5

John Breton aprì gli occhi lentamente nella soffusa luce ambrata del mattino aspettando, in una sorta di piacevole terrore, che la coscienza di se stesso lo investisse come un’ondata. “Quel rettangolo pallido e luminoso, cos’è? La finestra della camera da letto in penombra? Un aspetto ignoto dell’anima disincarnata?” Talora aveva la convinzione che, ogni volta, il sonno notturno portasse un dissolvimento della personalità, e che l’accurata ricomposizione, al mattino, dipendesse unicamente dal fatto che gli venissero forniti gli indizi giusti. Se si fosse svegliato in un ambiente diverso, con oggetti sconosciuti… Be’, in questo caso anche la sua vita sarebbe stata diversa, senza che lui se ne rendesse conto.

Ci fu un movimento nel letto accanto al suo, e lui si voltò da quella parte. Vide il viso sognante di Kate…

Breton si svegliò del tutto, ricordando gli eventi della sera prima e l’arrivo di Jack Breton. Quell’uomo era una versione più magra, più trasandata, più tesa, di lui stesso. Era una nullità, un fallito che, a quanto pareva, non trovava per niente strana l’idea di chiedere a un uomo e a sua moglie di accoglierlo nella loro casa, proponendo per di più un progetto così assurdo.

Dunque, secondo lui, Kate avrebbe dovuto scegliere fra loro due!

Breton cercò di ricordare perché non aveva affondato il pugno in quella faccia così familiare. Era ubriaco, certo, ma c’era anche dell’altro. C’entrava forse il modo con cui, almeno apparentemente, Kate aveva accettato l’idea, pur fingendo di non prenderla sul serio?

O era perché quel fantastico schema s’incastrava nelle falle del loro matrimonio? Lui e Kate erano sposati da undici anni, e avevano avuto i loro alti e bassi, come tutti, ma anche qualcosa di più, e di più significativo… un allontanamento progressivo l’uno dall’altra. Erano arrivati al punto, ormai, che potevano raggiungersi solo affilando coltelli sempre più lunghi. Pareva che più denaro guadagnasse, più Kate ne pretendesse; così, lui lavorava sempre più accanitamente, mentre lei diventava sempre più lontana e indifferente. Era un circolo vizioso e sterile.

La venuta di Jack Breton poteva offrire una soluzione facile e tranquilla. Kate e Jack potevano andarsene insieme; oppure, e quest’idea serpeggiò piacevolmente nel suo cervello, poteva togliersi di mezzo lui, piantandoli in asso. Poteva prelevare del denaro in banca e andarsene da qualche parte: in Europa, in Sudamerica, anche sulla Luna, se voleva. Buzz Silvera, nella sua ultima lettera dalla Florida, scriveva che avevano bisogno di un tecnico competente disposto a recarsi laggiù.

Breton giaceva nel suo caldo bozzolo elaborando pigramente il progetto, quando si rese conto in ritardo che non si trattava di una fantasia, che l’altro se stesso esisteva e lui avrebbe dovuto affrontarlo faccia a faccia per molti giorni a venire. Breton scese rabbrividendo dal letto, infilò la vestaglia e andò a far colazione.


Kate Breton tenne gli occhi chiusi finché John non fu uscito. Poi, senza alzarsi, mosse le gambe come se pedalasse, finché le coperte non formarono un mucchio disordinato in fondo al letto; e lei rimase nuda, bianca come il soffitto della camera. Rimase immobile per qualche istante, chiedendosi se John era in bagno o giù al pianterreno. Avrebbe potuto rientrare da un momento all’altro e l’avrebbe scoperta così, volutamente nuda. Ma non sarebbe successo niente. ("Antropologicamente parlando, tu non sei a posto” le aveva detto pensoso, un mese prima. “La femmina è caratterizzata da sporgenze coniche, e le tue sono cilindriche.")

“Jack Breton non avrebbe mai detto una cosa simile” pensò Kate, ricordando la figura sottile, trasandata, con gli occhi di uno Swinburne dei nostri tempi. Quell’uomo emanava un’intensità di sentimenti che, sebbene lei si sforzasse di mantenere un distacco mentale, cominciavano a ridestarle intimamente un’attrazione invadente e irrefrenabile. Jack Breton era l’archetipo dell’eroe romantico, che sacrifica la propria vita per raggiungere un ideale impossibile. E, dietro quella faccia segnata dal dolore, c’era “qualcosa” che lo aveva spinto a sfidare e dominare il tempo, per amore di lei, Kate Breton. “Sono unica” pensò, con gratitudine.

Il senso di eccitazione provocato del suo egocentrismo, simile a un ciclone emotivo, aumentava sempre più, provocandole lunghi brividi giù per la schiena. Kate si alzò e rimase a lungo a guardarsi nello specchio.


Jack Breton, vestito col suo abito grigio da mattina, era alla finestra della stanza degli ospiti. Il mondo del Tempo B. Si rese conto che dovevano esserci delle differenze visibili nelle due correnti temporali, oltre a quella, essenziale, dell’esistenza di Kate. In questo mondo, un assassino psicopatico era stato ucciso in circostanze strane, che dovevano certamente aver alterato alcune cose, specie per quanto riguardava le probabili vittime future che non ci sarebbero state più. C’era anche il fatto che nel mondo del Tempo B l’azienda di consulenza tecnica di Breton aveva prosperato nelle mani di John, offrendogli l’opportunità di influenzare gli eventi in modo forse a volte significativo. Jack prese mentalmente nota di cercare e rammentare quelle differente per abituarcisi, in modo da poter prendere il posto di John Breton, senza che capitassero guai.

Guardò le sagome scure dei faggi nel giardino sul retro della casa, mentre pensava al modo di sbarazzarsi del cadavere. A parte il problema puramente materiale, doveva tener conto di una questione più delicata: la reazione di Kate. Se lei avesse sospettato, sia pure per un attimo, che lui aveva ucciso John, sarebbe stata la fine. Doveva riuscire a persuaderla che John aveva volontariamente deciso di scomparire dalla sua vita e, se questo progetto non fosse andato in porto, bisognava disporre le cose in modo da farle credere che era morto in un incidente.

Gli occhi di Jack si posarono sulla piccola cupola argentea visibile al di là del filare di faggi. Dunque, John ce l’aveva fatta a costruire un osservatorio in giardino, cosa che lui aveva sempre desiderato, senza mai riuscirci. L’altro se stesso invece aveva raggiunto lo scopo; aveva vissuto con Kate e aveva fatto tante cose.

In preda a un senso di freddo e di desolazione, Jack Breton rimase ancora un poco davanti alla finestra, fin quando non sentì qualcuno muoversi per casa. Arrivava anche un leggero profumo di caffè e di pancetta fritta. Uscì, e scese in cucina. Sebbene fosse ancora molto presto, Kate era già vestita di tutto punto, con una maglietta color nocciola e una sottana bianca. Quando Jack entrò, stava deponendo dei piatti sul tavolo di cucina. La sua vista gli bloccò il cuore, che poi si mise a battere a colpi violenti, spasmodici.

— Buongiorno, Kate — disse. — Posso esserti utile in qualche cosa?

— Oh… salve. No, grazie. — Lui si accorse che una chiazza rosa le si era accesa sugli zigomi.

— Ma non dovresti sprecare il tempo nei lavori di casa — le disse con scherzosa galanteria.

— Puoi tranquillizzarti, su questo punto — disse John, in piedi vicino alla finestra, e solo allora Jack si accorse della sua presenza. — Abbiamo una “cuoca-tuttofare” che funziona da bastione protettivo tra Kate e le necessità domestiche. A proposito, a che ora viene la signora Fitz?

— Oggi non viene — rispose brusca Kate. — Le ho telefonato poco fa per dirle che non avremo bisogno di lei per qualche giorno.

John non l’ascoltò. Stava appoggiato al davanzale della finestra, dov’era posata una radio, chiaramente in attesa di sentire qualche cosa. Jack lo ignorò e tornò a rivolgersi a Kate.

— Ecco — disse sorridendo — devi lavorare per colpa mia! Quindi sono costretto ad aiutarti.

— È già tutto pronto. Mettiti a sedere, per favore.

Gli occhi di Kate incontrarono per un istante i suoi, e lui fu lì lì per prendere quello che gli apparteneva. Invece ubbidì e si sedette al tavolo, mentre il suo istinto protestava deluso. La spossatezza della sera prima era scomparsa, e una volta di più aveva la mente piena del meraviglioso piacere di vedere Kate viva. Era viva, calda, reale; circondata dell’aura del suo significato emotivo, ancor più miracoloso dell’infinito stellato dell’universo di Tempo B…

Le dita di John Breton girarono la manopola che regolava il volume, e la voce dell’annunciatore invase la cucina, provocando una smorfia seccata sul viso di Kate.

— Occorre proprio tenere la radio così alta?

— Taci un momento!

— Non capisco perché…

— Sta’ un po’ zitta! — John girò il pulsante al massimo e la voce dell’annunciatore tuonò, alterata dalle distorsioni elettroniche.

“…continua ora nell’emisfero orientale. Un portavoce dell’osservatorio di Monte Palomar sostiene che la pioggia di meteoriti è stata la più imponente della storia, e non dà segno di voler finire. Servizi televisivi da Tokyo, dove il fenomeno è attualmente al culmine, verranno trasmessi sulle reti principali non appena sarà riparato il guasto al satellite delle comunicazioni, guasto che si è verificato alcune ore fa.

“Il signor C.J. Oxtoby, presidente della ‘Ustel’, la principale agenzia che si occupa della manutenzione dei satelliti, ha escluso, in un precedente rapporto, che i satelliti Courier possano aver deviato dall’orbita sincrona. Un’altra spiegazione possibile per il guasto verificatosi la scorsa notte, e che ha già sollevato numerose lamentele e reclami da parte di molti utenti civili, è che i satelliti siano stati colpiti da qualche meteorite.

“E ora, passando agli avvenimenti locali, sono state sollevate obiezioni al sistema proposto di…”

John Breton spense la radio.

— Il mondo continua ad andare avanti — commentò, quasi in tono di sfida. Sembrava quasi volersi giustificare per non aver trovato niente di importante da dire sull’argomento triangolo John-Kate-Jack. Jack si chiese distrattamente con chi mai avesse inteso scusarsi.

— Ma certo che va avanti. Mangia, e non pensarci troppo. — Jack si divertiva enormemente nel constatare che l’altro se stesso si preoccupava per questioni di nessun conto.

— Questa faccenda delle stelle cadenti non mi va — disse John mettendosi a sedere. — Ieri è stata una giornata infernale. Prima una ricerca gravimetrica andata a pallino, poi la visita dei Palfrey, poi ancora ho bevuto più whisky di quanto ne avessi voglia e ho fatto un viaggio come non ne facevo da anni… Adesso anche le stelle che fanno gli scherzi, e, come se non bastasse…

— Sono arrivato io — concluse per lui Jack. — So che è stato un colpo per te, ma non dimenticare che ho il diritto di essere qui. Ne abbiamo discusso stanotte, ed è tutto sistemato.

— "Tu” hai sistemato tutto — borbottò sgarbatamente John. — Io non riesco neppure a parlare di queste cose con Kate, con te fra i piedi.

— Cosa c’è da dire? — osservò Jack Breton continuando a mangiare di gusto.

La forchetta di John tintinnò contro il piatto. Poi John rimase per un momento a fissare il piatto, con le spalle curve, e infine sollevò gli occhi e guardò Kate con aria disgustata.

— Allora, cos’hai deciso? Hai già valutato i pro e i contro nei nostri riguardi?

— Non guardarmi così — scattò lei, con voce vibrante di collera. — In questa casa, sei tu l’uomo, e se non ti va di avere Jack tra i piedi, perché non fai qualcosa di concreto?

— Qualcosa di concreto? Io? Tocca a te farlo, lo ha detto Jack. Basta che tu gli dica di andarsene perché preferisci restare con me. Tutto qui.

— Mi sembra che tu voglia rendere le cose difficili — disse Kate. — Lo fai apposta?

— Bene, Kate! Mi piace come hai reagito — commentò John tornando serio di colpo.

Kate mosse le labbra senza dir niente, portandosi alla bocca la tazzina verde del caffè e scoccando al marito una delle sue occhiate sprezzanti, drammatiche, infantili. “Che sentimento poco adatto, per sembrare più giovane” pensò Jack.

John Breton scostò il piatto, e si alzò. — Mi spiace dover interrompere l’interessante conversazione, ma c’è qualcuno che deve andare al lavoro.

— Non vorrai andare in ufficio! — disse Kate, urtata.

— Devo assolutamente andarci. E poi voi due avete molte cose da dirvi.

Jack nascose la propria sorpresa per l’apparente indifferenza dell’altro, che pur sapeva di dover perdere Kate. — Ce n’è proprio bisogno? Perché non lasci che se la sbrighi Hetty per qualche giorno?

John corrugò la fronte. — Hetty? Hetty chi?

— Hetty Calder, naturalmente. — Una gelida sensazione di disagio invase per qualche istante il petto di Jack, di fronte all’espressione perplessa di John. Questo mondo doveva essere un doppione perfetto dell’altro, perfetto fin nei minimi particolari. Com’era possibile che John Breton non si ricordasse di Hetty Calder?

— Oh, Hetty! È passato tanto tempo che ho quasi dimenticato. È morta da sette od otto anni.

— Come…?

— Credo di cancro ai polmoni.

— Ma se l’ho vista solo una quindicina di giorni fa. Sta benone e continua a fumare due pacchetti al giorno.

— Forse nel tuo mondo ha cambiato marca — commentò John, con un’alzata di spalle; e in quel momento Jack sentì di odiarlo.

— Non è strano? — osservò Kate con la sua voce di bambina curiosa. — Pensare che quella donnina buffa vive da qualche parte e continua a lavorare e non sa che noi siamo stati al suo funerale. Non sa di essere morta.

Jack Breton avrebbe voluto correggere Kate, ma non riuscì a trovare le parole adatte. Se Kate era realmente viva, allora Hetty era realmente morta… Sorbì il caffè, stupito di provare un rimpianto così acuto al ricordo della faccia fidata, familiare di Hetty, sempre avvolta nella nuvola di fumo della sigaretta.

— Salgo a vestirmi. — John Breton esitò sulla soglia, come se volesse dire ancora qualche cosa, poi uscì lasciando soli per la prima volta insieme Jack e Kate. L’aria calda e raggi di pallido sole filtravano attraverso le tendine. Un silenzio teso riempì la stanza mentre Kate si gingillava col cibo senza risolversi a parlare e si accendeva poi una sigaretta. Breton ne avvertiva la presenza con tanta intensità che gli parve addirittura di sentir bruciare il tabacco e la carta di riso, mentre lei aspirava il fumo.

— Credo di essere arrivato nel momento adatto — disse.

— Sarebbe a dire? — Kate evitava di guardarlo.

— Tu e John siete arrivati a un punto… di rottura, non è così?

— Mi pare un modo un po’ brutale di esprimersi.

— Andiamo, Kate — disse lui. — Vi ho visto. Tra noi non è mai stato così.

Kate lo fissò e lui lesse l’incertezza nei suoi occhi.

— No? Non ricordo bene la faccenda del Tempo A e del Tempo B, Jack, però mi pare che fino a quella notte, nel parco, tu e John foste una persona sola, vero?

— Vero.

— Bene, anche prima discutevamo e litigavamo. Voglio dire che quella sera non solo John, ma anche tu mi hai rifiutato i soldi per il tassi, e…

— Taci, Kate! — Breton fece uno sforzo per seguire ciò che lei diceva. Aveva ragione, inutile negarlo: ma in quei nove anni lui aveva evitato di ripercorrere i viali della memoria, e provava uno strano senso di riluttanza nel vedersi costretto a farlo adesso. Il sogno non poteva tollerare la dicotomia.

— Scusami, forse non dovevo parlarne. — Kate cercò di sorridere. — Pare che nessuno di noi, riesca a dimenticare quell’episodio. E poi c’è il tenente Convery…

— Convery? Che cosa c’entra? — Jack era allarmato.

— L’uomo che mi assalì si chiamava Spiedel. Il tenente Convery ebbe l’incarico di svolgere le indagini sulla sua morte. — Kate guardò con tristezza Jack. — Lo sapevi che quella sera ti hanno visto?

— No. Non ci avevo pensato.

— Sì. Una dozzina di ragazzi e ragazze che stavano facendo l’amore di gruppo sull’erba dissero alla polizia di aver visto un uomo armato di fucile materializzarsi quasi addosso a loro e poi scomparire immediatamente. È inutile dire che la descrizione che ne fecero si attagliava a John. A essere sincera, fino a ieri sera ho sempre avuto l’illogica sensazione che fosse stato proprio John… per quanto le indagini abbiano provato la sua estraneità ai fatti. Molti vicini lo avevano visto alla finestra. E poi; il suo fucile era rotto.

Breton annuì pensoso, rendendosi conto solo allora di quanto fosse stato vicino a salvare Kate e a liberarsi contemporaneamente del Tempo B in un colpo solo. Dunque, la polizia aveva cercato di incastrare John! Peccato davvero che le leggi della fisica cronomotrice avessero fatto tornare nel Tempo A il proiettile che aveva ucciso Spiedel, insieme all’uomo che aveva sparato e al fucile. Altrimenti le rigature lasciate dalla canna sul proiettile sarebbero risultate corrispondenti a quelle della canna del fucile, rotto e da lungo tempo in disuso, di John Breton; il che avrebbe dato dei bei grattacapi agli onnipotenti esperti di balistica.

— Non capisco ancora perché tu abbia nominato Convery — disse. — Hai appena detto che John è stato scagionato.

— Infatti, ma il tenente Convery ha continuato a venir qui, di tanto in tanto. E viene ancora, quando si trova da queste parti, a bere un caffè e a parlare di fossili e di geologia con John.

— Mi pare innocuo.

— Oh, certo. A John è simpatico, ma a me ricorda qualcosa che preferisco dimenticare.

Breton allungò una mano sul tavolo per afferrare quella di Kate.

— E io, che cosa ti ricordo?

Kate si mosse a disagio, ma non sottrasse la mano. — Forse qualcosa che voglio ricordare.

— Sei mia moglie, Kate… e io voglio che tu torni con me. — Sentì le dita di lei intrecciarsi alle sue e stringere, stringere, come se volesse fare una prova di forza. Kate aveva l’espressione di una donna in preda ai dolori del parto. Rimasero così, seduti, senza più dire niente, finché i passi di John Breton non risuonarono fuori dalla porta della cucina. John entrò, vestito di un completo grigio, e andò ad accendere la radio.

— Voglio ascoltare le ultime notizie, prima di uscire — disse.

— Io sparecchio — disse Kate, alzandosi.

Anche Jack si alzò, pieno di risentimento verso l’altro, che considerava un intruso nella sua casa, e si avviò per poi soffermarsi nella fresca penombra del soggiorno. Kate aveva risposto alla sua stretta, e questo importava… Aveva fatto bene ad agire come aveva agito, presentandosi subito a Kate e a John per spiegare loro tutto.

Mantenere segreta la sua presenza nel Tempo B sarebbe stato un procedimento più logico ed efficiente. Come quello di uccidere John, sbarazzarsi del cadavere e riprendere la sua vita insieme a Kate come se nulla fosse stato. Ma, così facendo, avrebbe sempre avuto il rimorso di avere ingannato Kate, mentre ora aveva la suprema giustificazione che lei lo preferiva all’uomo che era diventato il Breton del Tempo B. Questo era molto importante, ed era tempo di pensare ai particolari del prossimo passo… Cioè dell’eliminazione di John Breton.

Immerso nei suoi pensieri, Jack Breton si mise a passeggiare su e giù per il soggiorno, prendendo distrattamente un libro o un oggetto, e rimettendoli a posto dopo un’occhiata. La sua attenzione fu attratta improvvisamente da un mucchio di fogli coperti di una fitta scrittura a mano. Sul primo c’era uno strano disegno a spirale. Prese il foglio e vide che anche quello che aveva scambiato per un disegno, era uno scritto. Facendo roteare il foglio, Breton lesse lentamente un frammento di poesia.

Ti ho desiderato per mille notti

mentre la verde fosforescenza della lancetta

si spostava lenta.

Il desiderio di te mi faceva piangere,

ma tu non potevi assaporare le mie lacrime.

Depose il foglio, e stava già allontanandosi dal tavolino, quando afferrò il senso delle parole. Ci vollero alcuni secondi prima che le chiuse della memoria si aprissero, e quando questo accadde, si senti gelare la fronte per la paura. Era lui che aveva scritto quelle parole, per se stesso, nel periodo in cui era stato sulle soglie della pazzia, dopo la morte di Kate… Ma non le aveva mai mostrate a nessuno.

E adesso, si trovavano in un altro mondo, in un altro tempo.

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