17

Una voce irata di donna fu seguita dal rantolo rauco di un uomo, e da un rumore irregolare di passi. Surgenor corse alla porta della sua cabina, l’aprì e vide Billy Narvik e Christine Holmes che lottavano, nel corridoio, a poca distanza da lui. La donna aveva la camicetta semislacciata e la faccia stravolta dalla collera. Narvik, che la teneva dal di dietro, aveva un alone scuro attorno alla bocca e i suoi occhi, sotto le palpebre tremule, mostravano solo il bianco. Sulla faccia aveva un’espressione estatica.

— Lasciala andare, Billy — ordinò Surgenor. — Lo sai che non è una buona idea.

— Posso sbrigarmela da sola -disse Christine con voce monotona, amara. Stava prendendo a calci le caviglie di Narvik, sistematicamente e con forza, ma l’uomo sembrava non accorgersene. Surgenor lo raggiunse e gli afferrò i polsi, cercando di staccargli le mani da Christine.

Rendendosi conto improvvisamente di una terza persona, Narvik spalancò gli occhi. La sua espressione si trasformò alla vista di Surgenor. — Lasciami fare, Dave — disse ansimando. — La voglio, e devo… Non resta altro.

Christine riprese i suoi sforzi per liberarsi, mentre Surgenor tirava con maggior forza i polsi di Narvik. L’uomo, benché più piccolo, era sorprendentemente forte, e per spezzare la sua presa Surgenor dovette piegarsi sulle ginocchia e abbassarsi in modo da poter esercitare maggior forza. Nel fare questo la sua guancia andò a sfiorare quella di Christine, e coi fianchi premette contro quelli di lei. Mentre quella intimità si prolungava per parecchi secondi, il trio rimase in un equilibrio teso, poi le braccia di Narvik cominciarono ad allentarsi.

— Dave, Dave! — cominciò con voce implorante Narvik, mentre era finalmente costretto a lasciare la presa. — Tu non capisci… sono anni che non riesco a…

Si interruppe. Christine era scivolata fuori dall’abbraccio, si era girata e contemporaneamente gli aveva dato uno schiaffo sulla bocca. Surgenor lasciò i polsi e l’uomo indietreggiò fino alla parete curva del corridoio. Si premette il dorso della mano sulla labbra, spostando lo sguardo accusatore da Surgenor a Christine.

— Ho capito! Ho capito! — Narvik fece una risatina isterica. — Ma sono solo due ore. A cosa servono due ore? — Si allontanò in direzione della scaletta, con passo ridicolmente dignitoso.

— Non avresti dovuto colpirlo — disse Surgenor. — Si vede che ha preso qualche droga.

— Questo lo autorizza a violentarmi? — Christine cominciò ad allacciarsi la camicetta.

— Non ho detto questo. — Surgenor la guardò con un senso di frustrazione, oscuramente irritato con lei perché era rimasta quello che era, perché non era riuscita a trasformarsi in un qualche modo indefinibile che l’avrebbe aiutato a vedere uno scopo nella vita o un significato nella morte. Gli era sembrato che avendo un termine di due ore segnato alla loro esistenza, fosse dovere dei membri dell’equipaggio trascendere la loro vecchia personalità, e rendere così, sia pure in modo simbolico, il breve tempo che restava loro degno di essere paragonato ai decenni futuri che venivano loro negati. Sapeva che la sua era una tipica reazione dovuta alla paura, che il suo subconscio, in uno sforzo di negare i fatti, aveva inventato dei falsi obiettivi a breve scadenza; ma una parte di lui si aggrappava a quell’illusione, e desiderava che Christine volesse essere quello che poteva essere.

— Torno nella mia stanza — disse lei. — E questa volta starò bene attenta che la porta sia chiusa.

— Sarebbe meglio essere con qualcuno.

La donna scosse la testa. — Tu fai a modo tuo; io farò a modo mio.

— Certo. — Surgenor stava pensando a qualcosa da dire, quando sentì delle grida confuse provenire dalla sala mensa. Provò un senso improvviso di sorpresa e di allarme. La forza dell’abitudine lo fece correre verso la scaletta, che scese precipitosamente incespicando. Il gruppo di uomini che aveva scelto di attendere l’ultima ora ubriacandosi, era sparso in vari punti della sala, alcuni di loro già inebetiti, ma tutti tenevano gli occhi fissi sull’imboccatura della scaletta metallica che conduceva all’hangar.

Surgenor raggiunse il pozzetto, si sporse dalla ringhiera e vide il corpo di Billy Narvik steso sul pavimento. Era in una posizione innaturale, immobile. Il solo movimento veniva da due rivoletti di sangue che gli uscivano da sotto il corpo, come tentacoli furtivi.

— Ha cercato di volare — disse qualcuno. — Giuro che credeva di poter volare.

— Anche questa è una via d’uscita — disse un altro. — Ma io preferisco aspettare.

Surgenor scese la scaletta e si inginocchiò vicino al corpo di Narvik, trovando conferma di quello che già sapeva. La gravità artificiale della Sarafand era inferiore a un G, ma l’impatto col pavimento metallico era stato sufficiente a spezzare il collo di Narvik. Surgenor volse lo sguardo ai moduli nei loro stalli, poi alle facce visibili nel pozzo delle scale.

— C’è qualcuno che vuol darmi una mano a spostarlo? — chiese. — È morto.

— Non ne vale la pena — disse Burt Schilling. — Non resterà lì a lungo.

Gli uomini appoggiati alla balaustra si allontanarono. Surgenor esitò. Sapeva che Schilling aveva ragione, ma non voleva lasciare i resti di un essere umano stesi sul pavimento dell’hangar come i rottami di una macchina. Afferrò Narvik per i polsi e lo trascinò verso il ripostiglio ricavato nella massiccia colonna che formava la spina dorsale della nave. Quando aprì la porta, le luci si accesero automaticamente. Nel pavimento era incassata una piastra circolare di metallo con incisi dei raggi, che indicava il centro di gravita della nave e i suoi assi maggiori, ad uso delle squadre di manutenzione. In quel momento, a Surgenor parve che fosse un simbolo cerimoniale adatto al morto. Trascinò il corpo nello stanzino e richiuse la porta.

— Ascolta queste parole, Aesop — disse.

— Ti ascolto, Dave. — La voce arrivava dalla penombra.

— Billy Narvik è caduto dalle scale dell’hangar un paio di minuti fa. L’ho esaminato. È morto. Ho messo il corpo nello stanzino degli attrezzi dell’hangar, e ti chiedo di sigillare la porta.

— Se è questo che vuoi, non ho obiezioni. — Si udì il suono soffocato dei chiavistelli elettronici che si chiudevano, diretti dall’unità centrale di Aesop, molto più in alto. Surgenor ritornò di sopra, e ignorando parecchie offerte di fermarsi a bere, attraversò la mensa e salì sul ponte superiore. Trovò Christine in cima alle scale, con la sigaretta in bocca e una mano sui fianchi, come se fosse in posa per una fotografia. Ancora una volta, sentì un moto irrazionale di rabbia.

— Hai sentito cos’è successo? — chiese, cercando di tenere un tono calmo.

— Più o meno. — Lo guardò impassibile, attraverso una nuvola di fumo.

— Non dovrai più preoccuparti di Billy Narvik.

— Non me ne sono mai preoccupata.

— Meglio per te. — Surgenor le passò a fianco, andò nella sua stanza e chiuse la porta col chiavistello. Si buttò sul letto, e immediatamente la sua mente venne attirata in un vortice di fantasticherie confuse.

Prima o poi, lo sapeva, tutti devono giocare la loro ultima partita, e nei rari momenti di malessere spirituale aveva cercato di immaginare come sarebbe stato il suo turno. La vita nel Servizio Cartografico non era particolarmente pericolosa, ma offriva alla ruota del caso una molteplicità di modi per fermarsi e far scattare la combinazione che segnava la fine di un giocatore. Si era immaginato strani guasti meccanici al suo modulo di esplorazione; il rischio di contrarre malattie esotiche; l’ironica possibilità di avere un incidente stradale sulla Terra… ma mai, neppure in un incubo, aveva previsto qualcosa di simile a quello che lo attendeva.

Dopo la conversazione con Mike Targett si era ritirato nella sua cabina e aveva parlato in privato con Aesop. Nella solitudine, lontano dalle distrazioni che gli sarebbero venute dalla presenza degli altri, era stato in grado di assorbire la notizia che Aesop stava elaborando una serie di leggi fisiche per il loro microcosmo. Le leggi erano ancora poche, data la scarsità di dati, ma la terza era quella più importante per loro. Affermava, semplicemente, che la velocità alla quale ciascun corpo si restringe all’interno di un vortice è inversamente proporzionale alla sua massa.

In termini pratici, significava che un sole avrebbe impiegato molti milioni di anni per raggiungere dimensioni zero, mentre lo stesso destino sarebbe toccato a un corpo delle dimensioni di un’astronave in meno di un giorno. Le equazioni esponenziali derivate da Aesop mediante successive misurazioni gravitoniche indicavano che alle 21.37 la Sarafand e tutto il suo equipaggio avrebbero cessato di esistere.

Surgenor fissò il soffitto della sua stanza, cercando di capire quello che gli aveva detto Aesop.

L’orologio sulla parete segnava le 20.05, il che significava che restavano circa una novantina di minuti. Significava inoltre, secondo i calcoli di Aesop, che la Sarafand, un tempo una piramide di metallo alta ottanta metri, era ridotta alle dimensioni di un giocattolo. Il pensiero che la nave ormai non era più grande di un fermacarte indignava Surgenor, e il corollario che il suo stesso corpo era stato ridotto in proporzione, lo rendeva nello stesso tempo terrorizzato e incredulo.

Continuava a ripetersi che doveva esserci un limite a quello che poteva essere dedotto da un paio di misurazioni astronomiche. Dopo tutto, quali erano i fatti concreti su cui basarsi? La luce delle stelle dell’ammasso mostrava un certo spostamento verso il blu, ed Aesop (un computer non infallibile, come dimostrava proprio la loro presenza lì) diceva che questa era la prova che le stelle si muovevano verso l’interno. Ma era poi vero? Non era forse un fatto che nessuno finora aveva realmente misurato la velocità di una stella o di una galassia?, e che l’intero edificio concettuale di sistemi in contrazione o in espansione dipendevano dall’interpretare lo spostamento verso il rosso o verso il blu come un effetto Doppler? Qualcuno aveva mai provato, al di là di ogni dubbio, che questa interpretazione fosse corretta?

Surgenor fece un sorriso privo di allegria, accorgendosi di quanto fosse inutile il suo tentativo di misurarsi, armato delle sue conoscenze astronomiche superficiali, con le potenzialità enormi dei banchi mnemonici e delle unità di elaborazione di Aesop. Tutto quello che aveva provato era che aveva tanta paura di ciò che lo attendeva da lasciarsi andare alle fantasie. La realtà era che stava nel Servizio da troppo tempo e aveva viaggiato troppo lontano, che non aveva più tempo, che era troppo tardi per smettere di essere uno straniero volontario, che non avrebbe mai compiuto i viaggi veri e significativi, quelli fatti da coloro che restano abbastanza a lungo in un posto per conoscere l’avvicendarsi delle stagioni, che era completamente solo e lo sarebbe stato per tutto il resto della sua vita, che era stato tutto uno spaventoso errore, e che ormai non poteva più farci niente…

Le cifre rosse dell’orologio digitale continuavano a scorrere, rosicchiando la vita di Surgenor, e lui le guardava come affascinato. Di tanto in tanto, una risata rauca o il rumore di un bicchiere che si rompeva lo raggiungeva dalla mensa, ma la loro frequenza diminuì, mentre il tempo concesso passava e l’alcool faceva effetto. Alcuni avevano deciso di trascorrere la loro ultima ora nella sala di osservazione. L’idea di unirsi a loro lo tentò parecchie volte, ma questo avrebbe significato prendere una decisione e metterla in pratica, e quello sforzo sembrava troppo grande. Un torpore pietoso si era impadronito di lui, trasformando le sue membra in pezzi di piombo privi di sensazioni, rallentando i suoi processi mentali sino al punto che gli ci voleva un minuto intero per completare un solo pensiero.

«Ho… visto… troppe… stelle».

Il bussare sommesso alla porta gli parve qualcosa che appartenesse a un altro luogo e a un altro tempo. Ascoltò senza comprendere, poi guardò l’orologio. Restavano venti minuti. Si alzò con uno sforzo, raggiunse la porta e l’aprì con dita incerte. Christine Holmes era in piedi nel corridoio, che lo guardava con occhi pieni di pena.

— Credo di aver fatto un errore — disse a bassa voce. — È tutto troppo…

— Non occorre che tu dica niente. Va tutto bene. — Spalancò la porta, facendola entrare, poi la chiuse di nuovo. Quando si voltò, Christine era in mezzo alla stanza, con la schiena rivolta verso di lui, le spalle curve. Andò da lei, e intuendo in qualche modo la cosa giusta da fare, la prese fra le braccia e la mise sul letto. Lei continuò a guardarlo, mentre le puliva la camicetta e i pantaloni dalla cenere e le si stendeva a fianco, prendendola fra le braccia. La baciò una volta, gentilmente, senza passione, prima di posare la testa sul cuscino. Lei sollevò un ginocchio in modo da appoggiarglielo sulla coscia. Nella stanza non si sentiva nessun rumore.

Restavano quindici minuti.

Christine sollevò la testa e lo guardò, e questa volta Surgenor trovò difficile scorgere tracce di durezza sulla sua faccia. — Non te l’ho mai detto. Mio figlio è morto appena prima di nascere. Ero in un cantiere su Newhome. Il dottore non c’era. Sentivo il bambino morire, ma non potevo aiutarlo. Era qui, dentro di me, e non potevo fare niente per aiutarlo.

— Mi dispiace.

— Grazie. Non l’ho mai detto a nessuno, vedi. Non sono mai riuscita a parlarne.

— Non è stata colpa tua, Chris. — Le fece appoggiare la testa sulla sua spalla.

— Se solo me ne fossi stata a casa. Se solo avessi aspettato Martin a casa.

— Non potevi saperlo. — Surgenor pronunciò la formula rituale di assoluzione senza alcun imbarazzo, poiché capiva che l’assoluta unicità di ogni essere umano e di ogni circostanza umana dava alle parole un nuovo significato. — Non pensarci.

«Non rattristarti ripensando a sfortune passate» pensò. «Non ora».

Dieci minuti.

— Martin non mi perdonò mai. Morì nel crollo di una galleria, ma questo successe quattro anni dopo che ci eravamo separati. Perciò ti ho detto una bugia stamattina, Dave. Non avevo un marito che è morto… mi ha lasciato per quello che avevo fatto, ed è morto qualche anno dopo. Da solo.

«Stamattina?» Per un attimo Surgenor restò sconcertato. «Ma di cosa sta parlando?» Ripensò agli avvenimenti recenti, e provò una sorta di torpido stupore accorgendosi che era passato meno di un giorno da quando era uscito dall’albergo, in una mattina chiara sotto un cielo azzurro, su un pianeta lontano trenta milioni di anni-luce. «Sono come in una morsa, fra il macrocosmo e il microcosmo. Cosa succederà quando il diametro delle mie pupille sarà inferiore alla lunghezza d’onda della luce?»

Cinque minuti.

«Tu non l’avresti fatto, vero, Dave? Non avresti dato tutta la colpa a me?»

— Non hai alcuna colpa, Chris. Credimi. — Perché le parole non restassero solo parole, Surgenor la strinse più forte fra le braccia, e sentì Christine stringersi a lui. «Non è brutto come prima» pensò con stupore. «Aiuta avere qualcuno…» Nessun minuto.

Nessun secondo.

Nessun tempo.

Il primo suono della nuova esistenza fu uno scampanio.

Fu seguito dalla voce di Aesop che faceva una comunicazione generale.

— … fuori non c’è niente. La nave e tutti i suoi sistemi sono intatti, ma fuori non c’è niente. Né stelle, né galassie, ne alcun genere di radiazioni… solo il buio. Pare che abbiamo un intero continuum tutto per noi.

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