15

Blaize Convery portò alla scrivania una tazzina di plastica piena di caffè e la posò con cura sulla destra. Poi sedette sulla cigolante poltroncina girevole e aprì il cassetto della scrivania. Ne estrasse la pipa, la borsa del tabacco, e un fascio di nettapipe di lana bianca. Depose il tutto sul ripiano, formando un quadrato, con l’aria dell’abile artigiano che sistemi i suoi strumenti di lavoro. Poi aprì un cassetto profondo, ne trasse uno schedario di metallo colorato, lo piazzò al centro del quadrato che aveva preparato con tanta cura, e infine, con un sospiro, incominciò a sfogliarlo.

Era una monotona giornata di routine, in cui aveva camminato molto per tenere dietro a un caso, che, sebbene risolto felicemente un mese prima, si trascinava appresso un groviglio di conseguenze legali. Era salito e sceso di macchina almeno cinquanta volte per riuscire a ottenere tre firme importanti; ora sentiva male alla schiena e aveva i piedi gonfi. Ma era venuta la sua ora, l’ora che poteva dedicare alle sue occupazioni preferite; finito il turno, poteva seguire l’istinto, lungo il fantomatico sentiero che aveva scelto.

Sorseggiò il caffè, riempì e accese la pipa, e si lasciò trasportare nel regno della concentrazione dove le carte ingiallite e i caratteri a carbone sbiaditi sembravano prendere vita e sussurrargli i pensieri più reconditi degli uomini di cui portavano il nome. Dopo qualche minuto, Convery si lasciò andare a uno di quei viaggi a ritroso nel tempo che lo sprofondavano nel passato, e la stanza in cui si trovava incominciò lentamente a svanire.

— Andiamo, Blaize — gli rimbombò una voce nelle orecchie. — Piantala un po’ con questa roba.

Convery alzò gli occhi, facendo uno sforzo per tornare alla realtà, e vide le ciglia sbiadite e i denti radi di Boyd Leland, un altro tenente della Omicidi.

— Ciao, Boyd! — Convery nascose la sua irritazione. Leland era un caro amico e un bravo poliziotto. — Non sapevo che fossi di turno, oggi.

— Infatti non lo sono! — esclamò con aria trionfante Leland. — Questo mese ho il sabato libero, ma non abbandono la squadra. Non sono il tipo io.

Convery lo fissò senza capire per un secondo, poi ricordò. Era il mese di ottobre, e al sabato sera erano ricominciate le partite a bowling.

— Ah, avevo scordato che stasera si gioca — disse, senza entusiasmo.

— Ma certo! Su, andiamo! È ora!

— Senti, Boy! stasera non credo che mi sia possibile…

— Ti stanno facendo consumare il sedere a furia di lavorare? — chiese con aria comprensiva Leland. — La settimana scorsa ho fatto tre… — S’interruppe, guardando lo schedario aperto sulla scrivania di Convery. Lo fissò un momento, poi chiamò con un cenno alcuni colleghi che sostavano sulla soglia.

— Ehi, ragazzi, siamo daccapo! Sapete come passa le sere del sabato il professor Convery? A occuparsi del caso Spiedel! — L’incredulità rendeva acuta la voce di Leland. — Si occupa ancora di quel maledetto caso Spiedel!

— Sono troppo stanco per giocare a bowling, stasera — cercò di schermirsi Convery. — Me ne sto qua a riposare un poco.

— Balle! — Leland allungò le manacce rosse e chiuse lo schedario; dopodiché sradicò Convery dalla poltroncina. — Quest’anno ci occorrono tutti gli uomini di cui possiamo disporre — disse. — E poi, un po’ di esercizio non può farti che bene.

— D’accordo, d’accordo.

Convery capì che non sarebbe riuscito a spuntarla. Mentre gli altri aspettavano, riordinò con rimpianto la scrivania, e poi seguì i colleghi nel corridoio, fino all’ascensore. La gioia rumorosa di tutti gli altri colleghi alla prospettiva di una serata di gioco e birra non fece breccia in lui. “Ieri ho parlato con un uomo colpevole.”

Convery aveva la matematica certezza della colpa di Breton, e nello stesso tempo anche quella che non sarebbe mai riuscito a trascinarlo in tribunale… ma non era certo questo a farlo desistere. Per natura, non poteva sopportare il delitto.

Nove anni prima, in casa Breton, era accaduto qualcosa di molto strano, i cui effetti continuavano a perdurare, non solo, ma si erano manifestati con particolare evidenza proprio in quei giorni, come i sintomi di una malattia virulenta covata a lungo. Ma che cosa era successo? Convery aveva spuntato le sue armi mentali alla ricerca di una soluzione di quel problema, ed era rimasto con il desiderio insoddisfatto di penetrare nell’intimità dei Breton, di vivere nella loro casa, di vagliare, setacciare e analizzare, finché non fosse arrivato a conoscere quei due meglio di quanto si conoscevano loro stessi…

— Avanti, Blaize! — Leland stava aprendo lo sportello della sua auto. — Ti do un passaggio.

Convery gettò uno sguardo sul parcheggio riservato alla polizia, e sentì la ben nota sensazione di gelo alle viscere. — No, grazie, preferisco prendere la mia. Può darsi che voglia rincasare presto.

— Salta su — ordinò Leland. — Non ti lasceremo andare via presto.

Ma Convery scosse la testa.

— Va’ avanti… ci rivediamo là.

Leland scrollò le spalle e s’infilò in macchina. Convery trovò la sua Plymouth nel crepuscolo che calava rapido, e si mise al volante, mentre, nelle orecchie gli risuonava il canto allettante delle sirene. Al primo incrocio scantonò, lasciando che Leland continuasse lungo il viale, e attraversò i rioni a gran velocità, come se l’amico lo stesse inseguendo. Naturalmente nessuno lo seguiva, ma lui sapeva che i colleghi non gli avrebbero risparmiato le frecciatine sarcastiche, o si sarebbero comportati come Gina, quando lui aveva piantato in asso la festicciola per il compleanno dei bambini. Ma il suo demone gli stava saldamente appollaiato sulla spalla, e le sue lusinghe erano troppo forti.

Raggiunto il viale in cui abitavano i Breton, Convery rallentò spostando la macchina sotto l’ombra continua degli alberi, col motore al minimo. La casa era immersa nella più completa oscurità. Mentre fermava la macchina, Convery si sentì sopraffare dal disappunto. Dunque, il demone lo aveva ingannato, come era già accaduto tante altre volte nel passato. Convery guardò l’ora, e calcolò che avrebbe potuto raggiungere la palestra del bowling ancora in tempo per giustificarsi dicendo di essersi fermato a far benzina. Era il buonsenso che glielo suggeriva, ma…

— All’inferno! — disse disgustato, accorgendosi che stava scendendo dalla macchina per avviarsi verso la casa buia. Sopra di lui, il cielo cupo era striato dalle meteoriti, ma Convery non vi badò. La ghiaia del vialetto scricchiolava sotto i suoi piedi, mentre si avviava fra le alte siepi, e poi voltava oltre il portico.

Si fermò nel patio ed esaminò la parte posteriore della casa. Anche qui, come aveva previsto, non c’erano luci. Le porte del garage erano aperte. La Lincoln di John Breton mancava, ma c’era la vetturetta sportiva di sua moglie. Evidentemente, i Breton erano usciti insieme. Convery si picchiettò i denti coll’unghia del pollice. Aveva l’impressione che i Breton non uscissero spesso insieme, ma nulla impediva che qualche volta facessero eccezione alla regola e passassero una serata godendo della reciproca compagnia, se ne avevano voglia. Non c’era nessuna legge che lo impediva… mentre ce n’era una che vietava di spiare nelle proprietà private senza autorizzazione.

Convery girò sui tacchi, indeciso, e stava per andarsene quando la porta della cucina cigolò. Si avvicinò, e vide che era socchiusa e il vento spingeva a tratti i battenti. La spalancò con un calcio, pensando che almeno avrebbe avuto una scusa per giustificare la sua presenza; poi entrò in cucina e accese la luce.

— C’è nessuno? — chiamò, vergognandosi un po’.

Dei colpi violenti ripetuti a ritmo frenetico gli risposero subito dal piano superiore, e, fra i colpi, gli parve di udire grida di donna. Accendendo le luci man mano che avanzava, Convery salì le scale, e, seguendo il rumore, entrò in una camera da letto sul davanti della casa. I colpi provenivano da un armadio a muro. Cercò di aprirlo, ma scoprì che intorno alle maniglie era avvolto un filo resistentissimo. Tentò invano di sciogliere i nodi, poi di tagliarlo col temperino, e finalmente si decise a strappare, con un potente strattone, una delle maniglie.

Un attimo dopo, Kate Breton gli cadeva tra le braccia, e una gelida esultanza lo invase quando si rese conto che, dopo tutto, il demone era stato leale con lui.

— Signora Breton — chiese allarmato — cosa sta succedendo qui? Chi vi ha chiuso nell’armadio?

— Jack Breton. — Aveva gli occhi asciutti, allucinati.

— Volete dire che è stato vostro marito?

— No, non è stato mio marito. È… — s’interruppe, aspirò a fondo, scossa da un brivido, e la sua espressione cambiò. Convery ebbe l’impressione che fosse scesa una barriera tra lui e la donna.

— Raccontatemi tutto quello che è successo, signora Breton.

— Dovete aiutarmi, tenente. — Era ancora spaventata, ma il momento di panico insensato era passato. — Credo che mio marito sia stato rapito. È al lago Pasco. Mi ci volete accompagnare?

— Ma…

— Per favore, tenente… abbiate pietà di me. Ve lo chiedo per mio marito.

— Andiamo — disse lui, di malumore. L’occasione era sfumata, ma lui sentiva che il lago Pasco era il luogo dove forse avrebbe finalmente imparato a parlare con le mani.

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