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Jake Larmour fissava stancamente la superficie monotona della Luna, attraverso il parabrezza curvo del suo mezzo cingolato. Manteneva al massimo dei giri i motori del veicolo, ma il bordo occidentale del Mare della Tranquillità, verso cui stava dirigendosi da due ore, gli sembrava sempre ugualmente lontano. Di tanto in tanto, sbadigliava rumorosamente Oppure fischiettava qualche motivetto. Jake Larmour non ne poteva più dalla noia.

A Pine Ridge, nel Wisconsin, l’idea di trasferirsi sulla Luna come tecnico di manutenzione dei radar, gli era sembrata splendida ed eccitante. Adesso, dopo tre mesi di continui giri di controllo agli impianti, era arrivato al punto di cancellare i giorni su un calendario che aveva disegnato proprio a quello scopo. Aveva sempre saputo che la Luna era un corpo morto, ma non aveva previsto fino a che punto il suo animo si sarebbe avvilito davanti a quella totale assenza di vita.

“Se soltanto” pensò per la millesima volta da che era partito “se soltanto ci fosse qualche cosa che si muove, qui!”

Stava sbadigliando ancora più scompostamente del solito, e stiracchiando le braccia nei limiti permessi dalla piccola cabina di guida, quando qualcosa sfarfallò e scomparve sulla superficie del cratere che si apriva un centinaio di metri più avanti… Larmour frenò d’istinto, e il veicolo si fermò con un cigolio. Si drizzò a sedere e ispezionò la zona antistante attraverso il parabrezza, chiedendosi se la fantasia non cominciasse a giocargli qualche tiro. Passarono alcuni secondi lunghi come l’eternità e il panorama lunare rimase in placida attesa per l’eternità. La mano di Larmour stava allungandosi verso la leva della messa in moto, quando, a sinistra, e un po’ più vicino, notò un altro movimento.

Deglutì a vuoto, gli occhi fissi su quel punto, e gli parve di scorgere un oggetto grigio, gonfio e leggero, delle dimensioni di un pallone da football, che, dopo essersi sollevato per un istante dal terreno, era tornato a scendere, scomparendo. Mentre guardava, il fenomeno si ripeté due o tre volte, in punti sempre diversi.

— Che sia dannato! — esclamò a voce alta. — Se ho scoperto una specie di roditori lunari, diventerò famoso!

Con un certo tremito, allungò la mano verso la manopola della radio, ma poi ricordò che fra lui e la Base Tre intercorreva troppa massa lunare, per rendere possibile il contatto. Al di là del parabrezza, un altro pallone soffice e vaporoso si sollevò per un attimo, sfacciatamente, a pochi passi, poi ricadde e sparì. Larmour esitò solo un momento prima di staccare il tubo di rifornimento dell’ossigeno, chiudere a tenuta stagna la tuta pressurizzata e fare tutti i preparativi necessari a un essere umano per mettere piede sulla Luna. Pochi minuti dopo, vincendo un senso d’irrealtà, lasciò il mezzo cingolato e si mosse a passi incerti verso il punto dove aveva visto sollevarsi l’ultimo oggetto. Camminando, teneva gli occhi bene aperti per poter scorgere l’equivalente lunare di un foro d’ingresso alla tana di un roditore, ma la coltre di polvere, vecchia di milioni di millenni, era interrotta solo dalle impronte dei suoi passi.

Poi, d’improvviso, a una cinquantina di passi, numerosi palloni si sollevarono, togliendogli il fiato. Tornato padrone di sé, mantenne lo sguardo fisso sul punto dove s’era verificata la materializzazione più vicina. Vi si diresse e lo raggiunse a fatica non essendo abituato a camminare in quelle condizioni di gravità ridotta. Le sue folte sopracciglia s’incrociarono quando scopri che non esistevano fori entro cui potessero essersi nascosti i fantomatici roditori,

Allora s’inginocchiò per alterare la direzione dei raggi luminosi riflessi dalla polvere, e gli parve di scorgere una depressione poco profonda, larga quanto un piatto, con un incavo al centro. Sempre più perplesso, Larmour spazzò adagio la polvere con la mano finché non mise allo scoperto la nuda roccia, a una decina di centimetri di profondità. Qui trovò un foro dai contorni netti, di circa un paio di centimetri di diametro, che pareva fatto col trapano. Infilò un dito nel foro, ma lo ritrasse subito: il calore era cosi forte da penetrare attraverso il guanto isolante. Tutta la roccia intorno era bollente.

Larmour rimase accoccolato sui calcagni, fissando il cerchietto nero con crescente perplessità.

Cercò invano di trovare la soluzione a quel problema, e nello stesso istante un’altra soffice palla si sollevò a pochi metri di distanza. Questa volta Larmour senti la terra tremare, e allora indovinò subito la soluzione… La soluzione spaventosa, terribile.

Sulla Luna, non essendoci un’atmosfera che ne disperda le particelle, una nube di polvere resta piccola e compatta e ricade scomparendo in un batter d’occhio. E la cosa capace di sollevare una nuvola di polvere in quella desolata solitudine non poteva essere che una: l’impatto di una meteorite!

Larmour era sceso dal veicolo dove si trovava al riparo e si era incamminato allo scoperto sotto una pioggia di meteoriti, senza protezione, esponendosi agli stessi rischi che se si fosse trovato sotto una sventagliata di proiettili. Imprecando contro la propria idiozia, e la mancanza di esperienza, si rialzò e corse goffamente, barcollando, verso il mezzo cingolato.


Un quadrimotore antiquato stava pazientemente avanzando attraverso i cieli bui della Groenlandia settentrionale. Nel tambureggiante ventre cilindrico dell’aereo, Denis Soderman era intento a maneggiare il suo apparecchio di registrazione regolando qua e là una manopola, in modo da mantenere nella più perfetta efficienza i sensori di ricerca, automatici e a vastissimo raggio, dell’aeroplano. Lavorava con l’astratta capacità dell’uomo che conosce l’importanza del suo lavoro, ma che è convinto di restare escluso da compiti più elevati.

Poco più oltre, l’"anziano", il dottor Cosgrove, sedeva davanti a un banco improvvisato, e faceva scorrere tra le dita un rotolo di nastro di carta grigia, col gesto di un sarto che prende le misure per un abito. Il suo viso ancora giovane aveva un aspetto invecchiato e stanco, alla luce clinica del tubo fluorescente inserito nel soffitto.

— Non ci occorre aspettare il responso del calcolatore, per valutare questa roba, Denis — disse Cosgrove. — Il flusso dei corpuscoli solari è il doppio del normale. Non ho mai visto registrazioni simili, anche nei momenti di massima attività solare. La fascia di Van Allen deve assorbirli come una spugna, e con i rapporti relativi a una fluttuazione nella costante solare che ci ha mandato oggi il MIT, pare…

Denis Soderman smise di prestargli ascolto. Era ormai abituato a chiudere le orecchie al mormorio costante del collega anziano, ma stavolta lo mosse qualcosa di più d’un semplice meccanismo di difesa. Era successo qualcosa all’aeroplano. Soderman, che si trovava seduto lontano dal centro di gravità dell’apparecchio, aveva percepito un leggero movimento a cavatappi che gli aveva dato la nausea. Era durato sì e no mezzo secondo, ma Soderman era un bravo pilota dilettante e lo preoccupava l’idea che un aeroplano da cento tonnellate agitasse la coda come un salmone. Emulando i suoi strumenti elettronici, ampliò al massimo la portata dei sensi. Per alcuni secondi non avvertì niente, oltre le normali sensazioni di volo; poi ecco di nuovo, per un brevissimo istante, la coda dell’apparecchio che si sollevava e girava su se stessa con un movimento che gli fece contrarre lo stomaco.

— Devono avere delle difficoltà, là davanti — disse. — Non mi piace come vola questo vecchio autobus.

Cosgrove alzò gli occhi dal nastro perforato. — Io non sento niente. — Nella sua voce c’era una sfumatura di disapprovazione, perché Soderman non era abbastanza concentrato nel suo lavoro.

— Datemi retta, dottore. Io sono qui in coda, e “sento"…

S’interruppe perché l’apparecchio era improvvisamente scivolato d’ala, aveva tremato, s’era risollevato e ora taceva. E quel silenzio era minaccioso: i quattro motori si erano spenti improvvisamente, tutti insieme. Soderman, che era stato sbalzato dal suo posto ed era andato a sbattere contro i suoi strumenti, riuscì a mantenere l’equilibrio e corse verso la parte anteriore dell’apparecchio. La pendenza della corsia stava a dimostrare che adesso il velivolo stava scendendo in picchiata. Il secondo pilota, con la faccia grigia come la cenere, si scontrò con Soderman sulla soglia della cabina di pilotaggio.

— Andate in coda e appoggiatevi con la schiena contro la paratia del gabinetto! Stiamo precipitando!

L’ufficiale non fece alcun tentativo per nascondere il panico.

— Precipitiamo? E dove atterreremo? Non ci sono aeroporti da queste parti! — gridò Soderman.

— E venite a raccontarlo a me?

Anche in un momento critico come quello, l’aviatore era geloso della sua superiorità sui comuni mortali, e gli seccava dover discutere di problemi del suo regno con un estraneo.

— Stiamo facendo tutto il possibile per riattivare i motori, ma il capitano Isaacs ha poca fiducia. Credo che tenterà un atterraggio di fortuna sulla neve. E adesso, volete per favore andare a poppa?

— Ma è buio laggiù Nessuno può far atterrare un…

— Lasciate che questo problema lo risolviamo noi, signore — tagliò corto l’ufficiale, sospingendo Soderman lungo l’ondeggiante corsia, prima di tornare in cabina. Soderman aveva la gola secca, quando seguì a poppa la traballante figura del dottor Cosgrove.

Raggiunsero la sezione conica di coda e si misero a sedere sul pavimento con la schiena contro il metallo freddo di una delle paratie maestre. In quel punto, lontano dal centro di gravità, ogni movimento eseguito dal pilota per controllare l’apparecchio aveva l’effetto brusco e violento che dava a Soderman l’impressione che fosse arrivato il momento della catastrofe finale. Venuto a cessare il rombo dei motori, il passaggio della fusoliera attraverso gli strati atmosferici provocava un sibilo acuto, che cambiava di tonalità… Era il grido soddisfatto di un cielo che sentiva indebolirsi la voce di un nemico.

Soderman cercò di adattarsi al pensiero della morte imminente. Sapeva che né la fortuna, né l’abilità del pilota né la solidità dello scafo avrebbe potuto impedire all’aereo di fracassarsi. Di giorno, o anche se ci fosse stata la luna, forse si sarebbe potuto evitare il disastro; ma in quel buio di pece, l’esito di quella discesa precipitosa non poteva essere che uno.

Strinse i denti e si augurò di poter almeno morire con la stessa dignità di cui faceva sfoggio apparentemente il dottor Cosgrove… ma al momento dell’impatto, urlò. La sua voce andò sommersa nel prolungato frastuono metallico, poi l’aereo tornò a sollevarsi con un balzo pazzesco e roteante, che culminò in un altro incredibile bailamme di rumori, provocato dall’urto degli oggetti mobili che rotolavano nella fusoliera. L’incubo durò un’eternità, durante la quale le luci interne si spensero, ma cessò di colpo. E Soderman scoprì che respirava ancora… gli sembrava impossibile, ma era miracolosamente vivo.

Pochi minuti dopo, stava davanti a uno sportello d’emergenza e fissava, nel buio della notte, la faccia luminosa del suo salvatore.

Cortine striate di luce rossa e verde danzavano tremolando da un orizzonte all’altro, illuminando la distesa di neve con una luminosità fantastica, teatrale. Era un’aurora boreale d’intensità soprannaturale.

— Questo dimostra quanto dicevo prima circa il fatto che la fascia di Van Allen è sovraccarica — commentò con voce normale il dottor Cosgrove, alle sue spalle. — Il flusso dei corpuscoli solari satura gli strati superiori dell’atmosfera di particelle cariche che vengono assorbite dai poli magnetici. La loro rappresentazione visibile, cui, a quanto pare, dobbiamo la vita, non è che un aspetto…

Ma Soderman aveva già smesso di ascoltarlo… era troppo immerso nell’indicibile piacere di sentirsi vivo.


Il dottor Fergus B. Raphael sedeva tranquillo al volante della sua macchina, guardando al di là del cemento sporco di macchie d’olio del parcheggio universitario.

Stava prendendo in seria considerazione l’idea di fare dietrofront e andare verso l’oceano, per non fare mai più ritorno nei circoli accademici. Qualche volta il suo lavoro lo aveva riempito di entusiasmo, tanto da compensare anche la consapevolezza di non poterne mai ricavare quello che avrebbe potuto raggiungere in altri campi. Ma gli anni avevano avuto il loro peso: quegli anni vissuti a seguire la strada sbagliata della ricerca scientifica. E ora era stanco.

Scacciò la falsa certezza che, volendo, avrebbe potuto andarsene in qualsiasi momento, e uscì dalla macchina.

Il cielo era coperto e le foglie degli ippocastani frusciavano sotto le folate invadenti del vento freddo. Raphael rialzò il bavero della giacca e si avviò verso l’edificio dell’università. La giornata si prospettava uguale a infinite altre che l’avevano preceduta.

Mezz’ora dopo aveva predisposto tutto per il primo esperimento della mattinata. Il volontario era Joe Washburn, un giovane studente nero che aveva dato promettenti risultati in una serie di prove.

Raphael si portò il microfono alla bocca. — Pronto, Joe?

Washburn assentì e fece un cenno con la mano a Raphael, attraverso il finestrino della cabina a isolamento acustico. Raphael girò un interruttore ed eseguì lo stesso controllo con la sua assistente, Jean Ard, che aveva preso posto in un’altra cabina, all’estremità opposta del laboratorio. La ragazza gli rivolse un cenno esageratemente gaio: Raphael ne dedusse che anche lei si sentiva depressa. Avviò il registratore, poi si lasciò andare contro lo schienale della seggiola, tolse un sigaro dall’involucro e tenne gli occhi debitamente fissi sui monitor.

Pensò, e non per la prima volta: “Quanto durerà questa farsa? Quali e quante prove mi occorrono per persuadermi che la comunicazione da mente a mente è impossibile?".

Jean Ard inserì il primo simbolo, e sul monitor dell’assistente comparve un triangolo. Dietro lo spesso vetro della cabina, la sua faccia era impassibile, e Raphael si domandò se la donna cercasse sempre di concentrarsi e proiettare, o se si limitava a starsene seduta lì a premere bottoni, pensando all’appuntamento della sera. Pochi minuti dopo, si accese il monitor di Washburn. Un triangolo. Raphael accese il sigaro e si accinse ad aspettare il momento di andare a prendere un caffè. Un quadrato comparve sul monitor di Jane, seguito da un quadrato su quello di Washburn. Lei ritrasmise un triangolo, e Washburn rispose in modo identico. Poi un cerchio e una stella, e Washburn trasmise un cerchio e una stella. A dispetto di se stesso, Raphael sentì che i battiti del suo cuore acceleravano e sentì rinascere la vecchia febbre nervosa che avrebbe potuto far di lui un giocatore cronico, se non avesse trovato il modo di sublimarla nella ricerca. Osservò attentamente Jean che continuava a premere a caso i pulsanti corrispondenti ai cinque simboli astratti di cui si servivano per gli esperimenti di telepatia. Otto minuti dopo, aveva completato la prova di cinquanta proiezioni.

E Joe aveva risposto esattamente cinquanta volte.

Raphael schiacciò il mozzicone del sigaro con mano tremante. Aveva addosso un freddo mortale quando afferrò il microfono, ma mantenne la voce più calma che poté: non voleva turbare minimamente l’esperimento.

— È andato bene come rodaggio, Jean e Joe — si limitò a dire. — Proviamo un’altra serie. — I due annuirono. Poi Raphael premette un pulsante che serviva a collegarlo solo con Jean. — Vorrei che stavolta adoperassi tanto i simboli astratti che quelli di rapporto.

Si chinò sul pannello dei comandi a fissare i monitor con gli occhi di uno che stesse giocando alla roulette russa. L’aggiunta di cinque simboli (albero, auto, cane, sedia, uomo) portava la serie a dieci, e diminuiva di molto la probabilità di successo.

Washburn fece un solo errore nella successiva serie di cinquanta, e nessuno nelle altre tre.

Raphael decise di dar libero sfogo ai demoni dell’emozione e della soddisfazione.

— Sentite, voi due — disse con voce alterata — non so cosa vi succeda, ma finora l’esito è positivo al cento per cento, e non occorre che vi dica cosa significhi questo. E adesso, diamoci dentro e vediamo un po’ fino a che punto potremo arrivare.

Washburn commise quattro errori nella serie seguente, due in quella successiva e nessuno nelle ultime cinque. Tanto lui che Jean vollero esaminare con i propri occhi la registrazione dell’esperimento, prima di convincersi che non c’erano trucchi, che non si trattava di un nuovo fattore ideato da Raphael per rendere più complessi gli esperimenti. Quando furono persuasi, si scambiarono uno sguardo cauto, interrogativo.

— Adesso credo che ci voglia proprio un buon caffè, Jean — disse Raphael. — Bisognerà rifletterci un po’ sopra.

Mentre Jean preparava il caffè, Joe Washburn andava su e giù per il laboratorio sorridendo, scuotendo la testa e battendo il pugno sul palmo dell’altra mano. Raphael accese un secondo sigaro, ma lo mise subito giù sentendo il bisogno urgente di comunicare a qualcuno quello che era successo. Andò al telefono, e stava sollevando il ricevitore, quando l’apparecchio squillò.

— Un’intercomunale per voi, dottor Raphael — disse la centralinista dell’università. — È il professor Morrison, da Cleveland.

— Grazie — mormorò Raphael, colpito dalla coincidenza. Aveva avuto intenzione di chiamare proprio Morrison, che, fra il ristretto gruppo di persone che lavoravano nel campo trascurato delle percezioni extrasensoriali, era il suo più intimo amico. Senza capire perché, intuì il motivo della chiamata di Morrison, e la sua sensazione venne confermata quando sentì la voce eccitata dell’altro.

— Pronto, Fergus? Grazie a Dio ti ho trovato… se non ne parlavo con qualcuno, scoppiavo. Non indovinerai mai cos’è successo qui.

— Io credo di sì, invece.

— E allora, prova.

— Hai ottenuto un risultato positivo al cento per cento negli esperimenti di telepatia.

Il mormorio di sorpresa di Morrison fu perfettamente percepibile.

— Infatti. Ma come fai a saperlo?

— Forse sono telepate anch’io — disse Raphael.

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