La Bolla era il nome non ufficiale con cui veniva indicata la zona di spazio in continua espansione nella quale ogni pianeta e asteroide era stato esplorato dagli uomini. Alcuni dei mondi, i migliori, venivano scelti per essere colonizzati o per altri programmi di sviluppo, ma solo a condizione che non vi fossero forme di vita indigene. Lo statuto dava al Servizio Cartografico solo la facoltà di occuparsi di pianeti disabitati, dato che i contatti con culture aliene erano prerogativa delle missioni diplomatiche o militari, secondo le circostanze.
Il risultato di questo stato di cose era che Dave Surgenor, pur essendo un veterano del Servizio Cartografico, non aveva mai incontrato, nel corso del suo lavoro, membri di una civiltà extraterrestre. Né si aspettava di incontrarli.
Surgenor restò da parte, in silenzio, mentre una parte degli apparecchi di ricerca del Modulo Cinque venivano estratti per introdurre due posti supplementari. Non appena i lavori furono terminati, montò sul pesante veicolo e lo fece scendere dalla rampa di sbarco della Sarafand a velocità elevata. La distanza fra l’astronave cartografica e l’Admiral Carpenter, un tozzo vascello militare, non era molta, ma Surgenor decise di percorrerla usando la propulsione a sospensione, e arrivò alla nave fra spettacolari sbuffi di sabbia finissima, lasciando una cicatrice rosso-sangue sul deserto bianco, che si rimarginò lentamente, man mano che la sabbia fototropica tornava al suo colore superficiale.
Una delle guardie ai piedi della rampa dell’Admiral Carpenter gli indicò con la mano dove doveva parcheggiare e disse qualcosa nella radio da polso. Surgenor portò il Modulo Cinque nel punto indicato e spense i motori, facendo posare il veicolo a forma di scarafaggio sulla pancia. Aprì il portello e l’aria calda e secca del pianeta Saladin riempì la cabina.
— Il maggiore Giyani e i suoi uomini arriveranno fra un paio, di minuti — gridò la guardia.
Surgenor rispose con una parodia di saluto militare e si sprofondò ancor di più nel sedile. Sapeva di comportarsi in modo infantile, ma era ormai un mese che la Sarafand era atterrata sul pianeta, e Surgenor non era mai rimasto per tanto tempo con le mani in mano da quando si era arruolato nel Servizio Cartografico. L’attesa, lo spreco della magra razione di tempo accordata ad ogni essere umano, l’avevano reso pessimista e irritabile. Viaggiare non aveva per lui il fascino di un tempo, e tuttavia non era più capace di restare fermo in un posto.
Guardò con risentimento il deserto bianco, splendente sotto il sole, che si stendeva fino all’orizzonte, e si chiese come aveva potuto sembrargli bello la prima mattina che l’aveva visto. Certo, quella era stata una giornata in cui il vento tracciava disegni strani e continuamente mutevoli, con sfumature di bianco e rosso, mentre, soffiando fra le dune, esponeva gli strati di sabbia sotterranei che cambiavano subito colore sotto la luce del sole.
La Sarafand era atterrata con lo scopo di portare a termine uno dei soliti rilievi cartografici. Non c’erano difficoltà di rilievo per quanto riguardava il terreno, perciò i moduli avrebbero potuto terminare il lavoro in tre giorni, se non si fosse verificato un evento del tutto imprevedibile.
Tre persone dell’equipaggio avevano riferito di aver avuto delle apparizioni.
Le apparizioni avevano assunto due forme differenti: di esseri viventi e di edifici. Erano semi-trasparenti e svanivano come fanno di solito i miraggi, tranne per il fatto che un miraggio deve avere un’origine reale, da qualche parte. E i rilievi orbitali avevano stabilito che Saladin era un mondo morto, dove non esisteva, né era mai esistita in passato, vita intelligente.
— Sveglia, autista — disse il maggiore Giyani. — Possiamo partire.
Surgenor alzò la testa con voluta lentezza e guardò l’ufficiale baffuto, dalla carnagione scura, in piedi sull’entrata del modulo. L’uomo riusciva ad avere un’aria lisciata nonostante indossasse la divisa da combattimento. Alle sue spalle c’era un tenente dalla faccia accuratamente rasata, con un’espressione impacciata negli occhi azzurri, e un sergente dalla corporatura massiccia che portava un fucile.
— Non possiamo partire finché non siete entrati tutti — fece osservare Surgenor, senza nascondere la sua irritazione per il fatto di essere trattato come un autista. Attese che il sergente e il tenente si fossero sistemati nei due sedili posteriori, e il maggiore in quello al suo fianco. Il sergente, che a quanto ricordava Surgenor doveva chiamarsi McErlain, non posò a terra il fucile, ma lo tenne in grembo.
— Questa è la nostra destinazione — disse Giyani, porgendo a Surgenor un pezzo di carta su cui erano segnate delle coordinate.
— In linea retta la distanza è di circa…
— Cinquecentocinquanta chilometri — disse Surgenor, che aveva compiuto un rapido calcolo mentale.
Giyani sollevò le sopracciglia e scrutò Surgenor. — Vi chiamate Dave Surgenor, vero?
— Sì.
— Bene, Dave. — Giyani fece un largo sorriso, che voleva dire: «Vedi come so ammansire i civili permalosi?», poi indicò le coordinate. — Ci arriveremo per le otto, ora di bordo?
Surgenor decise, troppo tardi, che preferiva il Giyani ufficiale. Mise in moto il modulo, usando il propulsore a sospensione, e fece rotta verso sud. Durante le due ore di viaggio la conversazione fu piuttosto scarsa, ma Surgenor si accorse che Giyani si rivolgeva al sergente McErlain con disgusto neppure mascherato, mentre Kelvin, così si chiamava il tenente, evitava addirittura di parlare con lui. Il sergente rispondeva a Giyani con monosillabi e quasi con insolenza. L’atmosfera tesa fece ricordare a Surgenor le chiacchiere che aveva sentito su McErlain, al tavolo della mensa, ma la maggior parte dei suoi pensieri rimaneva concentrata sull’obiettivo della spedizione.
Quando i primi rapporti sulle apparizioni erano pervenuti ad Aesop, era stato eseguito un controllo sulle mappe geodetiche che il cervello del computer stava elaborando.
Erano apparse tracce evidenti di ristrutturazioni condotte trecentomila anni prima su strati rocciosi, in zone che corrispondevano esattamente a quelle dov’erano apparsi i miraggi.
A questo punto Aesop aveva ritirato tutti i moduli, in obbedienza alle limitazioni imposte dallo statuto del Servizio Cartografico, e aveva spedito un messaggio tachionico al Quartier Generale Regionale. Il risultato fu che l’incrociatore Admiral Carpenter, che stava attraversando quella zona di spazio, arrivò due giorni più tardi e assunse il comando.
Uno dei primi ordini del colonnello Nietzel, comandante delle forze di terra, fu che Aesop doveva considerare segrete tutte le informazioni su Saladin, ed era tenuto a non divulgarle fra il personale civile. In teoria, quindi, l’equipaggio della Sarafand avrebbe dovuto essere completamente all’oscuro degli eventi successivi, ma fra gli uomini delle due navi vi era qualche contrasto, e Surgenor aveva raccolto alcune voci.
Si diceva che i satelliti-spia messi in orbita dalla Admiral Carpenter avessero registrato migliaia di materializzazioni parziali di edifici, di strani veicoli, di animali e di esseri vestiti pesantemente. Si diceva anche che alcuni degli edifici e delle figure avessero raggiunto una solidità totale, ma che erano svaniti prima che gli aerei militari potessero raggiungerli. Era come se su Saladin ci fosse un’altra civiltà, che, all’arrivo degli stranieri, si era ritirata dietro una barriera incomprensibile decisa a non avere contatti.
Surgenor, che non aveva mai visto nessuna apparizione, non aveva prestato molta fede alle voci, ma aveva visto gli aerei della Admiral Carpenter partire sibilando a velocità supersonica, per tornare a mani vuote. E sapeva che il computer centrale della nave lavorava ventiquattr’ore su ventiquattro per elaborare l’immensa quantità di dati che giungevano dai satelliti.
Sapeva anche che le coordinate che gli aveva fornito Giyani corrispondevano a una delle zone, segnalate durante la prima esplorazione, in cui la roccia era stata anticamente scavata.
— Quanto manca? chiese Giyani, mentre il sole scendeva a sfiorare una lontana catena di colline, sull’orizzonte occidentale.
Surgenor gettò un’occhiata alla mappa-radar, che con l’avvicinarsi dell’oscurità aveva cominciato a risplendere debolmente. — Un po’ meno di trenta chilometri.
— Bene. In perfetto orario. — Giyani appoggiò la mano al calcio della pistola.
— Avete intenzione di ammazzare qualche fantasma? — chiese Surgenor.
Giyani si guardò la mano, poi guardò Surgenor. — Scusate. Ho l’ordine di non discutere l’operazione con voi. Non c’è niente di personale, Dave, ma se avessimo un mezzo di superficie adatto, voi non sareste neppure qui.
— Però ci sono. E ho voglia di vedere come va a finire.
— Significa che le carte buone sono in mano vostra, vero?
— Non ci avevo pensato. — Surgenor guardò di malumore la distesa di sabbia che scorreva sui visori del modulo, mentre da bianca diventava rosso sangue, man mano che le ultime tracce di luce abbandonavano il cielo ad occidente. Fra pochi minuti sarebbe scesa la tipica notte saladiana: deserto nero e cielo pieno di stelle, così fitte che il normale ordine delle cose pareva sovvertito; la terra era morta, mentre il cielo diventava la sede della vita. Surgenor provò un desiderio acuto di tornare a bordo della Sarafand, di rimettersi in viaggio verso soli lontani.
Il tenente Kelvin si chinò in avanti e chiese a Giyani: — Quand’è che potremo vedere qualcosa?
— Da un momento all’altro, se la previsione del computer è esatta.
— Giyani, impassibile, osservò per un attimo Surgenor, pensando evidentemente se dovesse divulgare le informazioni in suo possesso, poi si strinse nelle spalle. — Secondo le indicazioni geodetiche, circa trecentomila anni fa, in questa zona, vennero eseguite modificazioni negli strati rocciosi, proprio nel periodo in cui i Saladiani costruivano le loro città. Negli ultimi dieci giorni i satelliti-spia hanno avvistato ben sette volte una città, ma non c’è nessuna garanzia, mi hanno detto, che il grafico delle apparizioni tracciato dal computer non sia puramente accidentale. Nel qual caso non troveremo altro che deserto.
— Cosa c’è di speciale in questo posto? — chiese Kelvin, facendo eco alla domanda che aveva attraversato anche la mente di Surgenor.
— Se è vero che i Saladiani possono muoversi nel tempo, come pensano alcuni dei nostri, la quasi-materializzazione degli edifici potrebbe essere una specie di prodotto secondario delle loro visite nel presente. A me sembra una gran balla, ma il colonnello mi ha detto che è un processo analogo a quello che avviene quando si esce da un edificio riscaldato, e si porta con sé un po’ di aria calda in un altro ambiente. Ogni volta che questa città è apparsa, i nostri rilevatori hanno individuato una figura che sembra essere quella di una donna, in piedi sulla parte meridionale dell’area.
Giyani tamburellò con le dita sul bracciolo. — Mi è stato anche detto che questa donna era reale. Reale come noi.
Mentre ascoltava le parole del maggiore, a Surgenor parve che la cabina del Modulo Cinque, nella quale aveva trascorso tante ore, avesse assunto un’aria strana. Per un attimo, i quadranti e i comandi persero qualsiasi significato, mentre la sua mente cercava di inseguire nuovi concetti. Faceva fatica ad ammettere a se stesso la paura che l’uomo, il perfezionatore di un modello di pensiero che aveva reso possibile il dominio delle tre dimensioni spaziali, aveva finalmente incontrato una cultura più saggia, che aveva esteso il suo potere sui lunghi, grigi estuari del tempo. Ma evidentemente altri uomini avevano pensato le stesse cose, ed erano giunti alle stesse conclusioni.
— C’è qualcosa là davanti, signore — disse Kelvin.
Giyani si voltò. Tutti e quattro, in silenzio, fissarono lo schermo anteriore, sul quale erano apparsi i contorni di una città fantasma, che si stendeva da un orizzonte all’altro. File regolari di luci brillavano là dove pochi secondi prima non vi era altro che sabbia e stelle.
I parallelepipedi trasparenti della città avevano un aspetto sorprendentemente terrestre, tranne che per un particolare: le file verticali di luci, simili a finestre, non erano esattamente sovrapposte ai contorni delle case. Era come se la città, pensò Surgenor, non apparisse così come era esistita in un momento definito del tempo, ma come in una profondità di campo temporale, che si stendeva per migliaia di anni, durante i quali la lentissima deriva dei continenti l’aveva spostata di parecchi metri, producendo così immagini multiple.
Nonostante la spiegazione di Giyani, o forse proprio a causa di quella, Surgenor provò un brivido. Cominciava a intuire gli straordinari obiettivi di quella piccola spedizione.
— Diminuite la velocità e proseguite il viaggio sul terreno — disse Giyani. — D’ora in poi non dobbiamo farci notare troppo. E spegnete anche le luci.
Surgenor disinserì i sospensori e portò la velocità a cinquanta chilometri all’ora. Viaggiando così adagio, e senza punti di riferimento, il modulo sembrava fermo. I soli suoni che si udivano nella cabina erano il respiro irregolare di Kelvin e una serie di piccoli rumori metallici provenienti dal fucile che il sergente stava controllando.
Giyani si voltò. — Da quanto tempo avete lasciato la Georgetown, sergente?
— Otto anni, signore.
— Un bel pezzo.
— Sissignore. — McErlain fece una pausa. — Non ho intenzione di sparare addosso a nessuno, a meno che non mi venga ordinato, se è questo che intendete, signore.
— Sergente! — La voce di Kelvin era scandalizzata. — Vi farò rapporto per…
— Non importa — disse Giyani tranquillamente. — Il sergente ed io ci capiamo benissimo.
L’incidente aveva distratto l’attenzione di Surgenor dall’incredibile paesaggio che avevano di fronte. Ora ricordava a che proposito aveva sentito parlare del sergente McErlain alla mensa della Sarafand.
Dieci o dodici anni prima la Georgetown aveva stabilito il contatto con una nuova specie intelligente, su un pianeta alle frontiere della Bolla. Durante un improvviso e terribile conflitto, i cui particolari non erano mai stati resi pubblici ufficialmente, tutti i maschi attivi del pianeta erano stati annientati. Il mondo era stato escluso dai normali contatti con la Federazione, per permettere alla sua ultima generazione di femmine e di maschi non funzionali di finire in pace i loro giorni. Il comandante della Georgetown era stato processato davanti a una corte marziale, e l’“incidente” era passato nel catalogo delle auto-accuse che l’umanità conservava al posto della memoria di razza.
— Procedete alla stessa velocità, finché non arriviamo ai confini sud della città — ordinò Giyani.
— Dovrò accendere le luci.
— Non è necessario. Questi edifici non esistono, se non in forma molto attenuata. Potete andare dritto.
Surgenor lasciò che il modulo proseguisse nella sua rotta, e gli edifici svanirono di fronte a lui come nebbia. Quando, secondo i suoi calcoli, raggiunsero il centro dell’antica città, non si vedeva altro che la pallida luce di un lampione, dalla curiosa forma trapezoidale, così debole che si sarebbe potuto scambiarla per un riflesso su un vetro lucido.
— Gli edifici non si sono materializzati — disse Kelvin. — Non si era mai avvicinato nessuno così, prima.
— Nessuno aveva avuto dati sufficienti — rispose Giyani distrattamente, seguendo con la punta di un dito la linea dei baffi. — Ho la sensazione che le previsioni del computer si avvereranno fino all’ultimo dettaglio.
— Volete dire…
— Esatto, tenente. Sono quasi sicuro che la nostra saladiana è incinta.