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Jack Breton sentì che gli tremavano le gambe mentre andava incontro all’uomo che rispondeva al nome di John Breton.

Forse, pensò, era dovuto al fatto di essere stato accucciato nel buio complice della siepe per oltre un’ora. Ma c’era anche un’altra spiegazione più plausibile: non si era preparato a rivedere Kate. Tuttavia, nessuna preparazione, nessuna previsione, sarebbero riuscite ad attutire il colpo. Il suono della voce di lei che salutava gli ospiti gli era entrato nel sistema nervoso con prepotenza, sollecitando dall’intero suo essere, e da ogni atomo che lo componeva, reazioni impensate. “Ti amo” sussurrava ogni molecola del suo corpo, lungo miliardi di sentieri enzimici. “Ti amo, Kate.”

— Chi siete? — domandò con durezza John Breton. — Che cosa volete?

Sbarrò decisamente il passo a Jack Breton, e, sotto la luce del portico, il suo viso sembrava una maschera d’ansia segnata da ombre profonde.

Jack Breton tastò la pistola automatica nella tasca del soprabito, ma sentendo il tono titubante della voce dell’altro, non tolse la sicura. Non occorreva modificare i piani.

— Ti ho già detto cosa voglio, John — disse con gentilezza. — E tu, a quest’ora, devi aver capito chi sono… non ti sei mai guardato in uno specchio?

— Mi sembra… — John Breton non finì la frase, timoroso di esprimere a voce alta quel che pensava.

— Entriamo — disse con impazienza Jack. — Ho freddo.

Si mosse e fu rinfrancato dalla vista di John che arretrava incerto. “Ha paura di me” pensò con lieve stupore Jack Breton. “Questo essere che ho creato a mia immagine, questa creatura che ha cambiato il mio nome in John, ha paura del suo autore.” Entrando nella familiare anticamera soffusa di luce arancione, Jack notò la morbidezza del folto tappeto e quell’indefinita aria di benessere economico che aleggiava nella vecchia casa. Il lavoro fatto quel giorno in biblioteca, dove aveva scorso annate di giornali locali, gli aveva già fatto capire che John Breton si trovava in condizioni molto migliori di nove anni prima, ma adesso la realtà superava le sue previsioni. “Ben fatto, servo bravo e fedele…”

— Mi pare che stiamo esagerando, adesso — esclamò John Breton, quando furono nello spazioso soggiorno. — Vorrei qualche spiegazione.

— Bene, buon per te, John.

Parlando, Jack esaminava la stanza. Il mobilio era tutto nuovo per lui, ma ricordava l’orologio e un paio di oggetti. Gli piacquero soprattutto le ampie poltrone dall’alto schienale che erano state scelte solo in funzione della comodità. Pareva che gli dessero il benvenuto. “Prendine mentalmente nota” si disse. “Benché non subisca alcuno spostamento nello spazio, il viaggiatore nel tempo si sottopone a un sostanziale spostamento psicologico che può manifestarsi mediante la personalizzazione di oggetti inanimati, come delle poltrone che gli danno il benvenuto. Sta’ in guardia!”

Riportò l’attenzione su John Breton: la sua curiosità naturale riprendeva il sopravvento, ora che andava adattandosi alla miracolosa realtà dell’esistenza di Kate. L’altro se stesso era un po’ più massiccio di quanto avrebbe dovuto essere, e indossava costosi pantaloni fatti su misura, una camicia sportiva marrone e una giacca di cashmere. “Nove anni! Nove anni divergenti hanno prodotto delle differenze” pensò Jack. “Io non sono riposato e ben nutrito, ma la mia ora è venuta. La mia ora.”

— Sto aspettando — disse John Breton.

Jack alzò le spalle. — Avrei preferito parlare in presenza di Kate, ma immagino che sia salita…

— Mia moglie è di sopra. — Le prime due parole furono sottolineate da un tono enfatico appena percettibile.

— Bene, allora, John. È strano, ma questa è una parte della faccenda che non ho preparato in anticipo… Non ho pensato a come dovevo dirtelo. Vedi, John… Io… sono… te.

— Sarebbe come dire che io non sono io? — ribatté John, con voluta indifferenza.

— No. — “Sta riprendendosi” pensò con riluttante approvazione Jack Breton “ma deve prendere la cosa sul serio fin dal principio.” Cercò nei recessi della memoria.

— John! Quando avevi tredici anni, tua cugina Louise passò quasi tutta l’estate a casa tua. Aveva diciott’anni ed era ben fatta. E faceva il bagno, puntuale come un orologio, tutti i venerdì sera. Un pomeriggio, circa tre settimane dopo il suo arrivo, tu andasti in garage a prendere un trapano a mano, e con una punta da tre-trenta facesti un buco nel soffitto del bagno. Inseristi il trapano nella parte più larga di quella fessura a forma di Y che papà non si decideva mai a stuccare, perché così il foro sarebbe passato inosservato. Papà aveva adattato la parte centrale del solaio a deposito di granaglie, e aveva disposto i mucchi su dei grandi fogli. Ma tu avevi scoperto che, sotto a uno dei mucchi, c’era un’asse mobile in corrispondenza del soffitto del bagno. E così, quell’anno, ti divertisti a fare fotografie, John; e il solaio era una camera oscura ideale. Tutti i venerdì sera, quando Louise era nella vasca, tu salivi in quell’oscurità polverosa, ti inginocchiavi in corrispondenza del bagno, e…

— Basta! — John fece un passo in avanti tenendo un indice accusatore. Ma gli tremava la mano.

— Non te la prendere, John. Sto solo presentando le mie credenziali. Nessun altro al mondo conosce i fatti che ti ho appena finito di raccontare. L’unica ragione per cui li conosco, è la stessa che ti ho già esposto: io sono te. Io ho fatto quelle cose, e ora voglio che tu mi ascolti.

— Devo ascoltarti per forza — disse cupo John — È una serata infernale.

— Così va meglio — replicò Jack, rilassandosi un altro poco. — Ti secca se mi siedo?

— Fa’ pure. E a te secca se bevo?

— Sei il mio ospite. — Jack disse queste parole con naturalezza, senza pensarci, ma poi meditò sul loro significato. John era stato suo ospite per nove anni, in un modo in cui nessun altro era mai stato ospite prima; ma tutto questo stava per giungere alla conclusione. Quando entrambi si furono messi a sedere, Jack si protese nell’ampia poltrona, e prese a parlare con voce calma, fredda, ragionevole. Molto sarebbe dipeso dalla sua capacità di rendere credibile l’incredibile.

— Cosa ne pensi dei viaggi nel tempo, John?

John Breton bevve un sorso. — Penso che siano impossibili. Nessuno può viaggiare nel tempo, oggi come oggi, e se la tecnologia attuale è impotente in questo campo, è logico che non è mai stato trovato il sistema di farlo neppure in passato. E nessuno può venire a noi dal futuro, perché il passato è inalterabile. Ecco come la penso sui viaggi nel tempo.

— E l’altra direzione?

— Quale altra direzione?

— Dritto, ad angolo retto rispetto alle due direzioni che hai menzionato.

— Oh, quella — John Breton si versò ancora da bere. Aveva quasi l’aria di divertirsi. — Quando leggevo fantascienza, non li giudicavo viaggi possibili. Solo probabili.

— D’accordo — convenne Jack. — Cosa ne pensi di un viaggio probabile?

— Stai forse cercando di dirmi che vieni da un altro presente? Da un’altra corrente temporale?

— Sì, John.

— Ma perché mai? Ammesso che sia vero, che cosa ti ha portato qui? — John Breton portò il bicchiere alle labbra, ma non beve. Aveva gli occhi pensosi. — Nove anni, dicevi. Ha qualcosa a che fare con…?

— Ho sentito parlare, John. — Kate era sulla soglia. — Chi c’è con te? Oh…

Jack Breton si alzò mentre la donna entrava nella stanza, e la vista di lei gli riempì gli occhi, proprio come aveva fatto l’ultima sera che l’aveva vista viva, finché la sua immagine sommerse la sua coscienza: tridimensionale, nitida, perfetta. Lo sguardo di Kate s’incrociò per un istante col suo, poi si allontanò, e un lampo di piacere gli esplose nella mente. Era già arrivato fino a lei. Senza dire una parola, l’aveva raggiunta.

— John? — La voce di Kate era tremula, incerta. — John?

— È meglio che tu ti metta a sedere, Kate — disse John Breton con voce sottile e monotona. — Credo che il nostro amico abbia da raccontarci una storia.

— Forse anche Kate vuol bere qualcosa — propose Jack Breton. — Così può prendersi un attimo di respiro. — Kate lo guardava con una circospezione che lui trovava deliziosa, e dovette fare uno sforzo per mantenere la voce ferma. “Lei sa, lei sa.” Mentre l’altro se stesso le versava un liquido incolore, si accorse di correre il pericolo di fare un viaggio involontario. Esaminò il campo visivo e lo trovò nitido: niente teicopsia, nessuna stella nera che scendeva lentamente, nessun fenomeno di rafforzamento. Sembrava tutto a posto.

Lentamente, con cura, cominciò a ordinare i fatti, concedendo ai nove anni passati di ricrearsi sul canovaccio teso della sua mente.

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