18

Surgenor si ritrovò a correre verso la sala di osservazione.

Provava una gioia indicibile per essere ancora vivo contro tutte le previsioni, ma la sensazione era bilanciata da un nuovo timore, non ancora ben definito, e gli sembrava assolutamente indispensabile che guardasse l’universo con i suoi occhi. Due uomini, Mossbake e Kessler, uscirono barcollando dalla sala di osservazione, con un’espressione ottusa di trionfo e di sorpresa. Surgenor passò loro a fianco e raggiunse la balconata. L’oscurità che li circondava era completa. La guardò, assorbendone l’impatto psicologico, poi si sedette vicino ad Al Gillespie.

— È stato un fenomeno istantaneo — disse Gillespie. — Il cielo sembrava lo stesso fino all’ultimissimo istante. Poi ho avuto la sensazione che le stelle cambiassero colore… poi questo. Niente!

Surgenor guardò nell’oceano di notte, scrutando in tutte le direzioni, mentre i suoi nervi ottici registravano falsi bagliori luminosi, creando e distruggendo immediatamente galassie lontane. Solo con uno sforzo di volontà riuscì a trattenersi dallo scuotere la testa in segno negativo.

— Pare che la legge della conservazione sia sempre valida — disse Gillespie quasi a se stesso. — Materia ed energia non si distruggono. Quello che entra in un buco nero esce da un buco bianco. Quello che entra in un vortice… esce in un continuum tutto per lui.

— Abbiamo solo la parola di Aesop. Dove sono le stelle che ci devono aver preceduto?

— Non guardare me, amico.

— Ascolta queste parole, Aesop — disse Surgenor. — Come fai a sapere che i tuoi sensori funzionano a dovere?

— Lo so perché me lo dicono i miei triplici circuiti di controllo — rispose Aesop.

— La triplicazione non significa un bel niente, se ogni circuito ha subito la stessa avaria.

— David, stai esprimendo opinioni su un argomento molto complesso, e sul quale, secondo il tuo dossier personale, non hai alcuna qualifica o esperienza. — La scelta di parole operata dal computer tramutò un’affermazione di fatto in un rimprovero.

— Per quanto riguarda il passaggio attraverso un vortice — rispose Surgenor ostinato — io ho tanta esperienza quanta ne hai tu. E voglio andare a vedere dagli oblò.

— Non ho niente da obiettare. Anche se la richiesta è insolita.

— Bene! — Surgenor si alzò e guardò Gillespie. — Vieni anche tu?

Gillespie annuì e si alzò. I due lasciarono la sala. Mentre salivano si unì a loro Mike Targett, che pareva intuire dove fossero diretti. Raggiunsero il primo dei ponti occupati dal computer, dove i banchi dei dati geognostici occupavano file e file di armadietti metallici, poi si arrampicarono su una scaletta metallica poco usata, che conduceva alle unità centrali di elaborazione di Aesop.

Massicce porte a tenuta stagna si aprirono su una passerella circolare che passava a fianco di una foresta di cavi multicolori, la complessa spina dorsale che connetteva il cervello della Sarafand al suo corpo. Il computer vero e proprio era ancora sopra di loro, dietro a portelli che potevano essere aperti solo dalle squadre di manutenzione. Lungo la passerella, a quattro punti equidistanti, vi era una serie di oblò circolari che permettevano una visione diretta dell’esterno. I progettisti di astronavi avevano una forte avversione a praticare buchi negli scafi pressurizzati, e nel caso della Classe Sei avevano previsto a malincuore quattro piccole finestre trasparenti in una parte della nave che poteva essere sigillata ermeticamente dagli altri livelli.

Surgenor andò all’oblò più vicino, e vi scorse solo la faccia di un uomo che lo guardava. Scrutò il suo riflesso per un minuto, cercando invano di scorgere qualcosa dall’altra parte, poi chiese ad Aesop di spegnere le luci. Immediatamente il ponte piombò nell’oscurità. Surgenor guardò fuori, e il buio era simile a un nemico in agguato.

— Non c’è niente là fuori — sussurrò Targett che era vicino a un altro oblò.

— È come se fossimo immersi nella pece.

— Posso assicurarvi — disse Aesop inaspettatamente — che lo spazio che ci circonda è più trasparente di quello interstellare. La quantità di materia per metro cubo è esattamente zero. In queste condizioni i miei telescopi potrebbero individuare una galassia distante miliardi di anni-luce… ma non ce ne sono.

— Riaccendi pure la luce, Aesop. — Surgenor resistette all’impulso di scusarsi con il computer per aver dubitato della sua parola. Si sentì sollevato quando le luci tornarono a brillare, chiudendo gli oblò coi loro riflessi.

— Be’, non siamo morti… almeno non credo… ma questa volta è ancora peggio di prima — disse Targett. Alzò le mani osservandosi le dita, accigliato. Gillespie lo guardò incuriosito. — Tremi?

— No. Non ancora. Un vecchio filosofo classico, Kant mi pare, parlò una volta di una situazione vagamente simile a questa. Diceva: immaginiamo che non esista assolutamente niente nell’universo tranne una mano umana; saremmo in grado di riconoscere se si tratta della destra o della sinistra? Secondo lui sì, e questa doveva essere la prova che vi è una direzionalità nello spazio stesso; ma si sbagliava. Speculazioni successive portarono al concetto di rotazione attraverso uno spazio a quattro dimensioni…

Targett si interruppe, e la sua faccia giovanile sembrò raggrinzirsi, dandogli un’aria da vecchio. — Oh, Gesù… che cosa faremo? — Non possiamo fare altro che conservare la calma — disse Surgenor. — Dieci minuti fa credevamo di essere finiti.

— Questa volta è diverso, Dave. Non ci sono più fattori esterni. Questa volta ci siamo solo noi.

— A proposito — disse Gillespie — sarà meglio convocare un’altra riunione, non appena la sbronza sarà passata.

— Ne vale la pena? Non abbiamo fatto altro finora, e forse è meglio che continuino a restare ubriachi.

— È questo il punto. I liquori sono cibo. Contengono molte calorie, e dovranno essere razionati, come tutto il resto.

La riunione venne convocata per mezzanotte, ora di bordo, il che lasciò a Surgenor due ore in cui pensare. Pensare alla morte: morte per fame, morte per solitudine, in un continuum nero e vuoto, morte per ipotermia spirituale. Si aggirò per la nave, invece di ritornare nella sua stanza, ma questo servì solo a moltiplicare il suo senso di disagio. Se si impegnava in qualche lavoretto, per alcuni minuti il pensiero della sua disperata condizione lo abbandonava; poi, quando il lavoro era quasi finito, una voce interiore cominciava a dirgli che era tempo di pensare di nuovo alla situazione generale, e i suoi pensieri tornavano a vorticare.

Una volta incontrò Christine Holmes nel corridoio delle cabine, e cercò di parlarle, ma lei gli passò accanto con lo sguardo impersonale di una straniera, e lui capì che nessuno dei due aveva qualcosa da dare o da ricevere. Continuò a muoversi, a lavorare, a parlare, e accolse con sollievo l’ora fissata, quando gli undici membri sopravvissuti della Sarafand si riunirono al lungo tavolo della mensa. Le “finestre” che si aprivano lungo la parete semicircolare erano nere, come si addiceva all’ora notturna, ma le luci della sala, gialle arancione e bianche, creavano un’atmosfera di calore e sicurezza.

Prima che la riunione si aprisse, Gillespie prese da parte Surgenor. — Dave, cosa ne dici se tanto per cambiare parlo io?

— Per me va bene. — Surgenor gli sorrise, apprezzando d’improvviso il fatto che l’ex-commesso dell’Idaho avesse acquisito una nuova statura. — Ti sosterrò io, questa volta.

Gillespie si mise a capotavola, e restò lì in piedi finché gli altri non si furono seduti. — Credo sia inutile dire che siamo in un grosso guaio. Così grosso che nessuno di noi riesce a vedere una via di uscita. Neppure il Capitano Aesop. Comunque, così come abbiamo fatto quando credevamo di poter raggiungere un pianeta, dobbiamo stabilire delle regole. E le seguiremo finché sarà possibile.

— Tutti sull’attenti: petto in fuori e pancia in dentro — mormorò Burt Schilling. Aveva preso due pasticche di Antox, ma nei suoi occhi c’era una fissità cupa, che indicava come fosse ancora ubriaco. — La maggior parte delle regole riguarderà naturalmente l’uso delle riserve di cibo — continuò imperturbabile Gillespie, dando un’occhiata ai suoi appunti. — Penso che tutti vogliamo prolungare la nostra vita… ma non oltre un periodo ragionevole, non in condizioni tali da renderla priva di significato. Per questa ragione propongo razioni giornaliere di mille calorie, in cibo solido e bevande non alcooliche, a persona. Aesop mi ha fornito un inventario, e con mille calorie al giorno abbiamo abbastanza cibo per ottantaquattro giorni.

«Prima di allora saremo vecchi» pensò Surgenor. «Non è molto tempo, ma quando sarà passato, saremo ridotti a niente».

— Naturalmente perderemo un bel po’ di peso, ma Aesop dice che il giusto equilibrio di proteine, grassi e carboidrati ci terrà in buona salute. — Gillespie fece una pausa, guardando gli uomini seduti attorno al tavolo. — Poi c’è il problema dei liquori, che non è così facile da risolvere. Prendendo lo stesso periodo di ottantaquattro giorni, avremmo ciascuno trecento calorie al giorno in birra e vino, e duecentoquaranta in liquori. Dobbiamo decidere se vogliamo dividere anche queste in razioni giornaliere, o se preferiamo lasciarle per…?

— Sono stufo di stare a sentire tutte queste scemenze — annunciò Schilling dando un pugno sul tavolo. — Non abbiamo bisogno di regole sul bere. Gillespie restò calmo. — Cibi e bevande devono essere equamente distribuiti.

— La cosa non mi riguarda — disse Schilling. — Non ho nessuna intenzione di starmene qui a far la fame per altri tre mesi. Non voglio cibo: prendo la mia razione in liquori. Tutta in liquori.

— Non puoi farlo.

— E perché no? — Schilling cercò di assumere un tono ragionevole. — Significherebbe una maggiore quantità di cibo solido per quelli che ne hanno voglia.

Gillespie appoggiò il blocco con gli appunti sul tavolo e si chinò verso di lui.

— Perché in un paio di settimane potresti ingoiare facilmente tutta la tua razione; poi, tornato lucido, decideresti di non essere ancora pronto a morire di fame, e gli altri dovrebbero nutrirti. Ecco perché.

Schilling sbuffò. — Va bene, va bene. Mi metterò d’accordo coi miei amici: il mio cibo per i loro liquori.

— Non potremo permettere neppure questo — disse Gillespie. — Porterebbe al medesimo risultato.

Ascoltando la discussione, Surgenor, pur essendo in linea di massima d’accordo con Gillespie, non poté fare a meno di pensare che fosse necessaria una certa flessibilità. Stava pensando a come esprimere la sua opinione senza aver l’aria di andare contro Gillespie, quando Wilbur Desanto, il nuovo compagno di Gillespie sul Modulo Due, alzò la mano.

— Scusa, Al — disse con aria triste. — Tutti questi calcoli si basano su undici persone, per l’intero periodo. E se qualcuno volesse finirla subito?

— Vorresti dire se volesse suicidarsi? — Gillespie considerò l’idea per un momento, poi scosse la testa. — Nessuno vorrà farlo.

— Davvero? — Desanto rivolse agli altri un sorriso timido. — Forse Billy Narvik ha avuto l’idea giusta.

— Narvik era drogato, ed è caduto per errore.

— Tu non c’eri — intervenne Schilling. — Si è lanciato in volo. Lui voleva farlo, te lo dico io.

Gillespie sbuffò impaziente. — Narvik è il solo che possa darci una risposta, perciò se vedete il suo fantasma uscire dal ripostiglio fatemelo sapere, va bene?

— Studiò le facce degli altri, per assicurarsi che il suo sarcasmo non fosse andato sprecato. — E finché non succede, gradirei dedicarmi ai vivi, d’accordo?

Desanto alzò ancora la mano. — Cosa rispondi, Al? Come deve fare chi vuole farla finita in fretta? Glieli fornirà Aesop i mezzi?

— Per l’ultima volta…

— È una domanda legittima — disse Surgenor a bassa voce. — Penso che abbia diritto a una risposta.

Gillespie assunse un’espressione risentita. — Tanto per cominciare, Aesop non ha medicine di questo genere fra le sue scorte. È programmato per tornare alla più vicina base del Servizio nel caso che qualche uomo contragga una malattia seria.

— Ecco la soluzione! — Victor Voysey spalancò le braccia. — Qualcuno dovrebbe farsi venire un’appendicite, e Aesop sarebbe costretto a riportarci a casa!

— In ogni caso — continuò Gillespie, ignorando l’interruzione — Aesop non aiuterà mai un uomo a uccidersi, in qualunque circostanza.

— Proviamo a chiederglielo, tanto per essere sicuri.

— No! — La voce di Gillespie era dura. — Lo scopo di questa riunione è di discutere sul modo migliore per restare vivi. Chiunque voglia parlare con Aesop su come suicidarsi, può farlo in privato, nella sua stanza, ma mi pare che qualunque imbecille dovrebbe essere capace di arrangiarsi, senza l’aiuto di uno schifosissimo computer. Mi sembra che non ci voglia poi una grande immaginazione, e che chiunque voglia ammazzarsi davvero, possa farlo senza tanto baccano e senza farci perdere tempo alle riunioni.

— Grazie, Al. — Desanto si alzò e fece un piccolo inchino. — Mi scuso per aver sprecato un po’ del vostro prezioso tempo. — Spinse indietro la sedia, raggiunse la scaletta e salì verso le cabine, annuendo pensosamente fra sé.

— Qualcuno dovrebbe andare a vedere cosa fa — disse nervosamente Mossbake.

— Non ce n’è bisogno — replicò Gillespie. — Wilbur non si ammazzerebbe neppure se ne andasse della sua vita. Lo conosco. Si è offeso perché l’ho trattato male.

La riunione riprese in un’atmosfera nettamente diversa da prima. Perfino Schilling votò a favore delle mozioni finali. Surgenor, nonostante le sue riserve, dovette ammettere che il metodo rigido adottato da Gillespie era servito a dare un po’ di disciplina. Al faceva quello che lui stesso aveva fatto tante volte nel passato: occupare il vuoto di comando, rendersi un bersaglio tangibile ed identificabile per le emozioni negative che gli esseri umani provano sempre quando le cose cominciano ad andare storte.

Era una posizione coraggiosa, date le circostanze. La nave non era che una sottile bolla di luce e di calore, circondata da un nero oceano di vuoto, e non c’era altra prospettiva se non quella di un peggioramento continuo, finché il capitano e i suoi allegri marinai non sarebbero stati tutti morti. C’era da aspettarsi un sacco di emozioni negative prima della fine.

— Credo che per oggi basti — disse Gillespie un’ora dopo, guardando l’orologio. — È l’una passata, ed è ora che andiamo a riposare.

— Direi proprio — grugnì Kessler. Tutti si alzarono, guardandosi l’un l’altro incerti.

Gillespie diede un colpo di tosse per richiamare l’attenzione. — Un’ultima cosa. Il razionamento dei liquori che abbiamo votato si applica alle riserve ufficiali della nave, non a quelle personali. Non so se mi spiego.

Si alzò subito un brusio eccitato. Gli uomini, che avevano accettato a malincuore l’austerità, si vedevano offrire la prospettiva inattesa di un’ultima sbornia, in grado di offrire loro un po’ di pace e di oblio. Coloro che non avevano riserve personali di intossicanti guardavano speranzosi quelli che notoriamente ne erano forniti, e cominciarono ad affollarsi intorno a loro con offerte di sigari e di dolci fatti in casa, senza i quali, affermavano, nessuna festa poteva riuscire. L’allentarsi della tensione, unita alla consapevolezza che la pausa sarebbe stata di breve durata, indusse i più giovani, come Rizno e Mossbake, a una rumorosa ilarità.

— Bel colpo — mormorò Surgenor a Gillespie. — Non c’è niente come i postumi di una sbronza carnevalesca per rendere attraente l’idea della quaresima.

Gillespie annuì con aria soddisfatta. — Ho una bottiglia di cognac nella mia stanza. Andiamo a dividercela?

Surgenor annuì, guardando Christine Holmes, che si era separata dagli altri e stava salendo la scaletta. Improvvisamente, rendendosi conto di dove stava andando, si scusò e la seguì in fretta. Salì i gradini due alla volta, entrò nel corridoio e la trovò vicino alla porta numero 4 con le orecchie tese. Era la stanza di Wilbur Desanto.

— Ho bussato un paio di volte — disse quando le si fermò vicino. — Non risponde.

Surgenor spalancò la porta. La stanza era quasi completamente buia, tranne che per la luce proveniente da un micro-lettore che proiettava una pagina sul soffitto. Desanto era steso sul letto, immobile, con la faccia voltata verso la parete. Surgenor accese la luce, e Desanto si sollevò su un gomito, con un sorriso forzato.

— Che c’è? La riunione è finita?

— Perché non hai risposto quando ho bussato? — chiese Christine da dietro le spalle di Surgenor.

— Credo di essermi appisolato. Ma perché tanta agitazione?

— C’è una festa in corso di sotto, se la cosa ti interessa. — Surgenor chiuse la porta, e guardò Christine, che aveva un’espressione infuriata sulla faccia.

— Scommetto che l’ha fatto apposta — mormorò duramente. — E io ci sono cascata.

— Non è il caso di metterla in questi termini; non sei cascata in un bel niente.

— Surgenor intuì che correva un rischio, ma continuò. — Credevi che avesse cercato di uccidersi, ed eri preoccupata per lui, anche se lo conoscevi appena. È un bene, Chris, dimostra che…

— Che sono ancora umana? Nonostante tutto? — La donna quasi sorrise, cercando le sigarette. — Fammi un favore, Dave, dimenticati che sono venuta nella tua stanza. Le ritrattazioni sul letto di morte non valgono un accidente.

Surgenor girò la testa, sentendo Gillespie salire le scale. — Al ed io stappiamo una bottiglia di brandy. Non vuoi…

— C’è più baldoria di sotto. — Si allontanò da lui, passò a fianco di Gillespie e scese la scaletta, aiutandosi da esperta con le braccia in modo da scendere quasi in scivolata.

— Ehi, Dave, che cosa hai in mente? — chiese Gillespie, lanciandogli un’occhiata perplessa.

— Di cosa stai parlando? — Surgenor si ricordò di come l’aveva guardato Billy Narvik dopo la loro lotta, in quello stesso corridoio, e venne assalito dall’indignazione. — Cosa ti viene in mente, Al? Ti sembra forse il mio tipo?

— Non sembra il tipo di nessuno, ma non c’è altro da queste parti.

— È tutta scena, sai. Chris ha passato dei brutti momenti, e non vuole correre il rischio che gli succeda ancora, perciò… — Surgenor preferì lasciar perdere, vedendo Gillespie alzare le sopracciglia. — Ma che ce ne stiamo a fare qui? Vogliamo far invecchiare il brandy?

Entrarono nella cabina a fianco di quella di Desanto, e Gillespie tirò fuori due bicchieri e una bottiglia nuova fiammante di brandy distillato. — Me lo tenevo per bermene un bicchierino ogni sera. Doveva durare trenta giorni, ma preferisco vederla sparire in una sera, e dimenticare le razioni.

— Ti dimenticherai anche di tutto il resto.

— E allora?

— Allora… — Surgenor gli porse il bicchiere e lo osservò trasformarsi in una sfera di sole. — Brindiamo all’amnesia.

— Che possa regnare a lungo.

I due restarono seduti in silenzio, bevendo adagio ma senza interruzioni, assaporando quella fuga dalla realtà. I ricordi più piacevoli che Surgenor aveva della sua carriera nel Servizio erano quelli di lunghe chiacchierate, che a volte duravano tutta la notte, mentre l’astronave era in orbita attorno a una stella, e gli uomini si ritrovavano insieme, uniti da un’acuta consapevolezza della loro comune umanità. Questa volta quella sensazione era ancora più accentuata. Dopo essere stata sbattuta dalle correnti e dalle tempeste dello spazio, la nave si trovava in una zona di bonaccia, in un mare nero e senza limiti. Un infinito fatto di vuoto premeva contro il suo guscio, e tutti coloro che erano a bordo sapevano che l’avventura era finita, perché in un continuum dove non esisteva niente, non poteva accadere niente. Nessuna sorpresa li attendeva, tranne che per quelle inaspettate scoperte che un essere umano può fare su se stesso, e dunque l’unica cosa da fare era concentrarsi sul proprio essere uomini, o non uomini, o più che uomini. Domani sarebbe stato difficile, perché cominciava il conto alla rovescia verso la morte, ma per il momento…

— Albert Gillespie e David Surgenor! — La voce di Aesop fece sobbalzare Surgenor dal suo stato di semi-incoscienza. — Se mi ascoltate, rispondete, prego.

Rispose Gillespie, dal momento che il suo nome era stato chiamato per primo.

— Ascolta queste parole, Aesop. Ti sentiamo. — Guardò Surgenor con occhi spalancati, posando il bicchiere.

— Le circostanze inconsuete nelle quali ci troviamo hanno portato ad alcuni mutamenti nelle mie relazioni con i membri dell’equipaggio — disse Aesop. — Come ha già fatto notare Michael Targett, io sono solo un computer, e le mie competenze sono necessariamente limitate ai miei programmi. Questa intrinseca limitazione è determinata, come abbiamo avuto modo di constatare, dall’incapacità dei programmatori di prevedere tutte le possibili circostanze. Capite quello che voglio dire?

— Certo. — Gillespie si raddrizzò. — Aesop, vorresti dire che hai fatto un errore nella valutazione di quello che è fuori dalla nave?

— Non su quello che è fuori. Ma all’interno si sta verificando un evento che non sono in grado di spiegare, e che sembra andare al di là di tutti i miei schemi di riferimento.

— Aesop, non farci stare sulle spine — intervenne Surgenor. — Che cosa è successo? Perché ci hai chiamato?

— Prima di descrivere il fenomeno, desidero chiarire la mia posizione riguardo ai rapporti con l’equipaggio. In circostanze normali gli annunci importanti li faccio a tutti simultaneamente; ma non sono in grado di stimare gli effetti psicologici di quello che sto per dire, e temo che possano essere dannosi. Voi due avete assunto una posizione di responsabilità; siete disposti ad accettare l’ulteriore responsabilità di trasmettere il mio messaggio nella forma che riterrete più adatta agli altri membri dell’equipaggio?

— L’accettiamo — dissero Surgenor e Gillespie insieme. Surgenor, che sentiva il cuore battergli forte, maledì la tendenza disumana di Aesop alla prolissità.

— Prendo nota che avete accettato — disse Aesop. Seguì una pausa che accrebbe il disagio di Surgenor.

— Aesop, ti dispiacerebbe…

— Albert, alle ore zero zero, zero nove, durante la riunione generale, hai detto queste parole a proposito del defunto William Narvik: «Se vedete il suo fantasma uscire dal ripostiglio, fatemelo sapere». Ricordi di averlo detto?

— Certo che lo ricordo — disse Gillespie — ma era solo una battuta, per l’amor di Dio. Ci hai già sentito altre volte fare battute del genere.

— Sono a conoscenza di tutti i vari tropi connessi all’umorismo. Sono anche a conoscenza di vari scritti di argomento religioso, metafisico e superstizioso, che descrivono un fantasma come un’emanazione bianca e nebbiosa, luminescente.

«Vi informo che un oggetto dai tipici attributi di un fantasma sta emergendo dal corpo di William Narvik.

— Balle — disse Surgenor, e ripeté fra sé la parola più volte, mentre insieme a Gillespie raggiungeva il piano inferiore, attraversava la mensa, e scendeva la scaletta che conduceva all’hangar. Lo stava ancora ripetendo, quando la porta del ripostiglio si aprì all’ordine di Aesop e vide avvolta attorno al petto di Billy Narvik, una nuvola di luce bianca e fredda, a forma di lente.

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