7

Luci accecanti lampeggiavano negli occhi di Carr, così intense da causargli un violento mal di testa. Si mise a saltellare tutt’intorno in preda al dolore, agitando le braccia. Gli parve una cosa stupida e degradante a farsi, anche se soffriva, così cercò di fermarsi o quanto meno di alzare le mani per proteggersi gli occhi da quella luce spietata, ma non ci riuscì. Il motivo stava nelle quattro corde che lo tenevano saldamente legato ai polsi e alle ginocchia, corde che si allungavano nell’oscurità sopra di lui, facendolo sobbalzare in aria come fosse una marionetta.

Le corde divennero nere, si fusero con il buio, scomparvero e caddero giù trasformandosi in qualche cosa di morbido e aderente.

Tirandosi su si rese conto di trovarsi nella propria stanza, sul proprio letto, intento a lottare con le lenzuola.

Tremando spinse i piedi fuori del letto e si sedette sull’orlo, aspettando che gli echi di quell’incubo cessassero di mulinare attraverso i suoi sensi, che la sua pelle perdesse quella tensione calda e formicolante. La testa gli faceva un male d’inferno. Sollevò la mano, e sentì un grosso grumo, molto sensibile. Ricordò l’ometto che l’aveva colpito. Una pallida luce stava filtrando dalla finestra. Si alzò, andò alla scrivania, aprì il cassetto superiore. Fissò le tre bottiglie di whisky da una pinta. Scelse quella piena per un quarto, se ne versò un bicchierino e lo ingollò d’un sol colpo. Se ne versò un altro. Si guardò intorno.

Gli indumenti che aveva indossato erano distesi con cura su una sedia in una maniera che non gli era certo caratteristica.

Mentre la testa continuava a vorticargli, si avvicinò alla finestra e guardò fuori.

Ma invece d’una strada vuota, le finestre delle altre camere da letto aperte, le imposte sbattenti e gli altri segni delle prime ore del mattino, Carr vide una piccola folla indaffarata muoversi lungo il marciapiede. Le vetrine erano per la maggior parte illuminate, le insegne al neon ammiccavano. Per quanto poco propenso, decise che doveva essere rimasto privo di sensi non soltanto la notte precedente, ma anche tutta la giornata successiva.

Una sensazione di fresco alle dita l’avvertì che il whisky stava sgocciolando fuori dal bicchierino. Lo bevette e si girò. Si sentì percorrere da una ventata di rabbia nei confronti dell’ometto dalla pelle scura (“è un tuo amico!”). Fu allora che notò una busta senza indirizzo appoggiata sulla mensola del caminetto. La prese, accese la luce, aprì la busta e dispiegò il foglio scritto fitto fitto che conteneva. Era di Jane.


Mi spiace per ieri sera. Spiace anche a Fred, adesso che sa chi sei. Era nascosto nella mia camera da letto e aveva sentito arrivare gli altri e ha pensato che tu fossi uno di loro quando sei entrato così di soppiatto.

Non cercare di trovarmi, Carr. Non metteresti in pericolo soltanto la tua vita, ma anche la mia. Fred e io stiamo lottando contro un’organizzazione che non può essere battuta. Possiamo soltanto nasconderci. Se cercherai di trovarmi, riuscirai soltanto a distruggere ogni mia possibilità di riuscita.

Vuoi avere una vita lunga e felice, sposarti e avere successo, non è così? Non vuoi che il tuo futuro venga cambiato, così da avere davanti a te soltanto qualche mese o ora infelice prima di essere braccato e ucciso? Allora le tue sole possibilità sono di fare quello che ti dico io.

Rimani nella tua stanza tutto il giorno. Poi organizza le tue cose proprio come fai di solito prima di andare al lavoro la mattina. Devi essere preciso, molto dipende da ciò. Soprattutto, brucia questa lettera, ti chiedo di farlo sul tuo onore. Poi sciogli in un bicchier d’acqua la polvere che troverai sul tavolo accanto al letto e bevila. Dopo un po’ ti addormenterai e quando ti sveglierai tutto sarà a posto.

La tua unica possibilità di uscire dal pericolo in cui ti trovi, e di aiutarmi, è di fare esattamente come ti ho detto: e di dimenticarmi per sempre.


Carr si avvicinò al letto. Sul comodino c’erano due sottili bustine appoggiate a un bicchiere vuoto dal fondo piatto. Ne tastò una fra l’indice e il pollice. Stridette leggermente. La rimise giù.

Gratificò di un’altra occhiata la lettera. La testa cominciò a lanciargli fitte lancinanti. Perdiana, che razza di citrullo pensavano che lui fosse? E cosa gli avrebbe detto Jane, dopo: “Ci spiace molto di averti dovuto avvelenare?” “Non cercare di trovarmi… brucia questa lettera, sul tuo onore… dimenticami per sempre…” Che nauseante melodramma! Pensava forse che frasi come quelle bastassero a calmarlo e a fargli accettare l’accaduto? Sì, non c’era dubbio che Jane fosse romantica, sì, la cara ragazza romantica che ti butta le braccia al collo e sfrega il ventre contro il tuo cosicché il suo amico possa piantarti una pistola nelle costole. Si era imbattuto in una faccenda molto brutta, e forse aveva scelto la parte sbagliata.

E lei aveva una ragione per mentire. Poteva mentire per spaventarlo, per impedirgli di scoprire che razza d’imbroglio lei e il suo prezioso omettino dalla pelle scura e occhialuto stavano combinando, forse per guadagnar tempo e organizzare qualche tipo di fuga. (Non muoverti dalla tua stanza oggi).

Carr cominciò a infilarsi in fretta i vestiti, sussultando alle nuove fitte di dolore. Dopo aver indossato il soprabito si scolò fino in fondo la bottiglia di whisky, tornò a buttarla dentro il cassetto, guardò per un attimo le altre bottiglie ancora piene, se ne cacciò una in tasca e uscì, fissando ferocemente il Carr imprigionato nello specchio delle scale.

Percorse mezzo isolato fino all’albergo più vicino e aspettò un tassi. Due gli passarono accanto col segnale di libero, ma i conducenti ignorarono le sue chiamate e l’agitarsi delle sue braccia. Digrignò i denti. Poi un terzo tassi si avvicinò e si fermò contro la cordonatura del marciapiede. Ma proprio mentre stava per salire, due bionde impellicciate uscite dall’albergo gli passarono accanto e si accomodarono sul sedile posteriore. Carr imprecò ad alta voce, girò sui tacchi e s’incamminò a piedi.

Era una serata temperata e piacevole, ma lui la detestò. Provava una rabbia insensata per la gente che gli passava accanto.

Come sarebbe stato bello fracassare tutte le insegne al neon, lacerare i manifesti, irrompere nelle case e buttare fuori dalle finestre le radio e i televisori che cantilenavano, gemevano, blateravano. Sì, ci voleva la bomba atomica!

Ma, malgrado tutto questo, l’aria fresca contribuiva a fargli passare il mal di testa. Mentre si avvicinava alla Mayberry Street, cominciò a calmarsi, o quanto meno a mettere a fuoco la sua rabbia.

A metà isolato c’era una macchina parcheggiata con il motore che borbottava sommesso: una decappottabile, con la capote abbassata. Proprio mentre vi passava accanto, vide un uomo uscire dalla porta in corrispondenza dell’appartamento dei Gregg: un uomo dalla corporatura piuttosto massiccia. Questi si allontanò nella direzione opposta. Ma prima che si voltasse, Carr l’aveva già riconosciuto. Il signor Wilson!

Reprimendo l’apprensione che cresceva in lui, Carr prese una brusca decisione. Con passo rapido e deciso fece per inseguire il signor Wilson.

Ma proprio in quell’istante, una voce dietro di lui disse: — Se attribuite un qualche valore alla vostra vita o alla vostra ragione, tenetevi lontano da quel tipo. — E allo stesso tempo una mano lo afferrò per il gomito e l’obbligò a girarsi.

Stavolta l’ometto scuro con gli occhiali indossava un cappello nero a larghe tese e un impermeabile di foggia militare abbottonato dall’alto al basso, troppo lungo per lui al punto da ricordare un accappatoio. È questa volta non appariva terrorizzato, malgrado il pallore. Invece rideva sardonico.

— Sapevo che non sareste rimasto nella vostra stanza — disse. — Avevo avvertito Jane che la sua lettera avrebbe avuto l’effetto opposto.

Carr strinse il pugno, roteò all’indietro il braccio… esitò.

Dannazione, portava gli occhiali, con lenti così spesse da fare compassione.

— Procedete pure — lo sfidò l’ometto dalla pelle scura. — Fate una scenata, fate che ci piombino addosso. Non m’importa più ormai.

E poi fece qualcosa di stupefacente. Gettò indietro la testa, levò il braccio in un gesto teatrale e con una certa sbarazzina freddezza intonò: — Se il se sarà ora, non accadrà; se non sarà da venire, sarà adesso; se non sarà adesso, verrà ancora. La prontezza è tutto.

Carr fissò le lenti illuminate dal riflesso delle luci stradali.

— Amleto — precisò l’ometto dalla pelle scura. — Atto quinto, seconda scena. La prima citazione era tratta dal Mastino dei Baskerville. — Fece una pausa e studiò Carr, i suoi occhiali ebbero un luccichio ipnotico. — Non pensereste, vero — riprese — mentre ce ne stiamo qui a conversare tranquillamente, in questo rispettabile circondario, che siamo entrambi in mortale pericolo? — Sorrise. — No, sono sicuro che non l’avreste mai pensato.

— Ascoltate — intervenne Carr d’un tratto facendosi avanti vostro, col col pugno chiuso. — Ieri sera mi avete colpito.

— Certo che l’ho fatto — annuì l’ometto dondolandosi sui tacchi.

— Bene, in questo caso… — cominciò Carr, e poi si ricordò del signor Wilson. L’uomo corpulento non era visibile da nessuna parte. Carr fece qualche passo, poi si fermò di botto voltandosi a guardare dietro di sé. L’ometto dalla pelle scura stava camminando in fretta verso la borbottante decappottabile. Carr si lanciò al suo inseguimento, balzò sul predellino proprio mentre l’altro si stava infilando al posto di guida.

— Volevate distrarmi fino a quando lui non se ne fosse andato — lo accusò Carr.

— Proprio così — confermò l’ometto. — Saltate su.

Carr saltò dentro la macchina, rabbioso. Ma prima che potesse dire qualcosa, l’altro aveva ricominciato a parlare. La sua voce non era più ironica, ma bassa, quasi si trovasse in un confessionale. Teneva la testa china. Non guardava Carr.

— Tanto per cominciare — disse — voglio che sappiate che non mi fido di voi. E che soprattutto non vi trovo simpatico… Se così fosse, farei del mio meglio per farvi uscire da questa faccenda invece di condurvi direttamente verso il suo centro. E per concludere, non m’importa un fico secco di ciò che potrebbe capitare a voi o a me. Ma ho ancora una certa donchisciottesca preoccupazione per ciò che potrebbe capitare a Jane. È per il suo bene, non per il vostro, che farò quello che sto per fare. — Mise la mano sulla leva del cambio.

— E cosa state per fare? — esclamò Carr.

La decappottabile s’impennò e balzò in avanti con un ruggito.


Carr alzò di scatto lo sguardo quando la sinistra muraglia rossa d’un camion mastodontico si profilò sempre più alta… TRASLOCHI MONDIALI diceva la scritta. Carr chiuse gli occhi. Sentì una sbandata da far raggelare il sangue, e strinse i denti alla stridente carezza legno contro acciaio del loro paraurti. Quando tornò ad aprire gli occhi vide una donna e un bambino sfrecciare all’indietro a non più d’una trentina di centimetri dalle loro ruote. Fu scagliato di lato mentre svoltavano con uno stridio lacerante, lasciò andare il cappello per afferrarsi a qualche appiglio, notò un coupé e un autobus che convergevano davanti a loro, chiuse di nuovo li occhi mentre riuscivano a balzare indenni oltre il varco per il classico pelo… No, non sarebbe morto a causa di qualche misterioso pericolo sorto da un intrigo. Oh no! Lui e l’ometto scuro con gli occhiali avrebbero semplicemente aggiunto due corpi insolitamente ben maciullati all’elenco annuale delle vittime del traffico.

— Fermatevi, incosciente!

L’ometto non distolse lo sguardo dalla strada davanti a loro, ma esibì i denti in un ampio sogghigno. Rannicchiato là dietro il volante, così piccolo e fragile, il cappello nero soffiato via, i capelli che svolazzavano e il volto contorto nello sforzo di scrutare davanti a sé attraverso gli occhiali dalle lenti spesse come quelle d’un telescopio, pareva un uomo del futuro dagli arti filiformi che si scagliasse contro l’eternità.

Su entrambi i lati schizzavano via piccoli negozi indistinguibili e i bianchi globi polverosi dei lampioni, mentre interi blocchi di asfalto scomparivano sotto il cofano.

— Ditemi cos’è tutta questa faccenda prima che ci ammazziamo — gridò Carr.

L’ometto dalla pelle scura ridacchiò fra i denti. — Posso forse osare di spiegare l’universo?

Davanti a loro le altre macchine fuggivano via attraverso le cordonature dei marciapiedi, come formiche spaventate. Sopra il ruggito del motore Carr divenne conscio d’un gemito che stava crescendo di volume. Una violenta luce bianca mischiata al rosso, cominciò a inondare la strada alle loro spalle, dove sembrava oscillare su e giù come un gigantesco pendolo. Poi, con la coda dell’occhio, Carr notò un uomo che indossava un voluminoso impermeabile nero, che viaggiava qualche metro sopra di lui: l’uomo comparve alla sua vista poi andò avvicinandosi sempre più con molta lentezza. Sopra e davanti all’uomo c’era qualcosa a forma di cappuccio d’un rosso vivo dal quale usciva il lamento. Dietro all’uomo e al cappuccio si scorgeva vagamente una scala e alcuni rotoli di corda oltre ad altre figure ondeggianti anch’esse avvolte in impermeabili.

Davanti a loro la strada faceva un gomito. Le macchine parcheggiate a zig zag, come le sbarre d’una stalla modello, facevano sì che fosse impossibile alla loro macchina e a quella dei pompieri riuscire a passare insieme.

Sogghignando ancora di più, l’ometto dalla pelle scura diede un’altra accelerata. La macchina dei pompieri restò un po’ indietro, mantenendosi però tenacemente appiccicata a loro, poi perse altro terreno, quel tanto che consentì all’ometto di schizzare a tutto gas nella strettissima corsia libera mentre i pedoni, impietriti, lo fissavano a bocca aperta. La paura lasciò Carr. Non serviva a niente.

— Voi e Jane siete pazzi tutt’e due, non è vero? — urlò.

— Sarebbe bello — disse l’ometto.

La strada si fece ancora più stretta, i suoi lati più scuri. Dietro di loro la macchina dei pompieri affrontò una curva con grande stridio di freni.

Davanti a loro si alzò turbinando un vortice d’aria fresca e d’olio lubrificante. I grattacieli ammiccavano contro il cielo, ma proprio tra due di essi uno squarcio si andava ampliando. D’un tratto davanti a loro si profilò una scheletrica struttura nera.

Cominciò un rapido sferragliare. Le torri che fiancheggiavano la struttura nera cominciarono ad ammiccare rosseggianti.

Senza preavviso, Carr afferrò l’occasione e cercò di premere il freno. — Stanno aprendo il ponte! — urlò.

L’ometto gli sferrò un calcio alla caviglia, spinse via con un pugno la mano di Carr dal cruscotto e accelerò. Davanti, c’erano alcune macchine ferme; comparve la superficie zebrata d’una barriera. Spostandosi tutto sulla sinistra, l’ometto ne urtò con la macchina l’estremità flessibile. Questa raschiò lungo il fianco della macchina come un bastone contro una palizzata e venne strappata via con un violento suono metallico. Schizzarono in avanti nel tratto buio. Su entrambi i lati la solidità si dileguò. Molto più in basso le finestre dei grattacieli disegnavano riflessi irregolari sull’acqua. Sulla sinistra spiccava la sagoma scura d’un battello da trasporto lacustre con alcune figure che si agitavano sul ponte fiocamente illuminato. A Carr parve d’intravedere accanto a esso un altro scafo molto più piccolo e il minuscolo pallido ovale d’un singolo volto rivolto all’insù.

Avevano superato tre quarti del percorso quando, nel mezzo della loro terrificante velocità, Carr percepì un tocco carezzevole, come la piuma d’un titano. Sotto di loro, metà del ponte aveva cominciato a sollevarsi. Davanti a loro comparve un nastro di tenebra là dove le due lame di quel gigantesco coltello a serramanico si stavano staccando l’una dall’altra.

L’ometto dalla pelle scura pigiò al massimo sull’acceleratore. Vi fu un urto da spaccare la spina dorsale e un violento sobbalzo, i grattacieli beccheggiarono, poi un altro urto, e la macchina atterrò… sulle ruote.

L’estremità della seconda barriera si spezzò con un titanico schiocco. Il ponte aperto aveva sgomberato la strada più oltre dal traffico che proveniva dalla loro stessa direzione. L’ometto dalla pelle scura filò via per quattro isolati come il vincitore d’un circuito automobilistico, poi d’un tratto frenò, slittando intorno a un angolo. Le due ruote sul suo lato morsero la cordonatura del marciapiede e la macchina si arrestò oscillando.

Carr lasciò il cruscotto e la maniglia della portiera ai quali si era aggrappato presagendo una morte entro pochi istanti, serrò una mano a pugno e si girò di scatto, questa volta senza nessun rimorso relativo agli occhiali.

Ma l’ometto era saltato fuori dalla macchina e stava correndo con passo leggero su per i gradini di un edificio che, Carr adesso se ne rese conto, era la Biblioteca Pubblica. Mentre a sua volta metteva piede sul marciapiede per inseguirlo, vide l’ometto profilarsi per un attimo contro il rettangolo giallo di una porta oscillante. Quando a sua volta Carr l’attraversò scostandola col braccio irrigidito, l’ometto stava scomparendo in cima a una rampa di scale marmoree, sotto un’arcata cromata da un vivido mosaico decorato con i nomi di Whittier, Emerson e Longfellow.

Raggiunta la cima della rampa, Carr provò un impeto di selvaggio piacere nel rendersi conto che stava guadagnando terreno. Davanti a lui si apriva una grande sala a cupola con scaffali aperti su un lato, banchi e cabine di lettura sull’altro, completamente vuoti salvo per un paio di ragazze dietro a una parete di vetro e un uomo calvo in cappotto, con una valigetta stretta goffamente sotto un braccio mentre si sollevava in punta di piedi per prelevare un libro.

L’ometto dalla pelle scura stava attraversando di corsa un altro arco che commemorava i poeti inglesi Scott, Burns, Tennyson e Gray.

Carr si precipitò nella sua scia passando davanti a un tavolo dietro al quale sedeva una donna dai capelli grigi con un’aria famelica, la quale parve troppo timida per sollevare lo sguardo o troppo fragile per permettersi riflessi fulminei. L’ometto si stava precipitando verso una parete che ostentava grandi caratteri dorati e dei geroglifici egiziani: infilò uno stretto corridoio… e con uno shock Carr si rese conto che stavano correndo ambedue su una superficie di vetro smerigliato.


Per un istante Carr pensò che l’ometto dalla pelle scura l’avesse costretto a quella lunga caccia soltanto per farlo precipitare attraverso un lucernario. Poi si rese conto di trovarsi su una delle numerose passerelle translucide che fungevano da corsie tra le scaffalature della biblioteca. Si lanciò nuovamente in avanti guidato dal rumoroso trepestio dei passi che si allontanavano di corsa.

Si trovò in un mondo silenzioso all’interno d’un mondo pieno di frastuono: un mondo alto parecchi piani che copriva buona parte dell’isolato. Un mondo stranamente privo di sostanza, fatto di sottili travature metalliche, strette scale, passerelle translucide e innumerevoli libri. Un mondo di buchi, fessure e spazi vuoti.

Finora Carr aveva guadagnato terreno. Ma adesso, come un animale che avesse raggiunto il suo ambiente nativo, l’ometto dalla pelle scura manteneva le distanze cambiando più e più volte direzione, sfrecciando d’un tratto su e giù per rampe di scale i cui gradini echeggiavano d’un clangore da antica guerra. Carr intravedeva di tanto in tanto un impermeabile sbattente. Agitò il pugno con rabbia nel vedere un balenio di denti e un sogghigno, quasi rubati per frazioni di secondo attraverso gli spazi merlettati creati dalle file successive dei libri; cercò di agguantare un paio di piccole scarpe basse e costose che scomparivano su per una scala dai gradini metallici con irrisoria agilità.

Carr ansimava e cominciava a provare un lancinante dolore al fianco, qualcosa nel suo soprabito stava diventando sempre più pesante. Cominciò a sembrargli che la caccia non sarebbe mai finita, che loro due avrebbero continuato a saltare e correre per un tempo indefinito, sempre alla stessa distanza l’uno dall’altro. Tutta quell’esperienza stava assumendo per lui dei contorni da incubo. Erano sorci che s’inseguivano attraverso le circonvoluzioni d’un gigantesco cervello metallico d’un lontano futuro le cui pareti erano costituite dai fatti. Erano esemplari umani destati troppo presto in una gigantesca trappola temporale, alla frenetica ricerca d’una via di fuga.

Carr svoltò un angolo barcollando e là, a non più di tre metri di distanza, con la schiena rivolta verso di lui, in piedi accanto a una fontana d’ottone antico d’acqua potabile che gorgogliava allegra, c’era la sua preda. Carr quasi esplose in una risata singultante fra un rantolo e l’altro per riprendere il fiato. Adesso, decise Carr, avrebbe tirato un bel pugno a quel tizio.

Mentre avanzava, però, fu inevitabile che guardasse oltre l’ometto dalla pelle scura… verso la cosa che questi stava fissando.

O meglio, la persona.

Giacché appena all’interno della corsia successiva, con un vestito marrone dai bottoni dorati quasi esattamente della stessa sfumatura delle rilegature in tela rigida che formavano lo sfondo, le labbra atteggiate a un’ellisse sconcertata che non riuscì ad evitare di diventare un sorriso, c’era Jane.

Carr superò d’istinto l’ometto dalla pelle scura come se quest’ultimo facesse parte d’un sogno che si stava dissolvendo. A ogni nuovo passo il suolo sotto i suoi piedi pareva diventare sempre più consistente.

L’espressione di Jane non cambiò e le sue labbra mantennero la stessa piega. Si limitò a piegare la testa all’indietro quando lui la cinse fra le braccia e la baciò.

— Vera, vera, vera — era l’unico pensiero che gli turbinava nella testa. Vera come il Maestro di scacchi di R. RETI, subito dietro i suoi capelli, o Il mio sistema di NIMZOWITH accanto a esso.

Lei infine lo allontanò da sé levando lo sguardo incredulo su di lui. I suoi nervi, placati per un attimo, si ridestarono con un sussulto. Fece a sua volta un passo indietro.

— Dov’è finito? — chiese.

— Chi?

— Quel piccolo pazzo scuro con gli occhiali. — Si mosse in fretta esplorando tutte le corsie vicine.

— Non so — rispose Jane. — Ha un modo di dileguarsi…

— Direi proprio di sì! — Carr si rivolse a lei. — Anche se in genere prima tenta di ucciderti.

— Cosa!

— Forse pensava che tra noi ci fosse un patto di suicidio. — Carr disse questo con un sorriso legnoso e le mani ancora gli tremavano. Sentiva emergere nella coscienza tutte le reazioni ritardate a quella pazzesca corsa in macchina, al suo doloroso risveglio di qualche tempo prima, all’esasperante lettera di lei.

— Jane — chiese brusco — cos’è tutta questa storia?

Lei arretrò di un passo scuotendo la testa.

Lui la seguì. La sua voce era aspra: — Senti, Jane — proseguì. — L’altro ieri il tuo amico è scappato davanti a me. Ieri sera mi ha fatto perdere i sensi con un colpo in testa. Questa sera ha tentato di farci fuori tutti e due. Cos’è questa storia? Voglio saperlo.

Lei non rispose. La paura negli occhi di Jane portò l’esasperazione di Carr al punto d’ebollizione.

— Cosa avete fatto voi due? Chi sono quelle persone che vi cercano? Cos’è che non va con tuo padre e tua madre? Perché mi hai condotto in quella casa vuota? Cosa ci fai qui? Me lo devi dire Jane! Devi!

L’aveva costretta ad arretrare a ridosso degli scaffali e le stava quasi gridando in faccia. Ma lei si limitava soltanto a fissarlo terrorizzata e a scuotere la testa. Carr l’afferrò per le spalle e la scosse con violenza.

Era in preda a un parossismo di esasperazione. Gli pareva di scuotere gli ultimi suoi due giorni con tutti i loro enigmi e frustrazioni. Quella molle bambola marrone fra le sue mani rappresentava per qualche motivo l’ometto scuro, la sua automobile, la signorina Hackman, il signor Wilson, l’uomo con una mano sola, tutta la città scompigliata di Chicago.

Ma malgrado la violenza con cui la sua testa oscillava avanti e indietro, le labbra di Jane rimasero ostinatamente chiuse. D’un tratto Carr la lasciò e si staccò da lei, appoggiando i gomiti su uno scaffale, nascondendosi il viso tra le mani, respirando affannosamente.

Quando alzò di nuovo gli occhi e si guardò intorno, lei era ancora addossata allo scaffale, intenta a lisciarsi il vestito. Si morse il labbro quando la mano di lui le toccò la spalla. Lo guardò fisso. — Mi scuoto in modo accettabile? — chiese. — Sai, è piuttosto rilassante.

— Mi spiace molto — replicò lui con voce alquanto rauca. — Mi sto comportando da matto, ma devo saperlo.

— Non posso dirtelo.

Carr la fissò, esasperato e infelice. — Jane!

— No, non posso.

Si arrese, stanco. — E va bene. Ma… — Si guardò intorno, incerto. — Dobbiamo uscire da qui! — esclamò allontanandosi con un balzo dagli scaffali ai quali era appoggiato.

— Perché? — Lei mostrava di non comprendere le sue parole, proprio come prima, ed era molto più calma.

— Siamo nel deposito. — La sua voce assunse automaticamente una nota sommessa. — Nessuno può venire qui senza un permesso. Abbiamo fatto un baccano da svegliare i morti. È inevitabile che vengano a cercarci.

— Ma davvero? — Jane sorrise. — Non l’hanno ancora fatto.

— E poi… Buon Dio! La polizia stradale e chissà chi altro… devono arrivare, per forza! — Guardò con apprensione lungo le corsie.

Lei sorrise di nuovo. — Ma non l’hanno fatto.

Carr si girò verso di lei scoccandole una lunga occhiata interrogativa. Qualcosa di quell’affascinante ostinazione dell’altra sera pareva esserle improvvisamente tornata. Carr sentì nascere dentro di sé uno spirito affine.

E gli parve il massimo delle sciocchezze preoccuparsi di essere sorpreso a violare i regolamenti della biblioteca dopo essere sfuggito a una morte assurda e imprevedibile una dozzina di volte.

— D’accordo — disse. — In questo caso, beviamo qualcosa. — E tirò fuori dalla tasca la bottiglia di whisky da una pinta ancora sigillata.

— Magnifico — disse lei e gli occhi le si illuminarono. — La fontana è proprio qui accanto. Vado a prendere due bicchieri di carta.


Carr abbassò il suo bicchiere mezzo vuoto.

— Ascolta — disse. — Sta venendo qualcuno.

Spinse in tutta fretta Jane nella corsia successiva che era al buio.

Il rumore di passi si fece più intenso, echeggiando sul vetro.

— Andiamo più indietro bisbigliò Carr. — Qui potrebbe vederci.

Ma Jane rifiutò di muoversi. Carr sbirciò da sopra la sua spalla. — Dannazione! — alitò. — Ho dimenticato là la bottiglia, la vedrà.

Jane scrollò le spalle.

Il “lui” si rivelò per una “lei”, come Carr riuscì a distinguere a sprazzi attraverso i varchi degli scaffali. E una lei molto notevole: un volto ampio, da figlia del teatro, i capelli lunghi e lisci tagliati con una vistosa frangetta lungo la fronte e un abito attillato rosso scuro. Camminava frusciando, ma staccando i passi.

E stava facendo delle smorfie. Qui, nell’intimità del deposito… ma certamente il suo viso doveva essersi mantenuto dignitoso là dietro i banchi della sala. Qui stava esibendo un’intera gamma: odio, orrore, sorriso, disprezzo, una viva angoscia, gioia incosciente, tragica rassegnazione, il magnetismo del sesso. E non soltanto quelle espressioni fugaci che qualunque nevropatico avrebbe potuto lasciarsi sfuggire, ma anche le smorfie crudeli, sanguigne e meditate, degne d’una qualche principessa russa che stesse camminando avanti e indietro nella sua camera da letto intenta a elaborare le più complicate vendette contro i suoi diciassette amanti infedeli.

Le espressioni si succedevano l’una all’altra con un ritmo regolare, senza una sosta. A Carr parvero piuttosto un esercizio di recitazione.

La donna passò davanti alla loro corsia e si fermò alla successiva. Sollevò lo sguardo.

— Eccoci qua, ragazzi e ragazze — la sentirono declamare rivolta a se stessa, con voce modulata e squillante. — Oh, in sei volumi, vero? E per questo si aspetta l’ora di chiusura? — Scribacchiò qualcosa in fretta su un foglio di carta che aveva in mano. — Mi spiace, Baldy ma… via! Dovrai imparare i segreti del sesso qualche altro giorno.

E facendo un’ultima smorfia all’apparenza rivolta direttamente a Jane e a Carr, tornò nella direzione dalla quale era venuta.

Carr recuperò la bottiglia. — Credi che abbia pensato che stessimo facendo un lavoro di ricerca?

Jane replicò in tono leggero: — Mi è parsa tollerante.

Andò nella corsia accanto e tornò con un paio di sgabelli. Carr spinse il suo impermeabile militare sopra una fila di libri. Ridacchiò. — Ha recitato proprio bene.

— Tutti lo fanno — replicò Jane con serietà. — Non appena le porte si chiudono e sanno di esser soli cominciano a recitare un piccolo dramma. Ogni persona ha il suo, che si è inventato. Potrebbe essere amore, paura, odio… qualunque cosa. A volte è qualcosa di ampio, melodrammatico o farsesco; altre volte è estremamente sottile e controllato. Ma tutti ne hanno uno.

— Come puoi sapere — le chiese Carr mezzo divertito — se lo fanno solo quando sono sicuri di esser soli?

— Lo so — dichiarò Jane in tutta semplicità. Per qualche istante rimasero silenziosi. Poi Jane si mosse innervosita. — Beviamo un altro goccio.

Carr riempì i bicchieri. C’era un’ombra densa là dove si trovavano. Jane sollevò una mano e tirò un cordone. La luce si diffuse intorno a loro. Vi fu un’altra pausa.

Poi Carr disse: — Ma insomma, dal momento che non vuoi parlarmi di te per ora… — lei scosse la testa, voltandosi — …ho io qualcosa da dirti. — E le riferì di come avesse spiato la signorina Hackman e il signor Wilson all’Agenzia Generale di Collocamento e nella tabaccheria.

Non c’era dubbio che la cosa l’interessasse. Si sedette visibilmente tesa. — Sei sicuro che non ti abbiano visto? — insisté quando lui ebbe finito. — Sei sicuro che parlasse sul serio quando ha detto di non aver trovato niente di sospetto?

— Sicuro come posso esserlo — lui ribatté — sapendo così poco. Comunque ero preoccupato e volevo metterti in guardia. Sono tornato nel luogo in cui ti avevo lasciato la sera prima. Naturalmente ci sono rimasto secco quando ho visto il cartello “In vendita”, ma poi, con incredibile fortuna, ho trovato un pezzo di carta che avevi lasciato cadere e che, guarda caso, aveva scritto il tuo indirizzo…

— Lo so.

— Come? — La guardò.

Jane esitò. Poi: — Perché ti stavo osservando — ammise abbassando gli occhi. — Ma… non avevo l’intenzione di dirtelo.

— Stavi osservando me?

— Sì. Pensavo che avresti potuto ritornare là, cercando di ritrovarmi, ed ero preoccupata.

— Ma dov’eri? — Stentava ancora a crederle.

— All’interno della casa. Ti osservavo attraverso una fessura in quelle finestre sbarrate con le assi di legno. Avevo trovato il modo di entrare.

Carr la fissò. — Ma se sei tornata là per me, perché non sei uscita quando mi hai visto?

— Perché non volevo che mi trovassi — gli spiegò in tono ingenuo. — Sto facendo del mio meglio per tenerti fuori da questa storia, anche se so bene che non ne sto dando esattamente l’impressione. Temo che ci sia una parte poco scrupolosa della mia mente che sta lavorando contro di me e continua a tentare di attirartici. — Ancora una volta abbassò lo sguardo. — Suppongo sia stata quella parte della mia mente che mi ha indotto a lasciar cadere accidentalmente quella busta con l’indirizzo, là dove tu certamente avresti ricordato che era caduta. E prima ancora, a scrivere quello sciocco foglietto sulla coda del leone e le cinque sorelle.

Carr continuò a guardarla ancora per, un po’. Poi, con un sospiro d’incomprensione riprese: — Così sono venuto a casa tua.

— Lo so — l’interruppe lei. — Ti ho seguito.

Lui si lasciò cadere le mani sulle ginocchia, sporgendosi in avanti: — E anche così, non hai…

— Oh no — lo assicurò lei. — Non volevo che tu mi vedessi. Ero soltanto preoccupata.

— Ma allora devi sapere anche tutto il resto — protestò lui. — Come alla fine sono entrato e salito, e come la signorina Hackman e il signor Wilson sono venuti e…

— Sì — annuì lei. — Non appena è accaduto, io sono corsa intorno all’edificio e sono salita per la scala sul retro. Ho trovato Fred e te…

— Fred.

— L’ometto dalla pelle scura con gli occhiali. Ti ho trovato nella camera da letto. Ti aveva appena colpito. La signorina Hackman e il signor Wilson stavano uccidendo Gigolò nell’atrio…

— Il tuo gatto?

Lei chiuse gli occhi. — Sì. — Un attimo dopo continuò: — Ho spiegato a Fred chi eri e ti abbiamo portato giù per la scala sul retro fino alla sua macchina, e…

— Aspetta un momento — lui disse. — Come mai il tuo amico Fred si trovava là? Ho avuto l’impressione che tu non abitassi più in quella camera da molti mesi.

— Oh — fece lei a disagio. — Fred ha uno strano modo di comportarsi, una specie di morboso sentimentalismo nei miei confronti. Va spesso nella mia stanza anche se io non ci sono mai. Non chiedermi più niente in proposito, adesso.

— D’accordo. Così mi avete trasportato giù fino alla macchina. E poi…

— Abbiamo trovato l’indirizzo nella tua agendina e ti abbiamo riportato a casa, siamo saliti fino alla tua stanza usando la tua chiave e ti abbiamo messo a letto. Ero preoccupata per te. Avrei voluto rimanere, anche se sapevo che non avrei dovuto, ma Fred ha detto che ti saresti ripreso e così…

— …te ne sei andata — concluse Carr per lei — dopo avermi scritto quella graziosa letterina. — E la tirò fuori dalla tasca.

— Ti avevo chiesto di bruciarla — disse Jane.

— Cosa pensi che abbia provato nello svegliarmi? — le chiese. — Felice? Oh sì, e hai lasciato anche quelle polverine, no, non le ho portate con me, quelle polverine che avrei dovuto mandar giù con tanta fiducia…

— Avresti dovuto farlo — l’interruppe lei. — Sì, avresti proprio dovuto. Non capisci, Carr, che sto cercando di tenerti fuori da questa storia? Se tu soltanto sapessi cosa darei per essere io stessa in condizioni di tenermene fuori. — S’interruppe.

Carr rifiutò di lasciarsi commuovere dall’intensità del sentimento che lei aveva rivelato. — Hai parlato molto di “questa faccenda” Jane — disse calcando sulle parole mentre si appoggiava contro lo scaffale. Lei lo fissò spaventata. — Adesso è giunto il momento che tu mi dica davvero qualcosa — continuò. — Cos’è “questa faccenda”?

Squillò un campanello. Entrambi trasalirono.

Jane si rilassò. — Era il segnale della chiusura — spiegò.

Carr scrollò le spalle. Il fatto che si trovassero nel deposito della Biblioteca Pubblica di Chicago era diventato secondario. — Cos’è “questa faccenda”? — insisté.

— Come sei arrivato qui stasera? — l’interruppe lei in fretta guardando altrove.

— E va bene — disse lui intendendo sottolineare quant’era paziente… La sua domanda poteva aspettare. Tornò a riempire entrambi i bicchieri. Poi, senza affrettarsi, le raccontò di come fosse tornato all’appartamento sulla Mayberry Street e qui avesse incontrato Fred. Fu alquanto scosso nel rivivere la folle corsa in automobile, anche se i dettagli cominciavano ad apparirgli incredibili.

E la cosa parve scuotere anche Jane. Anche se, quando lui ebbe finito, si rese conto che era la rabbia a farla tremare.

— Oh, il vigliacco — sussurrò. — Quell’orribile vigliacco. Ha finto di essere galante, ha finto di aver sacrificato i propri sentimenti, perfino al punto di portarti da me, ma in realtà facendolo soltanto per ferirmi, poiché ben sapeva che avevo fatto del mio meglio per tenerti fuori da questa faccenda. E poi, per coronare il tutto, ha messo a repentaglio la tua vita sperando che moriste entrambi mentre lui si comportava nobilmente! — Le sue labbra si contorsero in una smorfia. — No, non mi ama più, a meno che la morbosità e il tormento che si è autoinflitto non significhino amore. Non credo che mi abbia mai amata.

— Ma perché ti sei messa con lui allora?

— Non l’ho fatto — rispose lei afflitta — salvo che è l’unica persona al mondo con cui posso mettermi e… — S’interruppe di nuovo.

— Ne sei sicura, Jane? — la voce di Carr si era fatta bassa. La sua mano le sfiorò la manica.

Lei ritrasse il braccio. — Perché non te ne vai, Carr? — lo implorò sogguardandolo con una sorta d’irrefrenabile paura. Perché non bevi la polverina e dimentichi tutto? Non voglio trascinarti in questa storia. Hai un lavoro, una donna e una vita tua, una strada attraverso il mondo preparata per te. Non devi incamminarti nella tenebra, nell’insignificanza, nel caos, verso la macchina nera.

Le luci nel deposito cominciarono a spegnersi, tutte tranne quella sopra le loro teste.

— Un altro goccetto? — le chiese lui con una voce piccina piccina.

Non rimase molto whisky nella bottiglia una volta che ebbe riempito i bicchieri. Jane accettò il suo con aria assente, fissando l’aria oltre la sua spalla. Adesso il suo viso pareva incredibilmente piccolo mentre se ne stava là piegata in avanti sullo sgabello, il vestito marrone che sfumava nel buio. Le scaffalature erano silenziose, il borbottio della città era inaudibile. In tutte le direzioni le corsie si perdevano nel buio, partendo da quell’unica luce accesa sopra le loro teste. Tutt’intorno a loro c’era, quasi palpabile, la pressione di centinaia di migliaia di volumi. Ma c’erano sempre quei varchi tra i libri, le fessure che, l’una in fila all’altra, formavano qua e là gallerie e feritoie attraverso le quali spiare.

— Considera la cosa dal mio punto di vista Jane — riprese Carr. — Quanto la cosa possa farmi infuriare. So che stai fuggendo da qualcosa di orribile. E anche Fred. So che c’è una specie di organizzazione di cui non avevo mai neppure immaginato l’esistenza che scorrazza per il mondo, e che questa ti minaccia. So che c’è qualcosa di terribilmente sbagliato con i tuoi genitori. Ma che cosa? Non riesco a ricavarne neppure uno straccio d’ipotesi. Ho cercato di far quadrare le cose, ma non quadrano.

“Pensaci un momento, Jane. Tu càpiti davanti a me in preda al terrore… Quello schiaffo, là, davanti agli occhi di tutti… il tuo avvertimento… la signorina Hackman che colgo a frugare nella mia scrivania… le parole che ho udito sul fatto che volevano «controllarti» e «divertirsi»…”

Jane rabbrividì. Carr proseguì: — Quegli appunti pazzeschi che hai scritto sulla busta che hai lasciato cadere… lo strano pianoforte in casa dei tuoi… tua madre che follemente fingeva che tu fossi là o qualunque cosa stesse cercando di fare… tuo padre che l’assecondava o fingeva di farlo… la signorina Hackman e il signor Wilson che irrompono nella casa e ignorano i tuoi genitori comportandosi come se neppure esistessero… altri discorsi sul “controllare” e “divertirsi” e su una “bestia” e qualche tipo di minaccia rappresentata da “altri gruppi”, comportandosi in tutto questo tempo come se il resto dell’umanità fosse al di sotto del disprezzo… e poi il gatto… e Fred che quasi mi ammazza… e il suo discorso fatuo e incoerente di stasera su un “pericolo mortale” e così via… e quella folle corsa in macchina… e adesso tu che ti nascondi qui tra gli scaffali della Biblioteca Pubblica di Chicago…

Carr scosse la testa impotente.

— Tutto questo non rientra in alcuno schema, non importa quanto pazzesco. — Esitò. — E poi, due o tre volte — proseguì corrugando la fronte — ho avuto la sensazione che la spiegazione fosse qualcosa di totalmente inconcepibile, qualcosa di molto più grande, spaventoso…

— Non farlo — lei l’interruppe. — Non permetterti mai neppure d’incominciare a pensare a quel modo.

— In ogni caso, non capisci perché devi dirmelo, Jane? — concluse lui.

Vi fu un nuovo, breve silenzio. Poi Jane disse: — Se te lo dirò, vale a dire se te lo dirò in parte, prometti che te ne andrai e farai ciò che t’ho chiesto nella mia lettera? Così da poter sfuggire?

— No. Non ti prometterò niente fino a quando non me l’avrai detto.

Vi fu un altro silenzio. Infine lei sospirò. — D’accordo, te lo dirò in parte. Ma ricorda, sempre, che sei stato tu a obbligarmi a dirtelo. — Fece una pausa. Poi cominciò: — Un anno e mezzo fa circa ho incontrato Fred. Non c’è stato niente di serio fra noi. Avevamo soltanto l’abitudine d’incontrarci al parco e di fare insieme lunghe passeggiate. Mio padre e mia madre non sapevano di lui. Io passavo la maggior parte del mio tempo ad esercitarmi al pianoforte e andavo a scuola di musica. Allora non sapevo che quei tre, la signorina Hackman, il signor Wilson e Dris, davano la caccia a Fred. Lui non aveva detto niente. Ma poi un giorno ci hanno visto insieme e a causa di questo, siccome quei tre mi avevano collegato con Fred, la mia vita non fu più sicura. Ho dovuto scappare da casa. Da allora ho vissuto meglio che ho potuto, qua e là, cercando di non dare nell’occhio, prendendo degli appunti per ricordarmi di quello che dovevo o non dovevo fare; ho soggiornato in posti come questi, non ho parlato con nessuno, ho dormito nei parchi, negli appartamenti vuoti…

— Ma è impossibile!

— No, è vero. Per un po’ sono riuscita a sfuggirli. Poi, una settimana fa, hanno cominciato a braccarmi. Quando sono venuta nel tuo ufficio ero disperata. Sono venuta lì perché qualcuno che conoscevo tempo fa lavorava là…

— Tom Elvested?

— Non interrompermi. Ma poi ho visto te, ho visto che non eri occupato, e sono venuta alla tua scrivania. Sapevo che era la mia ultima possibilità. E mi hai aiutato. Hai finto… — Esitò. — È tutto — concluse.

— Oh Jane — replicò Carr un attimo dopo col tono che si sarebbe potuto usare con una scolara che non avesse preparato la lezione — non mi hai detto niente. Che cosa mai… — Ma la sua voce mancava della precedente insistenza. Adesso cominciava a sentirsi stanco, stanco d’impuntarsi, di lottare per arrivare alla verità. Voleva… proprio non sapeva quello che voleva. Divise fra tutt’e due quel poco whisky che gli era rimasto, ma era poco più di un sorso. — Senti Jane — disse infine, facendo un ultimo affaticato sforzo. — Non vuoi fidarti di me? Non vuoi smetterla di avere tanta paura? Voglio soltanto aiutarti.

Jane lo fissò non proprio sorridendo. — Sei stato molto caro con me, Carr — rispose. — Mi hai dato un po’ di coraggio, mi hai aiutata a dimenticare… il ballo all’Ultima Resistenza di Custer, il negozio di musica, il film, gli scacchi, le carezze sotto il cancello. Mi sono comportata schifosamente con te. Ti ho usato, esposto ai pericoli, ferito moralmente, ti ho trascinato di nuovo nel mio privato mondo sotterraneo con degli espedienti inconsci. Se tu conoscessi la vera situazione credo che capiresti. Ma è qualcosa contro cui devo battermi anch’io. Onestamente è vero quello che ho scritto nella lettera Carr. Non puoi aiutarmi, puoi soltanto rovinare le mie possibilità di fuga. — Abbassò per un attimo lo sguardo. — Non è perché io pensi che tu mi puoi aiutare che continuo a trascinarti dietro di me. — Fece una pausa. — Ci sono due tipi di persone al mondo, Carr: i costanti e gli incostanti. Il costante sa dove lui e il mondo stanno andando. L’incostante, il derelitto, vede soltanto il buio. Conosce un segreto della vita che lo separa per sempre dalla felicità e dal riposo. Tu in effetti sei un costante Carr. Quella donna di cui mi hai parlato e che vuole che tu abbia successo, anche lei è una costante. E non serve aiutare un’incostante, Carr. Non importa quanto abbia il cuore tenero, quanto trabocchi di buone intenzioni: c’è qualcosa di distruttivo in lei, qualche cosa che l’accomuna alle tenebre, qualcosa che la induce a voler distruggere le certezze e la fiducia degli altri, conducendoli al precipizio per poi indicar loro la voragine e dire: “Visto? non c’è niente!” E non c’è niente che tu possa fare per me, niente del tutto.

Carr scosse la testa: — Io posso aiutarti — insisté.

— No.

— Oh Jane, ma non capisci? Voglio davvero aiutarti. — Fece per abbracciarla, ma lei si affrettò ad alzarsi.

— Cosa succede? — le chiese lui seguendola.

Lei si girò, protendendo una mano per tenerlo discosto. Provava difficoltà a parlare: — Vai via, Carr. Vai via adesso, subito. Torna a quella tua nuova, meravigliosa attività di cui mi hai parlato e a quella donna che vuole che tu l’abbia. Dimenticati di qualunque altra cosa. Ho pensato che sarebbe stato molto divertente stare con te per una sera, fingere che le cose fossero diverse… ma è stata una pazzia! Ogni minuto che rimani con me ti faccio un terribile torto. Per favore, Carr, vattene, ascoltami.

— No.

— Allora rimani con me per un po’. Rimani con me stanotte, ma domani vattene.

— No.

Per un momento si fronteggiarono, frementi. Poi la tensione sfumò d’un tratto, Carr si sfregò gli occhi ed esclamò: — Dannazione, vorrei avere qualcosa da bere.

D’un tratto gli occhi di Jane sfavillarono. Carr sentì un improvviso cambiamento in lei. Pareva aver lasciato cadere il suo mantello di paura ed essersi buttata intorno alle spalle un altro indumento, che non riuscì a identificare, salvo per il fatto che luccicava. Ancora prima che lei parlasse, Carr sentì il proprio morale sollevarsi in risposta al suo.

— Dal momento che non vuoi riconoscere il pericolo e andartene, dimentichiamocene per stanotte — fu quanto gli disse. — Però devi promettermi una cosa. — I suoi occhi brillarono in modo strano. — Devi credere che io sia… magica, che abbia dei poteri magici, che mentre sei con me puoi fare qualunque cosa tu voglia al mondo e che il mondo non può farti niente… che sei libero come uno spirito invisibile. Me lo prometti? Bene. E adesso mi pare che tu abbia detto di volere un bicchierino.

La seguì come se fosse una principessa di qualche fiaba mentre andava tre corsie più in là, accendeva una luce, tirava giù da uno scaffale in alto tre copie di Mario l’epicureo di Walter Pater, infilava la mano nello spazio creatosi e tirava fuori un quinto di scotch.

— L’ho messo qui due mesi fa — spiegò. — È stato allora che mi sono resa conto di quanto fosse brutto bere da soli. — D’un tratto mise giù la bottiglia, e gridò: — Rischi la vita per la tua testardaggine, lo capisci? Quello che stiamo facendo è orribilmente pericoloso. Non me ne importa, io voglio farlo, ma è pur sempre orrendamente pericoloso. Lo capisci? — Ma gli occhi di Carr erano fissi sulla bottiglia di scotch. — Tu vivi qua dentro? — volle sapere.

Jane scoppiò in una risata irrefrenabile. — In un certo senso. Vuoi vedere? — E tirando giù con la massima noncuranza manciate di altri libri così da farli cadere sul pavimento, gli mostrò un cumulo di cosmetici, gioielli vistosi, sacchetti di noccioline e caramelle, barattoli di cibi per il buongustaio con il relativo apriscatole, scatole di cracker, fazzoletti sparpagliati qua e là, guanti, sciarpe, ogni genere di scatolette e bottiglie, tazze, piatti, posate e bicchieri. Sembravano le provviste di un topo.

Prendendo due bicchieri di cristallo dal lungo stelo Jane chiese: — E adesso vuoi bere qualcosa con me a casa mia?

Загрузка...