10

Carr spinse in avanti il suo bicchiere attraverso la superficie cromata. Il barista allungò la mano per prenderlo. Carr si voltò verso Marcia. — Un altro? — le chiese. — Sono in vantaggio di uno su di te.

Lei sorrise ma tenne stretto lo stelo del suo bicchiere. Il barista prese quello di Carr con un movimento della mano e si voltò.

— Avrai bisogno della giusta dose di vantaggio quando incontrerai Keaton — disse Marcia. — Si basa molto sulle prime impressioni.

Carr annuì obbediente. Quella sera Marcia appariva molto bella. Sopra l’abito nero, le spalle e il collo nudi erano incredibilmente giovani. E sul suo viso c’era quell’espressione che Carr trovava sempre inquietante ed eccitante allo stesso tempo. Un’espressione che era un incitamento a osare, ma che minacciava una reazione collerica se l’osare non fosse stato della qualità giusta. Un atteggiamento che indicava come fosse interamente interessata in voi, ma soltanto per certe cose.

Non nei vostri guai, per esempio. Non importa quanto brutti fossero.

— Cosa c’è, Carr? Sei così silenzioso.

— Niente.

— Ci sarebbe quasi da pensare che non sei contento d’incontrare Keaton.

Carr terminò il suo Manhattan. Si toccò la cravatta nera. Vi fu un altro sgradevole silenzio. Per romperlo, Carr cominciò a parlare a caso.

— Ti ricordi di Tom Elvested? Si è fissato che io debba uscire con una misteriosa ragazza che, lui insiste, è proprio il mio tipo.

— E perché non lo fai? — replicò Marcia in fretta. — Potrebbe essere molto divertente.

Carr scoppiò a ridere. — L’ho citato come esempio della testardaggine di Tom. Una volta che si è messo in testa un’idea…

— Ma perché no? — insisté Marcia. — Potrebbe essere giovane. Sarebbe interessante per te.

— Sciocchezze — disse Carr a disagio. — Immagino sia una guastafeste. Una specie d’intellettuale timida. L’ho citato soltanto come un esempio…

La sua voce si affievolì. Guardò il proprio bicchiere vuoto. Marcia guardò lui.

— È tempo d’andare — annunciò.

Nel tassì lei si girò rapidamente verso di lui e lo baciò. Prima che Carr potesse reagire, lei si era scostata e gli stava raccontando gli ultimi pettegolezzi sul mondo editoriale. Qualche altro isolato, e si fermarono davanti alla casa dei Pendleton.

Viste dalla strada, le finestre vivacemente illuminate del vasto appartamento al terzo piano parevano il ponte in festa d’un transatlantico di medie dimensioni che stesse solcando la notte. C’erano perfino le ventate di musica che volteggiavano fino in basso…

C’era parecchio movimento nella strada. Un altro tassi si arrestò dietro al loro. Un fattorino con una scatola di cellophane comparve dalla direzione opposta e infilò il vialetto che dava accesso all’edificio. Un grosso cane nero, tenuto al guinzaglio da una donna in pelliccia, si avvicinò e si mise a fiutare Carr, che provò un anormale accesso di paura. Lui e Marcia si affrettarono lungo il vialetto. Carr tenne aperta la porta per lei e per la coppia che era scesa dal secondo tassi. L’uomo lo ringraziò con un leggero inchino. La ragazza, che aveva una delicata carnagione britannica delicatamente imporporata, sfiorò la mano di Marcia e si misero a chiacchierare.

Mentre Carr seguiva con lo sguardo le loro calze piacevolmente colme su per la scalinata coperta da un tappeto grigio, cercò di pensare a qualcosa da dire all’altro uomo. Ma, invece, si trovò a chiedersi cosa sarebbe successo se avesse avuto un altro attacco di amnesia. Era una possibilità che prima non gli si era affacciata alla mente con tanta forza, ma che adesso lo ossessionava.

Un attacco di amnesia assomigliava più a uno svenimento o a un colpo di sonno. Sareste riusciti a tenerlo lontano finché ci pensavate? C’era da presumere che qualunque cosa potesse causarlo. Malgrado tutto… lui doveva veramente vedere uno psichiatra.

Una stridula risata di saluto giunse dall’alto della scala. Carr alzò lo sguardo e vide Kathy Pendleton che si sporgeva dal pianerottolo come una bambola grassa dal volto coperto di minuscole crepe. Un fantastico fiore verde le penzolava dalla mano.

— Guardate cos’ha mandato Hugo! — gli gridò. — Non può venire. Trattenuto al consolato. — Agitò l’orchidea in direzione di Marcia e della ragazza inglese. Mie care, avete un aspetto splendido. Venite con me. — Porse la scatola di cellophane al fattorino. — Nessuna risposta, grazie. — Poi, in fretta, rivolta a Carr e all’altro uomo con una smorfia gioviale: — Mona vi farà strada — e riattraversando la porta rivelò una cameriera negra dal volto aguzzo che fino a un attimo prima aveva eclissato con la sua mole.

Entrando, Carr constatò che effettivamente l’appartamento dei Pendleton aveva la disposizione d’un transatlantico. Stanze che si aprivano su entrambi i lati di due corridoi centrali paralleli. La grande veranda in ombra, con le porte scure visibili al di là delle coppie danzanti, avrebbe potuto rappresentare il ponte. Poi veniva l’immenso soggiorno, ovvero il salone principale. E poi ancora un piccolo studio dall’aspetto arcigno con grandi ritratti scuri alle pareti: la cabina del capitano. Poi ancora una biblioteca: il secondo salone. E per finire i lussuosi locali per le cerimonie. La sala da pranzo e la cambusa si trovavano presumibilmente a poppa.

La cameriera, un indigena delle Indie Occidentali, mostrò a Carr un letto stracolmo di cappotti e di cappelli ai quali lui aggiunse i propri. Tornato in corridoio vide Marcia indaffarata a parlare con un ometto che indossava una camicia bianca floscia sotto lo smoking. Carr si arrestò di colpo, avvertendo un gelo inquietante che saliva dentro di lui.

L’ometto aveva assunto una posizione estremamente rilassata, con le braccia penzoloni mentre i suoi lineamenti sottili erano stanchi e afflosciati. Ma quell’aspetto era ingannevole. Aveva un tic. Tutte le volte che i muscoli della sua guancia entravano in convulsione, i suoi occhi cerchiati di scuro lanciavano un’occhiata critica, penetrante, e le sue dita si arricciavano. Era come se fosse in agguato dietro una tenda che lievi sbuffi di vento continuavano a scostare.

Marcia sollevò le sopracciglia in direzione di Carr. Lui le si avvicinò rassegnato, sapendo che quello doveva essere Keaton Fisher.

Ma la presentazione non era ancora conclusa — gli occhi cerchiati avevano appena cominciato a raggelare Carr, le dita flaccide non avevano ancora completato una stretta di mano che assomigliava più che altro al tentativo di contare i battiti del polso da parte di un medico (e d’un tratto il tic rese spasmodica la stretta) — quando Kathy Pendleton, che stava applicando con uno spillone l’orchidea verde a una testarossa che era sul punto di protestare, li interruppe: — Oh, signor Fisher, ho promesso di presentarvi ai Wenzel. Voi ci scuserete certamente…

Marcia a sua volta sfiorò il braccio di Carr: — A più tardi. — E si allontanò a rapidi passi.

Rimasto solo e momentaneamente sollevato, Carr si servì un cocktail, e si lasciò andare alla deriva fino alla biblioteca, dove erano in corso un certo numero di animate discussioni. Carr riconobbe parecchie persone, ma esitò a decidere a quale gruppo unirsi, e le conversazioni procedevano talmente in fretta che le sue intelligenti osservazioni arrivavano sempre in ritardo. Si sentiva come una ragazza impacciata che stesse raccogliendo il coraggio per il momento in cui avrebbe dovuto cominciare a saltare la corda.

La sua inquietudine stava raggiungendo rapidamente un apice in cui avrebbe potuto sbottar fuori con un qualunque tipo di osservazione soltanto per farsi notare, quando Marcia arrivò e gli annunciò che voleva ballare.

Non appena Carr le ebbe messo un braccio intorno alla vita, si rese conto che lei era l’unica persona con la quale poteva parlare.

Gli altri suoi impulsi erano stati soltanto un camuffamento. Perché mai, dal momento che qualcosa di fantasticamente strano e terrificante gli era accaduto, doveva sprecar tempo e pensieri con quel branco d’individui chiassosi? D’un tratto gli venne in mente che la cosa più naturale sarebbe stata parlare a Marcia dei suoi misteriosi attacchi di amnesia. Cos’era mai l’amore se non veniva condiviso? Quando passarono davanti alle raggianti facce brune dei musicisti era pronto a dirle tutto.

— È bene che Kathy si sia intromessa — gli bisbigliò rapidamente Marcia a bassa voce. — Quello non era il momento giusto per la tua conversazione con Keaton. Ho parlato con lui e ho organizzato tutto.

Carr annuì. — Marcia… — cominciò a dire con difficoltà.

— Adesso ascoltami attentamente, Carr — l’interruppe Marcia. — Tra circa dieci minuti Keaton lascerà la biblioteca e andrà nello studio. Farò in modo che sia solo. Non perderlo di vista e assicurati di non essere impegnato con qualcuno. Qualche istante dopo, seguilo.

— D’accordo — disse — Ma prima Marcia, c’è qualcosa…

La musica terminò con un ghirigoro sui toni acuti. Marcia gli diede una piccola spinta. — Adesso corri a tener d’occhio Keaton — gli disse. — Oh ciao, Guy… — e l’attimo successivo gli aveva girato la schiena e stava parlando con lo stempiato e allampanato signor Pendleton.

Avvilito, Carr tornò in biblioteca. Di passaggio, si prese un altro cocktail. Le discussioni stavano ancora marciando a pieno ritmo. Adesso Keaton Fisher dominava una di queste, sincronizzando le sue argomentazioni con il tic.

Carr vagò da un gruppo all’altro, sempre tenendosene ai bordi, sorridendo e approvando con un cenno del capo alcune delle osservazioni che venivano fatte, ma in apparenza solo quel tanto che bastava per farsi accettare senza essere veramente notato. Tutti parevano aver concluso che lui era un tipo solitario che voleva soltanto andarsene in giro centellinando un drink. Divenne conscio di un muro sempre più alto fra lui e gli altri. Un muro di vetro, forse, poiché gli pareva di non poter più sentire tanto bene ciò che veniva detto: ne sentiva solo il ronzio.

Proprio allora notò Keaton Fisher che si eclissava nel corridoio. Come per magia la sua ansia scomparve e sentì tornargli il controllo di sé. Proprio come poco prima si era sentito colmare di sollievo all’allontanarsi di Keaton Fisher, adesso si sentiva pazzo di gioia alla prospettiva di tornare da lui: qualunque cosa, purché gli venisse data la possibilità di fare qualcosa di preciso.

Per un attimo deviò verso il tavolo dei cocktail, ma si controllò e andò diritto verso lo studio, dove sostò fuori della porta. Keaton Fisher era dentro e non c’era nessuno con lui. Aveva in mano una rivista e ne stava studiando il sommario. Era rivolto verso un punto un po’ discosto da quello dove si trovava Carr. Era immobile, se si eccettua il tic. A Carr venne in mente un infantile gioco di parole: Keaton Fisher aveva un tic. Perciò Keaton Fisher ticchettava. Come un orologio.

Cupi ritratti di uomini barbuti vestiti in foggia ottocentesca guardavano Keaton dall’alto. Uomini mascherati come lui che astutamente guardavano ai profitti attraverso i fori degli occhi dei loro volti. Carr provò un improvviso rigurgito di ansietà.

Fissando immobile sempre la stessa pagina della rivista, Keaton Fisher continuava a ticchettare.

Immobile, eppure, tutt’a un tratto Carr parve che raddoppiasse d’altezza, che diventasse una figura terrificante nella quale era concentrata la quintessenza di tutte le qualità più sfrontate e predatorie del mondo chiassoso intorno a loro: il mondo delle truffe e degli imbrogli, degli abusi e delle uccisioni, di annunci pubblicitari e titoli a caratteri di scatola, soperchierie e violenza, il mondo dei robot d’affari superintelligenti, dei moderni uomini-macchina superefficienti.

Keaton Fisher continuò a ticchettare.

Per il momento ogni altra cosa fu spazzata via dalla mente di Carr, salvo per la questione se dovesse o no entrare in quella stanza. Sapeva di trovarsi davanti a una decisione che avrebbe influenzato tutta la sua vita futura. Sapeva che, come capita troppo spesso con simili decisioni, non era lui in realtà a prenderla: essa veniva presa per lui da forze molto più potenti di qualunque altra cosa la sua consapevolezza potesse evocare, ma che tuttavia veniva presa.

Keaton Fisher continuava a ticchettare.

Dando in un piccolo singhiozzo che era quasi un uggiolio di paura, Carr arretrò, corse al tavolo dei cocktail, ne trangugiò uno, ne prese su un altro; poi un secondo (poteva sempre fingere che fosse destinato a una dama…), raggiunse rapidamente il soggiorno, si spostò lungo la parete per evitare i ballerini, aprì la porta che dava sulla veranda buia, vide che era vuota, si sedette e cominciò a bere a piccoli, avidi sorsi.

Quando mise giù il secondo bicchiere accanto alla poltrona, la reazione lo colpì con una botta che l’obbligò a contorcersi. Fissò freneticamente le finestre scure con i loro luccicanti riflessi colorati provenienti dalla pista da ballo. Ciò che aveva fatto l’aveva escluso per sempre da Marcia. Quella era stata un’ultima possibilità, un’ultima prova. Avrebbe significato prendere in giro se stesso se avesse pensato in maniera diversa.

Aveva respinto con sdegno una splendida possibilità di aver successo nella vita, una possibilità di sollevare la testa sopra il livello delle non-entità, di arrampicarsi fino a un livello dove avevate da dire la vostra parola su ciò che vi sarebbe successo.

Si era condannato a perdere il suo attuale lavoro, a scivolar fuori dal suo attuale ambiente, ad andare di male in peggio. Dio soltanto sapeva per quanto, fino a quando gli stimoli dentro di lui non si fossero spasmodicamente concentrati spingendolo a fare un altro tentativo, sempre che avesse avuto l’energia per farlo. Sapeva che la vergogna e la vanità non gli avrebbero consentito nessun altro corso.

Ma soprattutto aveva perduto Marcia.

Forse non era ancora troppo tardi. Forse…

Balzò in piedi, si affrettò a tornare nel soggiorno, oltrepassò furtivo i ballerini, rientrò nello studio.

Era vuoto.

Completamente vuoto.

Guardò in biblioteca. Vide Keaton Fisher intento a parlare con altra gente. Marcia pareva felice. Anche Keaton Fisher pareva assai espansivo. Mentre Carr lo guardava, scoppiò a ridere e batté una mano sul braccio di Marcia… proprio mentre veniva colto dal tic.

Carr si tirò indietro di scatto, tornò in fretta e furia al tavolo dei cocktail, ripeté la sua manovra con i tre drink e tornò nella veranda.

Ma adesso, mentre beveva al buio con l’orchestra che gemeva alle sue spalle, c’era una differenza. Adesso che aveva fatto il passo irrevocabile, o era stato spinto a farlo, odiava ogni cosa dell’ambiente in cui il passo era stato fatto. Quegli idioti! Che diritto avevano di creare una società nella quale soltanto l’impudenza e un’efficienza da macchine contavano, nella quale chi aveva la pelle troppo delicata ed era senza ambizioni veniva torturato? Ciechi come pipistrelli alle cose davvero importanti della vita. Si agitavano e ancheggiavano come rotelline e pistoni, mentre il mondo andava Dio sa dove. Schernendo il prossimo e vagando di qua o di là, a seconda di come spirava il vento, mentre il tempo rubava giorni a tutti, e non li avrebbe mai più restituiti. Lottando per le briciole del prestigio, mentre pericoli ignoti, simili a neri mostri del mare, giravano silenziosi intorno al vascello dell’umanità. Per un attimo Carr ebbe l’impressione che l’appartamento dei Pendleton fosse realmente una nave, con soltanto un povero sciocco ubriaco rannicchiato futilmente nel ponte buio e vuoto. Si preparò per lo schianto contro gli scogli.

Poi, mentre l’alcol rinserrava la sua stretta su di lui, arrivò un’altra sensazione: l’ottimismo, o meglio il suo fantasma rumoreggiante e incerto. Perché diavolo doveva pensare di aver perduto Marcia? Forse che lei non lo amava? Che differenza faceva anche se lei aveva cercato di cambiare la sua vita e lui non gliel’aveva permesso? Dimostrava soltanto che lui era forte. L’avrebbe portata da qualche altra parte, avrebbero bevuto qualcosa insieme e lui le avrebbe spiegato tutto. Tanto per cominciare, le avrebbe parlato dell’amnesia.

Spalancò la porta del soggiorno e avanzò a grandi passi attraverso la pista da ballo, proprio mentre l’orchestra stava cominciando un nuovo numero. Si mise a fissare i volti della gente. Non gl’importava quanto la cosa lo facesse apparire maleducato. Voleva trovare Marcia e tanto bastava.

Le coppie sulla pista lo sfiorarono, ma lui non si scostò. Cosa gl’importava di tutti quegli sciocchi che in maniera così studiata non gli prestavano la minima attenzione? Di quelle pseudopersone che fingevano di non notare un uomo ubriaco che dava spettacolo di sé! Imbecilli che sorridevano compiaciuti! Come gli sarebbe piaciuto precipitarsi fra loro in preda a una furia omicida, buttare a terra gli uomini, strappare i vestiti sgargianti alle donne, specialmente quelli che lasciavano le spalle scoperte!

Poi vide Marcia.

Era dall’altro lato della pista da ballo, sola. La chiamò facendo energici gesti. Ma lei fece passare oltre il suo sguardo come se non l’avesse visto. Venne avanti piroettando, da sola, come per indicare quanto fosse irresistibile, per lei, la musica. Quando si girò dalla sua parte, lui le fece segno un’altra volta con un sussulto rabbioso della testa. Ma lei lo ignorò. Keaton Fisher le passò davanti, ballando in coppia con Kathy Pendleton. Keaton disse qualcosa a Marcia, che scoppiò a ridere.

Continuò a roteare con grazia, tutta sola. A Carr parve che lo facesse per schernirlo. Le indirizzò una smorfia e per la terza volta le fece un cenno energico.

Lei sorrise in maniera seducente. Il suo braccio pareva appoggiarsi su una spalla immaginaria, la sua schiena arcuarsi contro una mano ugualmente immaginaria.

Carr fu più che convinto che lo stesse prendendo in giro. Era come se gli dicesse: — Quanto è divertente. Non vorresti trovarti qui fra le mie braccia? Non daresti qualunque cosa per poterlo fare?

E continuò a fingere, come un automa.

Come se quel pensiero fosse stato un segnale, tutte le sensazioni che Carr aveva provato quella sera, la sua ansia nei confronti di Keaton Fisher, le sue angosce sulle decisioni che avrebbe dovuto prendere, le sue reazioni nei confronti di tutto il mondo dei Pendleton, si cristallizzarono in un singolo, pietrificato momento di ebbra consapevolezza.

Era come se tutto il fluido vitale delle figure davanti a lui fosse colato fuori da un singolo gigantesco squarcio.

La gente sobria ha l’impressione, per brevi momenti, che ogni forma di vita e di significato sia improvvisamente scomparso da ogni cosa tutt’intorno: i rumori, le parole, la gente. Per una persona ubriaca l’effetto è più intenso. A Carr pareva, mentre se ne stava là immobile, ammiccando, che il mondo dei Pendleton non fosse vero. Quelli erano manichini che danzavano in una vetrina. Il cicaleccio delle voci che giungevano dalla biblioteca erano registrazioni che uscivano ronzando dall’interno cavo di statue animate. E l’orchestra, poi! Vedete come quelle rigide mani brune battono sulla viola di basso, mentre altre due mani vanno su e giù sussultando sopra i tasti del pianoforte e un altro paio ancora volteggia lungo il sassofono? Complessi come quello, di latta dipinta, si vedevano nelle vetrine dei negozi di giocattoli. Quelli erano più grandi e di fattura infinitamente più raffinata, tuttavia la musica, in realtà, arrivava da qualche altro posto.

Pareti di vetro, era questo che aveva pensato. Quella gente si trovava dietro a pareti di vetro, non c’era dubbio, i pannelli di vetro d’una bacheca. Erano giocattoli che avevano raggiunto una dimensione tale da assordare con il loro baccano l’intero universo.

Perfino Marcia era soltanto un’elaborata bambola meccanica. Qualcuno le aveva infilato una chiave nel fianco, l’aveva caricata, e adesso girava e girava… Come Keaton Fisher, entrambi ticchettavano e basta.

Fra un attimo si sarebbero resi conto della sua presenza. Infuriati, perché un uomo vivo si era sbadatamente intrufolato in mezzo ai loro saturnali meccanici, si sarebbero precipitati su di lui, un’autentica marea metallica, luccicanti, sfavillanti, sbattenti, ticchettanti, sferzandolo con le loro braccia metalliche, calpestandolo sotto i loro piedi di metallo. Perfino adesso…

Trasalì, si girò di scatto, vide la porta che conduceva alle scale, si precipitò verso di essa.


Carr fissò il leone di bronzo come se fosse stato l’unico oggetto in un universo per ogni altro verso vuoto. Poi la pietra, l’ombra e la notte riemersero all’esistenza, mitigando i sentimenti in subbuglio che avevano fatto turbinare la sua mente e gli avevano messo le ali ai piedi.

Si guardò intorno un po’ scioccamente, rendendosi conto di trovarsi davanti all’Istituto d’Arte sul lato del Michigan Boulevard rivolto verso il lago. Ricordava la lunga camminata verso il centro soltanto come una progressione di cose viste senza essere realmente percepite. Una lontana insegna elettrica gli indicò l’ora: 3 e 39. Sentì gelide gocce di sudore scorrergli lungo le guance. La sua camicia da sera era umida sotto le ascelle. Si portò la mano alla gola, tirando su i risvolti dello smoking.

Salì i gradini di pietra e toccò, cautamente, il leone, come avrebbe potuto fare un bambino.

Un po’ più tardi provò nuovamente l’impulso di camminare. Ma non senza una meta precisa, lasciandosi andare alla deriva.

Mentre si spostava verso nord, lungo quello straordinario boulevard, di tanto in tanto un’automobile passava sibilando, facendo la riverenza alle strade laterali. Era ancora abbastanza ubriaco da provare l’illusione di essere molto alto e di incedere maestosamente. Cambiando direzione, attraversò il boulevard e si fermò davanti all’ingresso della Biblioteca Pubblica. D’un tratto si rese conto che qualcosa lo stava attirando attraverso la notte, trascinandolo grazie a un numero indefinito di cordicelle fissate in profondità nel suo cervello e nel suo cuore, talmente sottili e trasparenti che non era possibile rendersi conto della loro presenza a meno che qualche altra forza non si opponesse a loro.

Gli strattoni erano molto concreti. Gli pareva quasi di potersi appoggiare su di essi, confidando sulla loro forza per evitare di cadere.

E continuavano ad attirarlo. Avevano una promessa di mistero.

Si concentrò con la fissità di un mistico, sgombrando la sua mente da ogni pensiero aleatorio e lasciando che le sue sensazioni galleggiassero libere, cercando di percepire quegli strattoni, reagendo ad essi.

Cedette.

Le strade erano deserte e non c’era un filo di vento. Superò un chiosco per giornali vuoto. Il suo piede fece frusciare un frammento strappato di giornale.

Gli strattoni continuarono, anche se non crebbero d’intensità. Come se il magnete che lo attirava si allontanasse da lui mentre camminava, mantenendo sempre la stessa distanza.

A metà strada lungo l’isolato, l’attrazione cambiò direzione d’un tratto, guidandolo dentro uno stretto vicolo, niente più d’una fessura fra muraglie gigantesche. Faceva troppo buio per vederci. Protese le mani e tastò il terreno davanti a sé prima con un piede e poi con l’altro, e soltanto dopo accettò di affidare il suo peso ai grossi ciottoli del selciato. Poteva guidare se stesso in maniera approssimativa grazie alla striscia verticale di luce nebbiosa chiazzata di strani bagliori azzurri all’estremità opposta.

All’incirca dopo venti passi, si arrestò incerto. Cominciò udire delle risate e delle conversazioni soffocate, le note d’una musica roca. Mentre avanzava cauto lungo il vicolo buio, si chiese cosa fosse mai che stava seguendo. Qualche pista concreta sul marciapiede o nell’aria: tracce chimiche o elettriche che colpivano i sensi in modo troppo impercettibile per venir riconosciute a livello conscio. Oppure si trattava di ricordi sommersi di qualcosa che gli era accaduto altre volte, forse durante uno dei suoi attacchi di amnesia. Oppure, perfino, d’un qualche tipo di suggerimento postipnotico. Ma il pensiero interferiva con la sua capacità di percepire la presenza della pista. Doveva trasformare la sua mente in quella di un’ameba che si sposta automaticamente verso l’ombra.

Emerse all’altra estremità del vicolo.

Si trovò a guardare la vetrina d’un negozio di musica e a scrutare alla luce dei lampioni gli spartiti, gli album di dischi e gli strumenti-giocattolo. Per un po’ rimase là col viso premuto contro la superficie di vetro, cercando di distinguere cosa ci fosse oltre la porta.

Dal nulla un titolo s’insinuò nella sua mente. La sonata Al chiaro di luna. I suoi pensieri si piegarono e rabbrividirono come sferzati da una raffica di vento. Per un attimo, fu sul punto di ricordare tutto…

Giunse a un cinematografo. Un mostro dagli occhi verdi lo sbirciava malizioso dall’atrio, stringendo fra i bianchi artigli incerte forme femminili i cui volti in preda al terrore imploravano soccorso. Un cartellone proclamava: Sbarrerete gli Occhi! Urlerete! Rabbrividirete Colti da un Delizioso Terrore Quando il Mostro Impazzito Vagherà per le Strade Buie Braccando la Sua Preda!

Davanti alla biglietteria gli capitò una cosa stranissima: la pista deviò d’un tratto verso il bordo del marciapiede e cambiò completamente qualità. Fino a quel momento era stata tranquilla, quasi placata, se si potevano usare parole come quelle. Adesso, all’improvviso, divenne selvaggia, estatica, “calda”: la traccia di qualcosa di follemente gioioso. Carr era arrivato a un punto dal quale, se fosse stato un cane, esplodendo in un guaito eccitato, si sarebbe lanciato in mezzo alla boscaglia.

Divenne sospettoso. Non era soltanto il fatto che il mutamento nella natura della pista l’aveva spaventato, con la sua allusione all’abbandono dell’equilibrio mentale.

Di solito, i cani balzavano via in una direzione diversa perché avevano sentito un odore diverso.

Dovevano esserci due piste.

Passò quasi un quarto d’ora battendo il terreno avanti e indietro. Ciò che rendeva più difficile le cose era che, tutte le volte che s’imbatteva nella pista “calda”, per parecchi secondi la sua capacità di percepire l’altra ne usciva assai danneggiata. Alla fine, con sua soddisfazione, riuscì a distinguerle con chiarezza.

La pista calda proveniva da dietro l’angolo successivo, passava davanti al cinematografo descrivendo un folle cerchio, poi schizzava via attraverso la strada. La pista “tranquilla” seguiva una traccia sul lato fin dentro al cinema, poi ne usciva di nuovo.

Carr scosse la testa. Era tutto così strano… troppo. Come se le piste s’impregnassero di due suoi differenti umori: uno malinconico, quasi torpido. L’altro demenziale, temerario, d’una impudente follia.

Dopo un paio di false partenze, si mise a seguire la traccia tranquilla, attraversando la strada lungo un altro isolato per poi girare un angolo. Qui gli parve rafforzarsi, o forse ciò era dovuto al fatto che non c’era più una distinzione.

Carr giunse nel quartiere degli affari. Qui la sensazione d’una desolazione ostile, che l’aveva accompagnato per qualche tempo, aumentò di colpo, vistosamente. Non era soltanto dovuto al fatto che tutto l’alcol che aveva avuto in corpo stava terminando il suo effetto. Là dietro, vicino al negozio di musica e al cinematografo c’era stato, almeno, il fantasma di qualche specie di umana eccitazione, per quanto dozzinale e stantia… il fascino delle attrazioni pacchiane aveva gravato nell’aria irretendo così gli appetiti umani. Ma quei grandi e opprimenti edifici adibiti a uffici, con i loro orpelli di ferro battuto e le facciate di granito, volevano esplicitamente essere brutti. Si gloriavano della loro petrigna efficienza, della loro indifferenza ai desideri umani, della loro grigia capacità di schiacciare ogni felicità.

Lo sguardo di Carr vagò inquieto da un lato all’altro di quella stretta facciata nera che saliva vertiginosamente verso il cielo… si stava forse muovendo a scatti in avanti come per esibirsi in un imperscrutabile annuire? C’era qualcosa di eccessivamente orribile nel pensiero di migliaia e migliaia di uffici bui, vuoti, salvo per le interminabili file di scrivanie, macchine per scrivere, armadietti metallici, refrigeratori d’acqua. Quali deduzioni ne avrebbe tratto uno straniero che fosse giunto da Marte? Sicuramente non di esseri umani. Qui regnava sovrana la macina della morte, sia di giorno sia di notte, soltanto che in questo momento aveva smesso il suo travestimento.

Con un rombo assordante una cavalcata di furgoni carichi di quotidiani freschi di stampa sbucò dall’angolo successivo, procedendo a rompicollo in un tuffo frenetico, come se fosse in gioco il destino della nazione.

La sensazione di palpabile paura, che l’aveva afferrato fin da quando era entrato nel quartiere degli affari, era aumentata ancora. C’era qualcosa che non doveva sentire la sua presenza, qualcosa che non doveva vederlo, qualcosa a cui non si poteva permettere in nessuna circostanza di sapere che lui poteva aver visto o sentito.

Era facile capire perché mai un branco di grattacieli deserti potesse far provare a una persona un brivido temporaneo. Perché doveva darvi la certezza dell’esistenza d’una banda impegnata a darvi la caccia? E perché, in nome dell’equilibrio mentale, quella sensazione doveva esser legata a elementi così incongrui quali la pubblicità dei Prosciutti Wilson, un pannello di vetro, un cane al guinzaglio?

E in qualche modo il numero tre. Tre cose. Tre persone. Tre… tre…

La sua sensazione d’essere sul punto di ricordare stava arrivando al culmine. Era certo che ogni vuoto in quella pista di pietra doveva aver accolto, in altre circostanze, il suo piede; che ogni spoglio panorama di costolatura d’acciaio e di nerborute colonne aveva già intrappolato il suo sguardo vagante.

Mentre rifletteva, il cielo si era rischiarato un po’. Le stelle erano tutte scomparse. Riusciva perfino a scorgere, a qualche isolato di distanza, la statua di Cerere in cima all’edificio dell’Industria e del Commercio. Ricordò che la statua non aveva volto. Trovandosi troppo in alto perché i lineamenti potessero essere distinti, salvo da un aereo o servendosi d’un cannocchiale, una superficie curva e liscia di pietra era servita ugualmente allo scopo.

Poi, molto vicine a lui, sul lato opposto della strada, notò tre figure. Di scatto si sporse in avanti ad osservarle.

Per un attimo pensò che fossero statue.

In realtà erano quattro figure, ma la quarta era un grosso animale nero, simile a un cane, ma con qualche cosa di felino.

Le tre figure più alte parevano ispezionare la città addormentata con aria cupa, meditativa.

La prima era ferma vicino al cane, con un braccio teso, dritto verso il collo dell’animale, come se lo tenesse per un corto guinzaglio. La figura era quella di una donna. C’era uno sfarfallio di capelli chiari sopra un cappotto dalle spalle larghe.

Il secondo era un uomo corpulento.

Il terzo era più magro e all’apparenza era il più giovane. La sua testa pareva piccola e ben curata, anche se con pochi capelli. E quando tese il braccio per indicare qualcosa di lontano, il suo polso parve vuoto.

Sprazzi di ricordi guizzarono incontrollati nel cervello di Carr. Si sporse ancora di più in avanti e allungò il collo, come se l’avvicinarsi al gruppo anche d’un solo centimetro in più potesse consentirgli d’identificarli.

Era ancora troppo buio per distinguere i volti. Eppure, malgrado sapesse che quei tre avevano un volto e com’erano quei volti, si trovò a chiedersi se adesso, alla stessa stregua della statua di Cerere, avessero realmente bisogno d’indossare dei volti.

Si sporse ancora di più.

Ricordò tutto.

Загрузка...