Ogni scienziato a bordo della Leonora Christine aveva pianificato almeno un progetto di ricerca per avere qualcosa su cui impegnarsi mentalmente nei previsti cinque anni di viaggio. Il progetto di Emma Glassgold consisteva nel tracciare la base chimica della vita su Epsilon Eridani Due. Dopo aver riordinato l’equipaggiamento necessario, ella aveva cominciato a porre nelle varie fasi sperimentali i prototipi e le colture dei tessuti. Nel tempo previsto aveva ottenuto i prodotti di reazione e ora aveva bisogno di sapere esattamente che cosa questi fossero. Norbert Williams era il tecnico di laboratorio che faceva le analisi per tutti coloro che ne avessero bisogno.
Un giorno, quando il primo anno stava ormai per finire, egli portò il suo rapporto sul più recente esemplare di Glassgold nel laboratorio dove lavorava la donna. Aveva deciso di farlo di persona, perché le molecole ottenute erano strane e sia l’uomo sia la donna ne erano molto eccitati e interessati, tanto da continuare spesso per ore a discutere i risultati. Ma la conversazione finiva sempre più per accentuarsi su altri argomenti.
La donna gli rivolse un allegro saluto quando Williams entrò nel laboratorio. Il tavolo di lavoro dietro cui stava Emma era ingombro di provette, vasche, un piaccametro, un mescolatore, un miscelatore, e altri strumenti del genere. — Bene — esclamò la donna, — sono smaniosa di sapere quali processi metabolici si stanno verificando nei miei beniamini.
— È il casino più dannato che abbia mai visto. — L’uomo gettò sul piano del tavolo un paio di pagine tenute insieme da un fermaglio. — Mi dispiace, Emma, ma dovrai avere pazienza. E anche per un bel po’, temo. Non riesco a fare molti progressi, con le microquantità. Dovrò ricorrere all’impiego di ogni genere di cromatografia di cui dispongo, più le diffrazioni a raggi X, più una serie di prove enzimatiche che ti ho elencato qui, prima che io sia in grado di formulare una qualsiasi ipotesi sulle formule di struttura.
— Capisco — replicò Glassgold. — Mi dispiace costringerti a un lavoro extra.
— Sciocchezze, son qui per questo, finché non raggiungeremo Beta Tre. Sarei già diventato matto se non avessi da fare, e il tuo lavoro è quello che mi interessa di più, te lo dico francamente. — Williams si passò una mano fra i capelli, e la camicia dai colori sgargianti che indossava formò delle pieghe sulla spalla. — Sebbene, per essere proprio sincero, non capisco che cosa tu ci possa trovare, oltre a un passatempo. Voglio dire, sulla Terra stanno studiando gli stessi problemi, e sono in molti a occuparsene e hanno mezzi maggiori dei tuoi. Riusciranno a risolvere ogni enigma prima che noi si arrivi alla meta.
— Non c’è dubbio — disse Emma. — Ma ci comunicheranno i risultati?
— Penso di no, a meno che la richiesta non venga da noi. E anche se lo facessimo, saremmo molto vecchi, o già morti, all’arrivo della risposta. Ma il fatto è: perché dovremmo preoccuparcene? Qualunque sia la natura biologica che troveremo su Beta Tre, sappiamo che non rassomiglierà a questa. Lo fai perciò soltanto per tenerti in esercizio?
— In parte anche per questo — rispose Glassgold. — Ma penso che la cosa abbia anche un suo valore pratico. Quanto più ampia sarà la visione che io posso avere della vita nell’universo, tanto più sarò in grado di studiare il caso particolare che ci troveremo davanti. E così capiremo prima e con maggiore certezza se potremo abitare su quel pianeta e chiamare altri esseri umani dalla Terra perché vengano a raggiungerci.
Williams si soffregò il mento. — Sì, penso che tu abbia ragione. Non avevo considerato il problema da questo punto di vista.
Dietro quelle parole prosaiche si nascondeva un certo timore. La spedizione infatti non stava viaggiando soltanto per andare a dare un’occhiata al pianeta prescelto: non a un simile prezzo di risorse, lavoro, abilità, sogni e anni di vita. Né poteva sperare di trovarsi di fronte qualcosa da sottomettere con la stessa facilità con cui era stata conquistata l’America.
Come minimo, questi esseri umani avrebbero trascorso un altro mezzo decennio nel sistema di Beta Virginis, esplorandone i mondi sulla navicella di scorta della Leonora Christine, aggiungendo quei dati che sarebbero stati in grado di ricavare ai dati già esigui che la sonda orbitale inviata in esplorazione aveva raccolto. E, se il terzo pianeta fosse stato realmente abitabile, non sarebbero più tornati a casa, nessuno, neppure gli astronauti professionisti. Avrebbero trascorso là la loro vita, e con loro forse i figli e i nipoti, esplorandone gli svariati misteri e trasmettendo le loro scoperte alle menti affamate di notizie dei terrestri rimasti sul pianeta natale. Perché ogni pianeta è un mondo, infinitamente vario, infinitamente segreto. E questo mondo sembra essere così simile a quello terrestre che le stranezze che poteva rivelare sarebbero state le più vivide e illuminanti.
I passeggeri della Leonora Christine erano abbastanza espliciti nella loro ambizione di stabilire questo genere di base scientifica. La loro ultima e più grande speranza era che i loro discendenti non trovassero mai alcuna ragione per dover tornare indietro: Beta Tre da base spaziale avrebbe dovuto tramutarsi in colonia, poi in Nuovo Mondo, poi infine in trampolino di lancio per il prossimo salto verso le stelle. In nessun altro modo gli uomini sarebbero riusciti a possedere la galassia.
Come per sottrarsi a delle visioni che avrebbero potuto sopraffarla, Glassgold esclamò, arrossendo leggermente: — Inoltre, mi interessa la vita nella costellazione di Eridano. Mi affascina. Vorrei sapere che cosa… la fa pulsare. E, come hai detto prima, se ci stabiliremo là non avremo la possibilità di ricevere dalla Terra le risposte volute mentre ancora saremo in vita.
L’uomo rimase in silenzio, giocherellando con un congegno per titolare, finché il fremito della nave e l’aria dei ventilatori, gli aspri odori dei reagenti chimici, i brillanti colori dei solventi e dei coloranti lo riportarono alla realtà. Alla fine si schiarì la gola. — Uh, Emma.
— Sì? — La donna sembrava provare un’uguale sensazione d’insicurezza.
— Che ne diresti di piantare tutto qui? Vieni giù con me al club e beviamo qualcosa prima di cena. La mia razione.
Emma sembrò ritirarsi dietro i suoi strumenti di lavoro. — No, grazie — disse, con voce confusa. — Io… io ho ancora molto da fare.
— Ma anche molto tempo davanti a te — puntualizzò Williams, con maggior risolutezza. — Va bene, se non vuoi un cocktail, che ne dici di una tazza di caffè? O magari quattro passi in giardino… Senti, non ho intenzione di farti la corte, ma vorrei soltanto conoscerti meglio.
Emma deglutì prima di sorridere, ma il suo sorriso era pieno di calore. — Benissimo, Norbert. Anche a me piacerebbe.
Un anno dopo la partenza, la Leonora Christine aveva quasi raggiunto la sua massima velocità. Le ci sarebbero voluti trentun anni per attraversare lo spazio interstellare, e un anno in più per decelerare mentre si avvicinava al sole che rappresentava il suo obiettivo.
Ma questa è un’affermazione incompleta, che non tiene conto della relatività. Proprio perché la velocità assoluta non può superare un certo limite (rappresentato dalla velocità con cui la luce viaggia in vacuo; e ciò varrebbe anche per i neutrini) c’è un’interdipendenza tra spazio, tempo, materia ed energia. Nelle equazioni entra il fattore tau. Se v è la velocità (uniforme) di un’astronave e c la velocità della luce, allora tau è uguale a
Quanto più i valori di v si avvicinano a quelli di c, tanto più tau tende a zero.
Supponiamo che un osservatore esterno misuri la massa di un’astronave. Il risultato che ottiene è la massa a riposo — cioè la massa che l’astronave ha allorché non si muove rispetto a lui — divisa per tau. Così, quanto più velocemente si muove l’astronave, tanto maggiore è la sua massa, per quanto riguarda l’universo in generale. Ricava l’eccedenza di massa dall’energia cinetica: e = mc2.
Inoltre, se l’osservatore «fisso» potesse controllare gli orologi dell’astronave e compararli al suo, noterebbe uno sfalsamento. Il periodo di tempo trascorso tra due avvenimenti (per esempio, la nascita e la morte di un uomo), misurato a bordo della nave dove questi avvenimenti si sono verificati, è uguale al periodo di tempo misurato dall’osservatore… moltiplicato per tau. Si potrebbe perciò dire che il tempo si muove proporzionalmente più a rilento su un’astronave.
Anche le misure di lunghezza si contraggono; l’osservatore vede l’astronave accorciata, nella direzione del moto, dal fattore tau.
Ora le misurazioni fatte a bordo di un’astronave sono altrettanto valide, in tutto, di quelle fatte altrove. A un cosmonauta, che guardi l’universo davanti a sé, le stelle appaiono compresse e la loro massa risulta aumentata; le distanze tra loro si sono ridotte; esse scintillano e si muovono a un ritmo stranamente ridotto.
Eppure la situazione è ancora più complicata di così. Bisogna tenere bene a mente che l’astronave, in effetti, è stata accelerata e sarà decelerata in relazione a tutto il cosmo che le fa da sfondo. Ciò fa rientrare l’intero problema nell’ambito della teoria generale della relatività. La situazione stelle-astronave non è realmente simmetrica. Il paradosso dei gemelli non si verifica. Quando le velocità si uguagliano ancora una volta e avviene la riunione, per la stella sarà trascorso un tempo più lungo di quello trascorso per l’astronave.
Se il fattore tau si riduce a un centesimo e l’astronave procede in caduta libera, un secolo-luce verrà percorso in un solo anno di vita degli astronauti (sebbene, naturalmente, non si potrà più riguadagnare il secolo che è trascorso sulla Terra, durante il quale gli amici degli astronauti saranno invecchiati e morti). Ciò comporterà inevitabilmente un aumento della massa di cento volte. Un motore Bussard, sfruttando l’idrogeno dello spazio, poteva produrre un simile effetto, ma sarebbe stato folle fermare il motore e proseguire con moto inerziale quando si poteva ottenere la stessa cosa facendo decrescere il fattore tau.
Perciò, raggiungere altri soli è una parte ragionevole della speranza di vita: tanto vale accelerare continuamente, fino al punto intermedio interstellare, dopodiché si attiverà il deceleratore. C’è il limite imposto dalla velocità della luce, che non si può quasi mai raggiungere. Ma non c’è limite all’approssimarsi quanto più è possibile a tale velocità. Così non si hanno limiti per quanto riguarda l’inverso del fattore tau.
Nonostante l’anno trascorso a gravità uno, le differenze tra la Leonora Christine e le stelle che si muovevano lentamente si erano accumulate impercettibilmente. Adesso la curva si accingeva ad affrontare la parte più ripida della sua discesa. Ora, sempre più la distanza che divideva gli astronauti dal loro obiettivo sembrava loro come contratta, non soltanto perché viaggiavano, ma perché, per loro, la geometria dello spazio stava cambiando. Sempre più gli astronauti si rendevano conto di quanto i processi naturali nell’universo esterno si stessero sviluppando con maggior velocità.
Non era ancora niente di spettacolare. Anzi, il valore minimo di tau nel piano di volo dell’astronave era, al punto intermedio, intorno a 0,015. Ma arrivò un momento in cui un minuto a bordo dell’astronave corrispondeva a sessantun secondi nel resto della galassia. Un po’ più tardi, corrispondeva a sessantadue. Poi a sessantatré… sessantaquattro… il tempo dell’astronave tra tali conteggi cresceva gradualmente ma sistematicamente… sessantacinque… sessantasei… sessantasette.
Il primo Natale — Chanukah, ricorrenza del Nuovo Anno, festa del solstizio — che l’equipaggio aveva trascorso insieme era arrivato proprio all’inizio del loro viaggio ed era stato celebrato con febbrili manifestazioni quasi carnascialesche. Il secondo fu più calmo. La gente si era abituata al proprio lavoro e si era fatta degli amici. Comunque, in tutti i ponti erano stati disposti scintillanti ornamenti improvvisati. Le stanze dedicate ai vari passatempi risuonavano di voci, aghi e forbici erano in movimento. La cambusa mandava fragranti profumi di spezie, mentre ognuno cercava di preparare qualche piccolo regalo per tutti gli altri compagni. La sezione idroponica trovò che poteva fare a meno di un po’ di rami verdi e rampicanti da utilizzare per l’allestimento di un albero natalizio nella palestra. Dalla ben fornita biblioteca dove tutto era registrato su micronastri vennero pellicole, a base di distese innevate e slitte, e inni natalizi. Il settore teatrale organizzò un corteo storico. Il capocuoco Carducci preparò i menu per i banchetti. Nelle stanze in comune e nelle cabine private fu un allegro intrecciarsi di feste. Per un tacito accordo, nessuno menzionò il fatto che, ogni secondo che passava, la Terra si allontanava di quasi trecentomila chilometri. Reymont attraversò il piano destinato ai divertimenti, dove ferveva un’allegra animazione. Alcuni gruppetti stavano attaccando decorazioni appena fatte. A bordo non si poteva sciupare nulla, ma le catene di carta d’alluminio, i globi di vetro soffiato, le ghirlande infiocchettate di nastri di stoffa erano cose recuperabili. Altri giocavano, chiacchieravano, offrivano da bere, amoreggiavano, facevano chiasso. Tra i discorsi e le risate e la confusione, tra il ronzio e il crepitio e il fruscio, da un altoparlante usciva una musica:
Adeste, fideles,
Laeti, triumphantes
Venite, venite, in Bethlehem.
Iwamoto Tetsuo, Hussein Sadek, Yeshu Ben-Zvi, Mohandas Chidambaram, Phara Takh o Kato M’Botu sembravano a loro agio in quel clima quanto Olga Sobieski o Johann Freiwald.
Il macchinista gridò a Reymont, con voce rombante: — Guten Tag, mein lieber Schutzmann! Vieni a dividere con me questa bottiglia! — E l’agitò in aria. La mano che gli restava libera era stretta attorno alla vita di Margarita Jimenes. Sospesa sopra le loro teste c’era una striscia di carta sulla quale era stato scritto: «Vischio».
Reymont si fermò. Se la intendeva con Freiwald. — Grazie, no — disse. — Hai visto Boris Fedoroff? Pensavo che venisse qui dopo aver terminato il suo turno di lavoro.
— N-no. Anch’io pensavo che venisse, data l’allegria di stasera. È diventato molto più gaio negli ultimi tempi, per una ragione o per l’altra, non ti pare? Perché vuoi vederlo?
— Questioni di lavoro.
— Lavoro, sempre lavoro — esclamò Freiwald. — Scommetto che tu personalmente ti diverti soltanto quando puoi tormentarti con qualcosa. Quanto a me, mi sono trovato un divertimento migliore. — Strinse Jimenes contro di sé. La donna si rannicchiò contro il suo corpo. — Hai provato a chiamarlo nella sua cabina?
— Naturalmente, ma non ha risposto. Eppure, forse… — Reymont si girò. — Proverò a vedere lì. Più tardi verrò a bere qualcosa con te — aggiunse, mentre già si stava avviando.
Imboccò le scale e scese oltre il piano dove si trovavano le cabine dell’equipaggio fino al ponte degli ufficiali. La musica lo seguiva. — … Iesu, tibi sit gloria. - Il corridoio tra le cabine era deserto. Reymont premette il campanello di Fedoroff, che mandò un suono armonioso.
L’ingegnere aprì la porta. Indossava un pigiama da casa. Dietro di lui, sul piano del cassettone c’erano una bottiglia di vino francese, due bicchieri, e alcuni panini imbottiti al modo danese, che sembravano aspettarlo. Fedoroff parve sconvolto da quell’arrivo inaspettato e fece un passo indietro. — Chto… lei?
— Posso parlarle?
— Um-m-m. — Lo sguardo di Fedoroff brillò debolmente. — Aspetto un ospite.
Reymont ridacchiò. — Mi sembra evidente. Non si preoccupi, non mi dilungherò troppo. Ma è una questione abbastanza urgente.
L’ingegnere parve risentirsi. — Non si può aspettare fino a quando sarò di servizio?
— Il fatto è che sarebbe meglio discuterne confidenzialmente — disse Reymont. — Il capitano Telander è d’accordo. — Passò oltre Fedoroff ed entrò nella cabina. — Nei nostri piani ci siamo dimenticati di un particolare — continuò, parlando velocemente. — Secondo quanto è stato previsto, dovremmo entrare nella fase di alta accelerazione il sette gennaio. Lei sa meglio di me come ciò presupponga due o tre giorni di lavoro preliminare da parte della sua squadra e un considerevole sconvolgimento nel lavoro di routine di tutti gli altri componenti dell’equipaggio. Bene, non so come, ma coloro che hanno preparato i nostri piani di volo si sono dimenticati che il sei gennaio è una data importante nelle tradizioni dell’Europa occidentale. La Dodicesima Notte, la Vigilia dei Tre Re Magi, la chiami come vuole, essa è il culmine dei festeggiamenti di questo periodo festivo. Le celebrazioni dell’anno scorso furono così sregolate che nessuno se ne accorse. Ma io sono venuto a sapere che quest’anno si è parlato di una festa finale, con ballo e vecchi rituali, qualcosa di molto piacevole se appena fosse possibile. Pensi quanto un ricordo delle nostre origini potrebbe aiutare a migliorare il morale. Il capitano e io vorremmo che lei verificasse la possibilità di posporre di alcuni giorni il passaggio all’alta accelerazione.
— Sì, sì, me ne occuperò — e Fedoroff sospinse con una certa precipitazione Reymont verso la porta aperta. — Domani, per favore…
Era troppo tardi. Ingrid Lindgren apparve sulla soglia. Era in uniforme, essendo venuta direttamente dal ponte di comando quando era terminato il suo turno.
— Gud! - le sfuggì dalle labbra. Poi rimase ferma, immobile.
— Ma guarda, Lindgren — esclamò Fedoroff precipitosamente, — qual buon vento ti porta qui?
Reymont era rimasto con il fiato mozzo. Dal suo viso scomparve ogni espressione. Non faceva il minimo movimento, ma stringeva convulsamente i pugni tanto da conficcarsi le unghie nel palmo delle mani e da far diventare bianca la pelle sulle nocche.
Intanto l’altoparlante aveva cominciato a diffondere un altro canto natalizio.
Lo sguardo di Lindgren passò dall’uno all’altro dei due uomini. I suoi stessi lineamenti erano esangui. Ma di colpo si raddrizzò e disse: — No, Boris. Non dobbiamo mentire.
— Non servirebbe più — assentì Reymont, con voce priva di qualsiasi inflessione.
Fedoroff si girò di scatto verso di lui. — Va bene! — gridò. — Va bene! Siamo stati insieme qualche volta. Lei non è tua moglie.
— Non ho mai sostenuto che lo fosse — rispose Reymont, con gli occhi fissi sulla donna. — Volevo chiederle di diventarlo, non appena fossimo arrivati alla meta.
— Carl — sussurrò Ingrid, — io ti amo.
— Senza dubbio ci si stanca del proprio partner — continuò Reymont, con voce fredda come il ghiaccio. — Hai sentito il bisogno di qualcosa di nuovo, di rinfrescante. Era un tuo diritto, naturalmente. Ma pensavo che non ti saresti abbassata a strisciarmi alle spalle.
— Lasciala in pace! — Fedoroff si gettò su di lui alla cieca.
Il poliziotto si spostò di lato e vibrò un violento colpo con la mano. L’ingegnere emise un rantolo di dolore, cadde a sedere sul letto e si prese il polso ferito nell’altra mano.
— Non è rotto — disse Reymont. — Però, se non te ne stai buono e tranquillo dove sei finché non me ne vado, ti faccio a pezzi. — Tacque per un attimo poi riprese, in tono più tranquillo: — Non è una sfida alla tua mascolinità. Io conosco il combattimento corpo a corpo come tu conosci la fisica nucleare. Rimaniamo gente civilizzata. Lei è tua, comunque, suppongo.
— Carl. — Lindgren fece un passo, poi un altro, verso di lui, finché gli fu davanti. Le lacrime le rigavano le guance.
Reymont abbozzò un inchino. — Porterò via la mia roba dalla tua cabina non appena ne avrò trovata una vacante.
— No, Carl, Carl. — Lo afferrò per la tunica. — Non avrei mai immaginato… Ascolta, Boris aveva bisogno di me. Sì, lo ammetto, mi è piaciuto stare con lui, ma non c’è mai stato nulla di più profondo di un’amicizia… un conforto… mentre per te…
— Perché non mi hai detto che cosa stavi facendo? Io non avevo diritto di sapere?
— Sì, avevi questo diritto, l’avevi, ma io avevo paura… per alcune frasi che ti sei lasciato sfuggire… tu sei geloso… ed è così inutile, perché tu sei il solo che conti, per me.
— Sono stato povero tutta la vita — esclamò Reymont, — e ho una moralità primitiva da pover’uomo, oltre a una certa considerazione per la privacy. Sulla Terra ci potrebbero essere alcuni modi per rimettere le cose… non dico di nuovo a posto, veramente, ma per renderle tollerabili. Potrei fare a pugni con il mio rivale, o andarmene da qualche altra parte. Ma qui nulla di tutto questo è possibile.
— Ma non riesci a capire? — lo implorò la donna.
— E tu ci riesci? — Aveva di nuovo stretto i pugni. — No — disse poi, — tu onestamente — e faccio finta che sia davvero onestamente — non credi di avermi fatto del male. Gli anni che ci aspettano saranno già fin troppo duri senza dover mantenere in vita un rapporto del genere.
Allontanò Ingrid da sé. — E smettila di piagnucolare! — ringhiò.
La donna fu scossa da un tremito e si irrigidì. Fedoroff mandò un grugnito e fece per alzarsi dal letto, ma Ingrid gli fece cenno di stare tranquillo.
— È meglio così. — Reymont si avvicinò alla porta. Sulla soglia si fermò e guardò gli altri due. — Non ci saranno scenate, né tresche, né rancori — affermò. — Quando cinquanta persone sono chiuse insieme in uno stesso posto, o tutti si comportano bene o tutti muoiono. Ingegnere Fedoroff, il capitano Telander e io apprezzeremo un suo rapporto sull’argomento di cui ero venuto a parlare con lei, quanto prima le sarà possibile prepararlo. Può anche chiedere il parere del primo ufficiale, la signorina Lindgren, tenendo però a mente che sarebbe meglio mantenere segreta la cosa finché saremo pronti a fare un annuncio in un senso o nell’altro. — Per un attimo, il dolore e la rabbia ebbero il sopravvento su di lui. — Il nostro dovere è nei confronti dell’astronave, dannazione a voi! — Poi riprese il controllo dei suoi nervi. Batté i tacchi. — Vi porgo le mie scuse. Buonasera.
Se ne andò.
Fedoroff si alzò e andò dietro a Lindgren, circondandole il corpo con le braccia. — Mi dispiace molto — esclamò, con aria goffa e imbarazzata. — Se avessi supposto che poteva accadere qualcosa del genere, non avrei mai…
— Non è colpa tua, Boris. — La donna non si mosse.
— Se vuoi dividere la stanza con me, ne sarei felice.
— No, grazie — rispose Ingrid, con voce opaca. — Resterò fuori del gioco da ora in poi. — Si sciolse dal suo abbraccio. — È meglio che vada. Buonanotte. — Boris rimase solo con i suoi panini imbottiti e il vino.
«O santo bambino di Betlemme,
Discendi su di noi, ti preghiamo.»
Fatte le necessarie correzione, la Leonora Christine aumentò l’accelerazione alcuni giorni dopo l’Epifania.
La cosa non avrebbe prodotto una differenza sensibile riguardo alla durata cosmica del suo passaggio. In entrambi i casi, l’astronave correva a una velocità che rasentava quella della luce. Ma, facendo diminuire più in fretta il fattore tau e raggiungendo al punto intermedio i suoi valori più bassi, la spinta accresciuta accorciava sensibilmente il tempo a bordo dell’astronave.
Estendendo il più possibile le sue membrane, intensificando la palla di fuoco termonucleare che trascinava il motore Bussard, l’astronave passò a gravità tre. Ciò avrebbe aggiunto quasi trenta metri al secondo per ogni secondo a una bassa velocità. Alla sua attuale velocità, provocava aumenti minimi che diventavano costantemente più piccoli.
Ciò valeva per le misurazioni esterne; a bordo, proseguiva la sua marcia in avanti a tre gravità, e tale misurazione era ugualmente reale.
Il carico umano dell’astronave non avrebbe potuto sopportarlo e vivere a lungo. Lo stress sul cuore, sui polmoni e soprattutto sull’equilibrio dei fluidi nel corpo sarebbe stato troppo forte. Alcune medicine avrebbero potuto aiutare gli esseri umani a sopportarlo, ma, fortunatamente, c’era un modo migliore.
Le forze che spingevano la nave sempre più vicina alla c estrema non erano soltanto enormi; per necessità, erano anche precise. Erano tanto precise che la loro interazione con l’universo esterno — la materia e i suoi campi di forze — poteva essere ricondotta a una risultante quasi costante nonostante i mutamenti in quelle condizioni esteriori. Ugualmente, le energie propellenti potevano essere associate a campi simili e molto più deboli quando questi ultimi venivano stabiliti all’interno dello scafo.
Il collegamento poteva allora operare sulle asimmetrie degli atomi e delle molecole per produrre un’accelerazione uniforme a quella dello stesso generatore interno. In pratica, però, l’effetto permaneva incompleto. Una gravità era priva di compensazione.
Perciò il peso a bordo restava ai valori fissi riscontrabili sulla superficie terrestre, per quanto alto fosse il ritmo con cui l’astronave guadagnava velocità.
Tale protezione era possibile soltanto a velocità relativistiche. A un’andatura ordinaria, i valori di tau ancora alti, gli atomi erano insufficientemente massicci, troppo vivaci da essere tenuti in pugno. Mentre la velocità si approssimava a c diventavano più pesanti — non rispetto a loro stessi, ma a tutto ciò che si trovava all’esterno dell’astronave — finché l’interazione di campi tra veicolo spaziale e cosmo riusciva a stabilire una configurazione stabile.
Gravità tre non era il limite. Con le membrane completamente estese, e nelle regioni in cui la materia si presentava più densa che altrove, simile a una nebulosa, sarebbe andata considerevolmente oltre. In questo particolare passaggio, data la rarefazione dell’idrogeno locale, ogni possibile guadagno di tempo non era sufficiente — poiché la formula presuppone una funzione iperbolica — a causare la riduzione del margine di sicurezza. Nel calcolo del programma di volo erano entrate altre considerazioni, per esempio la ottimizzazione della contrazione della massa contro la minimizzazione della lunghezza della traiettoria.
Così, tau non era un fattore moltiplicatore statico, bensì dinamico. La sua azione sulla massa, sul tempo e sullo spazio poteva essere osservata come un fattore fondamentale, che creava una nuova e perenne relazione tra gli uomini e l’universo nel quale viaggiavano.
Un dato giorno, che il calendario diceva essere di aprile, e a un’ora che, secondo l’orologio di bordo, era di mattina, Reymont si svegliò. Non si girò nel letto, né sbatté le palpebre, né sbadigliò, né si stirò le membra come avrebbe fatto qualsiasi altro essere umano. Balzò invece a sedere sul letto, già immediatamente cosciente.
Chi-Yuen Ai-Ling si era svegliata già da un po’ di tempo. Il brusco risveglio di Reymont la colse nell’atto di guardarlo, inginocchiata ai piedi del letto al modo degli asiatici, e nello sguardo della donna c’era una serietà che contraddiceva quasi l’umore giocoso di cui aveva dato prova la notte precedente.
— C’è qualcosa che non va? — chiese Reymont.
Ai-Ling dimostrò la sua sorpresa soltanto con un impercettibile spalancar di occhi. Dopo un attimo, il sorriso le tornò lentamente sul volto. — Una volta ho visto un falco addomesticato — esclamò. — Cioè, non era un animale domestico alla stessa stregua di un cane, ma cacciava con il suo padrone e si degnava di stare appollaiato sul suo polso. Tu ti risvegli allo stesso modo.
— Mmm — disse l’uomo. — Stavo parlando di quel tuo sguardo preoccupato.
— Non preoccupato, Charles. Pensoso.
Reymont ammirò il suo aspetto. Spogliata, la donna non avrebbe mai potuto essere definita efebica. Le curve dei seni e dei fianchi erano meno marcate che in altre donne, ma si integravano alla perfezione con il resto del suo corpo — non sembravano qualcosa di posticcio, un ornamento di stucco, come in troppe donne accade — e, quando ella si muoveva, sembravano fluire. Ciò valeva anche per la luce sulla sua pelle, che aveva il colore delle colline che circondano San Francisco nei mesi estivi, e per i riflessi dei suoi capelli, che avevano il profumo di ogni giorno d’estate che mai sia spuntato sulla Terra.
Si trovavano nella cabina di Reymont, sul piano riservato all’equipaggio, divisa a metà dalla paratia mobile che la separava dalla zona occupata da Foxe-Jameson. Era un ambiente troppo squallido per lei. La sua cabina era impregnata di bellezza.
— E che cosa stavi pensando? — chiese Reymont.
— A te. A noi.
— È stata una notte fantastica. — Si chinò in avanti per accarezzarla sotto il mento. Ai-Ling fece le fusa come un gatto. — Ancora?
La donna tornò a farsi seria. — Stavo pensando proprio a questo. — Reymont inarcò le sopracciglia. — Un chiarimento tra noi. Entrambi ce la siamo spassata con qualcuno. O, meglio, tu hai avuto una relazione seria, nei mesi trascorsi. — Reymont si rabbuiò in viso, ma la donna continuò risolutamente. — Quanto a me, non è stata una cosa molto importante; rapporti occasionali, piuttosto. Non intendo spingermi oltre, realmente. Se non altro, quelle allusioni e quegli approcci, l’intero rito del corteggiamento, e tutto il resto… Interferiscono con il mio lavoro. Sto sviluppando alcune idee sui nuclei planetari, e ho bisogno di concentrazione. Una relazione durevole mi potrebbe aiutare.
— Non voglio prendere alcun impegno — replicò Reymont, cupamente.
Chi-Yuen lo prese per le spalle. — Me ne rendo conto. Non è quello che ti chiedo, né che ti offro. Semplicemente, io ho finito per apprezzarti sempre più dopo ogni nostro incontro, ballo o notte trascorsa insieme. Tu sei soprattutto un uomo tranquillo, forte, gentile — almeno per me. Potrei vivere felicemente insieme con te — nulla di esclusivo per entrambi, soltanto un’alleanza, almeno agli occhi di tutti i passeggeri dell’astronave — per tutto il tempo che piacerà a noi due.
— Fatto! — esclamò Reymont e la baciò.
— Così in fretta? — chiese la donna stupita.
— Anch’io ci stavo pensando. Ero stanco anch’io di cacciare. Dovrebbe essere facile vivere con te. — Le fece scorrere una mano sul fianco e sulla coscia. — Molto facile.
— Quanta parte del tuo cuore è in tutto questo?
Ma subito Ai-Ling scoppiò a ridere. — No, scusa, simili domande sono vietate… Possiamo trasferirci nella mia cabina? So che a Maria Toomajian non importerà scambiare il suo posto con il tuo. Tiene comunque sempre chiusa la sua metà cabina.
— Bene — assentì Reymont. — Tesoro, abbiamo ancora quasi un’ora prima dell’appello per la colazione…
La Leonora Christine stava per entrare nel terzo anno di viaggio, o nel decimo anno secondo il tempo stellare, quando la disgrazia le piombò addosso.