11

Il pomello dell’entrata della camera da letto di Carr continuò ad andare avanti e indietro. Dapprima una lenta, cigolante rotazione fino a liberare lo scrocco. Poi una spinta, cosicché la porta si trovò a premere contro il catenaccio interno. Poi il pomello venne rilasciato d’un tratto, e tornò indietro di scatto, con uno stridio. Poi ricominciò daccapo.

Da dov’era disteso, completamente vestito salvo per le scarpe e il cappotto, Carr osservava il pomello sbirciandolo lungo le sue gambe e il reticolato delle sbarre d’ottone ai piedi del suo letto. Tratteneva il respiro. Anche se il collo e le spalle dolevano, continuava a tenere la testa nella stessa faticosa posizione mezzo sollevata che aveva assunto quando aveva sentito per la prima volta che qualcuno stava trafficando con la porta. Tutte le sue facoltà erano concentrate nel tentativo di evitare qualunque rumore che potesse tradire la sua presenza nella stanza.

Una brezza infinitesimale agitava le tapparelle abbassate. Un moscone ronzò pigramente contro la luce del sole, camminò lungo il soffitto, scese fin sulla mensola del caminetto, fluttuò rumorosamente attraverso la stanza, urtò il paralume con un sonoro plop, scese sul davanzale e vi strisciò sopra per un po’ per poi ricominciare a camminare sul soffitto.

Carr riusciva a sentire il rauco respiro di colui che si trovava appena al di là della porta. Oltre a quel lieve rumore c’era un debole strisciare e raschiare, come se anche un cane stesse cercando di entrare.

Il pomello della porta riprese a girare come un pezzo di macchinario guasto che si rifiutasse di esalare l’ultimo respiro. Per un attimo a Carr parve che il moscone gli fosse atterrato sulla fronte. Ma era soltanto un filo di sudore… pure, bastò a farlo sussultare. Le molle del letto cigolarono, i suoi muscoli si tesero. Irrigidì le braccia doloranti, ormai sul punto di mettersi a tremare per la tensione. L’intera stanza parve diventare un imbuto tappezzato di carta da parati che andava restringendosi fino a concentrarsi tutto su quel pomello inquietante, che continuava implacabile a girare e a scattare all’indietro.

Adesso Carr riuscì a sentire qualcosa di più del rauco respiro. Un querulo borbottio, come se chi si trovava là fuori si stesse spazientendo.

Il moscone urtò ancora contro il paralume, cadde e ronzò lungo il davanzale. Uno scampolo di risata salì fin lassù dalla strada.

Tutta la forza di volontà di questo mondo non avrebbe più potuto controllare il tremito delle braccia di Carr. Ancora una volta le molle del letto cigolarono, facendo tanto rumore che chiunque si trovasse là fuori doveva per forza aver sentito.

Eppure il ritmo dei movimenti del pomello non cambiò, anche se i borbottii divennero un po’ più forti. Carr tese le orecchie, ma non riuscì a distinguere le parole. Il paralume ondeggiò. Il moscone ricominciò il suo viaggio attraverso il soffitto. Carr spostò il peso dalle braccia al fondo della schiena, fece scivolare un piede sul pavimento. Le molle cigolarono, ma non peggio di prima. Un attimo dopo, Carr era rannicchiato accanto al letto. I borbottii là fuori erano ancora inintelligibili. Carr fece un cauto passo verso la porta.

Il pomello smise di muoversi. Vi fu un raschiare di metallo sul legno e uno sciaguattio. Poi un rumore di passi che si allontanavano dalla porta.

Carr esitò, poi in punta di piedi si avvicinò rapidamente alla porta, sfilò il catenaccio interno, attese un istante, quindi socchiuse la porta e guardò fuori. La donna delle pulizie si stava allontanando con il secchio in una mano, lo straccio, la paletta e la scopa nell’altra. Ciuffi di capelli ribelli le spuntavano dal fazzoletto logoro avvolto intorno alla testa. Un grembiule umido, azzurro sporco, era legato dietro la sua schiena con un grosso nodo. I tacchi delle sue scarpe erano consumati sui lati. Carr aprì ancora di più la porta. S’inumidì le labbra. — Ehi — disse con voce rauca.

La donna delle pulizie proseguì senza voltarsi.

Carr uscì in corridoio. — Ehi! — chiamò, riprendendo il controllo della sua voce. Poi, ancora più forte: — Ehi!

Non un attimo di esitazione, non la più piccola alterazione in quell’andatura stanca, indicarono che la donna delle pulizie l’avesse udito.

— Ehi!! — urlò Carr.

La donna delle pulizie scomparve con passo sempre uguale giù per le scale. Carr la seguì con lo sguardo. Ma la sua mente ascoltava lo scorrere monotono di frasi da lungo tempo dimenticate, udite durante una lezione di psicologia all’università.


Per spiegare il comportamento umano non c’è bisogno di supporre l’esistenza della consapevolezza. Dopo tutto non possiamo mai entrare nella vita interiore di altri individui. Non possiamo mai dimostrare che una tale vita interiore esista per davvero. Ma non abbiamo bisogno di farlo. Tutte le azioni degli esseri umani possono essere adeguatamente giustificate con l’assunto che gli esseri umani sono meccanismi inconsci.


Rientrò alla cieca nella stanza, sprangò la porta dietro di sé e vi si appoggiò pesantemente contro.

Per lo meno, si disse, la cosa alla sua porta non si era rivelata per ciò che aveva più temuto.

Ma era stata quasi peggio…

— Perché — si chiese — mi sono dato la pena di gridare? Perché ho cercato un’ultima inutile conferma?

Lo sapeva già, l’aveva saputo fin da quando aveva riavuto la memoria ed era fuggito dalla strada.

Sapeva ciò che aveva sempre saputo: saputo e respinto per lo meno altre quattro volte. Quand’era stato ignorato dall’uomo basso e grasso e dal dottore all’Agenzia Generale di Collocamento; quando aveva osservato Marcia nella sua camera da letto; quando aveva spiato i genitori di Jane nel loro appartamento; quand’era scappato dalla festa dei Pendleton.

Ma allora l’aveva saputo soltanto per qualche fugace momento.

Questa volta gli aveva afferrato la mente per delle ore.

Era demenziale, incredibile.

Ma era vero.

Niente altro poteva spiegare la sua esperienza.

Jane lo sapeva. L’ometto dalla pelle scura lo sapeva. Quegli altri tre lo sapevano.

E adesso lo sapeva anche lui.

L’universo era una macchina. La gente che lo popolava, eccettuati alcuni individui, erano meccanismi senza cervello, congegni a orologeria in carne e ossa. Fintanto che voi facevate i corretti movimenti meccanici, essi sembravano reagire in maniera intelligente. Ma quando voi vi fermavate, quelli continuavano, ignorandovi.

Come avrebbe potuto altrimenti spiegare tutte le volte che era stato ignorato? Dall’uomo basso e grasso, da Tom e dal dottore. Dall’impiegato alla ricezione di Marcia e dalla stessa Marcia quand’era arrivato con qualche minuto di anticipo sul ritmo del grande meccanismo ad orologeria. Dai genitori di Jane. Da Marcia alla festa dei Pendleton: non aveva finto di danzare mentre volteggiava da sola; aveva danzato (senza cervello) con un’altra figura meccanica (lui stesso) che però si era spostata dal punto che le competeva nell’ingranaggio.

Come spiegare altrimenti tutte le volte che lui e Jane erano stati ignorati? Alla taverna, nel negozio di musica, al cinematografo, al circolo degli scacchi, fra gli scaffali della biblioteca, nelle strade del raccordo anulare, al Goldie’s Casablanca o quando lui e Fred erano stati ignorati: quella folle corsa che avrebbe dovuto lasciare la gente a bocca e occhi spalancati e una dozzina di automobili e motociclette della polizia lanciate sulla loro scia… e quell’inseguimento altrettanto folle attraverso la biblioteca che nessuno aveva notato?

Come spiegare altrimenti tutte le volte che gli altri tre erano stati ignorati? Lo schiaffo. La signora Hackman che frugava nella sua scrivania. Il signor Wilson che prendeva le sigarette. La loro conversazione incurante nella tabaccheria e davanti ai genitori di Jane.

Quali altre cose non avevano quadrato? L’uomo basso e grasso che parlava all’aria. Pianoforti che suonavano da soli e ascensori che si muovevano senza occupanti. Marcia che gli telefonava per dirgli della “meravigliosa serata” che avevano passato insieme, quando lui in realtà era scappato. (Per un attimo ebbe un’immagine fantasma di lei che parlava a un invisibile compagno al Kungsholm, del cameriere che metteva dei piatti pieni davanti a una sedia vuota). La madre di Jane, che accarezzava capelli che non c’erano, piangendo, rivolta a una ragazza assente. E adesso la donna delle pulizie che cercava insensatamente di aprire una porta che, nel vasto progetto operativo d’un universo a orologeria, non avrebbe dovuto esser chiusa a chiave, ripetendo l’azione come un giocattolo nel mezzo del suo numero, fino a quando non era giunto il momento stabilito perché avesse completato la pulizia della stanza e fosse giunto il momento d’andarsene.

Non c’era nessun’altra spiegazione. L’universo era una macchina.

La formicolante Chicago era una città di morti, di senza cervello, di esseri inanimati, nella quale eravate più soli che nel fondo della foresta più desolata. Il volto che guardavate, i volti che vi guardavano, che sorridevano e si accigliavano e parlavano, avevano dentro di sé soltanto il nero vuoto.

Fatta eccezione per pochi, anch’essi per la maggior parte orribili.

Cosa avrebbe potuto fare certa gente nel ridestarsi alla consapevolezza che loro, e loro soltanto, avevano cervello e coscienza, che potevano fare quello che volevano e che la macchina non poteva fermarli, che ogni forma di autorità era davvero cieca?

Avrebbero perso la testa come dei soldati in una città conquistata, come ubriachi in un grande magazzino di notte. Trattando tutte le persone intorno a sé da quei manichini che erano, esultando per il proprio potere. (Rivide nella propria mente quei tre che contemplavano una Chicago addormentata). Obbedendo a tutti i loro impulsi più nascosti. Soddisfacendo tutti i loro più segreti e tenebrosi desideri.

Alcuni di loro potevano mettersi insieme, forse perché si erano destati insieme. Diciamo… una bionda dagli occhi di granito e un signore anziano all’apparenza affabile, e un giovanotto senza una mano.

E una bestia.

Jane aveva scritto: “Alcuni animali sono vivi”. E lui, Carr, una volta era stato notato, quando non avrebbe dovuto esserlo, da un gatto.

Sì, alcuni potevano mettersi insieme, ma a parte questo sarebbero stati intensamente sospettosi. Timorosi che qualche altro gruppo avido e spietato come loro potesse divenir conscio della loro esistenza e distruggerli, poiché i tiranni assoluti hanno sempre paura l’uno dell’altro e si odiano. Timorosi sopra ogni altra cosa che altra gente possa destarsi, in numero sempre maggiore, e punirli per i loro crimini.

Mentre soddisfacevano i propri desideri, mentre si prendevano il loro “divertimento”, si sarebbero colpevolmente guardati intorno alla ricerca del minimo segno di vera vita onde schiacciarla subito.

Era per questo che quei tre avevano seguito Jane: perché avevano voluto “controllarla”.

Lo schiaffo era stato una prova. Se Jane avesse reagito, sarebbe stata perduta.

Era per questo che la signorina Hackman aveva perquisito la sua scrivania, per cercare gli indizi che lui fosse qualcosa di più d’un automa senza cervello.

Era per questo che l’ometto dalla pelle scura con gli occhiali aveva paura. Era quello il grande pericolo dal quale Jane l’aveva messo in guardia, il “sotterraneo mondo privato” nel quale lei non voleva trascinarlo.

Tre persone che depredavano la città morta di Chicago, attenti alla più piccola indicazione di consapevolezza nei manichini intorno a loro.

Carr si rese conto che stava tremando. Stamattina non l’avevano forse visto intento a fissarli fuori della sua finestra, sullo sfondo della facciata per ogni altro verso piatta e monotona? Non era forse possibile che l’avessero seguito fin lì dal Club Scacchistico Caissa? Non era forse possibile che in quello stesso momento stessero salendo le scale, oppure che fossero silenziosamente in agguato dietro alla porta che lui stava fissando con tanto timore?

Strinse le mani. Era tutta una pazzia, si disse: un incubo paranoico. Ma…

La gola gli faceva male. Andò al bagno, trangugiò un gran bicchiere d’acqua, poi lo mise giù sul lavandino macchiato. Quindi si ridistese sul letto spiegazzato. La fatica gli provocava un dolore sordo ma costante dietro agli occhi, era come una febbre interiore.

Poco dopo si addormentò.

Quando tornò a svegliarsi era il tramonto. La stanza era interamente immersa in ombre vellutate. Le tapparelle della finestra parevano lievemente fosforescenti. Si sentiva il volto fresco, come se ci fosse appena passata sopra una spugna.

Subito i suoi pensieri ripresero a galoppare, ma rinfrancati e rinforzati dal sonno, con una prospettiva del tutto nuova.

Aveva sfiorato l’orlo della follia, pensò.

Era caduto vittima d’una terribile illusione.

Doveva sradicarla dalla sua mente il più presto possibile.

Doveva parlare con qualcuno… qualcuno molto vicino a lui e sensibile, e convincersi che era un’illusione.

Marcia…

Lei era reale. Rappresentava il lato pratico, normale delle cose.

A quell’ora doveva essere a casa.

Ma… sì, lui l’aveva malamente insultata l’ultima volta che era stato con lei, lasciandola sola dai Pendleton…

Comunque, Marcia era la persona giusta. L’avrebbe ascoltato. Avrebbe capito. L’avrebbe liberato da quell’ansia ossessiva.

Si alzò in piedi e s’infilò rapidamente scarpe e cappotto. Cercò d’impedire ai suoi pensieri di vagare, come pure alle sue orrende emozioni. Il suo scopo era di arrivare a Marcia prima di perdere quella sensazione di sicurezza con la quale si era svegliato: la convinzione salvatrice che tutte le sue orrende delusioni fossero soltanto fantasie di un incubo.

Non incontrò nessuno lungo le scale, salvo la sua sgusciante immagine allo specchio. Anche l’atrio, in basso, era vuoto e buio. Poi aprì la porta e uscì in quella che, come assicurò a se stesso, non era una città di automi. Un uomo stava passando ai piedi della breve gradinata, un vecchietto con un cappotto e un cappello marroni, gli occhi profondamente incassati che guardavano accigliati davanti a sé e le labbra che si muovevano quasi come se stessero borbottando qualcosa tra i denti.

Carr ebbe l’impulso di chiamarlo per intavolare una conversazione con lui… per accertarsi subito della falsità della sua illusione.

Ma talvolta gli estranei v’ignoravano quando gli parlavate. Specialmente quelli che avevano un aspetto alienato.

No, doveva trattarsi di qualcuno di più intimo. Di qualcuno che non poteva ignorarlo.

Marcia…

Camminò in fretta. Il cielo era quasi scuro e alcune stelle erano già visibili. Il morbido chiarore che usciva dalle finestre degli appartamenti creava ombre grottesche. Gli stretti passaggi fra gli edifici erano nere fessure verticali, salvo là dove le finestre laterali riversavano la loro illuminazione sulle pareti di mattoni a pochi metri dirimpetto. Piccoli arbusti si rannicchiavano a ridosso dei muri degli scantinati.

C’era molta quiete. Poche figure passavano per la strada. Cercò con poco successo di evitare di guardare negli occhi quelli che passavano.

Ma la gente era così in città, ricordò a se stesso. Vi passavano accanto a meno d’una quarantina di centimetri, e non tradivano d’esser coscienti della vostra esistenza neanche col più piccolo guizzo degli occhi.

Questa era Chicago si disse. Più di tre milioni di abitanti. Una metropoli in continuo movimento. Solo che stanotte tutto era molto tranquillo.

Doveva attraversare ancora una strada prima di arrivare all’appartamento di Marcia: quell’angolo appena davanti a lui dove spiccava un piccolo gruppo d’insegne illuminate. Su questo lato, un ristorante e una lavanderia, quest’ultima chiusa, entrambi parte di un residence. Sull’altro lato, alla sua destra, dalla parte opposta della strada, un bar con l’insegna smerlettata da piccole luci colorate. Non era neanche a quindici metri dall’angolo (in effetti, era quasi entrato nella chiazza di luce sotto l’ultimo lampione) quando vide Marcia. Indossava un abito scuro con un disegno a fiori bianchi. Aveva una borsetta nera quadrata. Svoltò a nord, verso il proprio appartamento.

Carr rimase immobile. Là c’era la persona che bramava maggiormente vedere, ma adesso che l’aveva trovata, esitò. Proprio come con il vecchietto che era passato davanti ai gradini del suo appartamento, qualcosa lo trattenne dal fare quella mossa, dal pronunciare le parole che l’avrebbero rincuorato.

Seguì con lo sguardo Marcia che attraversava la strada, che entrava in una chiazza di luce, ne usciva…

Esitò ancora. Provò una crescente agitazione. Si guardò intorno, indeciso.

Il suo sguardo incontrò una figura in piedi sull’altro lato della strada, un profilo magro da studente universitario, i capelli tagliati a spazzola, disegnato dal bagliore delle luci del bar, il volto immerso nell’ombra. Quell’uomo aveva qualche cosa di familiare. Carr lo fissò istintivamente, cercando di ricordare dove l’avesse già visto prima.

L’uomo lanciò una lunga occhiata dietro di sé, quasi ad assicurarsi che Carr non stesse fissando qualcun altro. Poi tornò a girarsi. Un fugace lampo bianco balenò nella parte inferiore del suo volto in ombra, come se avesse esibito la dentatura in un sorriso. Agitò bruscamente una mano in direzione di Carr.

Mentre lo faceva, Carr si rese conto di voler essere con Marcia, camminando al suo fianco: il posto giusto per lui, giustificato, non più così solo in quella città orrendamente vuota.

Soltanto per un brevissimo istante il metallo d’un uncino sbucò fuori dal polsino, sull’altro lato della strada.

Ogni cosa si stagliò nitida davanti agli occhi di Carr come in un’incisione. Sapeva, senza bisogno di contarle, che c’erano sedici lampadine sopra e sotto l’insegna del bar, che all’interno del bar c’erano pareti decorate con figure di ninfe e satiri, tre ninfe e due satiri in ciascun pannello… che l’ampio marciapiede davanti al bar era diviso trasversalmente a blocchi di tre.

L’uomo senza una mano cominciò a venire verso di lui, sollecitandolo ad aspettarlo con un altro allegro cenno della mano.

Carr fece finta di non vedere. Si voltò e girò verso nord. Marcia era una piccola sagoma scura a un quarto di miglio di distanza. Cominciò a seguirla con passo energico, cercando di apparire naturale.

— Aspettate un momento per favore! — gli gridò l’uomo con una mano sola. La voce suonò piuttosto alta, ma calma e gradevole, con un accento della costa orientale. Carr sapeva che non doveva rispondere. Una volta fornita loro la prova che lui era vivo… Finse di non sentire. Raggiunse il bordo del marciapiede opposto, grato che l’approssimarsi d’una automobile gli avesse dato il pretesto di accelerare ulteriormente il passo.

— Fermatevi un momento per favore! — gridò l’uomo senza una mano. — C’è qualcosa che voglio dirvi.

Lo sguardo di Carr rimase incollato al vestito a fiori bianchi di Marcia. Grazie a Dio la ragazza camminava lentamente. Eseguì una pantomima per dare a vedere di averla riconosciuta, giustificando così l’ulteriore accelerazione della sua andatura.

— Per favore fermatevi — lo chiamò ancora l’uomo senza una mano. — Sono sicuro di conoscervi.

Era un tratto molto buio. L’edificio davanti al quale Carr stava passando era fiancheggiato da una siepe. Una fila di macchine parcheggiate, luccicanti ma piene di tenebre, formavano una compatta barriera.

I passi dietro di lui saltavano guadagnando terreno. Marcia era ancora a qualche distanza. Carr lottò per trattenersi dal correre.

— Non siete molto gentile — gridò l’uomo senza una mano. — Dopotutto sono menomato, anche se questo non mi costringe a rallentare.

Adesso i passi erano ancora più vicini. Malgrado Marcia fosse soltanto a sei metri, parve a Carr che avrebbe potuto esserci benissimo una fossa grande come il mondo fra loro due.

I passi ormai erano appena dietro le sue spalle. La punta d’un piede balenò entro l’orlo inferiore del suo campo visivo. Una voce gli disse all’orecchio: — Fermatevi, adesso. — E si sentì sfiorare la spalla da qualcosa di simile a un artiglio.

Carr fece alcuni passi di corsa, prese Marcia a braccetto e disse, con la voce più allegra possibile:

— Ciao cara!

Marcia non girò la testa. Non vi fu la minima interruzione nel suo passo a indicare che fosse conscia della sua esistenza. Perfino il suo braccio, al tatto, era come un pezzo di legno.

Gli altri passi rimasero un po’ indietro.

— Ti prego non tagliarmi fuori — sussurrò Carr, ansioso. — So quello che provi per il modo in cui mi sono comportato ieri sera, ma posso spiegarti.

Lei si girò, scostandosi da lui. Carr si avvide che avevano raggiunto la sua casa.

Il rumore dei passi alle sue spalle accelerò.

Carr la seguì lungo il vialetto. — Devo entrare con te.

Marcia continuava a non ammettere di essersi accorta della sua presenza. Aprì la porta di scatto, prima che potesse farlo lui. Carr riuscì a infilarsi dietro di lei.

Attraversarono insieme l’atrio. L’impiegato era appoggiato al banco, reggendosi il mento con le mani, cosicché l’anello dal sigillo d’oro luccicava e le maniche della sua giacca tendevano a calar giù, esponendo i polsini d’oro.

Il suo sguardo li seguì, libidinoso. Aprì la bocca (vi fu un lampo di otturazioni d’oro) e disse con voce flautata: — Buonasera, signorina Lorish.

— Buona sera — rispose Marcia brusca.

Carr sentì la porta esterna aprirsi e chiudersi dietro di loro, poi un rumore di passi ticchettante sulle piastrelle, soffocato sul tappeto, che li superava frettolosamente.

L’ascensore stava aspettando. Marcia entrò e subito premette il pulsante del settimo piano. Carr riuscì a stento a sgusciar dentro la cabina. Si girò di scatto e vide un uncino che veniva cancellato alla vista dallo sportello che si stava chiudendo. La cabina cominciò a salire.

Carr provò per un attimo un vivo sollievo, subito cancellato però da una paura ancora più grande.

Marcia lo stava ignorando in maniera totale. Non gli aveva rivolto il minimo saluto, il minimo istintivo indizio che aveva avvertito la sua presenza. Come se dietro a quel bellissimo volto imperioso non vi fosse niente, assolutamente niente…

Non che ciò potesse esser vero, si disse. Non doveva esserlo… Non con lei così vicina, e loro due chiusi in quella piccola gabbia.

In quanto a Marcia, lei si stava solo comportando con la sua solita crudeltà. C’erano state altre volte, prima di allora, quando lei l’aveva ignorato per infliggergli una punizione.

— Tesoro — lui cominciò.

La cabina si arrestò. Marcia aprì di scatto lo sportello e schizzò fuori. Carr si affrettò a inseguirla lungo il corridoio.

Marcia tirò fuori la chiave e aprì la porta del suo appartamento con un unico, fluido movimento. La porta venne quasi sbattuta in faccia a Carr.

Marcia doveva esser conscia della sua presenza, altrimenti non si sarebbe comportata in quel modo, pensò Carr cercando di rassicurarsi mentre la seguiva dappresso. I movimenti rapidi e rabbiosi di Marcia indicavano che si era resa conto della sua presenza.

— Marcia, per favore, smettila di comportarti in maniera così infantile… — riuscì a dire.

Marcia gettò la borsetta su una sedia e si affrettò a entrare in cucina. Carr fece per seguirla, esitò, si mise a girare per la stanza in preda a un nervosismo crescente.

Marcia uscì dalla cucina con un highball in mano.

Mise giù il cocktail su un tavolino e proseguì verso la camera da letto.

Per un attimo Carr quasi non se ne accorse, tanto era grande il suo sollievo. Sì, lei era conscia della sua presenza. Con quella semplice azione aveva ammesso che lui era lì accanto a lei.

Tutto il resto del suo comportamento era stato frutto soltanto del suo temperamento, della sua peculiare capziosità.

Carr prese il cocktail e ne inghiottì un sorso.

Ma quando lo fece, notò un foglietto d’appunti lì dov’era appoggiato il bicchiere, scritto con la calligrafia di Marcia.

In cima c’era il suo nome.

Passandosi il bicchiere sull’altra mano, lo prese per leggerlo.


Caro Carr,

riconosco la forza che hai dentro, la fiammeggiante intelligenza, il talento per i grandi gesti. Ma non sei disposto a usarli. Avresti potuto essere un principe. Ma hai scelto di essere un vassallo. Molte volte ti ho condotto in situazioni dove avresti avuto l’opportunità di trovare il vero te stesso. Più e più volte ho avuto in cambio soltanto uno schiaffo in pieno viso per i miei sforzi. Sono stata paziente. Sapevo che ti eri fossilizzato da lungo tempo, e ti ho fatto diverse concessioni. Ma quest’ultimo incidente è stato troppo per me. Quando hai respinto con freddezza la magnifica offerta di Keaton Fisher, l’offerta di un uomo che è arrivato al vertice senza avere più capacità di te, senza il tuo aspetto, e malgrado tanti altri impedimenti che tu non hai mai incontrato; quando ti ho visto respingere con rudezza la generosa offerta di quell’uomo, ho, saputo che fra me e te era tutto finito. Ho un consiglio da darti: se in futuro dovessi mai decidere che sei stanco di essere un vassallo e volessi tentare un ruolo più impegnativo… se vorrai che una donna ti consideri un principe… dovrai comportarti da principe in ogni cosa. Se vuoi stare con le persone importanti, devi essere una persona importante. Se vuoi una vita eccitante e pericolosa, devi possedere le dimensioni del pericolo e dell’eccitazione.

Ma non cercare di usare questo consiglio per riconquistarmi giacché non è possibile. Risparmiatelo per un’altra ragazza. Keaton Fisher non è bello, ma sa come usare ciò che ha, e non ha paura a correre rischi.

E adesso, caro, ti auguro tanta fortuna.

Marcia


Quando un terrore soprannaturale fa da prefazione a una ferita emotiva, quest’ultima viene soffocata, attutita. Tuttavia, mentre la lettera cadeva dalla mano di Carr, e lui sentì Marcia che ritornava dalla camera da letto, avvertì una stilettata di gelosia mista ad autocompassione, difficile da sopportare.

La mano di Marcia sfiorò il tavolo accanto a lui. La ragazza ebbe un attimo di esitazione, poi si fermò in mezzo alla stanza.

Adesso che sapeva che lui sapeva, si disse Carr, certamente si aspettava che lui se ne andasse, preparandosi forse a respingere un ultimo appello, atteggiando la sua espressione a una maschera di ostinazione.

Ma, invece, Marcia sorrideva… Sorrideva in una maniera particolarmente spiacevole, animalesca.

Fece un curioso gesto con la mano destra.

E ancora non lo guardava.

Carr provò un orrore crescente mentre la fissava.

Cercò di dirsi che non capiva che cosa significassero quei suoi gesti. Cercò di dirsi che no, non erano i movimenti di qualcuno che stesse sorseggiando un highball… che non c’era.

Cercò di dirsi che quando la sua mano aveva sfiorato il tavolo, non l’aveva fatto per prendere in mano il drink che aveva lasciato là…

Poiché questo significava che non aveva preparato il cocktail per lui, ma per se stessa; che lei non si era accorta della sua presenza; che la terribile illusione che l’aveva torturato lì, nella sua stanza, era vera.

E non doveva esserlo.

— Marcia! — la chiamò con veemenza.

Lei si leccò le labbra.

Non deve ripeté tra sé. Niente poteva scrivervi una lettera per ferirvi ed essere allo stesso tempo una macchina senza cervello.

Si mosse verso di lei. — Marcia! — gridò disperato, e l’afferrò per le spalle. Poi, sotto le sue mani, nell’istante in cui la toccò, sentì i suoi muscoli che s’irrigidivano. Cominciò a tremare… No, non a tremare, ma a essere scossa, a vibrare come un pezzo di macchinario che stesse per andare in frantumi. Carr, balzò indietro staccandosi da lei.

Il suo volto era arrossato, i suoi lineamenti contratti come quelli d’un bambino.

Dalle sue labbra giunse un borbottio che divenne sempre più forte. Era, Carr se ne rese conto con un’ulteriore ventata d’orrore, esattamente come il farfugliare dell’uomo basso e grasso.

O meglio — l’immagine balzò alla mente di Carr mentre fuggiva verso la porta — come i suoni privi di significato prodotti da un disco che girava all’incontrano.

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