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— Ascolta queste parole, Aesop — disse Surgenor. Aveva finito di riporre le sue cose nella valigetta da viaggio in fibra di vetro e si stava preparando a lasciare la stanza che era stata la sua sola dimora per quasi vent’anni. Era una stanza piccola e disadorna, poco più di una scatola di metallo provvista dei servizi indispensabili, ma all’ultimo momento si sentiva riluttante a lasciarla.

— Ti ascolto, David. — La voce di Aesop, a causa del silenzio nella nave, sembrava più alta del solito.

— Io… questa probabilmente è l’ultima volta che noi ci parliamo.

— Dal momento che tu stai per lasciare la nave, e io sarò messo fuori servizio fra sedici minuti, è certamente l’ultima volta che parli con me. Che cosa vuoi?

— Ecco… — Surgenor pensò a quanto fosse stupido dire addio a un computer, o chiedergli come si sentiva di fronte alla morte imminente. — Volevo solo vedere se funzionavi ancora.

Vi fu un silenzio prolungato, poi Surgenor si rese conto che Aesop, avendo dimostrato di essere ancora in perfetta efficienza, aveva pensato che non occorreva dire altro. «È perfettamente logico» pensò Surgenor prendendo la valigia. Uscì dalla stanza, percorse il corridoio semicircolare e scese la scaletta fino alla mensa. Vi erano dei tavoli in più, ancora ingombri di bicchieri vuoti e di piatti, i resti della conferenza stampa che si era tenuta la mattina. Un sigaro mezzo fumato era stato schiacciato sul pavimento, e Surgenor lo gettò di lato con un calcio. Scese la scaletta che portava all’hangar.

Per misura di sicurezza il buco che lui e gli altri avevano scavato con i laser nel pavimento era stato delimitato con puntelli e una corda rossa. Anche parte della parete dello sgabuzzino era stata tagliata, e il metallo raggrinzito dal calore stava a testimoniare della fretta con cui era stato eseguito il lavoro. Surgenor guardò giù nella sala macchine, immersa nel buio, ripensando a quelle ore di frenetica attività che avevano prodotto tanto sconquasso nella struttura della Sarafand.

Il taglio delle paratie si era reso necessario per due ragioni: la prima, per permettere ai microscopi di Aesop di osservare senza intralci il punto immaginario che costituiva il centro di gravita della nave ; la seconda, per poter disporre di una massa in più da trasportare rapidamente da una parte dell’hangar, spostando in tal modo, per quanto di poco, il centro di gravita della nave. La maggior parte dello spostamento di massa, tuttavia, era stato ottenuto muovendo due dei moduli di esplorazione fuori dai loro stalli, in base alle istruzioni precise e millimetriche di Aesop.

Surgenor ne sapeva poco di matematica superiore, ma aveva la sensazione che Mike Targett, il giovane eroe del momento, fosse stato fin troppo sicuro di sé, e adesso fosse fin troppo compiaciuto, per quello che avevano fatto. Avevano lasciato che la nave completasse ancora una volta il ciclo contrazione-espansione, per permettere a Aesop di orientarsi meglio fra l’infinità di galassie e di calcolare il nuovo centro di gravita. Questa volta, al momento dell’inversione, non avevano guardato fuori della nave, ma si erano invece radunati attorno allo stanzino degli attrezzi, e avevano visto un puntino di luce vivissima apparire al centro del reticolo improvvisato sistemato nel buco aperto nel pavimento.

Il senso di timore riverenziale che Surgenor aveva provato in quel momento, ritornò in lui, rafforzandolo nella sua opinione che la Sarafand e il suo equipaggio, in fin dei conti, erano stati fortunati. Erano restati intrappolati in una pericolosa tenaglia matematica. La massa della nave era tale che avevano potuto spostare il suo centro di gravita solo di due centimetri; ma ad un certo stadio del ciclo, quei due centimetri sarebbero stati sufficienti a farli finire cento volte più lontani dalla Via Lattea dei trenta milioni di anni-luce originari, mentre in un altro stadio sarebbero serviti solo a farli piombare in una diversa zona della galassia straniera, o anche ai limiti del vortice. Dovendosi fidare soltanto del proprio istinto, Surgenor aveva la sensazione che, nonostante le fantastiche risorse delle unità elaborative di Aesop, il risultato finale avrebbe anche potuto essere disastroso.

Scrollò le spalle, come per liberarsi di un fardello invisibile, raggiunse l’ingresso dell’hangar e scese la lunga rampa d’accesso fino a un campo familiare, pieno di sole. In vent’anni era sceso dalla stessa rampa migliaia di volte, accolto dagli orizzonti di pianeti sconosciuti; eppure, questa volta, il senso di estraneità era ancora più grande. Aveva un’idea abbastanza chiara di quello che lo attendeva: l’elemento sconosciuto era dentro di lui. Aveva dato le dimissioni, e grazie alle circostanze particolari, erano state accettate quasi immediatamente. Questo lo poneva di fronte al problema di non avere più problemi, di dover vivere come vivevano gli altri uomini, di non essere più uno straniero volontario.

— Salve, Dave! — Al Gillespie era intento a pulire meticolosamente il lunotto di una macchina presa a noleggio. Sorrise a Surgenor. — Vuoi un passaggio in città?

— Grazie, ma preferisco camminare. — Surgenor si schermò gli occhi dal sole, scrutando una catena di colline azzurre, verso est. — Ho intenzione di arrivarci a piedi ai posti dove voglio andare.

— Ti stancherai presto.

— Credi?

Gillespie diede un colpo finale e superfluo alla macchina. — Sono pronto a scommetterci. Ricordi tutte quelle case che ha detto il Commissario alla TV stamattina, a proposito di navi fornite di speciali pesi spostabili al loro interno? Progettate per entrare nei vortici e permettere agli scienziati di dare un’occhiata all’universo? Scommetto che quando ne avranno costruito una, ti offrirai volontario per il viaggio.

Surgenor avvertì un brivido di freddo nella spina dorsale, che però svanì immediatamente. — Forse ci sarai tu su quella nave — disse con un sorriso. — Ma non io.

— Arrivederci, Dave — disse Gillespie, con l’aria di chi la sa lunga. Entrò in macchina e si diresse verso gli edifici amministrativi, che apparivano in lontananza con colori pastello, nel sole pomeridiano.

Surgenor lo guardò allontanarsi, poi rivolse l’attenzione alla massa torreggiante della nave. I lavori per smontare i quattro alettoni triangolari, che contenevano parte del sistema di propulsione, erano già cominciati. Le robogru circondavano la Sarafand come insetti intenti a smembrare una vittima molto più grande ma inerme, e l’aria era piena dei loro cigolii idraulici. Surgenor trovò spiacevole quello spettacolo. Aveva sperato che conservassero la nave intatta, forse come un pezzo da museo, ma per questo sarebbe stato necessario trasportarla più vicino al centro della Bolla, e l’Ufficio per la Sicurezza Spaziale l’aveva dichiarata inadatta al volo.

Sentendosi alquanto fuori posto, fra le squadre di operai e di tecnici che salivano e scendevano la rampa, Surgenor bighellonò sullo spiazzo di ferro-cemento finché non vide quello che aspettava: la figura alta, con la schiena dritta, di Christine Holmes che emergeva dall’ombra dell’hangar. Aveva avuto poche occasioni di vederla durante le frenetiche settimane seguite all’atterraggio su Delos, ma sapeva che, approfittando di alcune clausole speciali, anche lei aveva abbandonato il Servizio. La donna scese dalla rampa con passo elastico, la sigaretta fra le labbra, la borsa sulle spalle, con aria sicura di sé, e Surgenor avvertì una trepidazione improvvisa per quello che aveva progettato.

— Ancora qui, Dave? — Christine si fermò vicino a lui, accennando con la testa alla gru più vicina. — Non dovresti stare a guardare questo spettacolo, lo sai.

— Non mi disturba. Comunque, stavo aspettando te.

Lei strinse gli occhi. — Perché?

— Volevo offrirti qualcosa da bere.

— Oh? Conosci qualche posto buono?

— Un sacco. Sulla Terra.

— Grazie per l’offerta, Dave. Ma… no, grazie. — Si sistemò la borsa sulle spalle e gli passò a fianco. — Non sono così assetata come credevo.

Surgenor le bloccò la strada. — Era una proposta sincera, Chris. Merita almeno una risposta sincera.

— Te l’ho già data. “No” è una risposta. — Christine sospirò, gettò a terra la sigaretta e la schiacciò sotto il tacco. — Senti, Dave, non voglio essere antipatica; ti ringrazio sinceramente per l’offerta, ma non sarebbe un po’ sciocco? Le storie d’amore di bordo svaniscono sempre nell’aria quando si arriva in porto, e se poi a bordo non c’è stato neppure quello…

Surgenor si rendeva conto che con la loro discussione stavano attirando l’attenzione dei passanti, ma insistette. — Ti sei dimenticata di essere venuta nella mia stanza, quella sera?

— E allora? — Christine fece una risata sarcastica. — Non dirmi che hai approfittato di me, mentre…

— Non parlarmi in questo modo — sbottò Surgenor, prendendola per le spalle, deciso a lanciare il suo messaggio attraverso il baratro di anni perduti che separava le loro vite. — Te lo dico io cosa è successo quella sera, e io lo so meglio di te, perché sono più esperto in fatto di solitudine. Ti sei trovata di fronte a qualcosa che non sapevi come affrontare da sola, e sei venuta da me per aiuto. Ora io mi trovo davanti a qualcosa che non so come affrontare da solo, e…

— E vieni da me per aiuto?

— Sì.

Christine gli prese i polsi e gli staccò lentamente le mani dalle spalle. — Tu sei pazzo, Dave. — Si voltò e si allontanò sul campo polveroso.

— E tu — le gridò Surgenor — tu sei una stupida!

Christine continuò a camminare per una decina di passi, poi si fermò e restò a guardare a terra per un momento, prima di tornare da lui. — Hai un bel coraggio a chiamarmi stupida. Hai idea di cosa ti aspetta, se mi prendi con te?

— No, ma sono pronto a scoprirlo. — Surgenor cercò disperatamente le parole giuste, le parole migliori. — Sarà un nuovo tipo di viaggio, per me. Christine esitò, e lui vide che le tremavano le labbra. — Va bene — disse. — Andiamo.

Surgenor prese la sua valigia, e i due, separati da un breve tratto, si incamminarono verso il perimetro lontano del campo. Il calore improvviso del sole sulla schiena avvertì Surgenor che erano usciti dall’ombra della nave, ma non si voltò a guardarla.

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