Per quanto venga tolto, tanto rimane; e sebbene
Non sia più nostra quella forza che, in epoche antiche,
Muoveva la terra e i cieli, siamo ancora ciò che siamo…
La stessa tempra di eroici cuori,
Indeboliti dal tempo e dal fato ma forti nella volontà
Di lottare, cercare, scovare e non mollare.
Set era vivo.
Quel pensiero bruciava dentro di me come una lama rovente nelle mie carni. Era sopravvissuto alla distruzione dei suoi simili, del suo pianeta, della sua stella. Era ancora vivo. Sulla Terra.
Avevo distrutto Sheol e Shaydan e cancellato gran parte delle forme di vita sulla Terra. Tutto invano. Non ero riuscito a uccidere Set.
— Ti scoverò — dissi in silenzio. Privo di corpo, senz’altro che la mia essenza cosciente, scagliai la mia sfida contro il mio mortale nemico. — Riuscirò a scovarti, e ti distruggerò una volta per tutte.
— Vieni a prendermi — fu la pronta risposta di Set. — Non aspetto che d’incontrarti per l’ultima volta.
Il suo essere brillava come una torcia contro il nero vuoto dello spaziotempo. Sapevo dove e quando si trovava. Concentrando ogni grammo di volontà in mio possesso, misi a fuoco la mia attenzione su di lui. Diressi me stesso attraverso l’intricata matassa del continuum verso il luogo e il tempo nel quale egli esisteva.
Un lampo di freddo intenso, un momento di assoluta oscurità e di gelo criogenico, quindi aprii gli occhi e inspirai una profonda boccata di vita.
Ero disteso supino, il corpo nudo disteso sulla calda, soffice terra. Alberi immensi si ergevano tutt’intorno a me, e la brezza gentile era colma dell’odore dei fiori e dei pini. Udii il canto melodioso di un uccello.
Sì. Era di nuovo Paradiso.
Mi alzai a sedere, guardandomi d’intorno. Davanti a me il terreno seguiva una leggera pendenza. In lontananza un’orsa bruna camminava dinoccolata, seguita da due palle di pelo che erano i suoi piccoli. L’animale si fermò e sollevò il capo, per fiutare l’aria. Se anche avesse avvertito il mio odore, non lo diede a vedere. Riprese il suo passo lento allontanandosi dal luogo in cui mi trovavo, coi suoi cuccioli che trotterellavano sempre dietro di lei.
Sono Orion il Cacciatore, tornato alla vita. Nudo e solo, con la missione di trovare il mostro di nome Set e ucciderlo. Ucciderlo prima che lui uccida me. Distruggere la sua razza una volta per tutte, prima che lui riesca a distruggere la mia, il genere umano, per l’eternità.
Con un sorriso mesto, mi sollevai in piedi e mi rimisi lentamente in cammino giù per il dolce pendio, attraverso gli alberi che oscuravano la luce del sole pomeridiano coi loro rami ondeggianti e carichi di foglie. Se veramente ero di nuovo nella foresta di Paradiso, allora avrei trovato Set nella sua fortezza presso il Nilo.
Il sole era troppo alto nel cielo per potermi fornire qualsiasi indicazione, così mi limitai a seguire il primo corso d’acqua che raggiunsi con l’idea che, presto o tardi, mi avrebbe portato verso il Nilo. Sapevo che avrei dovuto percorrere molta strada, ma da Set avevo imparato che il tempo non ha eccessiva importanza per chi sia in grado di spostarsi a proprio piacimento attraverso il continuum. “Pazienta”, dissi a me stesso. “Pazienta”.
Per giorni e giorni proseguii da solo, senza incontrare un altro essere umano né uno dei rettili di Set. Mi trovavo in un’epoca in cui la densità umana era veramente ridotta, ricordai. Nel Neolitico non dovevano esistere più di un milione di esseri umani; la prima esplosione demografica non avrebbe avuto luogo fino a quando l’agricoltura non avesse preso piede. Quanti fra i suoi simili, mi chiesi, Set era riuscito a salvare dal cataclisma di Shaydan? Centinaia? Migliaia?
Sapevo che aveva portato alcuni dinosauri dall’era mesozoica in questo tempo e luogo: i lucertoloni e i draghi che avevo affrontato tempo prima erano sauropodi e carnosauri provenienti dal Cretaceo.
La foresta di Paradiso, però, era tutt’altro che disabitata. I boschi brulicavano di vita, dai piccoli topi che vivevano in tane nel terreno ai grandi e feroci leoni. Servendomi di nul’altro che pietre e legno, fabbricai una rozza lancia e un’ascia. Il secondo giorno indossavo una pelle di cervo a mo’ di perizoma. La seconda settimana, a essa aggiunsi una veste e gambali legati con budella di manzo.
Mi sentivo solo, naturalmente, ma non mi lasciai abbattere dalla solitudine. Era un sollievo rispetto ai tumulti attraverso i quali ero passato e ai pericoli che avrei dovuto affrontare alla fine di quel viaggio. Non cercai di mettermi in contatto con i Creatori, rammentando che tali segnali mentali erano come fuochi di segnalazione per Set, attraverso i quali era in grado di localizzare la mia posizione. Volevo restare al sicuro, per quanto mi era possibile. Almeno per il momento.
Set doveva sapere che ero giunto in quell’epoca. Giorno dopo giorno vedevo gli pterosauri volare alti nel cielo azzurro. Finché fossi rimasto al coperto tra i boschi, sarei stato al sicuro dai loro occhi indiscreti.
Mi chiesi dove fossero i Creatori, se sapevano dove mi trovavo. O se in quello spaziotempo fossero ancora dispersi attraverso la galassia, ancora in fuga dopo la capitolazione di Anya.
Tornai a pensare a lei, a come mi avesse tradito in un certo periodo mentre in un altro continuava ad amarmi. Chissà se in questo momento sta vegliando su di me o è in fuga tra le stelle, chiesi a me stesso. Non avevo alcun modo per saperlo, e a dire il vero non m’importava affatto. L’avrei scoperto più tardi, dopo essermi occupato di Set. Se fossi sopravvissuto, se fossi riuscito a ucciderlo una volta per tutte, avrei potuto affrontare anche Anya e gli altri Creatori. Fino ad allora sarei rimasto solo, e la cosa non mi dispiaceva affatto.
Per quanto mi sforzassi, non riuscivo a comprendere come i Creatori potessero fuggire in un’epoca passata e tuttavia continuare a vivere pacificamente nella loro città-mausoleo di un remoto futuro. Né come la dimora di Set potesse essere stata distrutta e tuttavia lui essere vivo e assetato di vendetta qui nel Neolitico.
— Come pensi di poter capire? — ricordai nuovamente la voce del Radioso nella mia mente. — Non ho mai instillato tale comprensione dentro di te. Non provarci nemmeno, Orion. Sei stato creato per essere il mio Cacciatore, il mio guerriero, e non un filosofo spaziotemporale.
Limitato. Menomato fin dallo stesso istante del mio concepimento. Eppure mi struggevo di capire. Ricordai le parole che il Radioso aveva pronunciato per spiegarmi che il continuum spaziotemporale è pieno di correnti e maree in costante mutamento, e che anche queste possono essere manipolate coscientemente.
Lanciai un’occhiata verso il torrente che avevo seguito per così tante settimane. Era un fiume di notevole grandezza, ormai, che scorreva lento e silenzioso verso qualche lontano incontro con il Nilo. Per me il tempo era come un fiume, col passato alla sorgente e il futuro alla foce. Un fiume che scorreva sempre nella stessa direzione, in cui la causa veniva sempre seguita dall’effetto.
Eppure sapevo, da ciò che i Creatori mi avevano detto, che il tempo era piuttosto simile a un oceano che si può percorrere in qualsiasi direzione, soggetto alle proprie maree e ai propri riflussi. La causa non precede necessariamente l’effetto, sebbene una creatura legata, come me, allo scorrere del tempo potesse percepirlo solo linearmente.
Ogni notte scrutavo il cielo. Sheol era ancora lassù ma aveva un aspetto spento, smorto. Tranne una notte in cui brillò con intensità tale da proiettare ombre sul terreno, rimanendo visibile fino a mezzogiorno della giornata seguente. Poi tornò a farsi più fioca.
La stella gemella del Sole stava ancora esplodendo, scagliando nello spazio interi strati di plasma, pelandosi come una cipolla fino a quando non fosse rimasto null’altro che un nucleo centrale di gas, troppo freddo per produrre le reazioni di fusione necessarie a far splendere una stella. I Creatori erano ancora intenti a mettere in opera la sua distruzione dal loro rifugio sicuro in un remoto futuro.
Il terreno intorno a me cominciò a farsi più familiare. Ero già stato da quelle parti. Per gran parte della mattinata continuai a seguire la riva del fiume, finché a un certo punto riuscii a riconoscere un faggio alto e robusto. Giunsi allora in un luogo nel quale un tronco giaceva a terra, mezzo soffocato da alti rampicanti e cespugli punteggiati di bacche. Di fronte a esso i resti carbonizzati di un fuoco annerivano il terreno. Anya e io ci eravamo accampati lì.
Distesi la schiena e inalai la brezza carica della fragranza dei fiori e dei pini. Il cielo si stendeva azzurro e del tutto sgombro, a eccezione di una nuvola grigia che veleggiava sulle ali del vento. Percepii il debole odore di un fuoco lontano. Il villaggio di Kraal distava non più di due giorni di marcia.
Cominciai ad allontanarmi dal corso del fiume, in direzione del villaggio di Kraal e Reeva, coloro che mi avevano tradito.
Ero solito procacciarmi il cibo verso il tramonto, quando gli animali scendevano al fiume ad abbeverarsi. Quella sera, ormai troppo lontano dal fiume, mi appostai nei pressi di uno stagno, nascondendomi dietro una macchia di cespugli sotto un vecchio noce, in attesa della mia cena. Il vento soffiava verso di me, e nemmeno il più sensibile fra i daini avrebbe potuto avvertire il mio odore. Rimasi completamente immobile, facendomi parte del paesaggio, in attesa.
Centinaia di uccelli cantavano e fischiavano fra i rami sopra di me, per salutare gli ultimi raggi del sole, poi i primi animali si fecero avanti cautamente verso la pozza. Per primi si avvicinarono alcuni scoiattoli, dimenando nervosamente la coda. A essi seguirono altri piccoli mammiferi pelosi, simili a marmotte.
Infine giunsero i cervi, che avanzarono guardinghi fermandosi a fiutare l’aria e a esaminare le ombre coi loro grandi occhi. Strinsi la presa sulla lancia ma rimasi nascosto e immobile, non per compassione ma perché ero sulla sponda opposta dello stagno, e quelli erano animali troppo lesti perché potessi rincorrerli.
Udii un suono cavernoso levarsi alle mie spalle, simile a un grugnito. Voltato il capo, vidi i cespugli ondeggiare furiosamente. Da essi uscì un grosso cinghiale, che avanzò con andatura ondeggiante verso di me; le sue zanne erano lunghe e appuntite come grossi pugnali. Non sembrò accorgersi della mia presenza, limitandosi a grugnire e brontolare mentre superava il punto in cui ero nascosto, barcollando verso la riva dello stagno.
Non aveva paura degli uomini. Forse non ne aveva mai visto uno. Di certo non ne avrebbe potuti vedere mai più.
Il cinghiale piegò il capo e cominciò a lambire l’acqua piuttosto rumorosamente. Con un solo, rapido movimento scattai in piedi e sollevai la lancia sopra la testa. Con ambo le mani ne scagliai la punta nella schiena dell’animale, conficcandogliela fra le costole. La sentii penetrare in quella pelle coriacea, aprendosi la strada verso il cuore e i polmoni.
Il cinghiale stramazzò a terra senza emettere un suono. I cervi sul lato opposto dello stagno, spaventati dal mio movimento improvviso, indietreggiarono di qualche metro, ma presto tornarono presso la sponda.
Mi congratulai con me stesso per la facilità di quella caccia, mentre svolgevo il crudo compito di scuoiare il cinghiale e tagliarne a pezzi le parti migliori coi miei strumenti di pietra.
Ma mi ero rallegrato troppo presto.
Il primo segno di pericolo venne quando i cervi sollevarono di colpo il capo tutti insieme per poi sparire fra gli alberi. Ma io non me ne accorsi. Ero inginocchiato sulla mia preda, intento a farne a pezzi la carcassa pregustando una cena succulenta.
Allora udii dietro di me un ruggito che poteva venire soltanto dalla gola di un leone. Mi voltai lentamente, senza fare movimenti bruschi, e vidi un enorme felino dalla criniera irsuta e i denti a sciabola fissarmi con occhi dorati e lucenti, con la saliva che gli scendeva da un lato della bocca.
Voleva la mia preda. Come un mafioso opportunista mi aveva lasciato compiere tutto il lavoro per poi appropriarsi dei frutti delle mie fatiche.
Lanciai un’occhiata fra le ombre dei cespugli per capire se era un maschio isolato o se con lui c’erano altre leonesse pronte a saltarmi addosso. Sembrava che fosse solo. Osservandolo con maggiore attenzione vidi le costole sporgere dal suo ventre scarno. Poi la fiera cominciò ad avanzare verso di me.
Doveva essere malato, o ferito, oppure troppo vecchio per mettersi a cacciare. Era ridotto ad arraffare le prede di altri animali dopo averli messi in fuga.
Per quanto malato, comunque, era pur sempre dotato di zanne e artigli micidiali. I miei sensi entrarono in ipervelocità non appena mi resi conto che la lancia giaceva in terra a più di un braccio di distanza.
Se mi fossi allontanato, con tutta probabilità la belva si sarebbe diretta sulla preda, permettendomi di fuggire. Ma se avesse deciso di aggredirmi, voltarle la schiena avrebbe potuto rivelarsi un errore fatale.
L’animale mosse un altro passo verso di me ed emise un ruggito. Dalla sua andatura conclusi che doveva essersi ferito alla zampa posteriore sinistra.
Non avevo alcuna intenzione di abbandonare il mio pasto a favore di quell’ospite inatteso. Se aveva intenzione di bluffare, ero in grado di farlo anch’io. Lentamente, mentre ci fissavamo senza batter ciglio, mi sporsi per raggiungere la lancia. Non appena le mie dita ne raggiunsero il legno, la fiera decise di agire con qualcosa di più che un ruggito.
Fece un balzo verso di me. Io afferrai la lancia e, disteso sul terreno, mi rotolai lontano dalla traiettoria del suo balzo. Per quanto ferita, la belva atterrò in piedi sulla carcassa del cinghiale, apprestandosi a spiccare un altro balzo verso di me.
Poggiai l’asta della lancia contro il terreno e mirai alla sua gola. L’impeto del suo stesso balzo lo trafisse sulla punta, spinto dal proprio peso.
Il sangue scese a fiotti, e la bestia lanciò un ruggito gorgogliante mentre calava gli artigli contro di me. Uno dei suoi colpi mi raggiunse il petto prima ancora che avessi il tempo di lasciar cadere la lancia e indietreggiare.
La bestia ululò girando su se stessa, cercando di far fuoriuscire la lancia dalla propria gola. Me la svignai, privo di armi a eccezione delle mani nude, senza poter fare altro che restare a guardare quella bestia dai denti a sciabola rotolarsi fra la polvere, assestando potenti zampate alla staffa della lancia mentre il suo sangue si spargeva a fiotti sul terreno.
Era una morte orribile. D’impulso balzai in piedi e corsi verso la bestia morente. Tirai la lancia verso di me con tutte le forze, e infine riuscii a estrargliela dalla gola. Ruggimmo insieme in un misto di furia assassina e rispetto selvaggio mentre gli affondavo la punta della lancia nel cuore.
Vidi la luce dei suo occhi bruni vacillare e smorzarsi e in parte provai vergogna, in parte esultai per la mia vittoria. Lo avevo finito, avevo messo fine alle sue sofferenze.
Ma mentre abbassavo lo sguardo su quella carcassa un tempo nobile e temibile, pensai che presto sciacalli e altri animali in cerca di carogne avrebbero banchettato con le sue carni imputridite. Non c’è nessuna dignità nella morte, pensai mesto dentro di me. Soltanto i vivi posseggono una dignità.
Fu così che mi procurai una pelle di leone con cui coprirmi la testa e le spalle mentre mi avvicinavo al villaggio di Kraal.
Seguii l’unica nuvola di fumo che oscurava il cielo altrimenti sgombro, riflettendo che il villaggio doveva essersi allargato notevolmente dall’ultima volta in cui vi ero stato. Ma il secondo giorno di marcia mi accorsi che era una nuvola troppo grossa, troppo persistente per provenire dai fuochi di un accampamento. Cominciai a temere il peggio.
A mezzogiorno cominciai a fiutare la morte nell’aria: l’odore acre e nauseabondo della carne bruciata. Vidi molti uccelli volare a cerchi alti nel cielo. Non pterosauri, avvoltoi.
Era pomeriggio inoltrato quando uscii dal sottobosco di rovi giungendo in vista del villaggio di Kraal. Era stato raso al suolo, ogni sua capanna ridotta in ceneri fumanti, il terreno annerito. Al centro della piazza principale sorgeva un cumulo di cadaveri carbonizzati, dalle fattezze irriconoscibili. Gli avvoltoi volteggiavano nel cielo, con inesauribile pazienza. Attendevano che il terreno si facesse più freddo e che i cadaveri smettessero di fumare, prima di scendere e dare inizio al loro banchetto.
M’inginocchiai per esaminare le impronte dei dinosauri e degli shaydiani disseminate per tutto il villaggio. Le loro orme indicavano che si erano diretti a nord-est, verso la fortezza di Set. Fra esse vi erano alcune impronte di piedi umani. Non tutti nel villaggio erano stati uccisi.
Mi alzai in piedi e scrutai l’orizzonte in direzione nord-est. Così, quella era stata la ricompensa che Kraal e Reeva avevano ricevuto per la loro collaborazione. Set e i suoi mostri avevano razziato il villaggio, uccidendo gran parte dei suoi abitanti. Coloro che erano stati risparmiati erano in marcia verso la schiavitù.
Mi ritrovai a sperare che Kraal e Reeva fossero fra loro. Volevo incontrarli, volevo che mi vedessero. Volevo che mi dicessero quanto fosse proficuo stringere un patto col demonio.
Incamminandomi verso la fortezza di Set, mi chiesi cosa fosse accaduto a Chron, a Vorn e agli altri schiavi che avevo liberato. Erano morti o caduti nuovamente in schiavitù?
Per tutta la giornata e gran parte di quella successiva seguii le tracce che i dinosauri avevano disseminato nel sottobosco. Dapprima pensai di affrontarli, ma presto cancellai quell’idea dalla mia mente. Il mio tentativo di liberare gli schiavi sarebbe stato insensato; sarebbe servito soltanto ad avvertire Set, confermandogli la mia presenza. Per quanto possibile volevo approfittare dell’elemento sorpresa; era praticamente l’unica arma di cui disponevo quando l’avessi incontrato.
Sul calar della sera del secondo giorno di marcia notai una serie di impronte umane che divergevano da quelle del gruppo principale. I dinosauri guidavano i loro prigionieri verso nord-est, in direzione della fortezza di Set; il loro percorso era dritto attraverso la foresta come una strada romana o un volo di freccia.
Ma almeno due esseri umani erano riusciti a fuggire, nascondendosi tra i cespugli. Abbandonai il sentiero dei dinosauri e proseguii in direzione delle altre impronte. In meno di dieci minuti a esse si unirono le orme di un dinosauro; chiunque fosse a capo degli scorridori aveva mandato un drago all’inseguimento dei fuggitivi.
Il sole si apprestava a calare dietro una catena di basse colline quando li vidi. Al centro di una radura un uomo era accovacciato sulle proprie ginocchia, e al suo fianco una donna tremante di paura stringeva tra le braccia il proprio bambino. Uno dei cloni di Set stava davanti a loro: non molto più alto della donna, con le scaglie color rosa salmone tipiche di uno shaydiano non ancora adulto. Sul limitare della radura era in attesa un drago, alto quasi quanto le cime dei giovani alberi, gli occhi scintillanti di rabbia.
Capii che lo shaydiano aveva intenzione di uccidere l’uomo. Gli strinse la gola, che sanguinò sotto i suoi artigli.
— Lascialo stare! — gridai, sollevando la lancia oltre la testa.
Lo shaydiano si voltò, sibilando per la sorpresa mentre scagliavo la lancia con tutte le mie forze. Lo colpii in pieno petto, facendolo barcollare all’indietro.
Anche il drago si voltò verso di me. Mi concentrai su di lui e, per un incredibile istante, osservai la scena attraverso i suoi occhi a fessura: l’uomo ancora in ginocchio, a bocca aperta di fronte al rettile morto, la donna impietrita dal terrore col bambino stretto al seno e il robusto Orion a una decina di metri di distanza, a mani vuote, disarmato.
Ordinai al drago di allontanarsi e raggiungere gli altri. Gli fornii l’ordine mentale di uccidere ogni capra, mucca e orso che avesse incontrato sulla sua strada. L’animale sibilò come una caffettiera e si sollevò sulle zampe posteriori.
La sua testa si mosse avanti e indietro, verso di me e verso la famigliola, mostrando incertezza sul da farsi. Dovevamo rappresentare un facile pasto ai suoi occhi. Mi concentrai il più possibile per convincerlo ad allontanarsi. Infine s’incamminò barcollando e sparì tra gli alberi.
Tirai il sospiro che avevo trattenuto per quelle che sembravano ore intere. L’uomo si rimise in piedi, dolorante. La sua schiena era striata da lunghe ferite di artiglio, grondanti sangue. M’incamminai verso i tre umani e lo shaydiano morto, per recuperare la lancia.
Riconobbi Kraal e Reeva nello stesso istante in cui essi riconobbero me.
— Orion! — singhiozzò l’uomo, buttandosi nuovamente in ginocchio.
Reeva strabuzzò gli occhi e strinse il bambino ancora più forte a sé. Era di nuovo incinta.
Senza dire una sola parola, avanzai verso il rettile morto ed estrassi la lancia dalla sua pelle coriacea.
— Risparmiala, Orion — implorò Kraal, ancora in ginocchio. — Vendicati su di me, ma risparmia la vita a lei e al bambino.
— Dov’è il mio coltello? — Erano molte le cose che avrei voluto dire a quel miserabile traditore frignante. Quelle, però, furono le uniche parole che riuscii a pronunciare.
L’uomo cercò a tastoni sotto le sporche pelli di cui era coperto e, con mani tremanti, mi porse il coltello ancora infoderato.
— Devi essere un dio — disse Kraal, abbassando il viso sul terreno di fronte a me. — Soltanto un dio è in grado di uccidere simili mostri. Soltanto un dio può indossare la pelle di un denti-a-sciabola.
— Uomo o dio, tu mi hai tradito.
— E tu cos’hai fatto per noi? — gridò Reeva, con occhi fiammeggianti. — Da quando ti abbiamo incontrato non abbiamo avuto che morte e distruzione.
— Eravate degli schiavi quando vi ho incontrati. Vi ho resi liberi.
— Liberi di essere cacciati da Set e dai suoi demoni! Liberi di essere uccisi o torturati, di vedere i nostri villaggi bruciati o rasi al suolo!
— Avete deciso di servire Set. Questa è la vostra ricompensa. Non avete tradito solo me, ma tutta la vostra gente. E Set ha tradito voi. Questa si chiama giustizia.
— Cos’hai intenzione di farci? — domandò Kraal, con tono ancora adulatore.
Mi chinai e lo feci mettere in piedi. — Darò battaglia a Set. Cercherò di uccidere lui e la sua gente, di modo che possiate ereditare questa terra e vivere in libertà.
L’uomo rimase a bocca aperta. Reeva, sospettosa, domandò: — Perché mai dovresti fare una cosa simile per noi?
Abbozzai un debole sorriso. — Non voglio che questo piccolo cresca in schiavitù. Non voglio che mai un essere umano diventi schiavo di quel mostro.
Quella notte mi accampai insieme a loro. Era chiaro che mi temevano, disorientati dai motivi per i quali avevo deciso di lasciarli in vita e ingaggiare battaglia con l’invincibile Set. Il nome del piccolo, mi dissero, era Kaan.
Come avevo temuto, Set stava metodicamente spazzando via ogni tribù che riuscisse a scovare. Imbarazzato, balbettando nel parlare, Kraal riferì che per un primo periodo i seguaci di Set lo avevano trattato piuttosto bene, mentre lui e Reeva aiutavano i demoni ad accerchiare i villaggi e a ridurne in schiavitù gli abitanti. Chron, Vorn e tutti quelli che avevo conosciuto erano stati messi in prigionia in tale modo.
— Ma quando la stella rossa cominciò a brillare e a muoversi nel cielo, Set divenne furioso. I suoi demoni cominciarono a radere al suolo ogni villaggio. Infine accerchiarono anche il nostro, uccidendoci quasi tutti. Poi diedero fuoco alle case e presero i superstiti come schiavi.
Annuii nelle ombre della sera. — E voi avete cercato di fuggire.
— Reeva si è allontanata dal gruppo, e io l’ho seguita — Kraal proseguì. — Ci siamo messi a correre con tutte le nostre forze, ma alla fine uno di quei demoni è riuscito a trovarci. Allora sei apparso tu, come un dio, e ci hai salvati.
Per tutto il tempo Reeva non aveva pronunciato una parola, sebbene potessi percepire il suo sguardo su di me.
— Set è malvagio — dissi a Kraal. — Ha intenzione di ucciderci tutti. Forse a qualche essere umano viene risparmiata la vita perché possa servirlo come schiavo, ma la morte è la ricompensa che ha in serbo per tutti noi.
— Hai intenzione di combatterlo? — domandò Kraal.
— Sì.
— Da solo? — domandò Reeva. Il tono della sua domanda mi fece comprendere che temeva volessi chiedere il loro aiuto.
— Da solo — risposi.
— E la sacerdotessa? Anya? Dov’è? Non verrà con te ad aiutarti?
— No, non può farlo — dissi.
— Dovrò affrontarlo da solo.
— Allora ti ucciderà — disse Reeva, senza tanti giri di parole.
— E poi ucciderà tutti noi.
— Può darsi — ammisi. — Ma non senza combattere.
Il mattino seguente mi congedai da loro. — Un giorno — dissi — quando il giovane Kaan saprà parlare e camminare e il bambino nel tuo ventre sarà nato, incontrerete altri vostri simili, e allora apprenderete che Set è stato sconfitto. Allora sarete veramente liberi.
— E che cosa accadrà se sarà Set a uccidere te? — domandò Reeva.
— In quel caso, un giorno i suoi demoni e i suoi draghi vi scoveranno e uccideranno ognuno di voi.
Li lasciai con quel terribile pensiero e ripresi la marcia verso nord-est.
Un giorno dopo l’altro avanzai da solo attraverso la foresta di Paradiso, verso il luogo del mio scontro finale con Set. Superai la vallata rocciosa in cui avevo ideato il dio che parla. Superai altri due villaggi, carbonizzati e deserti come quello di Kraal. Ma non incontrai altri esseri umani a Paradiso.
I demoni di Set avevano visitato tutti i villaggi, uccidendo e depredando, portando via con sé pochi uomini in schiavitù e massacrando tutti gli altri. Volevano cancellare gli esseri umani dal mondo, per fare della Terra la nuova dimora della loro razza di rettili.
Infine raggiunsi il limitare della foresta e scrutai attraverso gli alberi la vasta distesa d’erba che si stendeva fra me e la fortezza di Set.
Pterosauri volteggiavano nel cielo illuminato dal sole. All’orizzonte vidi profilarsi la sagoma scura di un sauropode. Set aveva fatto uscire i sauri alla mia ricerca. Sapeva che sarei venuto a cercarlo e mi attendeva, pronto e vigile.
Sedetti a terra con la schiena appoggiata alla scabra corteccia di un grosso acero, riflettendo sulla mia mossa seguente.
Sarebbe stata una pazzia cercare di espugnare la fortezza di Set da solo, armato soltanto di una lancia di legno e pochi attrezzi di pietra. Avevo bisogno d’aiuto. Il che significava che dovevo fare ritorno presso i Creatori.
Per ore cercai di resistere a quell’idea. Non avevo alcuna voglia di tornare fra loro. Avrei preferito liberarmene una volta per tutte; o almeno incontrarli come pari, come un uomo che aveva sconfitto il loro più pericoloso nemico facendo affidamento soltanto sulla proprie forze, e non come un giocattolo menomato che non era in grado di funzionare correttamente e perciò aveva costante bisogno d’aiuto.
Ma non vedevo alcuna alternativa. Non potevo affrontare Set da solo e disarmato. Mi serviva il loro aiuto.
Sapevo che se avessi cercato di mettermi in contatto con i Creatori, Set si sarebbe diretto verso il mio segnale come un serpente nella notte è guidato dal calore corporeo della propria preda. Se avessi cercato di mettermi in contatto con i Creatori senza riuscire nel mio intento, i demoni di Set sarebbero piombati su di me nel giro di qualche ora.
Il che significava che non potevo contare sui Creatori per farmi condurre presso di loro. Dovevo compiere il balzo io stesso, attraverso i miei soli poteri.
Scese la sera. I grilli e insetti intonarono i loro canti tra le ombre. Arrampicatomi sul tronco dell’acero, mi sistemai su uno dei suoi rami più grossi. Per qualche motivo mi sentivo molto più al sicuro lassù che non sul terreno.
Il mio retaggio scimmiesco, Set l’avrebbe chiamato.
Chiusi gli occhi e mi sforzai di ricordare tutte le volte che ero stato trasportato attraverso il continuum, da un punto all’altro dello spaziotempo. Ricordai il dolore della morte, che avevo provato ripetutamente. Mi concentrai nel tentativo di guardare al di là di quel dolore, in cerca del ricordo del mio trasferimento attraverso il continuum.
L’avevo già fatto una volta, anche se non potevo essere sicuro che uno dei Creatori non mi avesse aiutato, a mia insaputa. Adesso dovevo cercare di farlo da solo. Ci sarei riuscito?
Il segreto era di raccogliere l’energia necessaria per creare una spaccatura nello spaziotempo. L’energia può essere assoggettata al controllo di una coscienza allo stesso modo in cui lo è la materia. E l’universo brulica d’energia. Le stelle ne irradiano a grandi quantità, di continuo. Mentre giacevo disteso su un ramo di quell’albero, migliaia di miliardi di stelle e particelle cosmiche irraggiavano il mio corpo, penetrando la notte e il mondo intorno a me.
Usai quell’energia. Mettendola a fuoco con la mente come una lente mette a fuoco la luce, piegai la sua potenza al mio volere. Di nuovo avvertii per un istante quel freddo criogenico, quell’istante di nulla che segna la transizione fra gli abissi del continuum.
Aprii gli occhi.
La città dei Creatori si stendeva tutt’intorno a me, coi suoi magnifici templi e monumenti appartenenti a tutte le epoche della razza umana. Vuota e immersa nel silenzio, abbandonata.
La cupola d’energia brillava tingendo il cielo azzurro di un pallido alone dorato. In altri luoghi di quella Terra tranquilla, esseri umani a me più simili conducevano la loro normale vita di gioie, dolori, amore e lavoro. Ma i Creatori erano fuggiti.
Per ore percorsi le strade della loro città abbandonata. Marmo e bronzo, oro e acciaio inossidabile, vetro e legno intagliato. Quel mondo continuava a vivere anche senza di loro, ma quanto sarebbe durato? Per quanto tempo il continuum avrebbe potuto mantenere la propria stabilità, con Set ancora vivo e i Creatori dispersi tra le stelle? Per quanto tempo la razza umana avrebbe potuto sopravvivere, quando il suo più spietato nemico era ancora intento a cancellare l’umanità intera?
Mi ritrovai nuovamente nella piazza principale, di fronte al Partenone e alla colossale statua di Atena. Il volto di Anya mi guardava dall’alto, con un elmo greco da battaglia sul capo e una lunga lancia affusolata stretta nella mano.
Sollevai le braccia verso la statua che si ergeva di fronte a me.
— Come posso vincere, da solo? — domandai al marmo freddo e insensibile. — Cosa posso fare, abbandonato a me stesso?
La statua sembrò animarsi. Il marmo cominciò a brillare al proprio interno e ad assumere il colore della carne viva. I suoi occhi dipinti divennero veri occhi grigi e solenni. Le labbra si mossero, e quella voce melodiosa che conoscevo così bene cominciò a risuonare nella città deserta.
— Non sei solo, amore mio.
— Anya!
— Sono sempre con te, anche se non posso aiutarti direttamente.
Il ricordo del suo tradimento infuriò dentro di me. — Mi hai abbandonato.
Il volto vivente della statua sembrò sul punto di mettersi a piangere. — Sono pentita di ciò che ho fatto, Orion.
Udii la mia voce rispondere: — Non avevi scelta, lo so. Lo capisco. La mia vita non ha importanza in confronto alla sopravvivenza dei Creatori. Eppure brucia più di tutti i fuochi dell’inferno di Set.
— Non sono stata motivata da scopi tanto nobili — replicò Anya. — Ero terrorizzata dal pensiero della morte definitiva, quella degli umani. Sono fuggita per mettermi in salvo, lasciando l’uomo che più amo in tutti gli universi nelle mani del più crudele degli esseri malvagi.
— Io avrei fatto lo stesso — dissi.
Il volto di pietra si contorse in un sorriso mesto. — No, Orion.
Tu saresti morto per proteggermi. Hai dato la tua vita già molte volte, ma sempre, anche di fronte alla prospettiva della morte definitiva, hai cercato di salvarmi ponendo in pericolo la tua stessa salvezza.
Non potevo controbatterle nulla.
— Dapprima ho assunto forma umana per una sorta di capriccio — Anya confessò. — Trovavo eccitante vivere con te, sentire il sangue scorrere nelle mie vene, amare, ridere, combattere… persino sanguinare. Ma sempre con l’idea che sarei potuta fuggire, se necessario. Non ho mai dovuto affrontare la prova definitiva della morte vera e propria. Quando Set mi ha avuta in suo potere, quando ho capito che sarei morta per l’eternità, che avrei cessato di esistere, per la prima volta ho veramente provato terrore. Mi sono lasciata prendere dal panico. Ti ho abbandonato per mettermi in salvo.
— Pensavo che ti avrei odiata per questo — le dissi. — E invece continuo ad amarti.
— Non sono degna del tuo amore, Orion.
Con un sorriso, risposi: — Eppure hai tutto il mio amore, Anya. Ora e per sempre. Per tutto il tempo, lo spazio e gli universi del continuum, ti amerò sempre.
Era la verità. L’amavo, e l’avevo perdonata. Avevo preso quella decisione di mia spontanea volontà; nessuno aveva manipolato la mia mente. Non era una reazione inclusa nel mio condizionamento da parte del Radioso. L’amavo veramente, nonostante ciò che aveva fatto. In parte, forse l’amavo proprio perché aveva finalmente provato la paura suprema che tutti gli esseri umani devono affrontare, a cui nessuno degli altri Creatori aveva mai avuto il coraggio di avvicinarsi.
— E io amo te, caro — disse lei, con voce sempre più debole.
— Ma dove sei?
— I Creatori sono fuggiti. Quando hanno saputo che Set avrebbe potuto attaccarli qui, nel nostro stesso santuario, hanno abbandonato la Terra.
— Tornerai da me? — domandai.
— Gli altri Creatori hanno troppa paura di Set! Distruggendo Sheol avevano pensato di uccidere anche lui, ma adesso sanno bene quanto saldamente egli si sia stabilito sulla Terra. Tu solo hai il potere di fermarlo, Orion. L’esistenza dei Creatori dipende esclusivamente da te.
— Ma non potrò mai farcela da solo! — gridai alla sua voce che si affievoliva sempre più. Potevo sentire la sua presenza allontanarsi, scemare, la statua perdere il suo aspetto vivente per ritornare di freddo marmo.
— Dovrai usare i tuoi mezzi, Orion — sussurrò la voce di Anya. — I Creatori nutrono troppo timore nei suoi confronti per affrontarlo loro stessi.
— Tornerai da me? — ripetei.
— Ci proverò.
— Ho bisogno di te!
— Quando più avrai bisogno di me sarò al tuo fianco, Orion. — La sua voce era più fioca del frullio d’ali di una civetta. — Quando più avrai bisogno di me, amore mio.
Mi ritrovai nuovamente solo nella piazza principale, di fronte alla statua senza vita di Atena.
Solo. I Creatori volevano che affrontassi Set e i suoi demoni senza il loro aiuto.
Privo di forze, esausto, mi sedetti sui gradini di marmo del Partenone, il capo sepolto fra le mani. Sul lato opposto della piazza il grosso Buddha dorato sorrideva placido verso di me.
Per la prima volta in tutte le mie vite dovevo affrontare una situazione in cui la mia forza non aveva praticamente alcun valore. Avrei dovuto contare soltanto sulla mia mente, sul potere del pensiero, per sconfiggere Set. Fisicamente era molto più forte di me, come sapevo bene. Disponeva di un intero esercito di shaydiani e di molte legioni di dinosauri.
Io avevo il mio corpo e la mia astuzia. Nient’altro.
La statua del Buddha sembrava guardarmi con un sorriso amichevole e benigno.
— È facile per te predicare la rinuncia ai desideri — brontolai a voce alta verso la statua di legno rivestito d’oro. — Ma io ho i miei desideri. Ho i miei bisogni. E ciò di cui ho maggiormente bisogno è un esercito…
La mia voce si interruppe a metà della frase.
Sapevo dove trovare un esercito. Un esercito che aveva riportato un gran numero di vittorie, dal deserto del Gobi alle rive del Danubio. L’esercito di Subotai, il più grande dei generali mongoli, conquistatore di gran parte dell’impero di Gengis Khan.
Alzatomi in piedi, raccolsi l’energia mentale necessaria a proiettarmi nel tredicesimo secolo dell’era cristiana, nell’epoca in cui l’impero mongolo si stendeva dalle coste della Cina alle pianure d’Ungheria. Ero già stato laggiù. Avevo assassinato il loro gran Khan, Ogotai, figlio di Gengis Khan. L’uomo che mi era stato amico.
La città dei Creatori scomparve mentre avvertivo di nuovo quel freddo criogenico attraverso lo spaziotempo. Per un istante fui privo di corpo nel vuoto totale del continuum. Poi mi trovai nel mezzo di una prateria percossa dal vento, il cui cielo era coperto da pesanti nuvole grigie. Non c’era un solo albero, e in lontananza potevo scorgere la sagoma di una città protetta da mura stagliarsi contro il cielo scuro.
M’incamminai in quella direzione. Cominciò a piovere, una pioggia gelida mista a nevischio. Strinsi la pelle di leone più stretta intorno alle mie spalle e accelerai il più possibile la circolazione sanguigna nei capillari per mantenere la temperatura interna del mio corpo. La testa e le spalle piegate in avanti, procedetti fra la pioggia gelida mentre il terreno sotto i miei piedi si trasformava in fango scivoloso.
La città non era in preda alle fiamme, il che poteva significare che l’esercito di Subotai l’aveva posta in assedio oppure che l’aveva già catturata. Pensai più probabile quest’ultima possibilità, perché non scorsi nessun accampamento, né guerrieri di pattuglia a cavallo.
Era già notte fonda quando raggiunsi le porte della città. Il muro che la cingeva non era che una rozza palizzata di pali appuntiti, piantati in quello che stava rapidamente trasformandosi in un mare di fango. Il portale era un insieme di assi lisce dotato di alcune fessure attraverso le quali poter scagliare le frecce.
Era aperto. Buon segno. Non era imminente nessuna battaglia.
Una mezza dozzina di guerrieri mongoli si riparavano dalla pioggia sotto il parapetto aggettante del portale, riscaldandosi al calore di un fuocherello che crepitava irregolarmente, solamente in parte protetto dalla pioggia scrosciante.
Quei guerrieri erano tenaci veterani di guerra, coperti di cicatrici. Eppure senza i loro pony sembravano piccoli, quasi come bambini. Bambini piuttosto temibili, a ogni modo. Indossavano una casacca di cotta e un elmetto conico d’acciaio. Dalle loro cinture pendevano pugnali e sciabole ricurve. Notai gli immancabili archi e le faretre colme di frecce appoggiati contro le tavole del portale.
Uno di loro si fece avanti e mi si parò di fronte.
— Alt! — ordinò. — Chi sei, e perché vuoi entrare?
— Sono Orion, amico del grande Subotai. Vengo dal Karakorum, e porto un messaggio da parte del Gran Khan.
Gli occhi del guerriero si fecero sottili come fessure. — I nobili hanno eletto un nuovo Gran Khan come successore di Ogotai?
Scossi il capo. — Non ancora. Kubilai e gli altri si stanno riunendo in Karakorum per compiere la loro scelta. Il mio messaggio riguarda altre faccende.
Il Mongolo posò gli occhi sulla mia pelle di leone, e ricordai che non doveva aver mai visto un denti-a-sciabola prima d’allora. Ma non mostrò alcun segno di curiosità. — Che prova puoi darmi a sostegno delle tue parole?
Sorrisi. — Manda un messaggero al cospetto di Subotai, che riferisca che Orion è qui per incontrarlo, fornendogli una mia descrizione. Vedrai che sarà contento di incontrarmi di nuovo.
Mi squadrò dalla testa ai piedi. Fra i Mongoli la mia taglia era decisamente fuori dal comune. E Subotai conosceva bene le mie qualità di guerriero. Speravo che non gli fosse giunta ancora voce del fatto che avevo assassinato il Gran Khan Ogotai.
Il guerriero mandò uno dei suoi uomini al cospetto di Subotai quindi, a malincuore, mi permise di dividere il modesto calore del loro fuoco.
— È una bella pelle quella che indossi — disse un’altra guardia.
— Ho ucciso questo animale molto tempo fa — risposi.
Mi dissero che quella città era la capitale dei Moscoviti. Ricordai che Subotai era stato impaziente di imparare tutto ciò che potevo riferirgli sulle nere regioni dell’Ucraina e sulle steppe della Russia che diradavano nelle pianure di Polonia e, al di là dei Carpazi, in Ungheria e verso il cuore dell’Europa.
Quando il messaggero fece ritorno la mia schiena era un blocco di ghiaccio, sebbene le mani e il viso fossero ancora ragionevolmente caldi. Insieme al messaggero giunse una coppia di guerrieri vestiti di lucenti corazze, con ricchi gioielli incastonati nell’elsa delle spade. Senza dire una parola, costoro mi guidarono attraverso le strade piene di fango della capitale dei Moscoviti, verso gli alloggi di Subotai.
Non era molto diverso dal Subotai che avevo incontrato in una vita precedente. Piccolo e robusto come tutti i suoi guerrieri, la sua barba e i capelli erano grigi come il ferro, e i suoi occhi erano di un nero straordinariamente intenso. Erano occhi vivaci e intelligenti, curiosi di conoscere tutto ciò che esisteva su questo mondo.
Aveva occupato una chiesa, probabilmente in quanto quella struttura di legno era l’edificio più grande esistente in città, in modo da costituire un salone piuttosto spazioso per le udienze.
Percorsi tutta la lunghezza della navata in direzione di Subotai; tutti i banchi della chiesa erano stati portati via. Le immagini severamente pie dei santi bizantini osservavano meste le file di colonne fra le quali l’altare era stato rimosso. Subotai sedeva lì insieme a pochi altri suoi fedeli compagni e una dozzina circa di giovani donne locali che servivano vino e cibo.
Dietro di lui, l’abside della chiesa era carica di bassorilievi d’oro scintillanti alla luce delle candele. Parte dell’oro era già stata smantellata dalle pareti; da quel che sapevo, presto i Mongoli avrebbero fuso anche quel poco che ne era rimasto. La volta, alta sopra la mia testa, era impreziosita da un mosaico raffigurante un Cristo con le mani ferite sollevate in segno di benedizione. Rimasi stupito per l’estrema somiglianza del suo volto con quello del Creatore che conoscevo col nome di Zeus.
Guerrieri armati indugiavano pigramente lungo le pareti laterali della chiesa sconsacrata, bevendo e parlando fra di loro. Non mi lasciai ingannare dalla loro apparente indolenza. Nel giro di un istante potevano mozzare la mano di chiunque avesse compiuto il più piccolo gesto minaccioso. A un solo ordine di Subotai erano pronti a ricompensare un mentitore o chiunque recasse un dispiacere al loro generale versandogli argento fuso negli occhi e nelle orecchie.
Tuttavia quei Mongoli conoscevano i valori della lealtà e dell’onestà molto meglio di gran parte dei cosiddetti popoli civilizzati. E il loro coraggio era fuori discussione. Potevano attaccare la più inespugnabile delle fortificazioni fino a quando nessuno di loro fosse rimasto in vita.
Subotai beveva da un calice dorato su cui erano incastonate un gran numero di gemme. I luogotenenti seduti al suo fianco reggevano coppe d’argento e d’alabastro. Non avrebbe mai cessato di meravigliarmi: per quanto un popolo fosse povero o rozzo, le sue chiese costituivano sempre un bottino sostanzioso per qualsiasi razziatore.
— Orion! — gridò Subotai, balzando in piedi. — L’uomo dell’Occidente!
Sembrava sinceramente contento di rivedermi. Nonostante i capelli grigi era agile e impetuoso come un ragazzo.
— Mio nobile Subotai. — Mi fermai a qualche passo di distanza da lui e feci un inchino. Quando l’avevo conosciuto, era pervaso da un’inarrestabile energia in grado di trascinare lui e le sue armate fino ai più remoti recessi della Terra. Ero felice di constatare che quell’energia non si era affievolita. Sarebbe stata estremamente utile, se avesse deciso di accettare la mia richiesta.
Mi stese la mano, e io strinsi il suo polso con lo stesso vigore con cui lui afferrò il mio.
— È un piacere incontrarti di nuovo, uomo dell’Occidente.
— Ti ho portato un dono, mio signore — dissi, con tono solenne.
Mi tolsi di dosso la pelle del denti-a-sciabola e gliela porsi. La testa dell’animale era rimasta piegata all’indietro, e fino a quel momento il Mongolo non aveva potuto ammirarne le zanne lucenti. Le guardò con occhi stralunati.
— Dove hai scovato una bestia simile?
Non potei trattenermi dal sorridere. — Conosco luoghi in cui dimorano animali strani e portentosi.
Egli mi ricambiò il sorriso e mi guidò verso i cuscini sui quali era stato seduto. — Raccontami le ultime notizie del Karakorum.
Mentre faceva cenno di sedere sui cuscini alla sua destra, tirai un sospiro di sollievo. Subotai non mi avrebbe mai stretto le mani, se avesse avuto intenzione di uccidermi. Non era capace di tradire un amico. Né lui né alcuno dei suoi luogotenenti sembravano a conoscenza della morte del Gran Khan Ogotai, l’uomo che, in un’altra vita, era stato mio amico.
Mentre una giovane bionda mi porgeva una tazza d’oro e una ragazza altrettanto bella versava in essa vino speziato, annunciai che Ogotai era morto nel sonno, e che io l’avevo incontrato la notte stessa della sua dipartita.
— Sembrava compiaciuto che l’impero mongolo regnasse in pace su quasi tutto il mondo conosciuto. Penso che fosse felice per il fatto che nessun nemico sia rimasto a combattere i Mongoli.
Subotai annuì, ma il suo volto assunse un’espressione triste. — Presto, Orion, l’inimmaginabile potrebbe accadere. Mongoli potrebbero rivolgersi contro Mongoli. Le antiche guerre tribali del Gobi potrebbero rifiorire, ma questa volta sarebbero eserciti di incredibile potenza a darsi battaglia da un capo all’altro della Terra.
— Come può essere? — domandai, sinceramente stupito. — La Yassa vieta che un Mongolo versi il sangue di un fratello.
— Lo so — rispose Subotai, con aria triste. — Ma temo che nemmeno la legge della Yassa possa fermare la battaglia che sta per scatenarsi.
Coricati fra i cuscini di seta, sotto lo sguardo pio dei santi bizantini che ci osservavano dall’alto del loro paradiso dorato e immutabile, Subotai mi spiegò quel che stava accadendo fra i generali mongoli.
In parole povere, non era rimasto loro alcun lembo di terra da conquistare. Gengis Khan, il condottiero che ricordavano con tanta reverenza da non osare nemmeno di pronunciarne il nome, aveva instradato le tribù del Gobi verso la conquista del mondo. Con tutta la Cina e l’Asia da combattere, i guerrieri del Gobi avevano interrotto i loro incessanti conflitti tribali per intraprendere uniti quella gloriosa impresa. Adesso erano padroni del mondo intero, fatta eccezione per le terre desolate e paludose d’Europa e il subcontinente indiano in cui il calore uccideva uomini e cavalli.
— L’elezione del nuovo Gran Khan porterà la divisione fra i Mongoli — predisse Subotai con mestizia. — Sarà un’ottima scusa per tornare ai vecchi conflitti interni al nostro popolo.
Adesso capivo. L’impero di Alessandro il Grande si era diviso allo stesso modo, coi generali che si combattevano l’un l’altro per mantenere il possesso del territorio da essi stessi conquistato o per sottrarre quello di un vecchio compagno in armi.
— Cos’hai intenzione di fare, mio nobile Subotai? — chiesi.
Il Mongolo vuotò il proprio calice e lo abbassò al proprio fianco. Immediatamente una delle schiave lo riempì fino all’orlo.
— Io non infrangerò le leggi della Yassa — disse. — Non farò mai scorrere sangue mongolo.
— Non volontariamente — commentò uno degli uomini che sedevano intorno a noi.
Subotai annuì, la bocca una linea sottile dipinta in un sofferente sorriso. — Guiderò i miei guerrieri verso occidente, Orion, oltre il fiume che chiami Danubio. È una terra difficile, fredda e coperta di cupe foreste. Ma è sempre meglio che combattere fra noi.
Se Subotai aveva intenzione di marciare sull’Europa, avrebbe sconfitto quella civiltà che iniziava solo in quel momento a scrollarsi di dosso le catene d’ignoranza e barbarie seguite al crollo dell’Impero Romano. Pochi secoli più tardi sarebbe fiorito il Rinascimento, con tutto ciò che esso rappresentava per il sapere e la libertà degli uomini. Ma tale processo non sarebbe certo avvenuto se i Mongoli avessero seminato distruzione da Mosca fino al canale della Manica.
— Mio nobile Subotai — dissi, scandendo le parole — un tempo mi hai chiesto di dire tutto ciò che sapevo di questa terra in cui ora siete accampati e delle terre che si stendono più a ovest.
Parte del vigore che aveva mostrato allora tornò nei suoi occhi.
— Già! E adesso che sei tornato da me, sono ancora più impaziente di apprendere altre notizie sui Franchi, sui Germani e sulle altre popolazioni dell’estremo occidente.
— Ti dirò tutto ciò che so, ma come già sai le loro terre sono fredde e coperte da foreste, e costituiscono un territorio disagevole per un guerriero mongolo.
Subotai tirò un profondo sospiro. — Ma quali altre terre esistono per i miei uomini?
La sua domanda fece affiorare un sorriso sulle mie labbra.
— Conosco un luogo, mio signore, in cui la prateria si stende per quanto un uomo possa cavalcare nel giro di un anno. Un luogo popolato da grossi felini coi denti a sciabola e altri animali ancora più feroci.
Subotai sgranò gli occhi, e i guerrieri intorno a lui si portarono più vicini.
— Pochi uomini popolano quei luoghi, così pochi che è possibile cavalcare per settimane senza incontrarne uno.
— Così non potremo combattere?
— Dovrete combattere, invece — dissi. — È una terra dominata non da uomini, ma da mostri quali nessuno ha mai visto prima d’ora.
— Mostri? — domandò impulsivamente uno dei guerrieri. — Che genere di mostri?
— Ne hai mai visti di persona?
— Hai intenzione di spaventarci con delle frottole, uomo dell’Occidente?
Subotai li fece zittire con un cenno d’impazienza.
— Sono stato laggiù, miei signori, e ho visto di persona quella terra e i mostri che la dominano. Sono spietati, potenti e malvagi.
Passai l’ora successiva descrivendo Set e i suoi cloni shaydiani, nonché i dinosauri che aveva portato con sé dal Mesozoico.
— Gli esseri di cui parli — disse infine Subotai — si direbbero molto simili ai djinn dei Persiani o ai folletti temuti dai popoli delle montagne.
— Sono temibili, questo è certo — dissi. — E posseggono grandi poteri. Ma non sono spettri, né fantasmi. Sono esseri mortali, come voi o me. Io stesso ne ho ucciso qualcuno con poco più che una lancia o un coltello.
Subotai si lasciò sprofondare nuovamente nei suoi cuscini di seta, con aria meditativa. Gli altri continuarono a bere e a porgere i loro boccali in richiesta di altro vino. Bevetti anch’io. E attesi.
Infine, Subotai domandò: — Potresti guidarci in questa terra?
— Certo, mio nobile Subotai.
— Mi piacerebbe vedere questi mostri coi miei stessi occhi.
— Posso portartici.
— Fra quanto tempo? Quanto tempo occorre per compiere questo viaggio?
Improvvisamente compresi di essermi cacciato da solo in una trappola. Trasportando Subotai e gli altri Mongoli indietro nel Neolitico avrei rivelato loro poteri tali da convincerli che fossi uno stregone. I Mongoli non trattavano troppo bene gli stregoni; erano soliti passarli a fil di spada o ucciderli in modi ancor più atroci.
Inoltre, una volta raggiunto il Neolitico, avrebbero potuto benissimo osservare i rettili di Set e concludere che si trattava di creature soprannaturali. Sebbene i Mongoli non temessero alcun essere umano sulla terra, la vista degli shaydiani avrebbe potuto terrorizzarli.
— Mio nobile Subotai — risposi prudentemente — la terra di cui parlo non può essere raggiunta a dorso di cavallo. Potrei guidarvi domattina stessa, se lo desiderate, ma il viaggio potrebbe apparirvi piuttosto strano.
Il Mongolo mi guardò di sbieco. — Sii più preciso, Orion.
Gli altri si sporsero in avanti, più incuriositi che preoccupati.
— Sapete che vengo da una terra lontana — dissi.
— Da oltre il mare che si stende fino al cielo — disse Subotai, citando ciò che gli avevo detto anni prima.
— Già — confermai. — Nella mia terra la gente è solita viaggiare in modi piuttosto strani. Non hanno bisogno di cavalli. Possono valicare le montagne e attraversare i mari in un batter d’occhio.
— Stregoneria! — commentò con asprezza uno dei guerrieri.
— No — risposi. — Soltanto un modo per viaggiare più velocemente.
— Come i tappeti magici di cui narrano i cantastorie di Bagdad? — domandò Subotai.
Afferrai al volo quell’idea. — Infatti, mio signore, qualcosa di molto simile.
Subotai inarcò un sopracciglio.
— Ho sempre pensato che simili racconti non fossero altro che favole per bambini.
Chinando leggermente il capo in segno di umiltà, risposi: — Le favole talvolta possono tramutarsi in realtà, mio signore. Tu stesso hai compiuto imprese che sarebbero sembrate inverosimili ai vostri antenati.
Il generale mongolo emise nuovamente quel suono simile a un sospiro. Gli altri rimasero in silenzio.
— Molto bene — disse Subotai. — Domattina mi condurrai in quella strana terra che hai descritto. La mia guardia personale ci accompagnerà.
— Quanti uomini verranno con noi? — domandai.
Subotai abbozzò un sorriso. — Circa un migliaio. Tutti con armi e cavalli.
Il guerriero seduto al suo fianco sinistro disse, senza intenzioni umoristiche: — Avrai bisogno di un tappeto molto grande, Orion.
Gli altri scoppiarono a ridere. Subotai sorrise, quindi, leggendo la sorpresa sul mio volto, sbottò in una sonora risata. Ridevano di me. Gli altri guerrieri si rotolavano sui loro cuscini, sbellicandosi fino alle lacrime. Anch’io presi a ridere a mia volta. I Mongoli non ridono degli stregoni e delle loro pratiche magiche. Perciò non mi temevano. E finché non mi avessero temuto, non avrebbero cercato di pugnalarmi alle spalle.
Uno dei veterani al seguito di Subotai mi guidò verso uno stallo nel coro della chiesa in cui erano stati sistemati un certo numero di coperte e di cuscini così da formare un giaciglio. Il mio sonno fu profondo e privo di sogni.
Il mattino seguente il sole splendeva malato attraverso brandelli di nuvole grigie. La pioggia era cessata, ma le strade di Kiev erano torrenti di fango grigiastro e viscoso.
Il furiere di Subotai aveva passato la notte a rovistare tra le prede di guerra in cerca di una veste che potesse calzarmi. Evidentemente, nulla che fosse stato confezionato per un Mongolo mi andava bene.
Scesi verso la navata della chiesa sconsacrata, vestito di una maglia di cotta, pantaloni di pelle e stivali un po’ troppo aderenti ma caldi. Al mio fianco pendeva una scimitarra ricurva d’acciaio di Damasco, con l’elsa scintillante di pietre preziose. Il vecchio, fedele pugnale donatomi da Odisseo in persona era nascosto nella mia cintura.
Uno schiavo dai capelli rossi mi guidò al di fuori della chiesa, dove un paio di guerrieri mongoli attendevano sui loro pony. Reggevano per le redini un altro cavallo, un po’ più grande degli altri due, che doveva essere destinato a me. Senza pronunciare una sola parola cavalcammo attraverso le strade coperte di fango, oltrepassando il portale che avevo varcato la notte precedente.
Al di là delle mura della città attendeva la guardia personale di Subotai, un migliaio di coraggiosi guerrieri che avevano battuto tutti gli eserciti schieratisi contro di loro dalla Grande Muraglia Cinese alle rive del Danubio. A cavallo di animali piccoli ma robusti, disposti in perfetta formazione militare, ogni guerriero reggeva per le redini due o tre cavalli di scorta carichi di tutto l’equipaggiamento di cui poteva aver bisogno.
Alla testa della formazione, il magnifico stallone bianco di Subotai pestava il terreno con l’impazienza che sicuramente doveva provare anche il generale.
— Orion! — mi chiamò questi mentre mi avvicinavo a lui. — Siamo pronti per partire.
Erano un ordine e una sfida insieme. Sapevo di dover trasportare l’intera massa di quell’esercito attraverso lo spaziotempo, ma non volevo farlo bruscamente com’ero solito.
Così, con teatralità, osservai la debole luce del sole con gli occhi socchiusi, mi piegai sulla sella scricchiolante e feci un cenno in direzione nord.
— Da quella parte, mio nobile Subotai.
Il generale proruppe in un ordine gutturale rivolto al guerriero che cavalcava al suo fianco e l’intera formazione girò su se stessa, seguendoci a passo di trotto.
Li guidai verso le scure foreste il cui margine si stendeva appena a mezzo chilometro dalle mura della città. Concentrandomi con notevole intensità, pronunciai in silenzio una preghiera d’aiuto rivolta ad Anya mentre cercavo di focalizzare tutta l’energia di cui potessi disporre sul balzo spaziotemporale.
Una tenue nebbia grigia si alzò dal terreno avvolgendoci fra le sue spire gelide. Le nostre cavalcature avanzavano lentamente, Subotai al mio fianco, le sue guardie del corpo dietro di me, sufficientemente vicine da farmi a pezzi al primo movimento sospetto. La nebbia si infittì, smorzando l’udito oltre che la vista. Tutto ciò che riuscivo a udire era l’acciottolio sordo degli zoccoli sul terreno, lo sbuffo di un cavallo, il tintinnio dell’elsa di una spada contro una fibbia di ferro.
Ignorai qualsiasi distrazione. Ignorai persino lo stesso Subotai mentre raccoglievo tutte le mie forze per trasportare l’intero esercito attraverso lo spaziotempo. Avvertii l’ormai familiare sensazione di freddo intenso, che scomparve quasi immediatamente.
Mi accorsi di aver tenuto gli occhi chiusi. Quando li riaprii eravamo ancora in un bosco. Ma la nebbia si era dissolta. Il terreno sotto di noi era asciutto. La luce del sole che filtrava attraverso le fitte fronde degli alberi era intensa e luminosa.
Cavalcammo tra i boschi di Paradiso, diretti verso il limitare nord della foresta. Il periodo era il Neolitico. Eravamo nel tempo e nel luogo in cui Set aveva stabilito la propria dimora per cancellare dalla Terra il genere umano nel suo periodo di maggiore vulnerabilità, per vendicarsi di me e dei Creatori che avevano distrutto il suo pianeta natale, per impadronirsi della Terra e farla sua per l’eternità.
Rivolsi la mia attenzione a Subotai. Cavalcava il suo pony con aria tranquilla e volto impassibile. Ma i suoi occhi saettavano d’ogni dove. Sapeva di non essere più nella terra fredda e umida dei Moscoviti. Il sole era caldo persino sotto le fronde di quegli alberi maestosi. Il generale analizzava ogni pianta, ogni roccia, ogni minuscolo animaletto che fuggiva nel sottobosco. Tracciava nella sua mente una mappa minuziosa di quella terra a lui completamente aliena.
Infine mi chiese: — Hai detto che non ci sono altri uomini, qui?
— Qualche tribù dispersa qua e là, mio signore. Ma sono tutte deboli, e non molto numerose. Non posseggono armi a eccezione di rozze lance di legno e archi che non raggiungono nemmeno lontanamente la gittata degli archi mongoli.
— E poche donne, quindi?
— Piuttosto poche, temo.
Il Mongolo emise un grugnito. — E i mostri? Di cosa sono armati?
— Usano grandi rettili e li fanno combattere ai loro ordini… draghi più grandi di dieci cavalli, con micidiali artigli e zanne impietose.
— Animali — borbottò Subotai.
— Animali controllati dalla mente dei loro padroni — lo corressi — in grado di combattere con coraggio e intelligenza.
A quella precisazione, Subotai non aggiunse parola.
Per gran parte della giornata continuammo ad avanzare nella foresta; i guerrieri mongoli dietro di noi scivolavano tra gli alberi, silenziosi come spettri. Non ci fermammo per mangiare; consumammo carne secca e bevemmo acqua senza smontare mai di sella.
Il sole era quasi sceso dietro l’orizzonte quando raggiungemmo il limitare della foresta, ai margini dell’interminabile mare d’erba che si stendeva a vista d’occhio.
Subotai fece un sorriso. Spinse il proprio pony fuori dal riparo degli alberi e avanzò un centinaio di metri lungo la pianura.
— Per quanto si stende questa terra? — domandò.
Compiendo rapidi calcoli mentali, urlai in risposta: — Più o meno come la distanza fra Bagdad e Karakorum.
Il generale mongolo lanciò un grido selvaggio e spronò al galoppo la propria cavalcatura. Le sue guardie del corpo, colte di sorpresa, partirono a passo di carica dietro di lui, lasciandomi solo sulla mia sella a bearmi dell’inusuale vista di un gruppo di guerrieri mongoli schiamazzanti per la gioia come bambini.
Poi vidi uno pterosauro veleggiare contro il cielo azzurro e luminoso sopra di noi.
— Bentornato, Orion — la fredda voce di Set risuonò nella mia mente. — Vedo che hai portato con te altre scimmie urlanti per infastidirmi. Bene. Massacrarle sarà per me una vera gioia.
Diedi un giro di vite ai miei pensieri. Meno informazioni Set riusciva a leggervi sull’identità di quegli uomini, meglio sarebbe stato. Dovevo combatterlo nel luogo e nel tempo che preferiva, ma qualsiasi elemento di sorpresa sul quale potessi fare affidamento era per me d’importanza vitale.
Subotai riportò il proprio cavallo a passo di trotto dopo circa mezz’ora di galoppo sfrenato; il suo volto normalmente aspro e duro era illuminato da un ampio sorriso.
— Mi hai consigliato bene, Orion. Questa terra è simile al Gobi in primavera.
— È così in ogni stagione — dissi. Nel giro di qualche migliaio d’anni sarebbe diventato il più arido deserto sulla Terra, quando i ghiacci che in quell’epoca coprivano l’Europa si sarebbero ritirati e le piogge sarebbero scomparse verso nord insieme a essi. Ma per quel momento, per tutta la vita di Subotai, dei suoi figli e dei figli dei suoi figli, l’erba sarebbe rimasta verde e abbondante.
— Dobbiamo portare qui il resto dell’esercito, e le nostre famiglie con le loro greggi — disse Subotai in tono entusiastico. — Allora saremo in grado di fronteggiare i tuoi demoni e i tuoi draghi.
Stavo per dirmi d’accordo con lui quando notai all’orizzonte la goffa figura di un sauropode che avanzava sulle quattro zampe.
Indicando in quella direzione, dissi: — Ecco una di quelle bestie. Non è uno dei draghi da combattimento, ma potrebbe essere pericoloso.
Subotai spronò immediatamente il suo cavallo alla carica contro il sauropode. Una dozzina di uomini della sua guardia partirono alla carica dietro di lui. Io li seguii a ruota, e insieme ci avventammo contro il dinosauro che si allontanava con la lentezza dettata dalla sua mole. Mi abbandonai alla piacevole sensazione del vento sul mio volto e del movimento dei muscoli del mio pony; era una sensazione esilarante.
Mentre ci avvicinavamo al sauropode, la sua testa girò sul suo lungo collo da serpente per guardare verso di noi. Compresi che Set usava quell’animale come esploratore, esaminandoci attraverso i suoi occhi. Potevo sentirlo sibilare nel suo equivalente di una risata divertita.
L’animale avanzò barcollando verso un leggero pendio, poco più di un poggio erboso su cui crescevano rovi carichi di bacche.
— Fate attenzione! — urlai a Subotai superando il frastuono degli zoccoli. — Potrebbero essercene altri.
Il generale mongolo stava già impugnando l’arco ricurvo che aveva tenuto sulla schiena, reggendo le redini fra i denti. Gli altri guerrieri avevano già incoccato le frecce ai loro archi senza rallentare minimamente la marcia.
Nutrivo il forte sospetto che fra quei cespugli e dietro l’altura si nascondessero alcuni shaydiani, insieme ai loro draghi. Spronai il mio cavallo a un’andatura più veloce nel tentativo di raggiungere l’impetuoso Subotai.
Il sauropode raggiunse la base della collinetta ma, invece di risalirla o di aggirarla, si voltò ad affrontarci. Lanciò un fischio sibilante e si sollevò sulle zampe posteriori, il suo capo a più di dodici metri sopra di noi, gli artigli delle zampe anteriori scintillando minacciosi alla luce del sole.
Subotai scoccò una freccia che colpì l’animale in pieno petto. Il sauro strillò e si diresse verso di lui. Il pony di Subotai, spaventato, s’impennò. Chiunque altro sarebbe stato sbalzato a terra ma Subotai, praticamente nato a dorso di cavallo, riuscì a rimanere in sella.
Una dozzina di frecce volò in direzione del mostro colpendone il petto, il ventre, il collo. Ero sufficientemente vicino a esso da udire il tonfo sordo prodotto dai dardi che penetravano fra le sue squame. La spada nella mano, diressi il mio cavallo al fianco di Subotai, pronto a proteggerlo mentre riprendeva il controllo della sua cavalcatura.
Fu allora che scattò la trappola. Da entrambi i lati del piccolo rilievo balzarono fuori una mezza dozzina di draghi da combattimento, guidati da shaydiani sistemati sulle loro schiene. A quella vista tutti i cavalli si abbandonarono al terrore. Molti guerrieri mongoli caddero a terra. Il mio cavallo indietreggiò scalciando in aria, cercando disperatamente di allontanarsi dai denti aguzzi e dagli artigli di quei mostri feroci.
Controllai mentalmente la mia cavalcatura, cancellando l’immagine di quei demoni dalla sua mente mentre la spronavo ad avanzare verso il più vicino fra i carnosauri. Il mio unico pensiero era quello di proteggere Subotai. Già alcuni draghi stavano schiacciando tra le fauci alcuni fra gli uomini caduti di sella, fra grida umane più alte del ringhiare sibilante dei draghi.
Dietro di me si alzò un poderoso ruggito simile a quello di un leone gigantesco, e il terreno prese a tuonare come per lo scalpitìo di migliaia di zoccoli. L’intera guardia di Subotai era uscita alla carica dai boschi, contro i mostri che minacciavano il loro signore.
I miei sensi entrarono in iper-velocità mentre dirigevo il mio povero pony terrorizzato contro le zanne del carnosauro più vicino. Vidi bolle di saliva formarsi fra i suoi denti a sciabola, vidi i suoi sottili occhi da rettile spostarsi da Subotai verso di me, e lo shaydiano sul suo dorso fare lo stesso.
Il carnosauro abbassò verso di me una delle sue micidiali zampe artigliate. Mi lasciai scivolare di sella e caddi a terra, la spada ben salda nella mano. Gli artigli del carnosauro sollevarono letteralmente da terra il mio pony.
Vidi tutto ciò avvenire con estrema lentezza, come in un sogno. Prima che il mostro avesse finito di uccidere il mio cavallo, scivolai fra le sue zampe posteriori, immergendo la scimitarra nelle sue viscere con ogni grammo della mia forza.
Vidi lo shaydiano cadere dalla schiena del colosso con una freccia nel petto. Prima che riuscisse a colpire il suolo, mi guardai alle spalle e vidi Subotai con un’altra freccia già incoccata nel proprio arco, reggendo le redini coi denti, le labbra contratte in quello che avrebbe potuto essere tanto un sogghigno quanto una smorfia.
Il carnosauro cominciò a vacillare sopra di me, e dovetti allontanarmi velocemente mentre il mostro cadeva con un tonfo tale da far tremare violentemente il terreno. La mia spada era ancora conficcata profondamente nel suo ventre, così balzai presso i resti insanguinati di uno dei Mongoli e raccolsi l’arco che aveva lasciato cadere nell’ultimo istante della sua vita.
Ormai anche il resto dell’esercito di Subotai era a portata di frecce, e tutti i dinosauri erano sottoposti a un attacco spietato. I guerrieri erano coraggiosi, ma non avventati. Il loro obiettivo primario era stato quello di salvare il loro comandante Subotai. Una volta constatato che questi era fuori pericolo, si erano portati nuovamente a una certa distanza dal nemico, attaccandolo con le frecce.
Velocemente, metodicamente, uccisero tutti gli shaydiani che avevano cavalcato i draghi. Troppo grossi per venire seriamente feriti dalle frecce, i dinosauri avanzarono allora verso i loro persecutori, che si allontanarono al galoppo a distanza di sicurezza prima di tornare all’attacco. Era come una corrida, con quegli enormi bestioni sanguinanti sempre all’attacco fino a quando il loro sangue si riversava a pozze fra l’erba.
Durante quell’attacco balzai in sella a uno dei cavalli rimasti privi di cavaliere e seguii Subotai che faceva ritorno verso i suoi uomini. Non aveva mai allentato la presa sul suo arco, e continuava a scagliare frecce anche durante la fuga, voltandosi in sella mentre il pony galoppava verso il resto della compagnia.
I poveri rettili, abbondantemente superati di numero, cercarono di fuggire, ma i Mongoli non manifestarono maggiore pietà che timore verso di essi. Partirono al loro inseguimento, mettendo a segno altre frecce fino a costringerli a rallentare, sbuffando e sibilando, e ad affrontarli.
Allora vibrarono il colpo di grazia: i lancieri caricarono i carnosauri feriti sui loro piccoli cavalli muscolosi, una dozzina di San Giorgio dalla pelle scura che infilzarono altrettanti draghi in carne e ossa.
Mi diressi verso il dinosauro che avevo abbattuto per riprendere la spada, seguito da Subotai, che smontò da cavallo per esaminare i corpi degli shaydiani uccisi.
— Sono molto simili ai folletti di cui parlano i popoli della montagna — disse.
Abbassai a mia volta lo sguardo sul cadavere di uno dei cloni di Set. I suoi occhi da rettile erano ancora aperti, con sguardo fisso e vitreo. Le sue squame rossastre erano sporche di sangue, e tre frecce fuoriuscivano dalle sue carni. Le sue zampe erano ormai immobilizzate per sempre, ma ancora avevano un aspetto minaccioso.
— Non sono umani — dissi — ma sono mortali. Muoiono proprio come noi, e anche il loro sangue è rosso.
Subotai rimase a fissarmi per un momento, quindi si diresse verso il luogo in cui i suoi uomini stavano disponendo uno di fianco all’altro i corpi dei mongoli caduti.
— Cinque morti — borbottò.
— Quanti draghi possiede il nemico?
— Centinaia, a dir poco — risposi, osservando i guerrieri mongoli raccogliere rami dai cespugli intorno alla collinetta, per improvvisare una pira funeraria.
Rammentando il pozzo nucleare di cui Set disponeva per compiere i propri balzi attraverso lo spaziotempo, aggiunsi: — E probabilmente è in grado di reclutarne altri per rimpiazzare le proprie perdite.
Subotai annuì. — E la sua città è fortificata?
— Sì. Le mura sono più alte di cinque uomini uno sulle spalle dell’altro.
— Questa schermaglia — disse Subotai — era un tentativo da parte del comandante nemico di determinare quanti siamo e come combattiamo. Quando nessuno dei suoi esploratori farà ritorno, avrà la risposta alla seconda domanda, ma non alla prima.
Chinai il capo. Possedeva grandi qualità tattiche, ma non poteva sapere che Set aveva assistito a quella battaglia attraverso gli occhi dei suoi stessi cloni.
— Devi tornare indietro e portare qui il resto del mio esercito — decise Subotai. — E in fretta, Orion, prima che il nemico possa capire che siamo soltanto in mille… meno cinque.
— Lo farò questa notte stessa, mio nobile Subotai.
— Bene — borbottò.
Stavo per allontanarmi quando il generale mongolo si alzò in piedi e mi strinse una mano sulla spalla. — Ti ho visto caricare quella bestia, quando il mio cavallo era in difficoltà. Mi hai protetto proprio mentre ero più vulnerabile. Sei coraggioso, Orion, amico mio.
— Sembrava la cosa più saggia da farsi, mio signore.
Subotai sorrise. Quel possente Mongolo dalla barba grigia, i capelli arruffati, il volto madido per il sudore della battaglia, quell’uomo che aveva conquistato città e ucciso uomini a migliaia, mi sorrise con aria paterna.
— Tanta saggezza e coraggio meritano una ricompensa. Cosa vorresti da me, uomo dell’Occidente?
— Mi hai già ricompensato, mio signore.
I suoi occhi scuri si dilatarono. — Davvero? E come?
— Mi hai chiamato amico. È una ricompensa più che generosa.
Subotai accennò un sorriso di compiacimento, quindi annuì e mi condusse verso la tenda che la sua guardia aveva montato per lui. Mentre il sole scendeva basso sull’orizzonte, ci dividemmo un pasto a base di carne secca e latte di asina fermentato, quindi sedemmo l’uno di fianco all’altro mentre la pira funeraria veniva accesa e i corpi dei Mongoli caduti salivano verso la loro dimora celeste.
Rimasi con lo sguardo fisso sul fuoco, conscio del fatto che la dimora degli dèi non era che una sontuosa città fantasma nel remoto futuro, abbandonato dagli stessi dèi per salvare la propria vita. Non c’era più nessuno a proteggerci o a guidarci. Non potevamo contare su altri che noi stessi.
— Adesso — disse Subotai, mentre le ultime ceneri della pira ardevano contro l’oscurità della notte — portami il resto del mio esercito.
M’inchinai e mi allontanai di circa un miglio dall’accampamento. Trasportare l’intero esercito e tutti i familiari dei guerrieri che vi facevano parte non sarebbe stato facile. Forse, senza l’aiuto di Anya o degli altri Creatori, non avrei potuto farcela. Ma se non altro, potevo tentare.
Chiusi gli occhi e mi concentrai sulla città di capanne di legno e fango conquistata dai Mongoli. Non accadde nulla.
Mi concentrai di più. Ancora nessun risultato.
Sollevando il capo, osservai le stelle nel cielo. Sheol brillava debolmente, semplice riflesso della sua potenza originaria. Allora compresi che Set aveva bloccato la mia via d’accesso al continuum così come aveva fatto con Anya la prima volta che eravamo giunti in quel luogo.
Mi aveva preso in trappola insieme a Subotai e a un migliaio di guerrieri.
Udii la sua risata sibilare nella mia mente. Avevo condotto il generale mongolo in trappola. Set aveva intenzione di tenerci lì e ucciderci fino all’ultimo uomo.
Non potevo affrontare Subotai. Mi aveva seguito sulla parola, fiducioso che lo avrei condotto in una terra dove lui e la sua gente, una volta sconfitti gli alieni, avrebbero potuto vivere in pace. Si era fidato di me, e mi aveva chiamato amico. Come potevo dirgli che l’avevo fatto cadere in una trappola mortale?
Perché questo era ciò che avevo fatto. Non avrei più potuto guardare il volto indurito dalle battaglie del mio generale mongolo finché non avessi risolto la situazione o fossi morto nel tentativo.
Da Set avevo imparato una cosa di estrema importanza. L’energia è la chiave di qualsiasi potere. Distruggi la sua fonte d’energia e il tuo nemico non è più una minaccia. La fonte d’energia di Set era il pozzo nucleare che scendeva nel cuore fuso della Terra. Dovevo raggiungerlo e, in qualche modo, riuscire a distruggerlo.
Il pozzo era all’interno della fortezza di Set, a circa una giornata di marcia dal luogo in cui le truppe di Subotai si erano accampate per la notte. Dovevo recarmi laggiù, e alla svelta, prima che Set vibrasse un attacco in grado di sterminare tutti i Mongoli.
Ma io ero già tagliato fuori dalla mia fonte d’energia. Set aveva posto una barriera fra me e il cosmo, impedendomi di utilizzare l’energia proveniente dal sole e dalle stelle. Ma questa schermatura era soltanto una bolla che copriva la terra immediatamente intorno a me, o avvolgeva piuttosto l’intero pianeta in un sudario che bloccava tutta l’energia emanata dalle stelle?
Non avrebbe fatto nessuna differenza. Comunque ero tagliato fuori dalla fonte d’energia che mi avrebbe permesso di affrontare Set. Non c’era che una cosa da fare: raggiungere il suo pozzo nucleare e distruggerlo, o usarlo contro di lui.
Comunque non potevo fare nulla nel giro di una notte. Impadronitomi di un cavallo mongolo, partii al galoppo in direzione nord-est, verso la fortezza di Set. Potevo solo sperare di raggiungerla prima che il demonio potesse sferrare un attacco decisivo contro Subotai.
Il sole si levò nella nebbia, debole, pallido spettro della sua stessa gloria. Lo schermo di Set doveva essere incredibilmente forte. Pterosauri attraversavano zigzagando il cielo grigio e stinto. Era impossibile che non riuscissero a scorgermi, solo in quell’immensa distesa d’erba.
Mi domandai cosa Subotai pensasse di me. Probabilmente non aveva ancora cominciato a preoccuparsi, immaginando che fossi tornato in Moscaria e che stessi compiendo i passi necessari a portare il resto dell’esercito presso di lui. Non potevo sopportare che pensasse a me come a un traditore. Non temevo la sua rabbia o la sua punizione, ma mi sentivo infelice al pensiero di aver tradito la sua fiducia.
Nonostante l’aspetto malato del sole, l’aria si fece piuttosto calda. Lo schermo di Set era selettivo, e permetteva ai raggi di maggior lunghezza d’onda di raggiungere la terra e continuare a riscaldarla. Se avessi avuto strumenti adatti, mi avrebbero confermato che nessuna lunghezza d’onda ad alta energia era in grado di penetrare quella barriera. Né poteva farlo alcuna particella cosmica portatrice di energia: ne ero certo.
Più tardi, quel pomeriggio, un trio di shaydiani a cavallo di altrettanti draghi uscirono dalla nebbia prodotta dal calore della terra, diretti verso di me. Gli pterosauri avevano fatto il loro lavoro. Stavo per essere ucciso, o catturato e trascinato nuovamente al cospetto di Set.
Per la prima volta da quando li avevo mai visti, gli shaydiani impugnavano armi. Ognuno di loro portava sulla schiena una sbarra di metallo lucente curiosamente contorta. Quando mi videro, i rettili si tolsero le armi dalle spalle e, reggendole saldamente tra le mani come fucili, spinsero i carnosauri al trotto.
Scesi dal cavallo e lo feci allontanare. Avevo già sacrificato un pony, e non avevo nessuna intenzione di ripetere quell’errore. Curiosamente, pensai di aver acquisito una parte del rispetto che i Mongoli nutrivano per i cavalli.
Mentre quei demoni si facevano più vicini, misi a fuoco il mio pensiero sul più vicino dei tre, penetrando per un istante nella sua mente. Quei fucili, con le loro bolle di metallo e le loro bocche lunghe e sottili, proiettavano raggi di fuoco, come piccoli lanciafiamme. Set sapeva di non poter contare soltanto su zanne e artigli in una battaglia contro i Mongoli; aveva bisogno di armi. E cosa c’era di più terrificante di un lanciafiamme, soprattutto se imbracciato da un rettile che ai mongoli poteva apparire simile a un demone?
In quel fugace momento durante il quale riuscii a penetrare nella mente dello shaydiano, riuscii a leggere qualcos’altro: non avevano ordine di prendermi vivo. Set non aveva intenzione di concedermi un’altra possibilità. Quei tre suoi cloni erano venuti per uccidermi.
I miei sensi entrarono immediatamente in ipervelocità, e la scena rallentò come se il tempo si fosse dilatato. I tre shaydiani sollevarono a spalla i loro fucili, puntando i loro acutissimi occhi su di me. Vidi le loro dita artigliate fare pressione sui grilletti ricurvi.
Mentre miravano, dovettero allentare per un breve istante la loro attenzione alla guida delle proprie cavalcature. I feroci carnosauri, diretti mentalmente dai loro cavalieri, avanzavano a passo di trotto verso di me. Ma le loro menti rimasero per un momento prive del controllo degli shaydiani.
Disperatamente, scagliai un dardo d’energia mentale nel cervello dei tre dinosauri, i quali strillarono e s’impennarono in tutta la loro altezza, gettando a terra due dei cavalieri e costringendo il terzo a lasciar cadere la propria arma per aggrapparsi con ambo le mani alla schiena del proprio animale.
Osservai quella scena come al rallentatore. Mentre i due shaydiani stavano ancora cadendo a terra, mi scaraventai con tutte le forze verso il fucile che galleggiava a mezz’aria. Lo afferrai prima che potesse cadere fra l’erba. Serrai le dita intorno a esso nello stesso istante in cui udivo il tonfo sordo dei due cavalieri che colpivano il terreno.
I dinosauri continuavano a sibilare; i due che si erano liberati dei loro cavalieri cominciarono ad allontanarsi. Il terzo, invece, nuovamente sotto il controllo mentale del suo padrone, avanzava dritto su di me.
Schivai una zampa che mi avrebbe schiacciato impietosamente sotto il suo peso e feci fuoco contro l’umanoide che la controllava. Il torrente di fiamma che fuoriuscì dal fucile lo tagliò in due all’altezza della vita. Mentre quel corpo straziato cadeva dalla schiena del dinosauro, l’animale si girò verso di me, abbassando l’enorme capo e spalancando una bocca coperta di denti dall’orlo seghettato e grandi come la mia scimitarra.
Premetti il grilletto con tutte le forze mentre mi spostavo di lato. La fiamma si riversò dritta nella sua gola. Il mostro colpì il terreno con un potente tonfo, facendo letteralmente tremare il suolo e urlando come una locomotiva a vapore.
Sollevai lo sguardo. Gli altri due shaydiani cercavano di recuperare i fucili persi nella caduta. Feci fuoco verso il più vicino di loro, che cadde a terra privo di vita. Ma quando mi voltai verso il terzo, il mio fucile non diede alcuna risposta. Era scarico.
Lo shaydiano aveva raggiunto il suo fucile e lo stava raccogliendo tra l’erba. Gettai la mia arma ormai inutile contro di lui e scattai in avanti, con la scimitarra sguainata. Il fucile lo colpì alla testa come una mazza, facendolo cadere a terra. Prima che riuscisse nuovamente a sollevare la sua arma contro di me, gli ero già abbastanza vicino da calciargliela via di mano.
Lo shaydiano mi guardò con odio attraverso i suoi rossi occhi da rettile e si rimise in piedi. Avanzò sibilando verso di me, protendendo gli artigli. Lo colpii con la scimitarra; lui riuscì a bloccare il colpo con il braccio, ma io fui in grado di portare la lama sotto di esso e di colpire. La punta della spada si fece strada attraverso le scaglie sul suo petto e penetrò profondamente fra le sue carni. Con un ultimo sibilo d’agonia mortale il rettile cadde a terra, coperto di sangue.
Immediatamente proiettai un’immagine mentale in direzione di Set. Gli inviai una scena in cui erano raffigurati due dei suoi cloni morti fra l’erba insanguinata ma il terzo in piedi, presso il mio corpo bruciato. Con tutta la forza di volontà di cui disponevo, presentai mentalmente me stesso come uno dei cloni di Set, e il corpo senza vita ai miei piedi come il mio.
— Hai agito bene, figlio mio — rispose la voce telepatica di Set. — Adesso ritorna con il suo corpo, che lo devo esaminare.
Richiamai mentalmente uno dei carnosauri e montai sul suo dorso per dirigermi verso la fortezza presso il Nilo. Set aveva dunque creduto davvero al messaggio che gli avevo inviato? O stava semplicemente attirandomi verso la sua fortezza di modo da poter disporre di me con maggior facilità?
Non c’era che un modo per scoprirlo. Diressi il dinosauro verso il lago, concentrando intensamente la mia immagine fasulla di modo che persino gli pterosauri di vedetta nel cielo “vedessero” ciò che volevo mostrar loro e comunicassero a Set quell’immagine.
Quando raggiunsi il giardino presso il Nilo era notte fonda. La fortezza si ergeva a breve distanza da lì. L’avrei raggiunta al buio, il che avrebbe lavorato a mio vantaggio. Sapevo che non avrei potuto mantenere il mio travestimento una volta penetrato all’interno delle mura di Set… se anche era caduto nel mio tranello.
Il cielo era completamente scuro e privo di stelle; scuro come il più profondo dei pozzi dell’inferno, mentre dirigevo il mio carnosauro verso le mura ricurve della fortezza. Il debole chiarore fosforescente delle pareti stesse era l’unica fonte di luce in quella notte, resa incredibilmente scura dal campo energetico di Set. Non si sentiva un solo insetto ronzare; né gracidava una sola rana, o urlava una sola civetta. Le ombre erano silenziose quanto i rettili di Set. La notte era paurosamente, innaturalmente quieta, come se Set fosse stato in grado di controllare mentalmente persino il vento e il flusso del Nilo.
Arrampicatomi lungo la schiena della mia cavalcatura fino alla sua testa, mi sporsi più in alto possibile sul muro. Non ne raggiungevo la cima, ma fortunatamente la sua superficie non era del tutto liscia. Come un guscio d’uovo, era leggermente porosa. Non molto, ma forse quanto bastava per permettermi di scalarla. E la parete s’incurvava verso l’interno. Liberatomi degli scarponi moscoviti che avevo calzato, mi arrampicai a piedi nudi lungo la superficie ricurva e scivolosa mentre ordinavo mentalmente al mio dinosauro di proseguire da solo verso il cancello.
Parecchie volte la mia presa precaria sulla parete rischiò di venire meno, mettendomi a rischio di cadere a terra. Dovetti impedire alle mani e ai piedi di sudare e diventare scivolosi. Infine, dopo quella che sembrò un’ora di ascesa dolorosamente lenta, raggiunsi la cima della parete e mi appiattii sul ventre contro la sua sommità.
Potevo percepire il ronzio dell’energia all’interno dell’edificio. Il materiale simile a guscio d’uovo che lo componeva era caldo, non per i raggi solari che l’avevano irradiato durante il giorno ma per l’energia che pulsava sotto di esso. Dovevo raggiungere la fonte di quell’energia, il pozzo nucleare che si apriva nel cuore della fortezza.
Provai la sensazione di non essere solo sulla cima della parete. Nell’oscurità non riuscii a scorgere nulla davanti a me. Quando mi voltai per guardarmi indietro, le viscere mi si contorsero per l’orrore. Uno di quegli enormi serpenti dal morso letale strisciava verso di me con gli occhi rossi e saettanti d’odio implacabile, le fauci spalancate, le zanne gocciolanti veleno.
— Pensavi davvero di potermi ingannare, stupida scimmia? — la voce di Set bruciò cocente dentro di me. — Pensavi davvero che la tua mente scimmiesca potesse avere la meglio sulla mia? Benvenuto nella mia fortezza, Orion. Per l’ultima volta!
Il mio corpo cominciò a funzionare in ipervelocità come mai aveva fatto fino ad allora. Mi rotolai sulla schiena, saltando in piedi con l’agilità di un acrobata, in equilibrio sui talloni mentre il serpente saettava verso di me.
Il suo primo assalto andò a vuoto, perché non mi trovò più dove pensava che fossi. Ma immediatamente il rettile si ritrasse sulle sue spire, pronto ad attaccare nuovamente mentre estraevo la scimitarra dal fodero. L’immenso corpo del serpente era più spesso del mio braccio e lungo non meno di sette metri. Spiccò un altro balzo in avanti.
Questa volta ero pronto. Con un fendente a due mani gli staccai la testa e la vidi cadere lentamente nell’oscurità sottostante. Il suo corpo decapitato mi colpì al petto, inondandomi di sangue e facendomi barcollare all’indietro. Per alcuni lunghi istanti esso si contorse violentemente mentre i miei sensi tornavano alla normalità e il mio respiro si faceva regolare.
— Quanti pensi di poterne affrontare, scimmione? — mi schernì Set. — Posseggo un numero quasi infinito di servitori pronti a obbedire al mio volere. Quanto tempo credi di poter resistere alle mie legioni?
Per un secondo o due rimasi immobile nell’oscurità, senza riuscire a scorgere altro che il debole chiarore in cima alla parete fosforescente curvare verso il basso e sparire nelle tenebre, come un’autostrada debolmente illuminata. Si stavano avvicinando altri serpenti, ne ero certo. E squadroni di shaydiani armati di fucili lanciafiamme, o peggio. Tutti sotto il controllo mentale di Set.
Frugai nella mia memoria per cercare di stabilire esattamente dove mi trovavo rispetto all’ingresso della fortezza. Quindi balzai verso la direzione opposta.
Udii un gran numero di corpi muoversi nel cortile sottostante. Con tutta probabilità, erano i cloni di Set che uscivano allo scoperto per affrontarmi. E poteva disporre anche di draghi, laggiù. E di sauropodi. E di schiavi umani.
Tutti sotto il suo controllo. Ma sarebbe stato in grado di controllarli tutti contemporaneamente?
Raggiunsi il punto in cui ricordavo che si trovava la piattaforma degli pterosauri e feci un balzo nell’oscurità. Atterrai pochi metri più in basso, piombando in mezzo ai rettili alati immersi nel sonno; emisero grandi strida, distendendo le ali artigliate mentre facevo mulinare la spada all’impazzata fra loro per farli volare via.
Con una mano afferrai la zampa di uno di quei volatili nell’istante in cui si librava in aria. Ero di gran lunga troppo pesante per le sue ali, e presto calammo nuovamente verso terra tra le strida e il frullio d’ali dell’animale. Mollai la presa dal mio paracadute vivente non appena scorsi il terreno sotto di me. Atterrai con un pesante tonfo rotolando su me stesso; lo pterosauro scomparve fra le ombre, battendo le ali e strillando come uno spettro.
Confusione. Avevo perso l’elemento sorpresa; in effetti non l’avevo mai posseduto. Ma ero in grado di sollevare una confusione notevole, là nel cortile. Vediamo quanto è fermo il controllo di Set su tutti i suoi servitori, dissi a me stesso.
I carnosauri e i sauropodi pestavano la terra furiosamente nei loro recinti, furibondi per essere stati risvegliati così bruscamente dagli schiamazzi degli pterosauri. Bene! Nella penombra del cortile mi precipitai verso i recinti dei carnosauri, instillando in loro una proiezione mentale di dolore mentre correvo tenendomi nascosto nell’ombra.
Le loro grida erano musica per le mie orecchie. Uno shaydiano uscì dalle tenebre davanti a me stringendo un lanciafiamme fra le mani. Feci volteggiare la scimitarra oltre la spalla e lo colpii fra le costole, aprendolo dal collo al ventre. Con la mano sinistra m’impadronii del suo fucile mentre cadeva.
Rinfoderando la spada insanguinata mi voltai e sparai un proiettile di fuoco contro i recinti dei carnosauri. La cosa li mandò in preda al panico, e gli animali infransero i recinti urlando a squarciagola. Un’altra raffica di fuoco mutò i sauropodi, normalmente miti, in un branco impazzito di bruti i quali, usciti anch’essi dai loro recinti, si riversarono precipitosamente nel cortile.
Avevo causato una confusione decisamente considerevole. Il cortile era in preda al caos, mentre gli shaydiani mi davano la caccia procurando di tenersi il più possibile lontani dalla traiettoria dei dinosauri impazziti, che sbucavano da tutte le direzioni.
Mi precipitai verso la porta oltre la quale erano rinchiusi gli uomini tenuti in schiavitù e l’aprii con un calcio. Al di là di essa il buio era completo, e fra tutte le urla e i rumori che provenivano dall’esterno non sarei stato in grado di udire nemmeno un’orchestra di ottoni. Feci un altro passo e incontrai il vuoto: mi ritrovai a ruzzolare goffamente giù per una ripida rampa di scale immersa nelle tenebre.
Caddi contro un corpo che lanciò un urlo nel buio più totale, allontanandosi quasi immediatamente. Sussurri di uomini nell’oscurità, alcuni impauriti, altri intontiti dal sonno. Quel posto puzzava di sudore ed escrementi. Mi rimisi in piedi tra gli urti e le spinte di molti corpi accalcati contro il mio.
— Venite con me! — comandai, sovrastando il rumore proveniente dall’esterno. — Seguitemi verso la libertà!
Qualcuno accese una scintilla, e una piccola lanterna prese vita. Mi trovavo in una stanza troppo ampia perché la debole fiammella riuscisse a illuminarla tutta. Una folla di volti sudici, emaciati e spauriti mi guardava con occhi rossi, le guance incavate e la pelle segnata dai morsi dei pidocchi e dai colpi di frusta. Stipati insieme come bestie mute in quella specie di ossario, centinaia di uomini e donne batterono le palpebre, incapaci di credere alle mie parole. Non avevo modo di stabilire quanti altri di loro fossero nascosti nell’ombra, al di là del tenue chiarore della lanterna.
— Andiamo! — gridai. — Andiamocene da qui! — Gettai il lanciafiamme verso l’uomo che mi era più vicino. Costui barcollò all’indietro, quindi prese a fissare sbalordito quell’arma fra le sue mani.
— Orion! — gridò una voce giovanile. Qualcuno si aprì la strada fra le ombre, spingendo da parte i propri compagni nell’avanzare verso di me. — Orion, sono io! Chron!
Stentai a riconoscerlo. Sembrava invecchiato di dieci anni. Il suo corpo era estremamente scarno, la sua pelle pallida e malaticcia, gli occhi incavati profondamente in un volto troppo vecchio per la sua età.
— Chron! — gridai.
I suo occhi bordati di rosso erano colmi di lacrime. — Sapevo che saresti venuto. Sapevo che non potevano ucciderti.
— È venuta l’ora di farla finita con questi demoni! — ringhiai. — Andiamo!
Risalii la scalinata, con Chron alle mie spalle. Alcuni altri schiavi ci seguirono a loro volta; quanti non potevo saperlo, né importava granché. Giunto alla cima delle scale, vidi uno shaydiano profilarsi sulla soglia. Gli lanciai la spada dritta nel ventre prima ancora che potesse reagire. Quindi, raccolto il suo fucile, lo porsi a Chron. Adesso ne avevamo due.
Ci riversammo nel cortile disseminato di dinosauri imbizzarriti che facevano letteralmente tremare il terreno col calpestio dei loro pesantissimi piedi. Uno degli uomini dietro di me lanciò una fiammata contro uno shaydiano. Un’altra lingua di fuoco saettò mancandomi di poco per andare a infrangersi contro le mura. Proiettai nelle menti dei dinosauri l’ordine di divorare gli shaydiani; ma sembravano più interessati agli immensi sauropodi, loro prede naturali.
Gli shaydiani non sembrarono comprendere che i loro schiavi umani stavano combattendo per riacquistare la libertà. Guardandomi alle spalle, mi accorsi che soltanto una dozzina di uomini mi avevano seguito lungo i gradini di pietra. Gli altri dovevano essere rimasti nascosti nella loro cella.
Focalizzando tutte le mie energie mentali su uno dei carnosauri lo costrinsi a dirigersi verso di me, sbuffando mentre barcollava sulle possenti zampe posteriori. Gli balzai sul dorso e lo condussi verso le file degli shaydiani, che si stavano riversando nel cortile da un’ampia porta apertasi nella parete ricurva.
I rettili aprirono il fuoco contro la mia cavalcatura. Urlando per l’ira e il dolore, il carnosauro caricò gli shaydiani artigliandoli con le zampe anteriori, schiacciandoli fra le terribili fauci. Scivolai dal dorso del carnosauro che continuava a seminare la distruzione fra i cloni di Set e raccolsi quattro fucili a fiamme caduti ai rettili.
Quindi tornai di corsa verso gli umani che si erano portati contro il muro, rimanendo a bocca aperta e con gli occhi sgranati di fronte a tanta confusione. Porsi loro i fucili.
— Andate verso il cancello esterno! — gridai. — Riconquistate la vostra libertà. — Quindi mi guardai intorno in cerca di un altro carnosauro da guidare.
Il cortile era immerso nel caos più assoluto. I carnosauri azzannavano i sauropodi, i quali si difendevano con la coda e con gli artigli. Qui un sauropode si ergeva sulle zampe posteriori, artigliando un carnosauro con quelle anteriori; là un carnosauro strappava grossi brandelli di carne viva dal collo di un sauropode caduto. La notte era colma di urla e grida; enormi figure agghiaccianti percorrevano il cortile, percuotendone le pareti ricurve con tale violenza da farmi pensare che dovessero crollare.
Altri shaydiani si riversavano da numerose porte, indirizzando le fiammate dei loro fucili contro i dinosauri impazziti. Il piccolo gruppetto di umani aveva compiuto una buona metà del perimetro delle mura, e prima che i cloni di Set potessero accorgersi di quel che stava accadendo, erano già quasi giunti al portale.
Vidi una squadra di venti shaydiani dirigersi di soppiatto lungo il perimetro interno delle mura, in direzione del cancello. Non potevano attraversare il cortile senza rischiare di venire schiacciati dai sauropodi, o attaccati dai carnosauri.
Ma io sì. Mi diressi di corsa verso il cancello schivando quei bruti, fidando che i miei sensi accelerati potessero condurmi sano e salvo attraverso quella pazza mischia. Brandendo la scimitarra, corsi in aiuto degli uomini che avevo guidato verso la libertà.
— Stupida scimmia — udii la voce di Set frammista d’odio. — Anche se non sono in grado di controllare tutti i miei servitori contemporaneamente, posso sempre guidarne un numero sufficiente per finirti.
Il comandante degli shaydiani fermò il suo drappello sollevando una mano e indicò verso di me. Mentre puntavano le armi alla mia altezza indietreggiai disperatamente dietro le enormi zampe di un sauropode, sentendomi come un topolino in mezzo a un’orda di elefanti impazziti.
Cercai di assumere il controllo della mente del sauropode, ma Set giunse prima di me. La piccola testa di quel bestione girò sul suo lungo collo e mi guardò con gli occhi carichi d’odio di Set.
— Ti ucciderò — sibilò nella mia mente. Da qualche parte all’interno della fortezza Set dirigeva le sue truppe contro di me, spietato, instancabile. Forse non era in grado di controllare tutti i suoi animali e i suoi cloni contemporaneamente, ma certo poteva esercitare il proprio controllo su qualsiasi creatura gli fosse venuta utile. Una volta che mi avesse ucciso, avrebbe riportato ordine nel suo regno.
L’immenso bestione cercò di schiacciarmi sotto le zampe, e io dovetti allontanarmi con un balzo. Un dardo di fuoco saettò sfrigolando a poca distanza da me, abbastanza vicino da bruciarmi i peli del braccio. Tornai a nascondermi dietro al sauropode, che girò su se stesso nel tentativo di schiacciarmi. Gli shaydiani, intanto, continuavano a sparare lingue di fuoco che perforavano l’oscurità.
Alla fine alcuni di quei raggi colpirono il dinosauro, che prese a urlare dal dolore. Vidi uno degli schiavi che avevo liberato aprire il fuoco contro il gruppo di shaydiani. Era Chron, che rischiava la propria vita per proteggermi. Sentii il controllo di Set sul sauropode farsi meno saldo per un momento, mentre il mio nemico dirigeva l’attenzione sui propri cloni. Allora mi impadronii della mente dell’animale e lo spronai a caricare il drappello di rettili che si apprestavano ad aprire il fuoco su Chron.
L’enorme dinosauro si lanciò contro la fonte del proprio dolore. Sentii Set impossessarsi nuovamente della mente della bestia, ma ormai era troppo tardi. La sua massa era troppo pesante perché lui potesse costringerlo ad arrestarsi in tempo. I cloni videro due tonnellate di carne scagliarsi verso di loro e cercarono di fuggire, sparando all’impazzata.
L’animale piombò contro il muro in un ultimo impeto di dolore, gridando come un neonato mentre mezza dozzina di lingue di fiamma lo colpivano su entrambi i fianchi.
Lo seguii da vicino, e con un colpo tolsi la vita al primo shaydiano che mi venne a portata di mano. Gli schiavi ribelli attaccarono la parte dello squadrone schierata sul loro stesso lato. Io attaccai l’altra metà armato della mia scimitarra.
Persino muovendomi in ipervelocità non potevo certo ucciderli tutti e sperare di rimanere incolume. La mia spada era un efficientissimo strumento di morte, ma prima che tutti gli shaydiani cadessero a terra senza vita subii alcune ferite al petto e alle gambe.
Mi appoggiai alla parete e scivolai a terra seduto, col petto grondante sangue come una bistecca mal cotta, le gambe coperte di bruciature. Automaticamente bloccai i messaggi di dolore che i nervi urlavano alla mia mente. Strinsi tutti i vasi sanguigni della parte inferiore del mio corpo per evitare di perdere conoscenza.
Nella mia testa udii la risata sibilante di Set e appresi che nel giro di pochi istanti avrebbe inviato altri suoi cloni per finirmi.
Il cortile tremava ancora sotto il peso dei dinosauri. Molto violentemente.
Troppo violentemente, pensai. La terra tremava, vibrava come sotto l’azione di un terremoto.
— Questo è il momento che aspettavo, amore mio. Adesso colpirò il cuore di quel demonio!
Era la voce di Anya nella mia mente.
La terra continuò a tremare, sempre più forte. Le pareti circolari del cortile presero a ondeggiare come un lenzuolo percosso da un forte vento. Tutti i dinosauri si fermarono di colpo, istintivamente, e caricarono furiosamente la porta principale, l’unica che conduceva all’aperto.
Vidi gli schiavi immobili a fianco del portale, impietriti dal terrore mentre i dinosauri lo infrangevano come un guscio d’uovo, riversandosi all’aperto.
Per un istante tutto divenne calmo. Il cortile era coperto dei corpi massicci dei dinosauri morti e dei cadaveri dei cloni di Set. Allora anche gli uomini attraversarono di corsa il portale sfasciato, verso la libertà. Quasi tutti. Alcuni fecero ritorno alle prigioni dov’erano ancora nascosti i loro compagni. Qualche istante più tardi, anche questi ultimi uscirono dal buio della loro cattività e presero a correre verso il mondo al di fuori delle mura.
Chron corse verso di me, ma io gli feci cenno di allontanarsi.
— Va’ via — gridai. — Esci da qui, mettiti in salvo!
— Ma tu…
— Vai! Presto! Non mi accadrà alcun male.
Il giovane esitò, poi con riluttanza si voltò verso il portale e seguì gli altri all’esterno, verso la salvezza.
Per tutto quel tempo la terra continuò a tremare, poi si fermò, quindi riprese e si acquietò di nuovo. Infine il cortile si svuotò di qualsiasi essere vivente all’infuori di me. La terra smise definitivamente di tremare. Cadde il silenzio. E le stelle ripresero a brillare in un cielo privo di nuvole.
— Anya — chiamai a voce alta. — Sei qui?
— Lo sarò presto, amore mio. Presto.
Allora compresi ciò che aveva fatto. Mentre gli altri Creatori avevano assunto le loro forme naturali di sfere d’energia pura disperdendosi tra le stelle, Anya si era nascosta in attesa nelle profondità della Terra.
Mi domandai se il tempo scorreva allo stesso modo per una dea come accadeva per un uomo. Si era proiettata in quel punto dello spaziotempo attendendo che Set allentasse la propria vigilanza sul pozzo nucleare, così da permetterle di assumerne il controllo. Il mio attacco improvvisato nel cortile le aveva fornito quella possibilità. Mentre Set concentrava tutta la propria attenzione su di me, Anya aveva assunto il controllo dell’energia che ribolliva nel cuore fuso della Terra.
Lo stesso Set mi aveva mostrato come persino i Creatori potessero essere distrutti, una volta privati della loro fonte d’energia. Anya aveva imparato la lezione e l’aveva usata contro quel demonio. Si era impadronita del pozzo nucleare, e adesso aveva dato il via a un processo di smantellamento dei suoi poteri. Lo schermo che nascondeva la luce delle stelle era ormai quasi scomparso.
La terra tremò di nuovo, più forte che mai. Potevo avvertire quel rumore dentro di me, come il borbottio di qualche titano. Il cortile prese a ondeggiare, il suolo si alzò e si abbassò come le onde del mare. La parete ricurva vacillò paurosamente. Una parte di essa cadde con tremendo frastuono.
E io ero sempre seduto lì, serrando le arterie per non morire dissanguato, chiedendo se sarei riuscito a reggermi in piedi. La terra prese a tremare ancora più forte sotto di me. La parete alle mie spalle ondeggiò fra mille sinistri scricchiolii.
Allora il centro del cortile esplose in una sfera di fuoco, tanto luminosa da saturare la mia vista. Stringendo gli occhi fino a farmi scorrere le lacrime giù dalle guance, riuscii vagamente a distinguere una fontana di lava incandescente che eruttava dalle viscere della terra, emettendo ondate di calore che mi bruciarono il volto anche se mi trovavo a un centinaio di metri di distanza.
— Il pozzo nucleare è distrutto, amore — disse la voce di Anya. — Adesso posso raggiungerti.
— Non prima di me — giunse la voce carica d’odio di Set.
E da quella fontana eruttante lava fusa, scaturita dal centro della terra, si levò l’enorme figura di Set, diavolo incarnato, un demonio i cui occhi da rettile brillavano d’odio e di furore nei miei confronti.
Afferrai la scimitarra al mio fianco e cercai di alzarmi in piedi, ma senza successo. Ero troppo debole; avevo perso troppo sangue.
I piedi artigliati di Set si fecero sempre più vicini, fino a portarsi al mio fianco, illuminati dal chiarore della lava che fuoriusciva dal centro del cortile.
— Hai distrutto il mio mondo, Orion. — Le sue parole ardevano nella mia mente. — Ma non hai distrutto me. Sarò io a ucciderti.
Si piegò su di me e mi serrò le dita intorno alla gola. Sollevandomi in aria, cominciò a soffocare la vita dentro di me. I suoi artigli mi penetrarono nelle carni, e il mio sangue prese a scorrere lungo le squame delle sue braccia.
Lo colpii con la scimitarra, ma ero troppo debole per ferirlo seriamente. La sua corazza di squame si rivelò un’ottima difesa contro il filo della mia spada.
Voltatosi senza mollare la presa dal mio collo, Set avanzò lentamente verso la fontana di fuoco. La mia vista si era offuscata, e non riuscivo a respirare. Il mondo stava scomparendo nelle tenebre.
— Arrostirai nelle fiamme del tormento per l’eternità, Orion. Ho ancora sufficiente controllo sulle forze dello spaziotempo per darti la più terribile delle morti. Brucia all’inferno, Orion! Per sempre!
Mi sollevò al di sopra della fontana di lava. Sentii le mie carni sfrigolare, il sangue ribollire, il dolore bruciare nella mia mente.
Nella mano destra stringevo ancora la spada. Sollevandola allo stremo delle forze, ne infilai la punta in un occhio di Set, spingendola nel suo cervello con tutta la forza di cui disponevo. Sentii la lama grattare contro l’osso dell’orbita oculare, e udii il demonio urlare di rabbia e di dolore.
Cominciò a barcollare, ma non allentò la presa sulla mia gola. La lava bollente mi bruciava la pelle; tutto ciò che riuscivo a vedere erano la lava rossa e il volto di Set, di un rosso ancora più intenso, le labbra contratte all’indietro in un ringhio d’odio profondo, la lama ricurva della scimitarra conficcata nell’occhio, da cui il sangue si riversava copioso tra le scaglie lucenti del suo viso.
Allora un lampo d’argento saettò davanti ai miei occhi annebbiati. Set lanciò un altro grido, e io mi sentii volteggiare nell’aria. Infine non sentii più la lava bruciarmi le carni. Un globo d’argento scintillante galleggiava a mezz’aria, emettendo un lampo bianco che si contorceva sibilando come una serpe d’elettricità, avvolgendosi intorno al corpo di Set.
Apparve quindi un globo dorato, poi un altro bianco come la neve. Infine un altro del più intenso rosso rubino, e tutti erano incandescenti e scagliavano dardi d’elettricità contro il corpo di Set. Il rettile mi lasciò cadere, soffiando e stridendo, dimenando la coda all’impazzata, stringendo le mani nell’aria senza riuscire ad afferrare nulla. Barcollò all’indietro verso la fontana di lava, contorcendosi su se stesso mentre le sue urla mi straziavano la mente come lame incandescenti.
Apparvero altri globi, color rame e verde smeraldo, bronzo e ottone, e ognuno aggiungeva agli altri il proprio lampo diretto verso la figura tormentata di Set, spingendolo verso la fontana di lava infuocata.
Con un ultimo strido d’agonia e di disperazione. Set sprofondò in quel metallo fuso e ribollente, scomparendo nella rovente fontana infernale che lui stesso aveva creato.
Ero disteso sulla schiena ustionata, più morto che vivo.
I globi d’energia fluttuarono nell’aria verso di me e assunsero forma umana: Anya, Zeus, Ares dai capelli rossi, la bella Afrodite, Era dagli occhi scuri. E il Radioso, naturalmente, superbo come sempre.
Fece un passo avanti, sorridendo, i capelli dorati scintillanti nella notte, il corpo muscoloso avvolto in un lungo mantello bianco e dorato.
— Abbiamo fatto un buon lavoro — disse con gioia. — Quel demonio non ci darà più fastidio.
— Orion ha fatto un buon lavoro — lo corresse Anya, inginocchiandosi al mio fianco sul terreno cosparso di sangue. Ero molto debole, e in preda alle vertigini. Continuavo a tenere lontano il dolore delle mie ustioni, ma sapevo che erano gravi, forse fatali. Eppure, non appena Anya posò le dita sulla mia fronte, sentii un nuovo vigore fluire dentro di me.
— Oh, anche lui ha fatto la sua parte. È andato tutto secondo i miei piani.
Zeus sollevò un sopracciglio. — Andiamo, Aten; se non fosse stato per Orion non saremmo mai stati in grado di penetrare le difese di Set.
Con tono veemente, Anya aggiunse: — Orion è riuscito a distrarre il mostro abbastanza a lungo perché potessi prendere il controllo della sua fonte d’energia e distruggerla.
Mi guardai intorno nel cortile semidistrutto. Le carcasse senza vita dei sauropodi e dei carnosauri erano disseminate dappertutto, simili a piccole colline. Fra esse giacevano i cadaveri degli shaydiani caduti. La parete ricurva della fortezza era crollata per metà. La fontana di lava era scomparsa.
— Era in stasi temporale — Anya mi spiegò con dolcezza. — Set aveva intenzione di immergerti in quell’inferno e lasciartici per l’eternità.
— E invece… — La mia voce era un gracchio soffocato.
— Invece l’abbiamo precipitato nel suo stesso inferno — disse lei. — Mentre tu lo tenevi impegnato, siamo riusciti a impadronirci della sua fonte d’energia e a fare ritorno dai luoghi in cui eravamo rimasti nascosti in attesa di sferrare l’attacco.
— È morto?
— È in condizione di stasi — disse Zeus. — Brucia per l’eternità.
Preoccupato, riuscii a sollevarmi su un gomito. — Allora potrebbe essere liberato?
Aten mi lanciò un sorriso di scherno. — Nessuno di noi ha intenzione di liberarlo. E tu, Orion?
Scossi il capo in preda alle vertigini e borbottai: — Sarebbe stato meglio ucciderlo.
— Non è così semplice, amore mio. Accontentati della nostra vittoria.
— Molti dinosauri sono fuggiti — ricordai.
— Ottime prede per i tuoi amici Mongoli — disse Aten, stringendosi il mantello contro il corpo. Quindi riprese a scintillare.
— Aspetta! — gridai.
I Creatori posarono lo sguardo su di me, chi con espressione incuriosita, chi con aria seccata.
— E Subotai? L’ho portato qui insieme alla sua guardia personale, meno di un migliaio di uomini.
— Un discreto numero, direi — commentò Zeus.
— Gli ho promesso che avrei portato qui l’intero esercito. Cioè la sua gente, le loro donne, le loro greggi e tutti i loro beni.
— E allora? — domandò Aten, con tono sprezzante. — Il generale barbaro non ha avuto nessuna parte in questa storia. Non ci serve più.
Alzandomi a sedere, ribattei:
— È mio amico. Gli ho fatto una promessa.
— Ridicolo — schernì Aten.
— Non è una decisione che spetti a te solo — rispose Anya con astio.
— Mi spiace, ma penso di essere d’accordo con Aten — disse Zeus. — Non servirebbe a nulla.
— È già abbastanza difficile mantenere integro il tessuto del continuum — disse Ermes. — Perché operare un’altra distorsione, se non è proprio necessario?
— Lo farò da solo — dissi.
Tutti mi fissarono sbigottiti.
— Tu? — rise Aten — un giocattolo, una mia creatura; e tu saresti in grado di agire come un dio?
— Chi di voi ha portato Subotai e i suoi uomini in questo tempo e luogo? — domandai.
Si guardarono l’un l’altro, quindi tutti insieme rivolsero lo sguardo verso Anya.
La dea scosse il capo, sorridendo. — Non io, di certo. Ero nascosta nelle profondità della terra, in attesa del momento giusto per prendere il controllo del pozzo nucleare di Set. E voi eravate dispersi fra le stelle.
— Ma non è possibile che sia riuscito a farlo da solo! — gridò Aten.
Anya annuì. — Dev’essere così. Non è stato nessuno di noi.
— Sono stato io — ripetei.
Zeus abbozzò un sorriso privo di allegrezza. — Orion, stai acquistando i poteri di un dio.
— Non ci sono dèi — risposi, con aria grave. — Soltanto esseri simili a voi… e a Set.
Si alzò un brusio inquieto.
— Se Orion vuole portare qui la gente di Subotai, io dico che ha ben meritato questo diritto — Anya asserì con fermezza.
Nessuno la contraddisse.
Chiusi gli occhi, grato a lei in così tanti modi da non poterli nemmeno contare. In quell’attimo vidi la storia snodarsi davanti a me come una pellicola cinematografica fatta scorrere ad altissima velocità.
Vidi la gente di Subotai insediarsi in quell’immensa savana che si stendeva dal Mar Rosso alle coste dell’Atlantico.
Vidi i guerrieri mongoli uccidere i carnosauri con le loro lance: uomini dalla pelle scura vestiti di sudicie pelli ed elmetti di metallo, a cavallo di piccoli pony del Gobi.
Nelle generazioni a venire avrebbero dato vita a splendide storie di cavalieri nelle loro armature scintillanti, intenti a uccidere draghi dall’alito di fuoco per salvare principesse tenute prigioniere da incantesimi.
Vidi quegli uomini apprendere le arti dell’agricoltura dai nativi di Paradiso, imparentarsi con loro attraverso il vincolo del matrimonio una generazione dopo l’altra mentre i ghiacciai si ritiravano a nord liberando l’Europa dalla loro morsa, trasformando quella vasta distesa d’erba nel deserto bruciato conosciuto come Sahara.
Vidi i pronipoti del popolo di Subotai muoversi verso la valle del Nilo, abbandonando la savana prossima ad avvizzire, e lì sviluppare l’irrigazione e la civiltà. Quel pensiero mi fece sorridere: quei cosiddetti barbari erano i progenitori della più antica civiltà della Terra.
E vidi la tormentata Sheol erompere nel suo ultimo impeto di fiamma e collassare nell’ovoide di un pianeta, vorticando su se stessa, dipinta di strisce di colori brillanti, con decine di frammenti di Shaydan in orbita intorno a essa. Sapevo che a Zeus faceva piacere sapere che quel pianeta portava il suo nome.
E compresi, col cuore pesante, che tutta la violenza che avevo seminato, la distruzione di Sheol e del suo pianeta, l’era della Grande Estinzione che avevo portato sulla Terra, l’estinzione dei dinosauri e di innumerevoli altre forme di vita… tutto era stato parte dei piani del Radioso.
Udii la sua risata di disprezzo mentre contemplavo il regno di morte che avevo portato sulla Terra.
— Io sono l’evoluzione, Orion — si vantò. — Sono la forza della natura.
— Tutta questa morte… — singhiozzai.
— Era necessaria. I miei piani contemplano eoni di storia, Orion. I dinosauri erano un ostacolo per me quanto lo erano per Set. Dovevano estinguersi, altrimenti non avrei mai potuto portare alla vita il genere umano. Tu li hai spazzati via, Orion. Per me! Pensi di essere simile a un dio, ma sei ancora una mia creatura, Orion, un giocattolo nelle mie mani. Da usare quando io lo ritenga più opportuno.