrugge; Ilhundyl è il suo vero nome. Da quando ha rivendicato la terra, molti sono emigrati, per lo più a nord, per timore di essere trasformati in rane o in falchi».

Elminster sospirò. «Sembra che tutto il mondo sia infestato dai maghi».

Broarn sorrise. «Pare che sia così, mio signore. Se vi dovete nascondere dai signori maghi, risalite il Torrente Unicorno, nel cuore della Grande Foresta. Temono che gli elfi possano insorgere contro di loro, e su ciò non si sbagliano… il popolo della foresta ha paura di perdere ancora parte della sua terra a opera delle asce di Athalantar, e lotterà per ogni singolo albero. Se dovete nascondervi solo dai soldati, la Foresta del Drago proprio dietro di noi farà al caso vostro… loro temono i draghi. I maghi dicono di aver ucciso l’ultimo drago qui nei dintorni, e preso il suo tesoro, una ventina di inverni fa, ma non riescono a far sì che la gente semplice ci creda».

Elminster sorrise. «E se invece voglio combattere? Come faccio ad avere la meglio su un mago?»

Broarn allargò le sue mani grandi e pelose. «Imparate, o lanciate una magia più forte».

El scosse il capo. «Come ci si può fidare di qualcuno più potente dei signori maghi? E se una volta uccisi si impossessasse lui stesso del trono?»

Il locandiere annuì in segno di assenso. «Avete ragione. Ebbene, l’altro modo è molto più lento e meno sicuro».

Elminster si sporse dallo sgabello, e gli fece cenno di proseguire. «Ditemi, dunque».

«Lavora da dentro, come un ratto che rosicchia la dispensa».

«Come fa un uomo a diventare un ratto?»

«Ruba. Diventate un ladro, frequentate le vie secondarie e le taverne dei bassi fondi e i mercati di Hastarl, rimanete attaccato alle vesti dei maghi e aspettate, osservate e imparate. I guerrieri devono stare eretti e agitare le spade… ed essere visti e uccisi da qualsiasi mago che punti una bacchetta contro di loro, e i fuorilegge devono uscire troppo spesso in cerca di cibo. Probabilmente avete visto abbastanza delle terre selvagge del regno per soddisfare la vostra curiosità. È ora che conosciate la città, e il ladrocinio. Si apprende a governare, come sostiene qualcuno». Sorrise per la sua battuta sollevando un angolo della bocca. «Inoltre, la via di un guerriero non è meno sicura di quella del ladro; qualsiasi uomo può essere sopraffatto se preso da solo – come avete imparato stanotte – e se aspettate abbastanza a lungo…»

El sogghignò come un lupo a un banchetto, si alzò e afferrò le gambe del mago. «Avete un badile?»

Broarn lo guardò. «Sì, e un bel cumulo di letame tiepido, Principe». Si afferrarono le braccia l’un l’altro, come tra guerrieri.

«Almeno mangiate ancora qualcosa, prima di partire», mugugnò Broarn, porgendogli un vassoio.

Elminster lo prese; la scodella che vi era appoggiata emanava vapore e un profumo delizioso. «No», esclamò, «dovrei essere…», poi il suo stomaco borbottò tanto rumorosamente che entrambi scoppiarono a ridere.

«Ricordate di prendere quel ciondolo quando ve ne andrete e di nasconderlo da qualche altra parte», affermò Broarn seriamente. «Non voglio che i maghi lo rintraccino qui, per poi interrogarmi gentilmente con i loro incantesimi».

«Lo porterò con me», promise Elminster. «Al momento si trova sotto a una pietra sulla strada, dove potrebbe averlo lasciato qualsiasi ladro».

«Va bene», esclamò Broarn, «allora io…» Si interruppe e allungò una mano per invitare Elminster a fare silenzio.

Poi inclinò la testa verso la porta sul retro della stalla, e rimase in ascolto. Poco dopo, allungò la mano oltre la porta laterale e afferrò nuovamente la vecchia ascia.

Elminster sguainò la Spada del Leone e sprofondò in mezzo al fieno, nonostante il fumo rivelatore salisse lentamente dal vassoio.

Lo sportello si aprì senza far rumore. Broarn era immobile e un sorriso illuminò il suo volto non appena una voce familiare esclamò: «Mi stavi aspettando, caro?»

«Entra, Helm, mentre c’è ancora tepore nella stalla», borbottò il locandiere, facendo un passo indietro.

«Ho portato degli amici», affermò il cavaliere entrando nel locale, più sporco che mai. Aggrottò le ciglia quando vide spuntare El, paglia nei capelli e spada in mano.

«Solo fin qui sei arrivato? Ti pensavo già oltre il fiume», esclamò.

Elminster scrollò il capo, e il suo sorriso svanì improvvisamente. «Il mago che mi è sfuggito al campo è riuscito in qualche modo a trovarmi – probabilmente può rintracciare il libro di magia – e per poco non mi ammazzava. Broarn l’ha ucciso con quell’ascia».

Helm guardò il locandiere con meritato rispetto. «Un assassino di maghi, adesso». Girò intorno a Broarn come se stesse osservando una donna con un’audace veste lunga, poi fece un cenno d’approvazione. «È una fratellanza esclusiva, sai… oltre a me e al ragazzo qui presente, i suoi unici membri sono i morti e qualche mago vivo. Perché…?»

«Helm», lo interruppe bruscamente Broarn, «perché sei qui? Ho dei soldati in casa, dovresti saperlo».

Mentre parlavano, i cavalieri erano entrati uno per volta e si erano ammassati nelle stalle posteriori. Molti di essi portavano armature sottratte alle guardie di Athalantar, e ora sembrava che nella stalla vi fossero una decina di soldati trasandati.

«Abbiamo un piccolo problema», asserì Helm più seriamente. «Mauri sta tremando qui fuori su una slitta, con un’altra ventina di guerrieri coraggiosi».

«Hanno preso il Castello Senza Leggi?» chiese l’oste con aria scioccata. «No. Siamo scappati prima che potessero intrappolarci dentro. I maghi hanno mandato numerosi soldati da Sarn Torel, per proteggere una dozzina di maghi. Hanno ucciso venti o più briganti che conosciamo e ne hanno torturato uno con gli incantesimi… ormai sapranno dove si trova il castello, e vi si stanno recando».

«E così li hai portati qui. Ti ringrazio, Helm», esclamò Broarn amaramente, abbozzando un inchino di cortesia.

«Partiremo presto, adesso che tu e il ragazzo, qui, un contadino di nome Eladar, se non te l’avesse ancora detto…» i due uomini si scambiarono uno sguardo fugace «… sapete quanto è accaduto. Eladar aveva ragione, siamo stati troppo temerari nell’ammazzare i soldati e ora vogliono ucciderci tutti. I maghi non osano lasciarci impuniti o presto tutto il regno insorgerà. Dobbiamo fuggire. Hai qualche suggerimento, saggio locandiere?»

Broarn sbuffò. «Andate nel Calishar e fate in modo che Ilhundyl vi insegni a diventare maghi così potrete tornare e combattere quelli malvagi… convincete un mago amico a trasformarvi tutti in rane prima che i maghi vi trovino e ci pensino loro… andate nelle profondità dei regni elfi e fate in modo che vi nascondano… invocate un miracolo… Credo possa bastare».

«Esiste un altro luogo», affermò tranquillamente Elminster.

Helm e Broarn si guardarono stupiti, poi si voltarono simultaneamente a osservare il ragazzo dagli abiti sbrindellati, solo nel suo angolo, che nel frattempo aveva riposto la spada e stava mangiando il brodo di tacchino che il locandiere gli aveva portato. Mentre lo guardavano, ne bevve tranquillamente un cucchiaio, poi sorrise, riaffondò il cucchiaio nella scodella, lo sollevò e vi soffiò sopra.

«Ti ammazzo, ragazzo, se non la smetti di prenderci in giro», brontolò Helm facendo un passo verso di lui.

«È più o meno quello che mi ha detto il mago» ribatté tranquillamente Elminster, «e guarda che cosa gli è accaduto».

Helm non poté far altro che ridere, subito seguito da Broarn e dagli altri fuorilegge, mentre El, con aria innocente, si mise in bocca diversi cucchiai di brodo, temendo che più tardi le occasioni per farlo sarebbero state poche.

«Va bene, ragazzo», riuscì a mugugnare Broarn quand’ebbe abbastanza fiato «dicci. Quale sarebbe il nascondiglio?»

«Tra la gente che i maghi non osano uccidere o tormentare, altrimenti non avrebbero nessuno su cui regnare. Nella stessa Hastarl», rispose il giovane.

Helm e molti cavalieri fuorilegge dietro di lui lo fissarono a bocca aperta, sbalorditi.

«Ma tu attaccherai il primo mago che vedrai una volta entrato in città, e noi moriremo tutti!», protestò il cavaliere malconcio.

El scosse il capo. «No», disse. «Fare il pastore mi ha insegnato a essere paziente… E la caccia ai maghi mi sta insegnando l’astuzia».

«Sei impazzito», mormorò uno dei banditi.

«Sì», assentì un altro.

«Aspettate un attimo», esclamò un terzo. «Più ci penso e più mi sembra un’idea geniale».

«Vuoi rischiare di morire tutte le volte che esci allo scoperto?»

«Ora è così… e se vado ad Hastarl, come dice il ragazzo, potrò avere una casa calda in cui dormire d’inverno».

D’un tratto si misero tutti a parlare e a discutere, finché Broarn non sibilò: «Abbassate la voce!» e agitò l’ascia sotto i loro nasi. Ottenuto il silenzio, il grasso locandiere affermò: «Se fate tutto quel baccano, i soldati si sveglieranno e verranno qui a vedere che cosa si stanno perdendo. C’è qualcuno che li vuole qui?»

Rimase un momento in silenzio, poi continuò con calma: «Alcuni di voi vorranno rimanere sulle colline o fuggire verso altre terre, ma qualcuno forse vorrà andare col ragazzo a Hastarl. Qualsiasi cosa decidiate, fatelo nel bosco; vi voglio tutti fuori da qui prima dell’alba. Helm, fai entrare Mauri con tutte le sue cose dalla porta sul retro. Lei resterà qui. Lascia che aiuti solo chi è in grado di muoversi in silenzio. Ora fuori, tutti… e che gli dei vi assistano!»

La riunione stava terminando; adesso era il momento di colpire. Quell’azione gli avrebbe sicuramente fatto guadagnare una posizione di spicco tra i maghi. Non più apprendistato dal vecchio e grasso Harskur… ma il vero potere finalmente!

Shaphardin Olen uscì dal freddo nascondiglio, lasciando scemare l’incantesimo che gli permetteva di origliare. Sollevò le bacchette magiche, e le puntò verso la porta… meglio colpire ora, prima che qualcuno di loro abbandonasse quel luogo.

«Morite, stupidi!» esclamò con un sorriso e poi cadde in avanti come un albero abbattuto, quando un sasso grande quanto un elmo da guerra lo colpì sulla nuca.

Quando la roccia macchiata di sangue si adagiò lentamente nella neve, le due bacchette cadute si sollevarono per conto proprio e, disegnando un arco, sorvolarono gli alberi verso la collinetta successiva dove una donna alta e magra le osservò avanzare con occhi grandi e scuri.

Il suo viso era bianco come le ossa, e i suoi capelli ricci color miele scuro. A prima vista, un contadino si sarebbe inchinato come davanti a una signora comune. La donna protese una mano per afferrare le bacchette magiche che stavano planando sopra di lei, e il suo mantello verde scuro ondeggiò, come mosso da mani invisibili. Fili d’argento lavorati a formare un sigillo di cerchi intrecciati, le ricoprivano le spalle.

La maga osservò i banditi entrare a grandi passi nel bosco e agitò una mano. Il suo corpo scomparve lentamente e divenne solo un’altra delle tante ombre fluttuanti, tra gli alberi spogli dell’inverno, invisibile eccetto che per i grandi occhi neri, liquidi.

Si socchiusero solo una volta, quando vide Elminster che abbracciava Helm in un addio prima di dirigersi verso sud, da solo.

«Il tuo spirito è forte, Principe di Athalantar», mormorò la donna. «Vivi, dunque, e mostraci ciò che sai fare».

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