15

Carr aprì la porta della sua stanza e recuperò l’equilibrio appoggiandosi allo stipite. La finestra aveva ancora il nero della notte. Chiamò sottovoce: — Jane? — Non vi fu nessuna risposta. Questo lo fece afflosciare un po’. La testa gli faceva male, il suo corpo era esausto, gli indumenti gli producevano un’acuta sensazione di scomodità.

Ascoltò ancora il fioco e gutturale ronzio meccanico di Chicago alle quattro del mattino, come il ronfare d’un gran numero di gatti rannicchiati e disposti in cerchio. Fu colto da un brivido. Poi raccolse le proprie forze, chiuse finalmente la porta e accese la luce.

Lanciò un’occhiata alla lettera che aveva istintivamente agguantato dalla sua casella al pianterreno. Era di Marcia. Non c’era bisogno che l’aprisse. L’aveva già letta… vediamo… due sere prima. La lasciò cadere.

Un rettangolo di carta appoggiato alla mensola del caminetto attirò la sua attenzione. C’erano soltanto un paio di righe di scrittura. Provò una stretta al petto quando lesse la firma: Jane.

La calligrafia era più affrettata e ancora meno leggibile rispetto a quella che aveva visto altre volte. Ma riuscì rapidamente a capire quanto vi era scritto:


Questo posto non è più sicuro. Sono andata in quella vecchia dimora, al mio alloggio del secondo piano. Raggiungimi là.


Parve a Carr che quel lontano ronfare diventasse un po’ più intenso e minaccioso. Andò alla scrivania, frugò nei cassetti, trovò una torcia elettrica. Irradiava soltanto un fioco bagliore giallo ma se la cacciò in tasca lo stesso.

Fuori, nel buio della notte fonda, le strade erano più deserte di quanto le avesse mai viste prima. I suoi passi parvero lanciare echi alla distanza di parecchi isolati. Provò una vaga gratitudine per le forze del caso che gli avevano aperto una pista, che gli avevano sgomberato la strada dagli automi poiché si sentiva spaventosamente stanco. Soltanto il pensiero che ben presto sarebbe stato insieme a Jane gli consentiva di muoversi. Le orrende scoperte dei giorni scorsi gravavano su di lui con forza schiacciante, come se il suo corpo fosse stato una macchina di metallo che lui doveva tenere in piedi con le deboli energie della carne e dei nervi. Se adesso avesse potuto rientrare nel posto che gli era stato assegnato nella vita, sentiva che gli sarebbero rimaste soltanto le forze sufficienti a compiere il suo lavoro di macchina. Sarebbe stato una macchina e niente più di una macchina.

Se soltanto lui e Jane avessero potuto tornare indietro… Adesso quella possibilità gli appariva estremamente desiderabile, ma infinitamente remota. Le ebbre parole del vecchio Jules, il battelliere, echeggiarono ancora una volta nella sua mente: vuote, remote come una sfida infantile, futile, rivolta a un universo defunto.

Gli isolati scorrevano via lenti. Tutto quello che pareva realmente cambiare era la qualità degli echi dei suoi passi, mentre rimbalzavano prima su questo e poi sull’altro muro.

Quel vuoto nelle strade appariva fantastico. Per un po’ si baloccò apaticamente con l’idea che Chicago fosse stata svuotata di tutti i suoi automi, fino a quando non passò davanti a una singola, isolata figura che indossava un impermeabile scuro, luccicante, accanto ai binari del tram, a un isolato dalla sua destinazione.

La stanchezza lo aggrediva a ondate. Si rese conto che, malgrado avesse appreso soltanto adesso che l’universo era una macchina, lui si era sempre sentito una macchina. La testa gli si accasciò sul petto.

Scoprì che le sue mani stavano stringendo mollemente delle sbarre di ferro battuto. Le agguantò con maggior forza per risollevarsi e guardò verso l’alto. Come in un sogno, la vecchia dimora gli comparve davanti come una catasta incolore avvolta nel grigio chiarore del primo crepuscolo dell’alba. Tutte le finestre erano buie, le più basse più sbarrate che mai, le più alte dai bordi frastagliati di tenebra. Mentre si faceva strada lungo il vialetto coperto di erbacce, passando davanti al consunto cartello con la scritta IN VENDITA, una lievissima brezza fece frusciare le foglie scure sopra di lui per spegnersi quasi subito. Il sentore di umidità del giardino era intenso e aspro.

La grande porta all’ombra del sottoportico era socchiusa di qualche centimetro. Carr ascoltò per un attimo, poi la spinse. La porta strisciò con un lieve gemito sul tappeto raggrinzito, così come il cancello aveva fatto sulla ghiaia. Carr entrò e d’un tratto una buona metà della sua stanchezza scomparve come se quella vecchia casa esigesse un’accentuata vigilanza, quasi un tributo dovutole. L’odore si trasformò da umido a muffito, con una punta d’acqua marcita. Il fievole raggio della sua torcia gli rivelò un pavimento mezzo coperto da un tappeto, l’altra metà scoperta. Le pareti erano rivestite da ragnatele cariche di polvere che mostravano dei rettangoli d’un colore leggermente più pallido là dove un tempo si trovavano appesi dei quadri. Le masse informi di due poltrone coperte da teli. Una scalinata dall’ampia curva, la cui ringhiera era sorretta da colonnine sottili elaboratamente scolpite. E parecchie grandi porte buie.

Carr fece balenare la sua luce verso queste ultime aperture, rivelando altra sporcizia e altro vuoto. In fondo alla fila delle porte che davano sul retro della casa, intravide l’inizio di una seconda scala, più stretta.

Carr si fermò subito all’interno della porta d’ingresso, conscio d’una crescente ansietà. Si rese conto di star aspettando che Jane lo chiamasse: quasi era stato convinto che il raggio della torcia avrebbe rivelato il suo viso. Gli venne in mente per la prima volta quanto fosse strano che lei avesse organizzato le cose in modo d’incontrarlo al secondo piano… senza chiamarlo o scendergli incontro, adesso che l’aveva sentito arrivare.

Attraversò l’atrio fino alla scala più grande, tendendo le orecchie a ogni passo, e cominciò a salirla. Spense la torcia. I gradini scricchiolavano leggermente sotto il suo peso. L’odore della vecchia polvere stava diventando più intenso, perfino i suoi cauti passi dovevano sollevarne nuvolaglie. Guardò su per la tromba ovale delle scale, verso l’ovale più piccolo di tenebra più pallida che indicava il soffitto del secondo piano, là dove le finestre infrante dovevano lasciar passare un po’ di luce. Gli parve che quell’ovale più piccolo mostrasse un’irregolarità, come se (forse) una testa si fosse sporta a sbirciare verso il basso. Ma quando salì di un altro gradino, non riuscì più a vederla. Per qualche ragione, la sua immaginazione continuava a raffigurarsi non Jane, ma la figura in impermeabile nero accanto alla quale era passato vicino ai binari del tram. Non aveva neppure guardato il suo viso, ma adesso desiderò di averlo fatto poiché provava la tardiva sensazione di averla riconosciuta.

Si fermò sul pianerottolo del primo piano, poi riprese a salire. Dopo altri sei gradini, si arrestò di botto.

Adesso non poteva esserci nessun errore. Era lassù che sporgeva da sopra la voluminosa balaustra in cima alle scale, il buio più scuro di una testa contro il buio meno denso del soffitto. Il silenzio parve coagularsi intorno a lui mentre la scrutava.

Di scatto puntò la torcia in quella direzione, l’accese. Nel cerchio di luce gialla vide il volto di Jane che lo fissava in preda al terrore.

Chiamò il suo nome, fece di corsa gli ultimi gradini. Poi furono l’uno nelle braccia dell’altra. Carr sentì svanire l’ultima traccia di stanchezza, poi la sentì tornare in un impeto momentaneo, al punto da farlo barcollare là in cima alle scale mentre la stringeva a sé ebbro di gioia.

— Tesoro, avevo tanta paura che non fossi tu — gli disse lei d’un fiato, affondandogli le dita nelle spalle. — Perché non mi hai chiamato?

— Non lo so — balbettò lui. — Mi aspettavo che lo facessi tu.

— Ma non potevo essere sicura che fossi proprio tu — rispose lei. — Perché ci hai messo tanto? È stata l’attesa qui nel buio a spaventarmi. Sono qui da ore. Cosa ti è successo?

Con poche brevi frasi Carr le spiegò perché era scappato via da lei e le descrisse per sommi capi il suo tuffo nel fiume il suo successivo salvataggio da parte del battelliere.

— Sì, ma dopo? — lei insisté. — Che hai fatto dopo?

— Sono venuto direttamente qui — le disse Carr — subito dopo essere tornato nella mia stanza.

— Non è possibile — ribatté lei scostandosi leggermente. — Sono passate ore.

— Cosa vuoi dire? — le chiese lui, perplesso.

— E come mai tutto è successo così in fretta? — continuò lei rapidamente. — Quella faccenda con il battelliere, voglio dire. Non può essere passata più di mezz’ora, dopo che ti ho perso di vista in mezzo a quella folla vicino alla biblioteca, da quando sono tornata in tutta fretta nella tua stanza, eppure quando sono arrivata c’era già il tuo biglietto ad aspettarmi.

Carr l’afferrò per le braccia. Il silenzio nella vecchia casa era divenuto mortale. — Il mio biglietto?

— Sì, quello che mi diceva di venire qui ad aspettarti.

Carr cercò di studiare l’espressione di lei in quel buio grigiore. Sotto le sue mani, sentì le braccia di Jane che s’irrigidivano, come se i timori che andavano accumulandosi in lui filtrassero dentro di lei.

— Jane — bisbigliò — sono tornato nella mia stanza soltanto venti minuti fa. Non ho lasciato nessun biglietto. Sono venuto qui perché ho trovato il tuo.

— Il mio…

— Il tuo biglietto.

— Ma Carr, io non ho… — cominciò lei. Poi la sentì sussultare e immobilizzarsi come un animale spaventato.

Sentì, nel silenzio, un lieve strusciare. Lo sentì una seconda volta… e poi un acuto lamento.

Era l’ingresso del sottoportico che si stava aprendo.

Poi un rumore di passi nel grande atrio, due piani più sotto.

Come se fosse qualche altra persona a parlare, un riflesso di Carr che pensava alle tattiche e alle strategie mentre il Carr principale era ipnotizzato dalla paura, si sentì bisbigliare: — C’è un’altra scala sul retro. Potremmo…

Proprio allora, come se fossero state fantasticamente amplificate dall’eco, le parole gli giunsero tonanti da sotto: — C’è un’altra scala sul retro.

Ma il timbro era quello squillante e gradevole del signor Wilson.

— Tutto a posto. — Il timbro acuto e compiaciuto della signorina Hackman fendette come un razzo quello più grave del signor Wilson. — Se cercheranno di usarla, Daisy se ne accorgerà, non è vero, cara?

Carr sentì Jane in preda a un tremito spasmodico, per poi tornare a immobilizzarsi. Cercò di allontanarla dalla cima delle scale, ma era rigida come un bastone. Gli pareva che tutto stesse accadendo al rallentatore, cosicché quando una terza voce più vivace salì dalla tromba delle scale dicendo: — Diamoci da fare — queste tre parole parvero giungergli all’orecchio distanziate di molti metri l’una dall’altra. L’odore della polvere nelle sue narici era qualcosa che andava annusato con attenzione, esaminato con precisione. Alla luminosità crescente, cominciò a distinguere il disegno a foglie e a tralci della carta da parati dietro la testa di Jane.

Un trepestio di più passi risalì le scale, e in mezzo ad essi un ritmico e rapido rumore felpato. Dal punto in cui si trovava, Carr poteva sbirciare trasversalmente giù per la tromba delle scale fino a un breve segmento della prima rampa, che era ancora immersa nel buio. Ma poi parve, alla sua vista acuita, che una oscurità più lustra e luminosa balenasse per un istante là sotto. Come una sbuffata di profumo da due soldi, salì dalla tromba delle scale la voce zuccherosa della signorina Hackman: — Non c’è fretta, Daisy. Avrai tempo in abbondanza.

Ancora una volta Carr cercò di tirar via Jane. La ragazza non volle muoversi. Eppure dentro di sé si rese conto che quel tentativo da parte sua era poco più d’una simulazione, che l’altro Carr, il quale stava pensando alle possibilità di difesa offerte da quella stanza con le finestre a pezzi intorno a loro, stava diventando un’ombra sempre più vaga a ogni istante che passava.

No, era fatta. Quella era la fine d’una coppia di amanti che avevano scoperto come la vita fosse molto simile a una notte passata per scommessa in un museo delle cere dove alcune delle figure fossero finalmente diventate vive. La fuga in un mondo morto che non offriva nessun rifugio era inutile. Carr ebbe la momentanea visione del destino dell’ometto dalla pelle scura con gli occhiali. No, non c’era proprio niente che potessero fare.

Jane era come una statua fra le sue braccia, salvo che poteva sentire i suoi respiri terrorizzati mentre salivano e scendevano attraverso la sua gola. La sua mente era curiosamente vuota, attenta a cose così banali come la carta da parati, la luce e l’identità della figura con l’impermeabile nero accanto alla quale era passato poco prima, vicino ai binari del tram. Per qualche motivo, quell’interrogativo lo tormentava.

I passi lungo le scale rallentarono.

— Bene, non c’è dubbio che siano là sopra. Il capello è spezzato. — Le parole del signor Wilson avevano un suono eminentemente pratico, anche se erano inframmezzate dall’ansimare. Poi, quando i passi arrivarono al pianerottolo del primo piano: — Aspettate un momento. Mi manca il fiato.

— D’accordo. Giù Daisy. — La voce della signorina Hackman era amabilissima.

— Sst! Vi sentiranno. — Questa era la voce di Dris.

La signorina Hackman si attardò amorevolmente sulla sua risposta, profondendovi ogni possibile ipocrisia. — Lo so che ci sentiranno.

Carr studiò il disegno della carta da parati. Gli parve di poter distinguere il graduale intensificarsi della luce, come il movimento della lancetta dei minuti d’un orologio. Notò un ispessirsi dell’odore di muschio, come se fosse causato dalla polvere sollevata da tanti passi.

Dal pianerottolo sottostante giunse lo sbuffare del signor Wilson e un rapido rumore di zampe felpate in movimento in uno spazio molto breve. Carr riuscì a immaginarseli con molta chiarezza anche se la sua mente paralizzata si ostinava perversamente a dare molta più importanza alla figura con l’impermeabile scuro… Il signor Wilson era seduto sul gradino più alto, il petto che gli si alzava e si abbassava vistosamente per l’affanno, le ginocchia sollevate, facendo magari attenzione a tenere il bordo del suo cappotto lontano dalla polvere. Dris con la schiena appoggiata alla parete, un’ombra sottile, una mano e un uncino sui fianchi. La signorina Hackman con un piede sul gradino più alto, uno sul penultimo, protesa in avanti, con addosso qualche smagliante vestito, un gomito sul ginocchio, i capelli biondi che le ricadevano a cascata intorno al viso.

Nell’altra mano stringeva un corto guinzaglio, all’altra estremità del quale andava avanti e indietro quell’oscurità più luminosa e lustra. Mentre parlavano, Carr poteva immaginare vividamente le loro espressioni, malgrado l’altro problema insistesse a sembrargli molto più importante.

— Su, avanti — li sollecitò Dris brusco.

— Non c’è proprio nessuna fretta — gli garantì la signorina Hackman. — Buona Daisy!

— Comunque, sarebbe stato più semplice farli fuori dov’eravamo prima — continuò Dris.

— Per poi dover passare ore e ore a ripulire il pasticcio? — La risposta della signorina Hackman fu pronta e sprezzante. — Vi siete dimenticato quale problema abbiamo avuto a causa dell’ometto con gli occhiali? Mezz’ora in ginocchio a ripulire per terra.

— Non eravate molto entusiasta neppure voi — ribatté lui.

— Quello non m’interessava. Questo sì. Qui non dobbiamo fare le cose in fretta e preoccuparci di dover pulire a cose fatte. — Fece una pausa di riflessione. — Ah, quanto sono stati stupidi a farsi attirare qui da quei biglietti! — esclamò poi con voce allegra. — Come è stata stupida la ragazza a credere che non sapessimo che aveva l’abitudine di venire qui. Com’è stato stupido da parte di tutt’e due comportarsi in maniera così totalmente ingenua! E com’è stato stupido lui a non rendersi conto che potevamo procurarci il suo indirizzo di casa presso l’ufficio in cui lavora. Quasi troppo facile. Comunque — proseguì soprappensiero — sono vivi, e sono soltanto i vivi che divertono sul serio.

— Andiamo avanti — insisté Dris.

— No. Avete un appuntamento con la vostra ragazza.

— Non siate ridicola. No, ho la sensazione che ci stiano sorvegliando.

— Sciocco ragazzo. — La voce della signorina Hackman risuonò completamente felice. — Certo che ci sorvegliano… e ci ascoltano, per giunta.

— Non intendo parlare di loro — ribatté Dris.

Ma Carr non stava prestando nessuna attenzione a ciò che dicevano, poiché aveva appena ricatturato un ricordo che perversamente gli dava una grande soddisfazione: l’identità della figura in impermeabile scuro.

Sì… era uno degli uomini che si erano trovati sul marciapiede della South State Street quando lui e Jane erano scappati.

— Hai una sensazione Dris? — Il signor Wilson era finalmente riuscito a recuperare il fiato e a parlare, ma non manifestava il minimo, squillante entusiasmo. Anzi, era quasi apprensivo.

— Sì.

— Allora finiamola in fretta. — I gradini scricchiolarono quando sollevò il suo corpo grasso, il rumore dei passi ricominciò, e vi fu un fremente cambiamento nel ritmico rumore felpato. Poi: — Cos’è stato? — Il signor Wilson aveva quasi urlato.

— Stanno cercando di scappare giù per la scala sul retro! — strillò la signorina Hackman. — Daisy!

— No, non è vero! Siete un’idiota! — tuonò il signor Wilson. — Io credo…

— Vi avevo avvertito… — cominciò a dire Dris.

— Mio Dio, sono… — cominciò il signor Wilson.

Ma Carr era così immerso nel ricordo che aveva ricatturato, che a tutta prima la cosa non gli parve importante… forse era qualcosa che la sua mente malata immaginava, ma all’improvviso udì un rumore di passi in corsa sul pavimento al piano di sotto, più passi di quanti avrebbero potuto produrne quei tre, e per di più arrivavano dal retro della casa e salivano con fracasso le scale dal pianterreno.

Perfino con Jane sussultante fra le braccia quando, con sconvolgente fragore moltiplicato da echi nella tromba delle scale, giunse fino a loro lo schianto d’una mezza dozzina di fucilate, Carr non riuscì a rendersi completamente conto di quanto stava accadendo, o meglio, si rese conto adesso che quanto stava accadendo quadrava con quel ricordo da lui catturato, e come questo conducesse dalla South State Street attraverso il bagliore rosso di un razzo da segnalazione delle ferrovie fino alla chiatta del vecchio Jules, all’uomo in impermeabile scuro accanto ai binari del tram, e infine lì.

Con Jane scossa da un violento tremito fra le sue braccia sentì, mentre l’eco delle fucilate si spegneva, un grido acuto che terminò con un gemito gorgogliante, il tonfo di un corpo, l’urlo lacerante di un animale, un trapestio di zampe in corsa, un’altra assordante raffica di fucilate, il tonfo di un altro corpo, un ultimo sparo, e poi i tonfi ritmici sempre più fievoli di un corpo che ruzzolava giù per le scale gradino dopo gradino.

Poi il silenzio, il più completo silenzio, più sconvolgente del rumore.

Una nube di fumo acre saliva come un fungo dalla tromba delle scale.

Poi dal silenzio sottostante una voce sconosciuta, recisa, crudele: — Bene, e con questo li abbiamo liquidati e in un buon posto. Brutta ferita, George?

Un’altra voce sconosciuta: — Soltanto un graffio.

Una terza voce: — Dobbiamo perquisire il resto della casa?

La prima voce, dopo quella che a Carr parve un’eternità: — No, c’erano soltanto quei tre e il gatto quando li abbiamo seguiti fin qua dentro. Inoltre erano soltanto tre in questa banda. L’ha detto il vecchio Jules.

Un rumore di passi che scendevano le scale.

La porta esterna del sottoportico che si chiudeva.

Carr sentì che Jane, contorcendosi, si liberava dal suo abbraccio e correva nella stanza alle loro spalle. La trovò che sbirciava da sopra il davanzale della finestra mezzo fracassata. Inginocchiandosi con cautela accanto a lei alzò in tempo gli occhi per vedere, mentre percorrevano il vialetto coperto di erbacce nella gelida luce del mattino, una mezza dozzina di uomini dall’impermeabile scuro.

Rimasero rannicchiati accanto alla finestra. Il vialetto si vuotò. Adesso la luce era più intensa, sufficiente a rivelare la debole sfumatura verde delle erbacce.

Carr guardò Jane proprio mentre la ragazza si voltava verso di lui.

Detestava l’idea di dover scendere, di doverla guidare in mezzo a quello che avrebbero trovato.

Lo faceva fremere la constatazione che dovevano la vita a creature micidiali, non meno orribili di quelle che erano state appena distrutte, che la sua salvezza e quella di Jane stavano soltanto nel fatto che quelle creature micidiali non erano state informate della loro presenza.

Tuttavia sapeva che la strada per poter tornare alla loro vita era finalmente sgombra.

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