Poul Anderson Tau Zero

CAPITOLO PRIMO

— Guardi… là… che si alza sopra la Mano di Dio. È lei?

— Sì, mi pare proprio di sì. La nostra astronave.

Era l’ora di chiusura di Millesgården e loro erano gli ultimi visitatori. Per la maggior parte di quel pomeriggio avevano passeggiato tra le sculture, l’uomo in preda a una specie di soggezione e affascinato da quella sua prima esperienza, mentre la donna rivolgeva un addio silenzioso a ciò che era stato una parte della sua esistenza, più importante di quanto avesse sospettato fino a quel momento. Benché l’estate fosse sul finire, avevano avuto fortuna per quanto riguardava il clima. Quella giornata terrestre era stata allietata dal sole, con una leggera brezza che faceva danzare le ombre delle foglie sui muri della villa, tra un limpido sussurrar di fontane.

Ma, allorché il sole tramontò, il giardino parve di colpo animarsi di una vita ancora maggiore. Era come se i delfini si stessero tuffando nelle loro acque, Pegaso stesse infuriando verso il cielo, Folke Filbyter stesse cercando il nipotino perduto mentre il suo cavallo avanzava a fatica nel guado, Orfeo stesse ascoltando e le giovani sorelle si abbracciassero nella loro resurrezione: tutto nel più assoluto silenzio, perché era la percezione di un singolo istante, ma il tempo in cui queste figure si muovevano era non meno reale del tempo che interessava gli uomini.

— Come se fossero vivi, in partenza per le stelle, e noi dovessimo restar qui a diventare vecchi — mormorò Ingrid Lindgren.

Charles Reymont non sentì le sue parole. Era fermo, in piedi, sul viale lastricato all’ombra di una betulla le cui foglie stormivano e avevano già debolmente cominciato a cambiar colore, e guardava verso la Leonora Christine. In cima al pilastro che la reggeva, la Mano di Dio che alzava verso il cielo il Genio dell’Uomo si stagliava imponente contro un crepuscolo verde-azzurro. La piccola e velocissima stella le sfrecciò dietro per sparire di nuovo verso il basso.

— È sicuro che non si trattasse di un satellite qualsiasi? — chise Lindgren interrompendo quella calma. — Non avrei mai pensato che potessimo vedere…

Reymont la guardò alzando un sopracciglio. — Lei è il primo ufficiale e non sa dove si trovi il suo vascello o che cosa stia facendo in ogni momento? — Parlava lo svedese con un accento marcato, caratteristica che valeva per ogni altra lingua da lui conosciuta, ma che in questo caso parve sottolineare la sua frase sardonica.

— Non sono l’ufficiale di rotta — replicò la donna, sulla difensiva. — Inoltre, cerco più che posso di tenere lontano i miei pensieri dall’intera faccenda. Lei dovrebbe fare lo stesso. Passeremo fin troppi anni a bordo di quell’astronave. — Si avvicinò a lui, fin quasi a toccarlo. Il suo tono si fece più gentile. — Per favore. Non rovini questo pomeriggio.

Reymont si strinse nelle spalle. — Mi scusi. Non avevo questa intenzione.

Un inserviente si avvicinò a loro, si fermò e disse in tono deferente: — Mi dispiace, ma ormai dobbiamo chiudere i cancelli.

— Oh! — Lindgren sobbalzò, guardò l’orologio che portava al polso, osservò le terrazze attorno a loro. Erano deserte, non c’era più nulla tranne la vita che Carl Milles aveva modellato nella pietra e nel metallo, tre secoli prima. — Ma come, l’ora di chiusura è trascorsa già da un pezzo. Non me ne ero resa conto.

L’inserviente si inchinò leggermente. — Poiché il signore e la signora ne avevano voglia, li ho lasciati soli dopo che gli altri visitatori se n’erano andati.

— Lei ci conosce, allora — disse Lindgren.

— E chi non vi conosce? — Lo sguardo che l’inserviente le rivolgeva era pieno di ammirazione. La donna era alta e ben fatta, con le fattezze regolari, grandi occhi azzurri, capelli biondi tagliati appena sotto gli orecchi. I suoi abiti borghesi erano più eleganti di quelli che indossavano di solito le astronaute; i ricchi colori sfumati e i drappeggi fluttuanti si adattavano bene alla sua personalità.

Reymont faceva uno strano contrasto. Era un uomo tarchiato, con i capelli scuri, un’espressione dura sul volto, la fronte solcata da una cicatrice che egli non si era mai preoccupato di far scomparire con un intervento di plastica facciale. La sua semplice casacca e i pantaloni di stoffa scozzese avrebbero potuto anche essere una uniforme.

— Grazie per non averci importunato — disse, in un tono brusco più che cordiale.

— Mi sembrava scontato che desideraste rimanere almeno per un po’ in incognito — rispose l’inserviente. — Senza dubbio molti altri vi hanno riconosciuto ma hanno provato la mia stessa impressione.

— Lei si accorgerà che noi svedesi siamo un popolo cortese.

— Lindgren sorrise a Reymont.

— Non intendo certo metterlo in dubbio — replicò il suo compagno. — Nessuno può fare a meno di accorgersene, dal momento che vi trovate in ogni punto del Sistema Solare. — Fece una pausa. — D’altronde, chiunque governa il mondo deve essere gentile. Ai loro tempi, i Romani lo erano. Per esempio, Pilato.

L’inserviente fu sconcertato dall’implicito diniego. Lindgren replicò, in tono leggermente tagliente: — Ho detto älskvärdig, cortese, non artig, gentile. — Poi tese la mano all’inserviente.

— Grazie, signore.

— Il piacere è stato mio, primo ufficiale Lindgren — rispose l’inserviente. — Possiate fare un viaggio fortunato e tornare a casa sani e salvi.

— Se il viaggio avrà davvero fortuna — gli ricordò la donna, — non torneremo più a casa. Se dovessimo… — Si interruppe. L’uomo sarebbe già stato morto e sepolto. — La ringrazio ancora — disse al piccolo uomo di mezz’età. — Addio — sussurrò poi rivolta ai giardini.

Anche Reymont scambiò una stretta di mano con l’inserviente e mormorò qualcosa. Poi lui e Lindgren si avviarono all’uscita.

Fuori dei giardini alti muri proiettavano la loro ombra nera sul marciapiede quasi deserto. I loro passi risuonavano sordamente. Dopo un attimo la donna osservò: — Mi chiedo se quella che abbiamo visto era veramente la nostra astronave. Siamo a una latitudine molto alta. E neppure un vascello Bussard è tanto grande e lucente da brillare nello sfolgorio del tramonto.

— La Leonora Christine lo è, quando le membrane sono spiegate — le disse Reymont. — E proprio ieri è stata immessa in un’orbita sghemba per portare a termine le prove finali di volo. La riporteranno sul piano ellittico solo poco prima della nostra partenza.

— Sì, certo, ho visto il programma. Ma non ho il dovere di ricordarmi esattamente quali siano i piani di volo e chi li abbia redatti e quando li metta in esecuzione. Soprattutto dal momento che non partiremo prima di due mesi. Perché lei se ne preoccupa tanto?

— Visto che sono semplicemente il funzionario di polizia addetto a mantenere l’ordine a bordo, vuol dire? — La bocca di Reymont si curvò in una smorfia. — Diciamo che sto facendo pratica per diventare uno di quei nevrotici eternamente preoccupati e ansiosi.

Lindgren lo osservò con la coda dell’occhio. Quello sguardo si tramutò in un attento esame. Erano sbucati in un grande spiazzo che dall’altra parte era lambito dall’acqua. Al di là le luci di Stoccolma si stavano accendendo a una a una, mentre la notte saliva sempre più in alto tra le case e gli alberi. Ma il canale rimaneva simile a uno specchio e nel cielo c’erano soltanto poche stelle sfavillanti, tra cui Giove: Si poteva vedere la strada quasi senza bisogno di far luce.

Reymont si piegò sulle ginocchia e tirò a sé la barca che avevano preso in affitto. Alcuni cavi assicurati a un gancio la tenevano legata al cemento. Egli aveva ottenuto una licenza speciale per ancorare l’imbarcazione praticamente dovunque. Una spedizione interstellare era un evento così straordinario! Lindgren e lui avevano trascorso la mattinata in una crociera che aveva fatto il giro dell’arcipelago: alcune ore passate tra il verde, case che sembravano parte integrante delle isole dove erano state erette, barche a vela e gabbiani e scintillio del sole sulle onde. Ben poco di tutto ciò sarebbe esistito su Beta Virginis, e nulla nell’enorme spazio intermedio.

— Sto cominciando a capire quanto lei mi sia estraneo, Carl — disse lentamente la donna. — Lo è altrettanto per tutti?

— Eh? La mia biografia è nel mio dossier. — L’imbarcazione urtò contro il parapetto dello spiazzo. Reymont saltò giù nell’abitacolo. Tenendo tesa la fune con una mano, offrì l’altra alla donna. Lindgren non aveva bisogno di appoggiarsi pesantemente su di lui per scendere a bordo, ma lo fece. Il braccio di Reymont ondeggiò appena sotto il peso di lei.

Lindgren si sedette su un sedile vicino alla barra del timone. Reymont girò l’estremità avvitata del gancio che teneva stretto. Forze d’attrito intermolecolari produssero un leggero rumore schioccante che sembrò una risposta allo schiaffeggiare dell’acqua sullo scafo. I suoi movimenti non potevano essere definiti aggraziati, come quelli della donna, ma erano veloci e pratici.

— Sì, credo che noi tutti abbiamo imparato a memoria i rapporti ufficiali che concernono gli altri. — La donna annuì con il capo. — Nel suo caso, è il minimo che si potesse ottenere da una persona.

(Charles Jan Reymont. Cittadinanza interplanetaria. Età, trentacinque anni. Nato nell’Antartico, ma non in una delle migliori colonie; i sobborghi di Polyugorsk potevano offrire soltanto povertà e inquietudine a un ragazzo il cui padre era morto prematuramente. Raggiunta così l’adolescenza, era riuscito ad arrivare su Marte in qualche modo imprecisato e aveva fatto un’infinità di lavori finché erano scoppiati i disordini. Allora aveva combattuto a fianco degli Zebras mettendosi talmente in evidenza che, in seguito, il Corpo di Salvataggio Lunare gli aveva offerto di entrare nelle sue file. Là egli completò la sua educazione accademica e salì velocemente di grado, finché, raggiunto il grado di colonnello, si occupò attivamente di migliorare il settore vero e proprio di polizia. Quando si era offerto volontario per quella spedizione, l’Autorità di Controllo era stata ben lieta di dare il suo benestare.)

— Ma non vi si accenna minimamente a ciò che lei è in realtà — osservò Lindgren. — È riuscito a sottrarsi così anche ai test psicologici?

Reymont intanto si era recato a prua e aveva sciolto l’ultimo ancoraggio. Stivò con cura i cavi d’ormeggio, poi si mise al timone e mise in moto il motore. L’accensione magnetica era estremamente silenziosa e l’elica produceva un rumore soffocato, ma l’imbarcazione scivolò rapidamente verso il largo. Reymont teneva gli occhi puntati davanti a sé. — Perché le interessa? — chiese.

— Resteremo insieme per un bel po’ di anni. Anzi, è possibile, per il resto della nostra vita.

— Allora comincio a chiedermi perché lei abbia voluto trascorrere la giornata di oggi insieme con me.

— Lei mi ha invitato.

— Dopo che mi aveva telefonato al mio albergo. Lei deve aver guardato sul registro di bordo per poter scoprire dove mi trovavo.

Millesgården spariva nell’oscurità che, oltre la poppa, si andava infittendo rapidamente. Le luci che splendevano oltre il canale e quelle che provenivano dal centro della città, oltre la via d’acqua, non gli permisero di vedere se la donna fosse arrossita. Però, ella voltò la faccia. — L’ho fatto — ammise poi Lindgren. — Io… pensavo che lei avrebbe potuto sentirsi solo. Lei non ha nessuno, vero?

— Non mi è rimasto alcun parente. Sto facendo un giro turistico per visitare i bordelli della Terra. Non ce ne saranno, là dove siamo diretti.

Gli occhi di lei si alzarono di nuovo, questa volta in direzione di Giove, un lume fisso di colore bianco-bruno. Altre stelle si stavano facendo avanti. Lindgren fu scossa da un brivido e si serrò più strettamente il soprabito intorno al corpo, come per difendersi dall’aria autunnale. — No — disse con voce bassa. — Ogni cosa ci sarà estranea. E ora che abbiamo appena cominciato a tracciare una mappa di quel mondo lassù, a capirlo — il nostro vicino, la nostra sorella — un viaggio di trentadue anni-luce…

— La gente è fatta così.

— Perché lei ha deciso di venire, Carl?

L’uomo alzò e abbassò le spalle. — Sono un individuo irrequieto, suppongo. E, per essere sincero, mi son fatto alcuni nemici nel Corpo di Salvataggio. Ho lisciato loro il pelo dalla parte sbagliata o li ho lasciati troppo indietro per via delle mie promozioni. Ero giunto a un punto morto: non avrei potuto avanzare oltre senza mettermi a brigare tra le quinte. Cosa che disprezzo. — Lo sguardo di Reymont incontrò quello della donna. Per un attimo indugiarono a guardarsi l’un l’altra negli occhi. — E lei?

Ingrid sospirò. — Probabilmente, per puro e semplice romanticismo. Fin da quando ero bambina pensavo di dover andare sulle stelle, nello stesso modo in cui un principe in un racconto di fate deve andare alla terra degli Elfi. Alla fine, dopo aver molto insistito con i miei genitori, li ho convinti a lasciarmi iscrivere all’Accademia.

Il sorriso dell’uomo aveva un calore maggiore del normale. — E lei ha raggiunto un punteggio eccezionale nel servizio interplanetario. Non hanno esitato un attimo a nominarla primo ufficiale nel suo primo viaggio fuori del sistema solare.

Lindgren agitò le mani che teneva in grembo. — No, per favore. Non è che non sappia fare bene il mio lavoro, ma per una donna è facile raggiungere in breve tempo posti di primo piano nelle imprese spaziali. Le donne sono molto richieste. E il mio lavoro sulla Leonora Christine sarà essenzialmente esecutivo. Dovrò occuparmi più di… be’, relazioni umane… che di astronautica.

L’uomo rivolse nuovamente lo sguardo davanti a sé. L’imbarcazione stava girando intorno alla lingua di terra, diretta verso Saltsjön. Il traffico marittimo si stava facendo più intenso. I motori idrici rombavano nel superarli. Un sottomarino mercantile avanzava maestosamente, diretto verso il Baltico. Sulla loro testa i tassi aerei svolazzavano come tante lucciole. Il centro di Stoccolma era simile a un fuoco inestinguibile dai mille colori e migliaia di rumori si fondevano in un unico rombo che in un certo senso risultava armonioso.

— Questo mi riporta alla mia domanda iniziale. — Reymont ridacchiò. — La mia controdomanda, per meglio dire, perché è stata lei a cominciare a discutere quest’argomento. Non creda che non mi sia piaciuto stare in sua compagnia. Mi è piaciuto, e molto, e se lei accetterà di cenare con me considererò questo giorno come uno dei migliori che abbia mai passato in vita mia. Ma la maggior parte del nostro gruppo si è dispersa come palline di mercurio nell’attimo stesso in cui il nostro periodo di addestramento è finito. Ognuno sta deliberatamente evitando i futuri compagni di viaggio. È meglio trascorrere il tempo che ancora rimane con coloro che non sì avrà mai più occasione di rivedere. E, ora, quanto a lei… lei non è una persona sradicata dalla Terra. Ha una vecchia famiglia, gente distinta, ammodo; anche affezionata a lei, ci scommetto; padre e madre entrambi ancora vivi, fratelli, sorelle, cugini, certamente ansiosi di fare tutto ciò che possono per lei nelle poche settimane che ancora ci restano. Perché oggi li ha abbandonati?

La donna non aprì bocca.

— La vostra riservatezza svedese — esclamò Reymont dopo un po’. — Appropriata ai governanti dell’umanità. Non avrei dovuto immischiarmi. Ma almeno mi conceda lo stesso diritto alla privacy, vuole?

Poi, subito dopo: — Vorrebbe cenare con me? Ho scoperto un grazioso ristorantino con tanto di camerieri.

— Sì — rispose la donna. — Grazie, accetto.

Poi si alzò e rimase in piedi accanto a lui, appoggiandogli una mano sul braccio. I grossi muscoli dell’uomo si contrassero sotto le dita di lei. — Non ci chiami governanti — lo pregò. — Non lo siamo. Questa era l’idea alla base del Patto. Dopo la guerra nucleare… che per poco non si concluse con la morte del mondo… si doveva fare qualcosa.

— Già — borbottò Reymont. — Ho letto anch’io un libro di storia. Disarmo generale; una polizia a livello mondiale per mantenere tale disarmo; sed quis custodiet ipsos Custodes? Di chi ci si poteva fidare a tal punto da assegnargli il monopolio delle armi sterminatrici in tutto il pianeta e gli illimitati poteri di controllo e legislativi? Certo ci voleva un paese abbastanza grande e moderno da fare del mantenimento della pace un’importante industria; ma non tanto forte da conquistare chiunque altro e da imporre la sua volontà agli altri senza l’appoggio di una maggioranza di nazioni; inoltre, un paese che godesse di una ragionevole stima presso qualunque altra nazione. In parole povere, la Svezia.

— Allora, lei capisce — esclamò la donna con sollievo, guardandolo.

— Certo. E capisco anche le conseguenze. Il potere si nutre di se stesso, non per cospirazione, ma per necessità logica. Il denaro che il mondo paga per sopperire ai costi dell’Autorità di Controllo passa di qui; perciò voi diventate il paese più ricco della Terra, con tutto ciò che ne deriva. E, non è neanche il caso di dirlo, siete diventali il centro della diplomazia. Tutte le volte che un reattore, un’astronave, un laboratorio ha un potenziale di pericolosità e deve perciò ricadere sotto l’Autorità di Controllo, ciò significa che qualche svedese ha voce in capitolo in tutto quanto conta. Questo porta alla vostra imitazione da parte di tutti, anche di coloro ai quali non andate a genio. Ingrid, amica mia, il suo popolo non potrà sottrarsi al destino di tramutarsi in nuovi Romani.

La sua felicità di prima scomparve. — Ma a lei noi non andiamo a genio, Carl?

— Né più né meno di chiunque altro, direi. Finora siete stati padroni pieni d’umanità. Fin troppo umani, oserei dire. Per quanto concerne il mio caso particolare, dovrei esservi grato perché mi permettete di essere essenzialmente un apolide, cosa che mi sembra di preferire a ogni altra. No, non vi siete comportati male. — Indicò con un gesto della mano, a destra e a sinistra, le torri che irradiavano una splendente luminosità verso il basso. — Comunque, non durerà.

— Che cosa intende dire?

— Non lo so con precisione. Ma sono certo che nulla durerà mai per sempre. Non importa con quanta accuratezza e precisione venga edificato un sistema, dopo qualche tempo si deteriorerà e perirà.

Reymont tacque un attimo, per cercare le parole più adatte. — Nel vostro caso — disse poi, — credo che la fine possa venire proprio da questa stabilità di cui voi tanto vi gloriate. È cambiato nulla di importante, almeno sulla Terra, dall’ultimo ventesimo secolo? È questo uno stato di cose desiderabile?

«Suppongo — aggiunse, — che questa sia una ragione per impiantare alcune colonie nella galassia, se mai vi riusciremo. Per impedire un’altra Ragnarok.

La donna serrò i pugni. Volse di nuovo la faccia verso l’alto. La notte era ormai calata del tutto sulla città, ma soltanto poche stelle erano visibili attraverso il velo di luce che copriva Stoccolma. Da qualche parte — in Lapponia, per esempio, dove i suoi genitori avevano un cottage estivo — sarebbero state numerose e la loro luce sarebbe stata implacabilmente brillante.

— Mi sto comportando proprio male come accompagnatore — si scusò Reymont. — Piantiamola con queste discussioni da scolaretti e occupiamoci di argomenti più interessanti. Un aperitivo, per esempio.

La risata della donna risuonò incerta.

Reymont tentò di mantenere la conversazione su un piano di assoluta banalità mentre si infilava nello Strömmen, attraccava a riva l’imbarcazione e si avvicinava con la donna a piedi attraverso il ponte che portava alla città vecchia. Superato il palazzo reale si trovarono in una zona illuminata in modo più blando, e camminarono per stradine strette fiancheggiate da edifici dalle facciate color dell’oro che erano rimaste sempre eguali da alcune centinaia d’anni. La stagione turistica era ormai finita; degli innumerevoli forestieri che ospitava la città, pochi avevano ragioni per visitare quel lembo di terra sperduto; fatta eccezione per qualche occasionale pedone o elettrociclista, Reymont e Lindgren erano praticamente soli.

— Mi mancherà tutto questo — disse la donna.

— È uno spettacolo pittoresco — concesse Reymont.

— È più di questo, Carl. Non è soltanto un museo all’aperto, perché qui vivono reali esseri umani. E coloro che hanno preceduto gli attuali abitanti è come se vivessero ancora. Oh, la Torre di Birger Jarl, la chiesa di Riddarholm, gli scudi della Casa dei Nobili, la Pace d’Oro dove Bellman bevve e cantò… Ci sentiremo soli nello spazio, Carl, così lontani dai nostri morti.

— Eppure lei sta per partire.

— Sì. Ma non è facile. Mia madre che mi ha partorito, mio padre che mi prendeva per mano e mi portava fuori all’aperto per insegnarmi a riconoscere le costellazioni. Quella prima notte, si sarà reso conto di ciò che stava facendo? — Trasse un profondo respiro. — In parte è per questo che mi sono messa in contatto con lei. Dovevo fuggire da ciò che sto facendo loro. Anche se per un solo giorno.

— Lei ha bisogno di bere qualcosa — disse Reymont, — ed eccoci arrivati.

L’entrata del ristorante era sulla grande piazza del Mercato. Passando in mezzo alle altre facciate degli edifici che li circondavano, era facile immaginare l’allegro risuonare sulle pietre della pavimentazione degli zoccoli dei destrieri montati dagli antichi cavalieri. E non ci si sarebbe ricordati come i rigagnoli delle strade fossero pieni di sangue e quanto fossero alte le cataste di teste troncate dal corpo, una certa settimana d’inverno, perché ciò risaliva a un passato ormai remoto e gli uomini raramente indugiano a considerare le disgrazie toccate ad altri uomini. Reymont accompagnò Lindgren fino a un tavolo in una saletta illuminata dalla luce delle candele, che era riservata a loro soltanto, e ordinò akvavit e una bibita a base di birra.

Lindgren gli rimase alla pari, bicchiere dopo bicchiere, sebbene avesse un peso inferiore e minore allenamento. Il pasto che seguì fu tirato notevolmente in lungo anche per le abitudini scandinave, e fu innaffiato da una notevole quantità di vino e, dopo, di cognac. Reymont lasciò che fosse per lo più Lindgren a parlare.

… di una casa vicino a Drottningholm, il cui parco e i cui giardini erano per lei come suoi; la luce del sole attraverso le finestre, che scintillava su pavimenti di legno lucido e su oggetti d’argento che erano passati per le mani di dieci generazioni, una barca a vela sul lago, inclinata per l’azione del vento, il padre alla barra del timone con una pipa tra i denti, i capelli di lei che svolazzavano sciolti; assurde notti durante il periodo invernale e, a metà, quella caverna calda chiamata Natale; le brevi e luminose notti estive, i falò alla vigilia di San Giovanni, per rievocare la volta in cui erano stati accesi per dare il benvenuto a casa a Baldr tornato dal mondo sotterraneo; una passeggiata sotto la pioggia con un primo innamorato, l’aria gelida, impregnata d’umidità e del profumo di lillà; viaggi per tutta la Terra, le piramidi, il Partenone, Parigi al tramonto dalla cima di Montparnasse, il Taj Mahal, Angkor Wat, il Cremlino, il ponte di Golden Gate, sì, e il Fujiama, il Gran Canyon, le cascate Vittoria, il Reef della grande barriera…

… d’amore e allegria a casa, ma anche disciplina, ordine, serietà alla presenza di estranei; musica sempre, Mozart il più amato; una buona scuola, dove insegnanti e alunni l’avevano resa cosciente, quasi in un’esplosione di consapevolezza, dell’esistenza di un intero nuovo universo; l’Accademia, il lavoro più duro che mai avesse sospettato di saper fare, e quale piacere provò nell’accorgersi di esserne capace; crociere nello spazio, fino ai pianeti, oh lei era stata sulle nevi di Titano con Saturno sopra la testa, sconvolta da tanta bellezza; e sempre, sempre, i suoi parenti da cui tornare…

… in un buon mondo, la sua gente, le loro azioni, i loro piaceri tutti sani; sì, restavano problemi irrisolti, estreme crudeltà, ma con il tempo se ne poteva trovare la soluzione grazie alla ragione e alla buona volontà; sarebbe stata uria gioia credere in una qualche religione, perché ciò avrebbe reso il mondo perfetto dando ad esso uno scopo ultimo, ma in mancanza di prove convincenti ella poteva fare del suo meglio per aiutare a soddisfare quella richiesta, per aiutare l’umanità a muoversi verso qualcosa di più alto e nobile…

… ma no, non era una donna pedante e puritana, Reymont non doveva credere una cosa simile; in realtà, ella spesso si chiedeva se non fosse fin troppo edonistica, un po’ più disinibita di quanto fosse giusto; comunque ricavava piacere dalla vita senza far del male a nessun altro, almeno per quanto le sembrava; viveva con grandi speranze nel futuro.

Reymont le versò l’ultimo caffè. Il cameriere aveva finalmente portato il conto, sebbene non sembrasse avere molta fretta di riscuotere i soldi come la maggior parte dei suoi colleghi a Stoccolma. — Io penso che, nonostante gli svantaggi — disse Reymont, — riuscirai a godere di questo viaggio.

La voce della donna era diventata un po’ impastata. Ma i suoi occhi, mentre lo guardavano, rimanevano vivi ed equilibrati. — Intendo che sia così — esclamò. — Questa è infatti la ragione principale per cui ti ho cercato. Ricorda, durante l’addestramento ti avevo invitato a venire a trascorrere una parte della licenza in questa regione. — Ormai si davano del tu.

Reymont aspirò il suo sigaro. Nello spazio il fumo sarebbe stato proibito, per non sovraccaricare i sistemi per mantenere pura l’atmosfera nell’astronave, ma quella sera poteva ancora creare una nuvoletta azzurra davanti a sé.

Lindgren si chinò in avanti, appoggiando una mano su quella di lui che se ne stava inoperosa sul piano del tavolo. — Ci stavo pensando — gli disse. — Venticinque uomini e venticinque donne, per cinque anni in un guscio di metallo. Altri cinque anni se torniamo indietro immediatamente. Anche con i trattamenti antisenescenza, un decennio è una bella fetta di esistenza.

Reymont annuì.

— E naturalmente dovremo fermarci per esplorare — continuò la donna. — Se quel terzo pianeta è abitabile, ci stabiliremo lì per colonizzarlo — per sempre — e cominceremo a procreare figli. Qualunque cosa faremo, dovremo cominciare ad accoppiarci. Siamo in numero pari proprio per questo.

Reymont disse, parlando piano per paura di sembrare troppo brusco: — Pensi che tu e io potremmo costituire una coppia?

— Sì. — La sua voce si rafforzò. — Può sembrarti immodesto da parte mia, che io sia o no un’astronauta. Ma sarò più occupata della maggior parte dei nostri compagni, specialmente nelle prime settimane di viaggio. Non avrò tempo per le sfumature e i rituali. Per me potrebbe verificarsi una situazione che non mi va di sopportare. A meno che non ci pensi prima e non mi prepari in anticipo. Cosa che sto appunto facendo.

Reymont portò la mano di lei alle sue labbra. — Sono profondamente onorato, Ingrid. Ma potremmo essere troppo diversi l’uno dall’altra.

— No, io sospetto che sia proprio questo ad attirarmi. — Il palmo della sua mano si incurvò attorno alla bocca dell’uomo e gli scivolò lungo la guancia. — Voglio conoscerti. Sei l’individuo più virile che abbia mai incontrato.

Reymont appoggiò il denaro sul conto. Per la prima volta Lindgren lo vide agire senza la sua abituale sicurezza. Egli poi spense il sigaro, tenendo lo sguardo fisso su quanto stava facendo. — Io abito in un albergo sulla Tyska Brinken — disse. — Un po’ squallido.

— Non importa — replicò Ingrid. — Non credo che ci farò caso.

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