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Attraverso gli occhi appesantiti dal sonno, ridotti a due fessure, Carr vide le lancette nere dell’orologio che invocavano, rigide, la collera del cielo sui tiratardi. La stanza era invasa dal sole.

Ma Carr non si scagliò fuori dal letto per infilarsi a spron battuto i vestiti e precipitarsi al centro soltanto perché erano le dieci e dieci. Né cominciò a riflettere sul modo in cui avrebbe potuto far pace con Marcia.

Invece sbadigliò e chiuse di nuovo gli occhi, assaporando la sensazione d’indipendenza e di fiducia in se stesso, la libertà dell’ansia che l’aveva invaso.

Era inconsueto che una ragazza così strana e neurotica avesse potuto dargli tanto.

Senza fretta spinse le gambe fuori dal letto e si rizzò a sedere sfregandosi gli occhi. Qualunque cosa lei gli avesse dato, ne aveva certamente avuto bisogno. Signore, si era ridotto in un tale stato mentale. Non dormiva abbastanza, i suoi nervi erano a fior di pelle, provava ostilità nei confronti del suo lavoro, faceva troppi sforzi per tenersi al passo col mondo: erano sufficienti poche banalità per farlo tremare, un tranquillo ispettore al magnetismo per farlo diventare un codardo, e la splendida occasione che Marcia gli aveva fatto balenare davanti agli occhi per farlo scappare. Adesso, tutto questo gli appariva ridicolo. Provava l’intensa sensazione di essere tornato sul binario giusto.

Malgrado quanto le doveva, la notte appena trascorsa cominciava già a diventar nebulosa nella sua mente, come se si fosse trattato d’un episodio che non era appartenuto di diritto alla sua vita: un tassello d’esperienze intimo ma isolato, incorniciato come una fotografia.

L’agente avrebbe dovuto avere più esperienze come quella. Aiutavano a “rompere il ritmo”.

Sogghignando si alzò in piedi, fece il bagno e si rase con comodo.

Decise che avrebbe fatto colazione in centro. Qualcosa di speciale. Senza affrettarsi sarebbe andato in ufficio all’incirca all’ora in cui iniziava il normale intervallo per il pranzo.

L’aria fresca del lago, riscaldata dal sole, entrava dalle finestre aperte. Riscoprì i piaceri dimenticati nella consueta, trita cerimonia di scegliere camicia e cravatta.

Scese le scale con passo scattante. Questa volta il Carr Mackay dello specchio era una controparte briosa e rassicurante, malgrado gli occhi cerchiati e i capelli grigi che spuntavano qua e là. Salutò l’immagine con un distratto cenno del capo.

Aveva quasi avuto l’intenzione di permettersi un tassi fino al raccordo anulare. Ma cambiò idea appena uscito. Il sole e l’aria tersa, il delicato marrone degli edifici, l’azzurro del lago e del cielo e una diffusa voglia di sciogliere i muscoli, quando perfino i vecchietti incartapecoriti strisciavano fuori dai loro gusci, erano troppo attraenti. Si sentiva fresco e scattante: c’era tempo in abbondanza. Sarebbe andato a piedi.

La città gli si mostrava nel suo aspetto migliore. Provò piacere nel sentire i movimenti calmi ma allo stesso tempo elastici del suo corpo mentre ispezionava, come se fosse un dio giunto sulla Terra per un breve soggiorno, la scena mutevole e la gente che passava.

Se la vita aveva un ritmo, pensò Carr, questo si era ridotto al pigro mormorio d’una corda vibrante.

La sua mente rivide oziosamente gli avvenimenti della scorsa notte. Si chiese se sarebbe riuscito a ritrovare la casa di Jane. Non c’era dubbio che fosse un posto davvero imponente. La sua ipotesi sulla ricchezza della ragazza aveva colpito nel segno.

Ma non provava curiosità. Già Jane cominciava a sembrargli una ragazza conosciuta in sogno. Si erano incontrati, aiutati a vicenda, accomiatati. Un episodio perfetto ma concluso. Perché mai tanta gente voleva che gli incontri conducessero a qualcosa? Spesso vediamo le persone al loro meglio la prima volta. Perché insistere su nuovi contatti umani finché si trasformano in una monotona amicizia?

Nell’attraversare il ponte Michigan, si guardò intorno distrattamente cercando con lo sguardo la chiatta nera, ma non la vide da nessuna parte. — In lontananza, il lago era abbacinante. Vicino al ponte alcuni inservienti stavano pulendo un battello turistico. I grattacieli svettavano nell’aria coi loro schietti profili grigi. Talvolta, le metropoli potevano anche essere luoghi piacevolissimi. Carr decise che per coronare il tutto avrebbe fatto una capatina in uno dei grandi magazzini per un acquisto del tutto inutile. Una cravatta forse. D’una nuova sfumatura blu, magari.

All’interno dell’emporio la folla era più densa. Soffermandosi accanto all’ingresso per individuare il banco che cercava, Carr provò una quasi impercettibile sensazione di oppressione.

Tanto basso da non attirare l’attenzione generale, ma udibilmente distinto, risuonò un ronzio. Tre ronzii, uno dietro l’altro. Poi altri tre. D’un tratto, Carr fu sul chi vive senza sapere perché.

Un uomo grande e grosso cominciò a muoversi verso la porta più vicina, senza mostrare una fretta eccessiva ma senza perder tempo. Due corsie più in là un altro grande e grosso stava avanzando nella stessa direzione.

Fra quei due, una donna ben vestita, dai capelli grigi, si stava dirigendo verso la stessa porta con un passo un po’ più rapido di quello che sarebbe parso appropriato alla sua voluminosa figura.

I due uomini stavano convergendo su di lei. La donna accelerò. I due uomini la raggiunsero giusto davanti alla porta.

All’apparenza avrebbe potuto trattarsi di una zia che veniva accostata da due nipoti cortesi e solleciti. Nessun altro lì nell’emporio pareva essersi reso conto che stava accadendo qualcosa d’insolito.

Ma Carr notò la mano sul polso della donna, la delicata spinta (avrebbe potuto trattarsi dell’amorevole buffetto d’un nipote), l’espressione indignata e la minaccia di fare una scenata da parte della donna, l’amabile “Sarà tutto assai più semplice se non farete tante storie” scritto nel sollevarsi delle loro sopracciglia, la faccenda di scortarla verso le scale del mezzanino, come se i nipoti avessero convinto l’agitatissima zia a pranzare con loro.

D’un tratto Carr non sentì più alcun desiderio. Qualunque pregustazione dei sottili piaceri che gli sarebbero venuti da quelle compere oziose era svanito dalla sua mente. Voleva arrivare al più presto al suo posto in ufficio.

Non era stato l’incidente in sé perché non era niente di straordinario: soltanto due investigatori della ditta che avevano arrestato una taccheggiatrice allo squillo d’un segnale d’allarme.

Questo era ciò che il fatto suggeriva.

Era accaduto tutto in maniera così rapida, sfuggente. Vi faceva diffidare della folla e di qualunque senso di sicurezza avevate pensato di poter riporre in essa.

Fuori, la città era più rumorosa, più ossessiva, meno amichevole.

Quando Carr arrivò in ufficio, l’infastidì constatare che il suo cuore aveva accelerato i battiti e che lui si stava affrettando in preda a un senso di colpa. Si costrinse a rallentare il passo, ma risultò che tutti erano talmente occupati che nessuno ebbe il tempo di sollevare lo sguardo su di lui o di dirgli “ciao!”. Mentre prendeva posto alla scrivania provando un’esagerata sensazione di sollievo, il suo telefono squillò. Provò un tuffo al cuore, senza sapere perché.

— Buongiorno Carr.

— Buongiorno… — Le sue labbra entrarono in funzione. — Marcia, mi spiace…

— Hai ancora la testa sulle spalle?

— Uh? — La mente di Carr annaspò, priva di controllo, a quell’osservazione. Poteva essere stato sarcasmo, ma lui non riusciva a immaginare di che tipo. Certo ieri sera aveva “perso la testa”, ma…

— Be’ io sì — continuò Marcia tutta allegra. — Comunque, ho passato una splendida serata, se t’interessa saperlo.

Questa dichiarazione lo ferì. Certo, Marcia non perdeva tempo, quando si trattava di punire qualcuno. Lui però se l’era aspettato. — Marcia, mi sono comportato come uno sciocco… — Cominciò a dire.

— Semplicemente splendido, sì. Non avevo mai saputo che cucinassero così bene da Kungsholm.

Lo disse con il timbro di voce più piacevole che si potesse immaginare. Nessuna indicazione che stesse cercando di ferirlo.

— E dopo… anche quello è stato meraviglioso.

Carr sussultò. La tranquilla certezza che aveva provato quella mattina nei confronti di Marcia presto svanì. Si sentì totalmente immerso nella gelosia e nell’infelicità.

— Ascolta Marcia: ti ho detto che mi sono comportato come uno sciocco…

— Il motivo per cui ti ho chiamato — l’interruppe lei — era per dirti quanto io sia contenta che tu abbia deciso di cambiare idea su Keaton Fisher.

Qui il telefono si azzitti, in attesa. Carr intuì quello che lei voleva dire, o pensò di averlo intuito. L’avrebbe subito perdonato se avesse accettato il lavoro di Fisher. Be’… gli andava bene, aveva finito per trovarsi d’accordo anche lui. Ma detestava l’idea di lasciarle credere che fosse stata lei a costringerlo. Però…

— Ho cambiato idea Marcia — disse.

— E voglio che tu faccia proprio una bella impressione su di lui venerdì sera.

— Ci proverò.

— So che lo farai. Ciao, tesoro.

Mise giù il ricevitore. Così, era fatta. Si era impegnato. Probabilmente per il suo bene.

Avrebbe dovuto saperlo che Marcia avrebbe finito per spuntarla. Si chiese con quale uomo fosse uscita la sera prima, poi decise che avrebbe fatto bene ad accantonare la domanda.

— Vieni?

Carr sollevò lo sguardo. Gli altri si stavano alzando dalla scrivania, infilandosi cappelli e soprabiti, per andare a pranzo. Tom Elvested era in piedi accanto a lui.

— Certo certo — si affrettò a dire Carr. — Arrivo subito.

Mentre si avviava verso l’Italian’s, il suo umore si rischiarò. Dopotutto aveva fatto la pace con Marcia, anche se aveva dovuto pagare un prezzo. Gli tornò qualcosa della tranquilla euforia che aveva provato qualche ora prima. Aveva una mezza idea di raccontare a Tom della notte scorsa, ma provava una curiosa reticenza a farlo. C’erano consistenti motivi si disse. Da un lato, non voleva che la cosa arrivasse agli orecchi di Marcia. Dall’altro gli parve che, descrivendolo, tutto sarebbe parso una grossa sciocchezza. Infine c’era quella persistente impressione che Jane conoscesse Tom: che fosse collegata a lui in qualche maniera, e in questo momento non voleva sapere altro di lei, o rimanerne ulteriormente coinvolto.

Così, quando trovarono un tavolo all’Italian’s e decisero che le cotolette di vitello alla parmigiana avevano l’aspetto più invitante e Tom gli chiese: — Com’è andato il tuo appuntamento con Marcia? — Carr si limitò a rispondere: — Splendidamente. — Poi si affrettò a chiedere a sua volta: — E tu come te la sei cavata con Midge e la sua amica?

— La sua amica non è venuta. Non siamo riusciti a trovarle un altro partner in così breve tempo. Midge ha cercato di convincerla a venire lo stesso, ma credo abbia avuto paura di guastare la nostra intimità.

— Mi spiace — disse Carr. — Se non fosse stato per il mio appuntamento con Marcia… e poi me l’hai chiesto all’ultimo momento.

— Sicuro — annuì Tom rompendo il panino a pezzetti e lasciandoli cadere nella minestra.

— Comunque vorrei che un giorno tu l’incontrassi. Credo che tu e lei abbiate molto in comune.

— In che senso? — chiese Carr.

Tom pescò una cucchiaiata di minestra piena di pezzetti di pane inzuppati. — Oh, le tue qualità più sommerse — rispose.

Carr lo fissò per un attimo, poi decise di lasciar cadere il discorso. Gli venne in mente che tanto valeva che lui cominciasse a ostentare entusiasmo per il suo nuovo futuro. — Ehi, sai che Marcia ha messo le mani su qualcosa di molto interessante? — cominciò, e mentre terminavano la minestra, gli descrisse per sommi capi il programma di Keaton Fisher per un servizio di consulenza editoriale. Arrivarono le cotolette alla parmigiana, ed entrambi furono molto impegnati per un po’. Poi, quando Tom stava pulendo il piatto dalle ultime tracce di pomodoro con un pezzo di pane infilato nella forchetta, Carr chiese: — Tu che cosa ne pensi?

Tom masticò il pane prima di rispondere. Poi replicò, mostrando assai poca immaginazione: — Sei sicuro che sia il genere di lavoro che ti piace?

— Oh diavolo — esclamò Carr. — Tu sai che con tutta probabilità non saremmo impiegati all’ufficio di collocamento se non fossimo ben sicuri del lavoro che vogliamo fare.

Tom sogghignò. — Te lo concedo. Proprio come lo psichiatra ha una propensione ad essere un po’ matto. Ma ho una mia idea su di te: penso che non ti piaccia la gente.

— Davvero?

— No. Ora, per quanto riguarda me, potrò anche non essere un granché nel giudicare le capacità attitudinali, ma a me la gente piace. E mi piace fare congetture su di loro. Mi piace perfino rilassarmi con loro. Sono inquieto, se non ho un po’ di gente intorno. Ma tu… credo che la gente ti dia sui nervi. Lo nascondi molto bene, ma ti ho sorpreso a fissare le persone come se fossero maledettamente irritanti per te. È come se tu le considerassi solo come bizzarre macchinette gracchianti.

— Oh diavolo — commentò Carr.

— Forse. Ma c’è pur sempre qualcosa che ti rode.

— E rode tutti noi.

Tom assaggiò il suo caffè. — Sì, in questo caso l’idea di Keaton sembra davvero una miniera d’oro — ammise come se fosse rimasto sinceramente colpito.

Ma c’era una vaga atmosfera di disagio fra loro, che si prolungò finché non tornarono in ufficio. Dannazione, pensò Carr, Tom è tutto preso da questo fatto che non mi piace la gente. Ma quello che in realtà non mi piace sono le condizioni in cui incontriamo la maggior parte della gente al giorno d’oggi, la superficialità dei contatti, le banalità delle idee che ci scambiamo e la natura sintetica, artificiale dei sentimenti in gioco, plasmati da film e radio.

Carr era tentato di raccontare a Tom di Jane, per dimostrargli che lui era perfettamente in grado di entrare nello spirito della gente. Ma temeva che Tom potesse rivoltargli contro l’argomentazione, facendogli notare che lui e Jane si erano comportati come due individui solitali e asociali.

No, non avrebbe mai discusso di Jane con nessuno. Era una di quelle cose… passata e conclusa. Qualcosa che non avrebbe avuto nessuna conseguenza.

Lui e Tom salirono insieme la singola rampa che portava all’Agenzia Generale di Collocamento e Carr si fermò alle toilettes per uomini. Un minuto più tardi, entrando nella sala d’attesa dei candidati, guardò attraverso il pannello di vetro e vide la bionda vistosa che aveva schiaffeggiato Jane seduta sulla sua poltroncina girevole intenta a frugare nei cassetti della sua scrivania.

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