In una delle stanze destinate a fungere da giardini c’era un ampio schermo sul quale si poteva vedere l’Esterno. L’oscurità punteggiata di diamanti era incredibilmente incorniciata da un groviglio di felci, orchidee, fucsie, buganvillee che si inarcavano tutt’intorno. Una fontana diffondeva un suono tintinnante, scintillando alla luce artificiale. In questa stanza l’aria era più tiepida che nella maggior parte degli altri locali a bordo ed era umida, piena di profumi e di verde.
Ma dovunque si percepiva il sotterraneo pulsare dell’apparato propulsore. I sistemi Bussard non erano stati perfezionati a un punto tale da raggiungere la silenziosità dei razzi a propulsione elettrica. Ormai l’astronave faceva sempre udire i suoi brividi e i suoi sussurri. La vibrazione era minima, quasi al limite della consapevolezza, ma si diffondeva attraverso metallo, ossa, e forse sogni.
Emma Glassgold e Chi-Yuen Ai-Ling erano sedute su una panca in mezzo ai fiori. Per un po’ avevano passeggiato nei vari locali, ma da quando erano entrate nel giardino, non avevano più aperto bocca.
Di colpo Glassgold trasalì e allontanò lo sguardo dal grande schermo trasparente. — È stato un errore venire qui — disse. — Andiamo via.
— Perché mai? Trovo questo posto affascinante — replicò la planetologa sorpresa. — Una fuga dalle pareti nude che avremmo impiegato anni altrimenti a rendere così attraenti.
— Ma non c’è fuga da quello. — Glassgold indicò lo schermo. In quel momento per caso stava esplorando il cielo in direzione della poppa e così mostrava un’immagine del Sole, ridotto all’apparenza di una stella tra le più brillanti.
Chi-Yuen osservò attentamente la sua compagna. La biologa molecolare era piccola di statura come lei e aveva capelli ugualmente neri, ma i suoi occhi erano rotondi e azzurri, il volto paffuto e roseo, il corpo un po’ tarchiato. Si vestiva con semplicità, che fosse in servizio o meno; e, senza disprezzare le attività sociali, era stata fino a quel momento più un’osservatrice che una collaboratrice attiva.
— In… quanto tempo?… un paio di settimane — continuava intanto Emma, — abbiamo raggiunto i confini del Sistema Solare. Ogni giorno — no, ogni ventiquattr’ore: ’giorno’ e ’notte’ non hanno più alcun significato — ogni ventiquattr’ore aumentiamo la velocità di 845 chilometri al secondo.
— Piccola come sono, sono ben contenta di aver riguadagnato tutto il mio peso terrestre — constatò Chi-Yuen con deliberata frivolezza.
— Non fraintendermi — replicò in fretta Glassgold. — Non mi metterò a gridare: ’Torniamo indietro! Torniamo indietro!’. — Cercò di prendersi in giro da sé. — Sarebbe troppo desolante per gli psicologi che mi hanno esaminata. — Ma il tono scherzoso svanì subito. — È soltanto che… mi rendo conto che ho bisogno di tempo… per abituarmi, un po’ alla volta, a questo.
Chi-Yuen annuì. La giovane donna orientale, nel suo più nuovo e più colorato cheong-sam — tra i suoi hobbies coltivava anche quello di fabbricarsi gli abiti — avrebbe potuto quasi appartenere a una specie diversa da quella di Glassgold. Ma vibrò un leggero colpo sulla mano dell’altra donna e disse: — Non sei la sola, Emma. Era già previsto. La gente comincia a rendersi conto non più soltanto con il cervello, ma con tutto il suo essere, di cosa significa veramente aver iniziato un viaggio del genere.
— Ma tu non mi sembri preoccupata.
— No. Non più, da quando la Terra è scomparsa nella luminosità solare. E, prima, non in modo insopportabile. Fa male dover dire addio. Ma io ho già dovuto sperimentare una cosa simile. Si impara a guardare avanti.
— Io mi vergogno — disse Glassgold. — Poiché ho avuto tante cose più di te. O proprio questo mi ha resa più debole di spirito?
— È davvero così? — Chi-Yuen le chiese quasi in sordina.
— Perché… sì. Non è così? O non ti ricordi? I miei genitori sono stati sempre di condizione agiata. Mio padre è ingegnere in una fabbrica di desalinizzazione, mia madre è agronoma. Il Negev è splendido quando crescono le messi e c’è un’atmosfera calma, amichevole, e non febbrile come a Tei Aviv o a Haifa. Inoltre studiare all’università mi piaceva molto e ho avuto la possibilità di viaggiare con buoni compagni. Il mio lavoro mi ha soddisfatta. Sì, sono stata fortunata.
— Allora, perché ti sei messa in lista per andare su Beta Tre?
— Per interesse scientifico… una nuova e totale evoluzione planetaria…
— No, Emma. — Le trecce simili ad ali di corvo si sollevarono allorché Chi-Yuen scosse la testa. — Le ultime astronavi hanno riportato dati sufficienti a mandare avanti sulla Terra le ricerche per almeno un centinaio d’anni. Da cosa stai fuggendo?
Glassgold si mordicchiò un labbro. — Non avrei dovuto indagare — si scusò Chi-Yuen. — Speravo di aiutarti.
— Ti racconterò tutto — disse Glassgold. — Ho la sensazione che tu possa veramente aiutarmi. Sei più giovane di me, ma hai visto più cose. — Incrociò le dita in grembo. — Però io stessa non sono sicura di quanto ti dico. Perché le città hanno cominciato ad apparirmi vuote e volgari? E quando mi sono recata a casa per visitare i miei, la regione sembrava tronfia e vuota. Ho pensato di poter trovare uno scopo?… quassù. Non so. Mi sono offerta per questo posto senza riflettere, impulsivamente. Quando mi hanno convocata per farmi esami più seri, i miei genitori hanno dato in escandescenze finché non ho più avuto possibilità di tirarmi indietro. Eppure eravamo sempre stati una famiglia molto unita. È stato per me un gran dolore doverli abbandonare. Mio padre, che mi era sempre sembrato così grande e sicuro di sé, era diventato di colpo piccolo e vecchio.
— C’entrava anche un uomo? — chiese Chi-Yuen. — Te lo dirò, perché non è un segreto — lui e io eravamo fidanzati, e tutto ciò che riguarda questo equipaggio e che è diventato di dominio pubblico è stato registrato sulle nostre schede personali — per me c’era.
— Uno studente, un mio compagno — disse umilmente Glassgold. — Lo amavo. Lo amo ancora. Egli si rendeva a malapena conto della mia esistenza.
— Non è un caso raro — replicò Chi-Yuen. — O si riesce a superare il trauma o si arriva a farne una malattia. Tu, Emma, sei sana di mente. Hai soltanto bisogno di uscire dal tuo guscio. Unisciti ai nostri compagni di viaggio, interessati a loro. Esci per un po’ dalla tua cabina e va’ in quella di un uomo.
Glassgold arrossì. — Non ho familiarità con queste cose.
Chi-Yuen sollevò le sopracciglia. — Sei vergine? Non possiamo permettercelo, se dobbiamo dare inizio a una nuova razza su Beta Tre. Il materiale genetico è scarso.
— Voglio un matrimonio decente — replicò Glassgold con una punta di stizza, — e quanti figli Dio vorrà darmi. Ma essi dovranno sapere chi è il loro padre. Non ci sarà nessun inconveniente se, durante il viaggio, non mi presterò al ridicolo gioco di passare da un letto a un altro. A bordo abbiamo fin troppe ragazze che ci stanno.
— Come me. — Chi-Yuen era imperturbabile. — Senza dubbio si creeranno relazioni stabili, ma, nel frattempo, di tanto in tanto, perché non dare e non ricevere alcuni momenti di piacere?
— Mi dispiace — esclamò Glassgold. — Non avrei dovuto citare fatti privati. Specialmente quando le esistenze sono state tanto diverse quanto la tua e la mia.
— È vero. Ma non sono d’accordo nel dire che la mia sia stata meno fortunata della tua. Al contrario.
— Cosa? — Glassgold rimase a bocca aperta. — Non vorrai dirlo seriamente!
Chi-Yuen sorrise. — Tu hai compreso il mio passato soltanto in superficie, Emma, se mai lo hai fatto. Posso indovinare che cosa stai pensando. Il mio paese diviso, impoverito, reso spastico dalle tragiche conseguenze delle rivoluzioni e delle guerre civili. La mia famiglia, colta e legata alle tradizioni, ma povera, di quella povertà disperata che nessuno tranne gli aristocratici caduti in tempi dannati ha conosciuto. I loro sacrifici per mantenermi alla Sorbona, quando me ne capitò l’opportunità. Dopo che io ebbi preso la laurea, il lavoro duro e i sacrifici che affrontai a mia volta, per aiutarli a rimettersi in piedi. — Volse il viso verso la declinante luce del Sole e aggiunse, con voce più bassa: — Quanto al mio uomo: anche noi eravamo studenti insieme, a Parigi. Più tardi, come ti ho detto, ho dovuto spesso star lontana da lui per via del mio lavoro. Alla fine si è recato a visitare i miei genitori a Pechino. Dovevo raggiungerlo il più presto possibile e ci saremmo sposati, legalmente e religiosamente oltre che di fatto. Scoppiò una rissa. Egli fu ucciso.
— Oh, cara… — cominciò Glassgold.
— Questo in superficie — la interruppe Chi-Yuen. — In superficie soltanto. Non capisci, anch’io ho avuto genitori che mi amavano, forse più dei tuoi, perché alla fine mi hanno capito a tal punto che non si sono opposti alla mia decisione di lasciarli per sempre. Ho visto gran parte del mondo, più di quanto si possa vedere viaggiando ben protetti in prima classe. E ho avuto il mio Jacques. E altri, prima, dopo, come egli avrebbe voluto. Sono slegata da tutto, priva di rimpianti e di dolori che non possono cicatrizzarsi. La fortuna è dalla mia parte, Emma.
Glassgold non rispose a parole.
Chi-Yuen la prese per la mano e si alzò. — Devi riuscire a liberarti di te stessa — disse la planetologa. — Alla lunga, soltanto tu potrai insegnare a te stessa come riuscirci. Ma forse posso aiutarti un po’. Vieni alla mia cabina. Ti farò un abito che renda giustizia alla tua bellezza. La festa del Giorno del Patto sta per arrivare e voglio che tu ti diverta.
Pensate: un solo anno-luce è un abisso inconcepibile. Misurabile, ma inconcepibile. A velocità normale — per esempio, a un’andatura ragionevole per una automobile nel traffico delle megalopoli, due chilometri al minuto — si impiegherebbero quasi nove milioni di anni per percorrere tutto il tragitto. E nei dintorni del Sole le stelle distano tra loro in media nove anni-luce. Beta Virginis dista trentadue anni-luce.
Eppure, simili spazi potevano essere conquistati. Un’astronave che acceleri continuamente a gravità uno percorrerebbe mezzo anno-luce in un periodo leggermente inferiore a un anno solare. E si muoverebbe a una velocità molto prossima a quella assoluta, trecentomila chilometri al secondo.
Sorgevano problemi pratici. Da dove sarebbe stata ricavata l’energia di massa necessaria a portare a termine una simile impresa? Anche in un universo newtoniano, l’idea di un razzo che portasse con sé fin dalla partenza una simile quantità di carburante sarebbe stata ridicola. E lo era ancora di più nel vero cosmo, quello einsteiniano, dove la massa dell’astronave e il carico utile aumentavano con la velocità, tendendo all’infinito man mano che la velocità del mezzo si avvicinava a quella della luce.
Ma il carburante e la massa di reazione erano presenti nello spazio stesso! In esso era infatti presente l’idrogeno. Certo, non aveva un’alta concentrazione, secondo i moduli terrestri: circa un atomo di idrogeno per centimetro cubico nella zona galattica vicino al Sole. Ciò nonostante, equivaleva a trenta miliardi di atomi al secondo che avrebbero colpito ogni centimetro quadrato della sezione trasversale dell’astronave, mentre la sua velocità si approssimava a quella della luce (la situazione era paragonabile ai primi stadi del viaggio, dal momento che il pulviscolo interstellare era più denso in vicinanza di una stella). Le energie erano impressionanti. L’impatto avrebbe prodotto megaroentgen di radiazione intensa; e meno di mille r nel giro di un’ora sono fatali. Nessuna protezione o schermo materiale sarebbe servito a qualcosa. Anche ammettendo che fosse alla partenza di uno spessore inimmaginabile, sarebbe stato ben presto eroso.
Però, all’epoca della Leonora Christine erano disponibili mezzi di protezione non materiali: campi magnetoidrodinamici, i cui impulsi si facevano sentire a milioni di chilometri di distanza per intrappolare gli atomi nei loro bipoli — non c’era bisogno di ionizzazione — e controllarne il flusso. Questi campi non avevano una funzione passiva, da semplice armatura. Deviavano il pulviscolo, certamente, e tutti i gas tranne l’idrogeno dominante. Quest’ultimo veniva spinto verso la poppa dell’astronave — in lunghe curve che evitavano lo scafo con un margine di sicurezza — finché entrava in un vortice di elettromagnetismo che aveva il suo centro nel motore Bussard e che esercitava un’azione di compressione e di accensione.
L’astronave non era piccola. Eppure era appena un nudo luccichio di metallo in quella vasta ragnatela di forze che la circondavano. Essa stessa non le generava più. Aveva iniziato il processo quando aveva raggiunto la minima velocità di tipo statoreattore; ma esso era diventato troppo ingombrante, troppo veloce cosicché poteva soltanto essere creato e mantenuto da se stesso. I reattori termonucleari di base (un sistema separato sarebbe stato utilizzato per decelerare), i venturimetri, l’intero complesso propulsore non erano situati al suo interno. In massima parte non si trattava di strumenti materiali, ma della risultante di vettori su scala cosmica. L’apparato di controllo dell’astronave, sotto la guida del computer, non era neppure lontanamente paragonabile ai piloti automatici. Era piuttosto simile a un complesso di catalizzatori che, utilizzati giudiziosamente, potevano influenzare la corsa di queste reazioni mostruose, incanalarle, al momento opportuno rallentarle e smorzarle… ma non incrementare la velocità.
La fusione d’idrogeno bruciava come una stella, a poppa del modulo Bussard dove avveniva la reazione elettromagnetica. Un titanico effetto laser-gas dirigeva gli stessi fotoni in un raggio la cui reazione spingeva in avanti l’astronave — e che avrebbe ridotto in vapore qualsiasi corpo solido avesse colpito. Il procedimento non era efficiente al cento per cento. Ma la maggior parte dell’energia smarrita serviva a ionizzare l’idrogeno sfuggito alla combustione nucleare. Questi protoni ed elettroni, insieme con i prodotti della fusione, venivano a loro volta lanciati indietro dai campi di forza, una bufera di plasma che dava il proprio contributo all’aumento del momento d’inerzia.
Il procedimento non era neppure regolare e costante. Piuttosto, condivideva l’instabilità del metabolismo negli organi viventi e oscillava sempre al limitare stesso del disastro. Variazioni imprevedibili si verificavano nel contenuto materiale dello spazio. L’estensione, l’intensità e la configurazione dei campi di forza dovevano essere regolate in conformità: un problema con un numero indefinito — ma sempre nell’ordine di milioni — di fattori, che soltanto un computer poteva risolvere abbastanza in fretta. I dati che arrivavano e i segnali che partivano viaggiavano alla velocità della luce: velocità finita, che richiedeva tre secondi e un terzo per attraversare un milione di chilometri. La risposta sarebbe stata fatalmente lenta. Tale pericolo sarebbe aumentato se la Leonora Christine avesse raggiunto una velocità così prossima a quella assoluta da rendere le valutazioni del tempo variabili.
Comunque fosse, settimana dopo settimana, mese dopo mese, la Leonora Christine si muoveva in avanti.
Il molteplice riciclaggio della materia che ritrasformava i rifiuti biologici in aria respirabile, acqua potabile, cibo commestibile, fibre utilizzabili, arrivò a un punto tale da mantenere a bordo un equilibrio nell’alcool etilico. Vino e birra venivano prodotti in quantità moderate, principalmente per farne uso a tavola. La razione di liquori più forti era scarsa. Ma alcune persone avevano incluso bottiglie di liquore nei loro bagagli personali. Inoltre, potevano barattare con altro la quota spettante agli amici astemi e mantenere così integra la loro riserva nel caso ce ne fosse bisogno per qualche occasione speciale. Nessuna regola ufficiale, ma un’abitudine venuta a crearsi, stabiliva che chi voleva bere fuori della sua cabina lo doveva fare nella sala mensa. Proprio per facilitare i rapporti sociali, questa stanza aveva, al posto di un solo lungo tavolo, tanti piccoli tavolini. Così, tra i pasti poteva fungere da luogo di ritrovo, una specie di club. Alcuni degli uomini costruirono a uno dei lati della sala un bar, dove poter trovare ghiaccio e bicchieri per i cocktail. Altri allestirono tende da srotolare lungo le pareti, cosicché i decorosi disegni murali venissero nascosti, durante le ore dedicate alle sbornie, da scene un po’ audaci. Un registratore trasmetteva sempre, in genere, una musichetta di sottofondo, roba allegra, qualunque cosa dalle «gagliarde» del secolo XVI agli ultimi vaneggiamenti astrali ricevuti dalla Terra.
Un giorno particolare, verso le otto di sera, il club era deserto. Era prevista una festa danzante nella palestra. Una parte del personale che non era in servizio e voleva partecipare al ballo — la maggioranza — si stava vestendo in modo consono all’occasione: gli abiti e qualsiasi tipo di festa stavano diventando terribilmente importanti. Il macchinista Johann Freiwald apparve nella palestra vestito di una tunica dorata e calzoni di stoffa argentea che una signora gli aveva fatto con le proprie mani. Costei non era ancora pronta, né l’orchestra era arrivata al suo posto, così Freiwald acconsentì a recarsi insieme con Elof Nilsson al bar.
— Ma non potremmo parlare di lavoro domani? — chiese. Era un giovane grassoccio e dall’aspetto amabile, i lineamenti squadrati, la pelle del cranio che scintillava rosea sotto i capelli biondi tagliati a zero.
— Voglio discuterne subito con te, ora che l’idea che mi è venuta è ancora fresca nella mia mente — disse Nilsson con la sua voce stridente. — È stato una specie di lampo, mentre mi stavo cambiando d’abito. — Il suo aspetto confermava le sue parole. — Prima di approfondire l’argomento, vorrei controllarne l’aspetto pratico.
— Jawhol, se ci mette lei qualcosa da bere e non la tiriamo tanto in lungo.
L’astronomo prese dallo scaffale la sua bottiglia personale, afferrò un paio di bicchieri e si diresse verso un tavolino. — Io prendo l’acqua… — cominciò Freiwald. L’altro non lo stette a sentire. — Questo è Nilsson — esclamò Freiwald rivolto verso l’alto. Prese una brocca e si avviò a sua volta verso il tavolo.
Nilsson si sedette, estrasse di tasca un taccuino e cominciò a tracciare alcune linee. Era un individuo basso, grasso, brizzolato e bruno. Si sapeva che suo padre, un uomo intellettualmente ambizioso, nell’antica città universitaria di Uppsala l’aveva costretto a diventare un progidio a spese di ogni altra cosa. Si sospettava che il suo matrimonio fosse il risultato di una reciproca disperazione e che si fosse tramutato in una interminabile tragedia, tant’è vero che, nonostante la nascita di un figlio, si era sciolto nel momento stesso in cui a Nilsson si era presentata l’opportunità di partire con quella astronave. Eppure quando parlava, non degli esseri umani che non riusciva a capire e perciò disprezzava, ma della propria materia di studio… allora ci si dimenticava della sua arroganza e ampollosità e si ricordavano soltanto le osservazioni da lui fatte, che avevano finalmente comprovato l’oscillazione dell’universo, e la sua figura appariva come incoronata di stelle.
— … incomparabile opportunità di effettuare misurazioni di estrema importanza. Pensa soltanto a quale linea di base avremmo: dieci parsec! Più la possibilità di esaminare gli spettri di raggi gamma con minore incertezza e più alta precisione, quando vengono spostati sul rosso a fotoni meno energetici. E altro ancora. Eppure non sono soddisfatto.
«Non credo che per me sia veramente necessario osservare un’immagine elettronica del cielo: stretta, macchiata, degradata dal rumore, per non parlare di quei dannati cambiamenti ottici. Dovremmo montare alcuni specchi fuori dallo scafo. Le immagini raccolte da questi specchi potrebbero essere portate, attraverso conduttori della luce, fino ad alcuni oculari, fotomoltiplicatori, cineprese situati all’interno dell’astronave.
«No, non dirlo. Sono consapevole del fatto che i precedenti tentativi in questo campo sono falliti. Si può costruire una macchina che passi attraverso una conduttura d’aria, dare la forma al supporto plastico per un tale strumento, e rivestirlo d’alluminio. Ma gli effetti induttivi dei campi Bussard renderebbero ben presto lo specchio simile a qualcosa di adatto a un padiglione da Luna Park come quelli di Gròna Lund. Sì, lo so.
«Ora la mia idea è di stampare circuiti sensoriali e reattivi nei flessori di controllo, di plastica, i quali compenseranno automaticamente queste distorsioni non appena si verificheranno. Vorrei sentire la tua opinione, Freiwald, sulla possibilità concreta di disegnare, provare e produrre simili flessori. Ecco qui uno schizzo rudimentale di ciò che ho in mente…
Nilsson fu interrotto da uno squillante — Ehi, sei qui, vecchio mio! — Lo scienziato e il macchinista alzarono la testa. Williams stava avanzando verso di loro, barcollando leggermente. Il chimico reggeva una bottiglia nella mano destra, e un bicchiere semivuoto nella sinistra. Aveva la faccia più arrossata del normale e respirava pesantemente.
— Was zum Teufel? - esclamò Freiwald.
— Inglese, ragazzo — disse Williams. — Parla in inglese, stasera. Al modo americano. — Raggiunse il loro tavolo, vi depositò i suoi fardelli e vi si appoggiò con tutto il peso, tanto da farlo quasi ribaltare. Un potente tanfo di whisky aleggiava tutt’intorno a lui. — Ssspecialmente tu, Nilsson. — Puntò verso di lui un dito vacillante. — Parla americano stasera tu, svedese. Mi hai sentito?
— Per favore, vada altrove — disse l’astronomo.
Williams si lasciò cadere pesantemente su una sedia. Si chinò in avanti, facendo perno su entrambi i gomiti. — Tu non sai che giorno è questo — disse. — Lo sai?
— Dubito che lo sappia lei, nelle sue attuali condizioni — scattò Nilsson, sempre in svedese. — Oggi è il quattro di luglio.
— E-e-esatto! E sai che cosa s-significa? No? — Williams si rivolse a Freiwald. — Tu lo sai, Heinie?
— Qualche, ehm, anniversario? — arrischiò il macchinista.
— Esatto. Anniversario. Come hai fatto a indovinare? — Williams alzò il bicchiere. — Bevete con me, v-voi due. L’ho con-conservato per oggi. Bevete!
Freiwald gli rivolse un’occhiata di simpatia e fece tintinnare il suo bicchiere contro quello del compagno. — Prosit. - Nilsson stava per dire: — Skål - ma rimise giù il bicchiere e fissò l’altro con aria torva.
— Il quattro luglio — continuò Williams. — Il Giorno dell’Indipendenza. Il mio paese. Volevo dare una festicciola. Ma tutti se ne fregano. Un sorriso con me, due forse, poi andate al vostro dannato ballo. — Fissò Nilsson per un po’. — Svedese — disse scandendo le parole, — tu berrai con me o ti farò ingoiare i denti.
Freiwald appoggiò una mano muscolosa sul braccio di Williams. Il chimico cercò di alzarsi, ma Freiwald lo costrinse a restar seduto. — Si calmi, per favore, dottor Williams — esclamò con voce tranquilla il macchinista. — Se lei vuole celebrare la sua festa nazionale, bene, saremo felici di fare un brindisi con lei. Non è così, signore? — aggiunse, rivolto a Nilsson.
L’astronomo tagliò corto: — So di che cosa si tratta. Me l’ha spiegato prima che partissimo un uomo che era al corrente della situazione. Frustrazione. Non è riuscito ad adeguarsi alle moderne procedure manageriali.
— La dannata burocrazia dello stato del benessere — singhiozzò Williams.
— Ha cominciato a sognare l’età d’oro, imperiale, del suo paese — proseguì Nilsson. — Si è messo a fantasticare su un sistema di libera iniziativa che dubito sia mai esistito. Si è impantanato nella politica reazionaria. Quando l’Autorità di Controllo doveva arrestare numerosi alti funzionari americani accusati di aver cospirato per violare il Patto…
— Ne avevo abbastanza. — La voce di Williams salì di tono fino a diventare un grido. — Un’altra stella. Un nuovo mondo. Possibilità di essere libero. Anche se dovevo viaggiare con una banda di svedesi.
— Vedi? — Nilsson si rivolse sorridendo a Freiwald. — Non è altro che una vittima del nazionalismo romantico con cui il nostro troppo indisciplinato mondo ha cercato di consolarsi, in questa passata generazione. Peccato che non sia riuscito ad accontentarsi di romanzi storici e di cattiva poesia epica.
— Romantico! — gridò Williams. Si dibatté senza risultato sotto la stretta possente di Freiwald. — Tu, bastardo vaso da notte con le zampe da ragno e gli occhi da civetta, cosa credi che ti abbiano fatto? Come ti sentivi, sformato come sei, mentre gli altri ragazzi facevano la parte dei Vichinghi? E io mi sono adeguato, figlio di una vacca, io ricevevo uno stipendio, cosa che a te non è mai successa, sporco… Lasciami andare e vedremo chi è un uomo di noi due!
— Per favore — disse Freiwald. — Bitte. Signori. — Ora era in piedi e teneva Williams inchiodato alla sedia. Il suo sguardo trafisse Nilsson dall’altra parte del tavolo. — E lei, signore — continuò con voce tagliente, — lei non aveva il diritto di esasperarlo fino a questo punto. Avrebbe potuto fargli la cortesia di celebrare con un brindisi la sua festa nazionale.
Nilsson sembrava pronto a far valere il suo rango d’intellettuale, ma si sgonfiò allorché scorse Jane Sadler che entrava. La donna era rimasta a osservare la scena dalla soglia della porta, per un paio di minuti. La sua espressione rendeva patetico il suo abito elegante.
— Johann ti sta dicendo la verità, Elof — esclamò. — È meglio andare, ora.
— Andare a ballare? — gorgogliò Nilsson. — Dopo tutto questo?
— A maggior ragione dopo quanto è successo. — La donna alzò la testa. — Mi sono veramente stancata di questo tuo atteggiamento imperioso, mio caro. Vuoi che cerchiamo di ricominciare da capo o piantiamo tutto subito?
Nilsson brontolò, ma si alzò e le offrì il braccio. Jane era un po’ più alta di lui. Williams rimase a sedere come ripiegato su se stesso, facendo strenui sforzi per non mettersi a piangere.
— Resterò qui per un po’, Jane, e vedrò se posso tirarlo su di morale — le sussurrò Freiwald.
La donna gli rivolse un sorriso turbato. — Ce la farai, Johann. — Erano stati insieme un paio di volte prima che Jane si mettesse con Nilsson. — Grazie. — I loro sguardi si incontrarono e indugiarono. Nilsson strascicò i piedi e tossì. — Ci vediamo più tardi — disse la donna, e uscì.