LIBRO PRIMO Paradiso

Un libro di versi sotto le fronde.

Una fiasca di vino, un tozzo di pane… e tu

Al mio fianco, che canti nel deserto…

Oh, allora anche il deserto sarebbe un paradiso!

1

Anya si tolse di dosso la lucente veste argentea e la lasciò cadere sul tappeto erboso. Sotto di essa indossava una tuta metallica che ricordavo vagamente di aver già visto in un’altra epoca, molti secoli prima. Aderiva perfettamente al suo corpo, dall’orlo degli stivali all’alto collare. Era una splendida dea con lunghi capelli neri che le scendevano lungo le spalle e occhi grigi e impenetrabili nei quali sembrava racchiusa l’essenza stessa del tempo.

Io indossavo soltanto le pelli che avevo portato nella mia precedente vita nell’antico Egitto. La ferita che mi aveva dato la morte era scomparsa. Assicurato alla coscia destra c’era il pugnale che mi ero procurato in quell’altra epoca. Un paio di sandali di corda costituivano tutto il resto del mio guardaroba.

— Vieni, Orion, dobbiamo andarcene da qui — disse Anya.

L’amavo eternamente e con tutto il cuore, come nessun altro uomo ha mai amato una donna. Avevo affrontato molte volte la morte per amor suo, e lei aveva sfidato i suoi stessi simili per rimanere sempre al mio fianco attraverso lo spaziotempo, in ogni epoca in cui mi avevano inviato. La morte non poteva dividerci; né il tempo o lo spazio.

Presi la sua mano nella mia, e insieme c’incamminammo per un ampio sentiero che si apriva fra alberi carichi di frutta.

Attraversammo il giardino per quelle che sembrarono molte ore, allontanandoci dalle rive del Nilo che scorreva paziente nella terra destinata un giorno a essere chiamata Egitto. Il sole si fece alto nel cielo, ma la giornata rimase piacevolmente fresca, con l’aria limpida e frizzante di un temperato pomeriggio di primavera. Greggi di nuvole simili a sbuffi di cotone punteggiavano il cielo azzurro. Una brezza fresca soffiava da quello che un giorno sarebbe stato l’impietosa fornace del Sahara.

Nonostante ciò che aveva detto Anya, quel luogo risvegliava nella mia mente le leggende che avevo sentito narrare sul giardino dell’Eden. Ai nostri lati file su file di alberi si stendevano a perdita d’occhio, eppure nessuno di essi era uguale all’altro. Dai loro rami pendevano frutti di ogni genere: mele, fichi, olive, susine, melagrane. Al di sopra di essi ondeggiavano palme maestose cariche di noci di cocco. I rovi occhieggiavano dai loro giacigli, stipati fra gli alberi, fioriti con tale profusione da rendere il parco sfolgorante di colori.

Eppure non c’era anima viva. Fra alberi e arbusti l’erba era tagliata ad altezza tanto metodicamente uniforme da sembrare quasi artificiale. Nessun insetto vi ronzava; nessun uccello batteva le ali tra le fronde degli alberi.

— Dove siamo diretti? — domandai.

— Lontano da qui — rispose Anya — il più velocemente possibile.

Mi avvicinai a un cespuglio sul quale crescevano manghi dall’aspetto succoso. Anya mi afferrò la mano.

— No!

— Ma ho fame.

— Sarà meglio aspettare di essere fuori da questo giardino. Altrimenti… — Si guardò alle spalle.

— Altrimenti apparirà un angelo con la spada fiammeggiante? — la schernii.

Anya rimase estremamente seria. — Orion, questo parco è un giardino botanico sperimentale, appartenente alla creatura la cui statua era nel tempio.

— Set?

La donna annuì. — Non siamo ancora pronti per incontrarlo. Siamo disarmati e del tutto impreparati.

— Ma che male può mai farci uno dei suoi frutti? Potremo sempre correre, anche a bocca piena.

Con un sorriso, Anya rispose:

— È molto sensibile verso le sue piante. In qualche modo riesce a capire quando qualcuno le tocca.

— E…?

— E ne uccide il responsabile.

— Non li scaglia nell’oscurità esterna, a guadagnarsi il pane col sudore della fronte? — Notai che, sebbene la mia voce avesse assunto un tono canzonatorio, avevamo preso a camminare più velocemente.

— No. Si limita a ucciderli. Definitivamente, per l’eternità.

Ero morto parecchie volte, e sempre i Creatori mi avevano riportato in vita perché potessi servirli in un’altra epoca e in un altro luogo. Eppure temevo ancora la morte, l’agonia che l’accompagnava, la perdita e la separazione che comportava. E un nuovo tentacolo di paura mi straziava i nervi: Anya aveva paura. Un Creatore, una dea che poteva muoversi attraverso gli eoni con la stessa facilità con cui io ero in grado di camminare per quel sentiero… temeva visibilmente l’essere dall’aspetto di rettile la cui statua adornava il tempio presso le sponde del Nilo.

Chiusi gli occhi per evocare con maggiore chiarezza l’immagine di quella statua. A tutta prima avevo pensato trattarsi della figura di un uomo che indossasse una maschera rituale: il suo corpo era umano, ma il volto era simile a quello di un coccodrillo. Adesso che tornavo con la mente a quell’immagine, però, capii che quella prima impressione era stata piuttosto superficiale.

Il corpo era quello di un umanoide, questo è vero. Si ergeva su due gambe e aveva due braccia. Ma i suoi piedi erano artigli con tre dita dalle punte ricurve e acuminate. Le mani avevano due dita squamate con un pollice contrapposto a esse, e ugualmente munite di artigli. I fianchi e le spalle si univano in un modo che aveva ben poco di umano.

E il suo volto. Era un muso di rettile, ma diverso da tutti quelli che avevo visto prima d’allora: colmo di denti disposti in modo da poter dilaniare la carne; con gli occhi sporgenti, atti alla visione binoculare e protetti da sporgenze ossee; il cranio ricurvo e in grado di ospitare un cervello sufficientemente grande da esser capace di intelligenza.

— Adesso cominci a comprendere la natura dell’essere che dobbiamo combattere — disse Anya, leggendomi il pensiero.

— Il Radioso ci ha inviati quaggiù per cacciare questo Set, per distruggerlo? — domandai. — Da soli? Soltanto noi due? Senza armi?

— Non il Radioso, Orion. L’intero consiglio dei Creatori. All’unanimità.

Quelli che i Greci avevano chiamato dèi, dimoranti sul loro Olimpo in un remoto futuro della Terra.

— All’unanimità — ripetei. — Sarebbe a dire che anche tu ti sei detta favorevole?

— Per restare insieme a te — rispose Anya. — Avevano intenzione di mandarti da solo, ma ho insistito per accompagnarti.

— Io sono sacrificabile — dissi.

— Non per me. — E l’amai ancora di più per quella risposta.

— Hai detto che questa creatura di nome Set…

— Non è una nostra creatura, Orion — Anya mi corresse prontamente. — Non sono stati i Creatori a portarlo in vita, come hanno fatto per la razza umana. Viene da un altro mondo, e ha intenzione di distruggerci tutti.

— Distruggere… anche te?

Mi sorrise, e fu come se un altro sole fosse sorto. — Anche me, amore.

— Hai detto che può causare la morte definitiva, senza speranza di rinascita.

Il sorriso scomparve dal volto di Anya. — Lui e la sua razza sono molto potenti. Se riusciranno ad alterare il continuum tanto profondamente da distruggere l’esistenza dei Creatori, allora la nostra morte sarà definitiva e irrevocabile.

Molte volte nel corso degli eoni ho pensato che la liberazione della morte potesse essere preferibile ai penosi travagli di una vita spesa nel dolore e nel pericolo. Ma ogni volta il pensiero di Anya, di questa dea che amavo e che mi amava, mi aveva indotto a combattere per la vita. Adesso eravamo finalmente insieme, ma la minaccia dell’oblio eterno pendeva su di noi come una nuvola apparsa a oscurare il sole.

Continuammo ad avanzare fino a quando le file di piante s’interruppero d’improvviso. Ancora immersi nell’ombra dell’ultimo castagno dai grandi rami, ci trovammo di fronte a un mare d’erba. Cresceva selvaggia e disordinata fino ai piedi di monti di roccia calcarea che si stagliavano nel limpido cielo estivo, delimitando l’orlo della valle percorsa dal Nilo. Onde formate dal vento si muovevano sulla cima dei fili d’erba come verdi mareggiate verso di noi.

In direzione dei monti scorsi alcune piccole macchie scure muoversi lente. Indicai verso di esse, e Anya seguì con lo sguardo il mio braccio disteso.

— Esseri umani — mormorò. — Un gruppo di schiavi.

— Schiavi?

— Già. E guarda chi ne è il custode.

2

Cercai di mettere a fuoco lo sguardo su quelle figure lontane. Sono sempre stato in grado di controllare consciamente tutte le funzioni del mio corpo, di dirigere la mia volontà attraverso la lunga catena delle sinapsi neurali in modo da far compiere a ogni parte del mio corpo esattamente ciò che voglio.

Mi concentrai sulla fila di esseri umani che avanzava attraverso quello scenario coperto d’erba. Erano guidati da qualcuno che non era umano.

A tutta prima pensai a un dinosauro, ma sapevo che i grandi rettili dovevano essersi estinti milioni di anni prima. O forse non era così? Se i Creatori potevano distorcere il tempo a volontà, e questo alieno di nome Set possedeva poteri simili ai loro, perché non un dinosauro nell’era neolitica?

Camminava su quattro zampe snelle, e dimenava una lunga coda flagelliforme. Anche il collo era piuttosto lungo; in tutto misurava circa sette metri, ed era alto più o meno quanto un grosso elefante africano. Ma era molto meno voluminoso, più snello e aggraziato. Ebbi l’impressione che potesse correre molto più veloce di un uomo.

Aveva squame dai colori brillanti, disposte in strisce rosse, azzurre, gialle e fulve. Prominenze ossee a forma di corno si ergevano sulla sua schiena come file di bottoni. La testa in cima a quel collo allungato era piccola, col muso corto e tozzo e gli occhi posti ai lati di un cranio rotondo. Gli occhi erano due fessure prive di palpebre.

Avanzava a capo della piccola colonna di esseri umani, e a ogni passo ruotava il collo per sorvegliare gli schiavi dietro di sé.

Che fossero schiavi era fuori di dubbio. Quattordici fra uomini e donne, che indossavano solo dei perizoma laceri e le cui costole erano chiaramente visibili anche da quella distanza. Sembravano esausti, col fiato corto nel tentativo di mantenere il passo dato dal rettile guardiano. Una delle donne aveva un bimbo assicurato alla schiena per mezzo di un’imbracatura. Due sembravano adolescenti. Soltanto uno di loro aveva la testa grigia. Da quel che vedevo, si sarebbe detto che ben pochi di loro potessero vivere tanto a lungo.

Nascosti dietro il tronco dell’ultimo castagno sul limitare del giardino, per alcuni istanti rimanemmo a guardare in silenzio quella pietosa, piccola processione.

Quindi domandai: — Perché degli schiavi?

Anya sussurrò: — Per prendersi cura del suo giardino, naturalmente. Nonché di qualsiasi altro desiderio di Set e dei suoi tirapiedi.

La donna col bambino incespicò e cadde in ginocchio. Il gigantesco rettile si voltò di scatto e si diresse verso di lei. Persino a quella distanza riuscii a udire i deboli vagiti del piccolo.

La donna cercò di mettersi in piedi, ma non vi riuscì così in fretta come desiderava il guardiano. La sua coda affusolata sferzò con violenza la schiena della donna, colpendo anche il bambino. La sventurata gridò, e il piccolo prese a strillare per il dolore e la paura.

Di nuovo la coda saettò contro di lei. La donna cadde col viso nell’erba.

Feci per balzare avanti, ma Anya mi trattenne per un braccio.

— No — sussurrò. — Non puoi fare nulla.

L’enorme rettile, di fronte alla madre prostrata, sporse il collo per odorarne la figura impietrita. Il bambino continuava a piangere. Gli altri attendevano immobili e muti come statue.

— Perché non combattono? — domandai, in preda alla rabbia.

— A mani nude contro quel mostro? — replicò Anya.

— Potrebbero almeno fuggire, finché la sua attenzione è distratta. Disperdersi…

— Hanno abbastanza buonsenso da non farlo, Orion. Sanno bene che sarebbero braccati come animali per poi dover affrontare una morte molto lenta.

Il rettile sedette sulle zampe posteriori e diede un colpetto al corpo della donna con uno dei suoi artigli. La donna non si mosse.

Allora la bestia estrasse il piccolo dal fardello e lo sollevò in alto, seguendolo col capo. Compresi che stava per stritolarlo tra le fauci.

Nulla al mondo poteva più fermarmi. Mi precipitai fuori della protezione degli alberi e presi a correre verso il mostro, gridando a squarciagola. I miei sensi entrarono in ipervelocità, come accade sempre quando sto per affrontare un pericolo. Il mondo intero sembrò rallentare intorno a me, e tutto prese a muoversi come in un sogno.

Vidi il rettile reggere in aria il bambino, vidi il suo capo in cima al lungo collo girarsi verso di me, vidi i suoi occhi sottili mettermi a fuoco mentre scrollava il capo come in senso di diniego. In realtà cercava semplicemente di fissare entrambi gli occhi sulla fonte di tanto rumore.

Vidi il bambino ancora stretto fra gli artigli dimenare nell’aria le minuscole gambette, col volto paonazzo per il pianto. E la madre, con la schiena livida per le sferzate della coda della bestia, sporgeva un braccio verso l’alto in un futile tentativo di raggiungere così il proprio piccolo.

Il lucertolone lasciò cadere il bambino e si voltò verso di me, lanciando un sibilo. La lingua saettò fuori dalla bocca sottile mentre continuava a dondolare il collo da un lato all’altro. La coda fece un guizzo quando l’animale si mise sulle quattro zampe.

Strinsi il pugnale nella mano destra. Sembrava pateticamente innocuo in confronto agli artigli del mostro, ma era l’unica arma di cui potevo disporre. Mentre riducevo la distanza che mi separava dal rettile il mio sguardo cadde sugli altri uomini del gruppo. Notai che erano del tutto assoggettati, immobili come pezzi di ghiaccio, e che non cercavano in nessun modo di fuggire o di distrarre l’attenzione della bestia. Non avrei dovuto aspettarmi alcun genere di aiuto da parte loro.

Caracollando, il lucertolone mosse qualche passo nella mia direzione, quindi s’impennò sulle zampe posteriori come un orso infuriato. Torreggiò sopra di me, abbassando il collo tra le zampe anteriori e sibilando. I suoi denti erano piccoli e piatti. Non era carnivoro; ma di sicuro era una macchina letale.

D’improvviso, una cresta gialla si gonfiò su ambo i lati del suo collo, facendo apparire il suo capo due volte più grosso; uno stratagemma per incutere timore ai suoi nemici, ma che io conoscevo per quello che era.

Presi a correre direttamente verso il grosso rettile e vidi la sua lunga coda scattare verso di me come in un incubo al rallentatore.

Ne valutai la velocità e saltai poco prima che colpisse il terreno sotto i miei piedi. L’impeto del balzo mi portò sotto il ventre coperto di scaglie del mostro, in cui immersi la lama del pugnale con ogni grammo della mia forza.

L’animale emise uno strillo simile al fischio di una vaporiera, cercando di afferrarmi. Riuscii a sgattaiolare via da quegli artigli e affondai nuovamente il pugnale nelle carni della bestia.

Nella foga dello scontro avevo dimenticato la sua coda. Questa volta essa riuscì a colpirmi, facendomi cadere a terra. Colpii il terreno con un tonfo che mi fece gemere per il dolore e la sorpresa. Il rettile cercò nuovamente di afferrarmi, ma con i miei sensi particolarmente veloci ero in grado di analizzare con maggior cura ogni suo movimento, e così riuscii ancora una volta a sfuggire a quegli artigli.

La coda saettò nuovamente verso di me. Saltai all’interno dell’arco formato da essa e tagliai via un pezzo di carne dalla coscia dell’animale. Sentii la lama colpire l’osso e cercai di farla penetrare ancora di più, nella speranza di ledere l’articolazione della rotula. Invece, sentii i suoi artigli chiudersi intorno a me, straziandomi i fianchi mentre venivo sollevato in aria. Il pugnale gli rimase conficcato nel ginocchio, sfuggendomi alla presa.

Mi sollevò fino all’altezza dei suoi sottili occhi da rettile, che mi fissarono con sguardo di ghiaccio. I suoi denti non erano adatti a lacerare le carni, ma erano ugualmente in grado di stritolarmi con estrema facilità. E proprio questa era la sua intenzione. La cresta intorno al suo collo si rilasciò visibilmente; il mostro non si sentiva più minacciato.

Cercai di liberarmi dai suoi artigli, ma ero del tutto indifeso, come lo era stato quel bambino qualche istante prima.

— Orion! Quaggiù!

Abbassai lo sguardo in direzione della voce di Anya mentre mi dibattevo nella potente stretta del rettile. Mi aveva seguito, e adesso stava estraendo il mio pugnale dal ginocchio dell’animale. Prima che la bestia potesse comprendere ciò che stava accadendo, Anya lanciò il pugnale con l’abilità di un perfetto assassino. La lama penetrò tra le soffici pieghe di carne sotto la mascella del rettile con un rumore sordo.

Con la zampa libera il dragone cercò di raggiungere l’acciaio nella sua gola. Ma io ero più vicino e più rapido di lui. Afferrai l’elsa del pugnale e presi a girarne la lama fin dentro le fauci del rettile, la cui cresta era tornata a sollevarsi. L’animale emise un grido e mi lasciò cadere, ma io mi aggrappai al suo collo, mi portai dietro la sua nuca, estrassi nuovamente il pugnale dalle sue carni e glielo conficcai alla base del cranio.

La bestia cadde d’un colpo come se qualcuno avesse spento un interruttore. Le avevo reciso la spina dorsale. Entrambi cademmo di peso sul tappeto erboso. Sentii il mio corpo rimbalzare sul terreno, poi tutto si fece scuro.

3

Aprii gli occhi e con sforzo li misi a fuoco sul volto aggraziato di Anya, inginocchiata al mio fianco, con un’espressione preoccupata dipinta sui lineamenti classici. Allora mi sorrise.

— Stai bene? — domandò.

Provavo dolore in ogni parte del corpo. Gli artigli del rettile mi avevano ferito il petto e le cosce. Esercitai volontariamente una pressione sui vasi capillari per fermare l’emorragia e inibii i centri del dolore nella mia mente. Mi sforzai di sorridere.

— Sono ancora vivo.

Anya mi aiutò a mettermi in piedi. Mi accorsi allora che erano passati appena pochi istanti. La grande lucertola adesso non era altro che un’immensa montagna di squame lucenti e multicolori che si ergeva tra l’erba.

Per il gruppetto di schiavi, tuttavia, la situazione sembrava essere ben diversa: avevano tutti uno sguardo terrorizzato. Invece di mostrare gratitudine, sembravano furibondi.

— Hai ucciso uno dei guardiani! — disse un uomo scarno e con la barba, gli occhi colmi di paura.

— I padroni se la prenderanno con noi! — lamentò una delle donne.

— Ci puniranno!

Provai nei loro confronti qualcosa di simile a disprezzo. Mostravano la tipica mentalità degli schiavi: invece di ringraziarmi per averli aiutati, manifestavano vivo timore nei confronti dei loro padroni. Senza dire una parola mi portai presso il corpo morto dell’animale ed estrassi il pugnale dalla sua nuca.

Anya disse, in tono di scusa: — Non potevamo restare immobili a guardare un mostro uccidere un bambino.

Il piccolo, come constatai, era ancora vivo. Sua madre sedeva in silenzio sull’erba e se lo stringeva al petto, i grandi occhi scuri fissi su di me con espressione vaga. Se mi era grata per ciò che avevo fatto, lo nascondeva piuttosto bene. Due lunghi lividi rossi le striavano la schiena. Anche il bambino mostrava i segni della frusta.

Il più anziano si carezzò la barba grigia e borbottò: — I padroni ci scoveranno e ci uccideranno fra mille tormenti. Ci getteranno nel fuoco che non muore mai. Tutti noi!

— Sarebbe stato meglio lasciar morire il bambino — disse un altro uomo altrettanto smunto, e con barba e capelli altrettanto sporchi e scarmigliati. — Molto meglio che morisse lui solo, piuttosto che condannarci tutti a essere torturati a morte. Avremmo sempre potuto avere altri figli.

— Se i vostri padroni non vi troveranno non potranno punirvi — dissi io. — Se in due siamo riusciti a uccidere una di queste lucertole malcresciute, noi tutti insieme potremo comunque difenderci.

— Impossibile!

— Dove potremmo nasconderci, per non farci prendere?

— Hanno occhi che scrutano nella notte.

— Possono volare nel cielo, e nuotare nel grande fiume.

— I loro artigli sono aguzzi. E posseggono il fuoco eterno.

Mentre parlavano si stringevano intorno ad Anya e me, come in cerca di protezione. E continuavano a scrutare il cielo verso l’orizzonte, come per cogliere il primo segno dell’arrivo di altri rettili. O qualcosa di ancora più tremendo.

Anya domandò, con dolcezza: — Cosa sarà di voi, se noi due ce ne andremo lasciandovi soli?

— I padroni vedranno cosa è accaduto qui e ci puniranno — disse l’uomo, continuando a carezzarsi la barba. Doveva essere il loro capo, probabilmente soltanto perché era il più anziano.

— Come vi puniranno? — domandai.

— Ci strapperanno la pelle dal corpo — rispose uno degli adolescenti — e poi ci getteranno nel fuoco eterno.

Gli altri si fecero mesti. I loro occhi erano spalancati in un’espressione di supplica.

— Supponiamo che noi rimaniamo qui con voi fino a quando i vostri padroni ci troveranno — dissi. — Vi puniranno ugualmente, se diremo che siamo stati noi a uccidere il rettile, e che voi non ne avete nessuna responsabilità?

Rimasero a guardarsi l’un l’altro con la bocca spalancata, come bambini. — Certo che ci puniranno! Puniranno ognuno di noi. È la legge.

Mi voltai verso Anya. — Allora dobbiamo andare via.

— E portarli con noi — convenne Anya.

Esaminai la zona in cui eravamo. Il Nilo aveva scavato un ampio, profondo avvallamento tra le rocce calcaree che si ergevano frastagliate su entrambe le sponde del fiume. In cima a esse, secondo Anya, doveva stendersi una vasta prateria. Se davvero un giorno quella regione sarebbe diventata il Sahara, allora doveva snodarsi per centinaia di chilometri verso sud e migliaia di chilometri verso ovest. Una savana sterminata, la cui piatta monotonia era interrotta soltanto da qualche collina isolata o qualche avvallamento scavato dal fiume. Non era certo una regione in cui fosse semplice nascondersi, soprattutto per sfuggire a creature in grado di volare e di vedere al buio. Ma era sempre meglio che rimanere intrappolati tra il fiume e le pareti del suo letto.

Non dubitavo che gli schiavi dicessero il vero riguardo i loro padroni rettili. La bestia che Anya e io avevamo ucciso era un dinosauro, ormai ne ero certo. Perché allora escludere la presenza di pterosauri alati, o di altri rettili in grado di percepire le fonti di calore nell’ambiente circostante, come fanno le vipere?

— Ci sono alberi nelle vicinanze? — domandò Anya. — Non quelli del giardino; alberi selvatici, una foresta.

— Oh — disse il vecchio. — Vuoi dire Paradiso.

Lontano verso sud, disse, c’erano boschi, ruscelli e selvaggina in abbondanza, ma era una zona proibita. I padroni non volevano che loro vi facessero ritorno.

— Allora un tempo vivevate laggiù? — domandai.

— Moltissimi anni fa — rispose quello, con aria malinconica. — Quand’ero ancora più giovane di Chron, qui. — Fece un cenno a indicare il più giovane dei due adolescenti.

— Quant’è lontano?

— Molti soli.

Voltatomi verso sud, dissi: — Allora dirigeremo verso Paradiso.

Non fecero nessuna obiezione, ma era evidente che provavano un indicibile timore. La loro forza d’animo era stata quasi del tutto spenta. Eppure, sebbene non desiderassero affatto seguirmi, non riuscivano a vedere nessuna valida alternativa. I loro padroni li avevano terrorizzati a tal punto che per loro qualsiasi scelta non faceva nessuna differenza; erano certi che li avrebbero comunque presi e puniti nel più orribile dei modi.

Il mio intento primario era quello di allontanarmi dalla carcassa del rettile. Ci sarebbe voluto un bel po’ di tempo al signore di quel giardino per rendersi conto che uno dei suoi animali ammaestrati era stato ucciso e che un gruppo di schiavi era fuggito. Probabilmente avremmo potuto disporre di un certo numero di ore a nostro vantaggio, e allora sarebbe scesa la notte. Se fossimo riusciti a muoverci con sufficiente velocità, avremmo potuto guadagnarci una possibilità di sopravvivenza.

Ci arrampicammo su per il pendio. Non fu un’impresa difficile come avevo temuto; la pietra era scabra e formava sporgenze che quasi sembravano gradini. I miei compagni si arrampicarono a fatica, con me che aprivo la fila e Anya a guardarne le spalle.

Raggiunta la cima, constatai che Anya aveva ragione. Davanti a noi si stendeva una sterminata distesa d’erba che andava fino all’orizzonte, verde, rigogliosa e apparentemente priva di vita animale. Un’ampia savana senz’alberi che si estendeva dalla curvatura settentrionale dell’Africa fino alle coste atlantiche. Verso sud, secondo le parole dello schiavo dalla barba grigia, c’era la foresta che aveva chiamato Paradiso.

Puntando l’indice della mano sinistra, comandai: — A sud.

Cercai di segnare il passo più veloce che fosse possibile e gli schiavi mi seguirono quasi di corsa, col fiato corto. Probabilmente non si lamentarono soltanto perché non avevano il fiato per farlo. Ma ogni volta che mi girai per vedere se riuscivano a mantenere quell’andatura, li vidi guardarsi alle spalle in attesa dell’inevitabile.

Non sudavo molto, nonostante il calore del sole basso sull’orizzonte. Ero solito associare il sole con il Radioso, il Creatore che si faceva chiamare Ormazd in un’era e Apollo in un’altra, il folle megalomane che mi aveva creato per dare la caccia ai suoi nemici nel corso degli eoni.

— Devi lasciarli riposare — disse Anya, portandosi agilmente al mio fianco attraverso l’erba alta fino al ginocchio. — Sono sfiniti.

Approvai con riluttanza. Scorsi un modesto rilievo e, raggiuntane la base, detti ordine di fermarsi. Gli schiavi stramazzarono a terra, ansimando; fiumi di sudore disegnavano rivoli nella polvere che copriva i loro corpi.

Salito in cima alla collinetta, alta meno di dieci metri, mi guardai intorno. Non mi riuscì di vedere nemmeno un albero. Nient’altro che una savana priva di sentieri, in ogni direzione. In un certo senso era emozionante trovarsi in un tempo e in un luogo in cui nessuno avesse ancora segnato col proprio passaggio piste o sentieri. A occidente, lungo l’orizzonte, il cielo cominciava a tingersi di un brillante colore vermiglio. Più in alto la volta celeste si faceva sempre più scura. Era già visibile una stella, sebbene il crepuscolo fosse ancora lontano a venire.

Era più lucente di qualsiasi altra stella avessi mai visto in qualsiasi era. Non tremolava affatto, ma brillava di una costante luce rosso cupo, quasi bruna; era così grande e luminosa da indurmi a pensare di osservare un disco invece che un semplice puntolino. Il pianeta Marte? No, era più brillante di quanto Marte non fosse mai stato, persino nei cieli tersi di Troia, migliaia di anni nel futuro di quella terra. E il suo colore era più intenso rispetto al rosso rubino di Marte, simile quasi a sangue rappreso. Né poteva essere Antares: l’immenso gigante rosso nel cuore dello Scorpione baluginava come qualsiasi altra stella.

Un grido di terrore mi fece risvegliare dalle mie riflessioni astronomiche.

— Guardate!

— Stanno arrivando!

— Ci sono dietro!

Guardai in direzione delle braccia tese dei miei nuovi compagni e vidi un paio di creature alate attraversare zigzagando il cielo di nordest. Pterosauri, senza dubbio. Le loro enormi ali di pelle battevano pigramente, mentre i loro lunghi becchi appuntiti puntavano verso il terreno. Indubbiamente erano in cerca di noi.

— Restate assolutamente immobili — ordinai. — Stendetevi a terra e non muovete un solo dito!

Rettili alati in volo a simili altezze dovevano dipendere dalla vista più che da qualsiasi altro senso. Il mio gruppetto di schiavi era scuro come la terra. Se non avessero attirato l’attenzione col movimento, forse gli pterosauri non li avrebbero scorti. Si appiattirono a terra, quasi invisibili ai miei stessi occhi nell’erba alta.

Ma i raggi del sole calante scintillavano sulle vesti metalliche di Anya. Per un attimo pensai di dirle di scivolare all’ombra della collina. Ma non ce n’era il tempo, e il movimento avrebbe colpito lo sguardo degli pterosauri. Così mi appiattii a mia volta sul crinale della collina e sperai che i rettili non fossero così intelligenti da pensare che uno scintillio metallico fosse qualcosa su cui investigare meglio.

Sembrarono passare molte ore mentre i giganteschi rettili alati attraversavano il cielo zigzagando in un complesso intreccio da cacciatori esperti. A terra li si sarebbero detti goffi e sgraziati, con quei lunghi becchi e quelle creste ossee, ma in aria erano davvero splendidi. Sembravano volare senza sforzo, librandosi con grazia sull’onda delle correnti d’aria calda che salivano dalla pianura erbosa.

Infine si allontanarono e scomparvero verso ovest. Quando furono fuori vista mi misi in piedi e ripresi il cammino verso sud. Gli schiavi mi seguirono dappresso, senza emettere un solo brontolio. La paura aveva ispirato loro nuova forza.

Mentre il sole toccava l’orizzonte scorsi un gruppetto di alberi in lontananza. Presi a correre verso di essi e notai un piccolo ruscello che aveva tagliato una profonda forra attraverso la distesa d’erba. Le sue rive fangose erano coperte da alberi frondosi.

— Possiamo accamparci qui per la notte — dissi. — Al riparo degli alberi, con acqua in abbondanza.

— E cosa mangeremo? — piagnucolò il vecchio.

Lo guardai fisso, più esasperato che irritato. Un vero schiavo, in attesa che qualcuno gli fornisse del cibo piuttosto che intenzionato a procurarsene da solo.

— Come ti chiami? — domandai.

— Noch — rispose quello, con occhi improvvisamente timorosi.

Afferrandogli una spalla scarna con la mano, dissi: — Bene, Noch, il mio nome è Orion. Sono un cacciatore. Questa notte cercherò io qualcosa da mangiare. Ma domani vi insegnerò a cacciare.

Tagliato un ramo sottile da uno degli alberi ne appuntii un’estremità, mentre il giovane Chron mi guardava con avida curiosità.

— Vuoi imparare a cacciare? — gli chiesi.

Persino fra le ombre del crepuscolo riuscii a vedere i suoi occhi brillare. — Sì!

— Allora vieni con me.

Non la si poté chiamare una vera e propria battuta di caccia. La piccola selvaggina che viveva presso il ruscello non aveva mai incontrato un essere umano prima di allora. Gli animali erano così docili che fui in grado di camminare dritto verso di loro e infilzarne uno mentre beveva. I suoi compagni corsero via, ma presto fecero ritorno. Mi ci vollero pochi minuti per prendere un paio di procioni e tre conigli.

Chron mi osservava con frenetica attenzione. Allora gli detti la rozza lancia che avevo costruito, e dopo un paio di colpi andati a vuoto il giovane riuscì a infilzare uno scoiattolo di terra.

— Questa era la parte più divertente — gli spiegai. — Adesso dobbiamo scuoiare le prede, e prepararle per il fuoco.

Feci tutto da me, in quanto avevamo un solo coltello e non volevo che nessun altro lo toccasse. Mentre scuoiavo e pulivo le prede cominciai a preoccuparmi per il fuoco. Se vi erano rettili lassù in grado di percepire il calore come fanno i cobra e i serpenti a sonagli, persino un piccolo fuoco da campo sarebbe apparso loro come un faro fiammeggiante.

Ma non sembravano vivere simili animali in quella zona. Gli pterosauri erano passati parecchie ore prima, e non avevo scorto nessun altro rettile in quella savana, nemmeno la più piccola delle lucertole. Nient’altro che piccoli mammiferi… e noi, esseri umani.

Decisi di rischiare di accendere un fuoco, grande appena quel poco che bastasse per cuocere la cena, con il proposito di spegnerlo il più presto possibile.

Anya mi sorprese dimostrando di saper accendere il fuoco con due semplici pezzi di legno. Gli altri rimasero a bocca aperta mentre un filo di fumo e poi un guizzo di fiamma scaturivano dai bastoncini di Anya.

Il vecchio Noch dalla barba grigia, inginocchiatosi al mio fianco, disse con voce colma di sgomento: — Ricordo mio padre accendere il fuoco allo stesso modo… prima che i padroni lo uccidessero per cacciarci via da Paradiso.

— I padroni posseggono il fuoco eterno — disse una voce femminile emersa dalle ombre guizzanti.

Ma nessuno degli altri sembrò preoccuparsene eccessivamente; non mentre il delizioso aroma della carne messa ad arrostire eccitava la loro salivazione in un concerto di brontolii di stomaco. Finito di mangiare, quando la maggior parte degli schiavi erano piombati nel sonno, chiesi ad Anya: — Da chi hai imparato ad accendere il fuoco?

— Da te — rispose lei e, guardandomi fisso negli occhi, aggiunse: — Non ricordi?

Aggrottai la fronte in uno sforzo di concentrazione. — Il gelo… ricordo la neve e il ghiaccio, e un gruppetto di uomini e donne. Indossavamo delle uniformi…

Gli occhi di Anya sembrarono brillare fra le ombre della notte. — Riesci a ricordare! Puoi fare breccia attraverso la riprogrammazione e riportare alla memoria le tue esperienze precedenti!

— Non ricordo granché — dissi io.

— Ma il Radioso ha sempre cancellato la tua memoria ogni volta che ti ha condotto in una nuova esistenza. O almeno, ci ha sempre provato. Ti fai sempre più potente, Orion. I tuoi poteri si accrescono di giorno in giorno.

Ma ero più preoccupato dai nostri problemi presenti. — Come possono aspettarsi che affrontiamo Set a mani nude?

— Non è così, Orion. Adesso che ci siamo stabiliti in quest’epoca possiamo fare ritorno presso di loro e da lì portare con noi tutto ciò di cui abbiamo bisogno: strumenti, armi, macchinari, guerrieri… qualsiasi cosa.

— Guerrieri? Gente come me? Esseri umani che il Radioso o gli altri Creatori hanno generato soltanto per il lavoro di basso rango?

Con un sospiro di condiscendenza, Anya rispose: — Non puoi certo aspettarti che vengano loro stessi a combattere. Non sono guerrieri.

— Ma tu sì. Tu combatti. Quel mostro mi avrebbe ucciso, se tu non fossi intervenuta.

— Io sono un’eccezione — ribatté lei, con voce compiaciuta. — Sono un guerriero. Una donna tanto sconsiderata da innamorarsi di una delle sue creature.

Il fuoco si era ridotto in cenere già da tempo, e l’unica luce che filtrava attraverso gli alberi era il freddo bianco marmoreo della luna. Ma era sufficiente a lasciarmi ammirare la bellezza di Anya, sufficiente a farmi bruciare d’amore per lei.

— Possiamo recarci nel regno dei Creatori e fare ritorno qui, in questo preciso tempo e luogo?

— Sì, certo.

— Anche se dovessero passare molte ore dalla nostra partenza?

— Orion, nel regno dei Creatori esiste uno splendido tempio posto sulla cima di una rocca di marmo. È il mio rifugio preferito. Potremo recarci lì e passare insieme molte ore, giorni o mesi, se lo desideri.

— Certo che lo desidero!

Mi baciò delicatamente, sfiorandomi le labbra con le sue. — Allora ci andremo.

Anya mise la sua mano nella mia. Istintivamente socchiusi gli occhi ma non provai nessuna sensazione inusuale, e quando li riaprii eravamo ancora in quel misero, piccolo accampamento di fortuna presso le rive fangose di un ruscello del Neolitico.

— Cos’è accaduto?

Il corpo di Anya era rigido per la tensione. — Non ha funzionato. Qualcosa… qualcuno ha bloccato l’accesso al continuum.

— Bloccato l’accesso? — Udii la mia stessa voce come quella di un estraneo, stridula per la paura.

— Siamo intrappolati qui, Orion! — disse Anya, terrorizzata a sua volta. — Intrappolati!

4

Adesso capivo cosa doveva provare quella tribù di ex-schiavi.

Era facile per me sentirmi sicuro, quando sapevo che tutte le strade del continuum erano aperte al mio passaggio. Sapevo di poter viaggiare nel tempo con la stessa facilità con la quale oltrepassavo una soglia. Certo, potevo provare pietà, persino disprezzo per quegli esseri umani così vigliacchi da inchinarsi al cospetto dei loro terrificanti padroni rettiliformi. Ero in grado di abbandonare quell’epoca e quel luogo a mio piacere, finché Anya restava al mio fianco.

Ma adesso eravamo in trappola; la via era bloccata, e sentivo poteri di gran lunga superiori ai miei profilarsi minacciosi come la morte, definitiva e implacabile.

Non avevamo altra scelta che quella di procedere verso sud, nella speranza di raggiungere la foresta di Paradiso prima che gli pterosauri di Set individuassero la nostra posizione. Ogni mattina ci svegliavamo all’alba e avanzavamo verso il lontano orizzonte. Ogni notte ci accampavamo tra i cespugli più fitti che riuscivamo a trovare.

Gli uomini stavano imparando a cacciare la piccola selvaggina che brulicava in quella sterminata prateria, e le donne raccoglievano bacche e frutti.

Ogni volta che scorgevamo uno pterosauro nel cielo sopra di noi ci gettavamo a terra, immobili come un topo quando avvista un falco in cerca di prede. Quindi riprendevamo il cammino verso Paradiso. E l’orizzonte rimaneva sempre piatto e lontano come il primo giorno della nostra marcia.

Talvolta in lontananza scorgevamo branchi di animali che brucavano l’erba, grosse bestie della taglia di bisonti o alci. Una volta riuscimmo ad avvicinarci a essi fino a poter vedere la preda mancata di qualche felino avanzare a fatica, ultima tra le file del branco; le femmine avanzavano snelle e aggraziate fra l’erba alta, i maschi forti e temibili coi loro incisivi simili a scimitarre e il pelo ispido. Si limitarono a ignorarci, e noi ci tenemmo al largo il più possibile.

Anya mi preoccupava. Non l’avevo mai vista turbata prima d’allora, ma certo adesso lo era. Sapevo che ogni notte cercava di mettersi in contatto coi Creatori, gli esseri semidivini che avevano generato la razza umana. Mi avevano creato per fare di me un cacciatore, e nel solco dei millenni io li avevo serviti con riluttanza sempre maggiore. A poco a poco continuavo a ricordare altre missioni, altre vite. Altre morti.

Una volta ero vissuto in un’altra tribù di cacciatori e raccoglitori del Neolitico, lontano da questa monotona savana, in una terra collinosa nei pressi di Ararat. Un’altra volta avevo guidato un gruppo di soldati attraverso le nevi dell’Era Glaciale, dopo averli aiutati a massacrare gli ultimi Neanderthaliani.

Anya era sempre stata al mio fianco, spesso nei panni di un comune mortale di quel tempo e luogo, sempre pronta a proteggermi, persino di fronte alla disapprovazione degli altri Creatori.

Adesso avanzavamo verso un Paradiso che poteva anche rivelarsi nient’altro che una leggenda, braccati da mostri demoniaci che sembravano aver assunto il controllo totale di questo aspetto del continuum. E Anya era impotente come ognuno di noi.

Qualche notte facevamo l’amore, copulando come gli altri sul terreno, silenziosi, furtivi, cercando di non farci vedere o sentire dagli altri, come se ciò che facevamo fosse qualcosa di cui vergognarsi. Le nostre passioni erano brevi e prive di entusiasmo, tutt’altro che appaganti.

Passarono molte notti prima che cominciassi ad accorgermi che la donna che avevo salvato dal rettile aveva preso a dormire vicino a me. Lei e il suo bambino rimanevano a una certa distanza, ma ogni notte si avvicinavano di più. Anche Anya se ne accorse, e una sera le parlò con tatto.

— Si chiama Reeva — mi disse il mattino seguente. — Suo marito è stato frustato a morte dal rettile di guardia per aver cercato di rubare un po’ di cibo per lei, perché potesse allattare il piccolo.

— Ma perché…?

— Tu l’hai protetta. Hai salvato lei e il suo bambino. È molto timida, ma sta cercando il coraggio per chiederti di diventare la tua seconda donna, se tu la vorrai.

Mi sentii più confuso che sorpreso. — Ma io non voglio un’altra donna!

— Shh — Anya mi ammonì, sebbene non parlassimo nella lingua di quella gente. — Non devi rifiutarla apertamente. Ha bisogno di qualcuno che la protegga, e in cambio può offrire solo il proprio corpo.

Lanciai uno sguardo furtivo in direzione di Reeva. Non doveva avere più di quattordici o quindici anni. Esile come uno spago, coperta dalla sporcizia di molti giorni, con i capelli sporchi e arruffati. Teneva il bimbo su un fianco e procedeva rassegnata insieme al resto della tribù.

Anya, che si lavava ogni volta che riuscivamo a trovare acqua e intimità sufficienti, sembrava prendere la situazione con una certa leggerezza. Avrei detto, anzi, che la trovasse divertente.

— Non puoi cercare di spiegarle — la pregai — che ho già intenzione di proteggerli tutti, senza bisogno di… incentivi da parte sua?

Anya sorrise e non rispose.

Ogni notte quella stella sinistra ci guardava da lassù come una macchia splendente di sangue rappreso, brillando con tale intensità da proiettare le nostre ombre sul terreno, più luminosa della luna stessa. Nemmeno la luce dell’alba riusciva a oscurarla del tutto, ed essa splendeva nel cielo del mattino fino a scendere sotto l’orizzonte. Non poteva trattarsi di un pianeta. Era lì, unica fra tutte le stelle, minacciosa, agghiacciante.

Una notte domandai ad Anya se sapeva cosa fosse.

Rimase a fissarla per un lungo istante, e la luce scura dell’astro rese il suo bel volto fosco e cinereo. Poi le lacrime le riempirono gli occhi e scosse il capo.

— Non lo so — rispose, con un sospiro che lasciava intendere una malcelata afflizione. — Non so più nulla.

Cercò di trattenere le lacrime, ma non ci riuscì. Singhiozzando, premette il volto contro la mia spalla, perché gli altri non la sentissero piangere. La strinsi a me, a disagio. Non avevo mai visto una dea piangere.

Secondo i miei calcoli fu durante l’undicesimo giorno di marcia che il giovane Chron si precipitò da me con dipinto sul volto un sorriso da un orecchio all’altro.

— Là, sulla collina! Ho visto degli alberi! Molti alberi!

Il giovane era andato in avanscoperta. Nonostante le fatiche della marcia e il terrore che ci spronava ad avanzare, la tribù sembrava adesso versare in condizioni fisiche migliori di quando l’avevamo incontrata. Mangiavano regolarmente, e la loro dieta era ricca di proteine. Il giovane Chron aveva un aspetto di gran lunga migliore, e sicuramente era molto più in forze anche solo rispetto a un paio di giorni prima. I solchi profondi fra le sue costole cominciavano a riempirsi.

Salii con lui verso la cima della collina e da lì vidi che la terra all’orizzonte non era più una piatta distesa d’erba. Era mutata in una linea frastagliata di alberi che ondeggiavano come per invitarci a raggiungerli.

— Paradiso! — Noch si era portato al mio fianco. La sua voce tremava di gioia e di emozione.

Procedemmo alla massima velocità possibile in direzione degli alberi e infine, sul calar della sera, ne raggiungemmo la fresca ombra e ci lasciammo cadere stremati sul terreno coperto di muschio.

Tutt’intorno a noi torreggiavano querce dai rami contorti, pini alti e slanciati, eleganti abeti emananti aromi balsamici; aggraziati tronchi sottili di giovani betulle punteggiavano quel mondo verde di fronde. Il terreno era coperto di felci e muschi. Notai alcuni funghi premuti fra le radici di un’enorme, vecchia quercia e fiori che ondeggiavano delicatamente sotto una brezza leggera.

Una grande sensazione di sollievo ci sommerse tutti, un senso di sicurezza; come se fossimo giunti in un luogo in cui i terribili timori che ci avevano accompagnati durante tutto il viaggio potevano infine venire dissipati. Gli uccelli cinguettavano allegri fra i rami come per offrirci il loro benvenuto a Paradiso.

Mi alzai a sedere e inspirai una profonda boccata di quell’aria fresca, pulita, fragrante di pino, rosa selvatica e cannella. Anche Anya sembrava felice. Udimmo lo sciacquio di un ruscello oltre i cespugli che crescevano fra i tronchi degli alberi.

Un daino apparve da uno di quei cespugli e per un momento rimase a guardarci coi suoi grandi occhi scuri. Quindi si voltò e fuggì via.

— Cosa ti dicevo, Orion? — disse Noch, raggiante per la felicità. — Questo è Paradiso!

Quella sera gli uomini misero in pratica le rudimentali tecniche di caccia che avevo insegnato loro per catturare un maiale selvatico sceso al ruscello per abbeverarsi. Dimostrarono molto più entusiasmo che abilità e il maiale, strillando come un ossesso, fuggì per parecchie centinaia di metri prima che riuscissero a infilzarlo con le loro lance rudimentali. Ma festeggiammo fino a notte inoltrata, quindi cademmo in un sonno profondo.

Anya si raggomitolò fra le mie braccia, addormentandosi all’istante. Mentre il fuoco moriva lentamente per poi ridursi in cenere, rimasi a fissare il volto di lei, sporco del grasso della nostra cena. Aveva i capelli arruffati. Nonostante tutti i suoi sforzi, non era più l’impeccabile dea depositaria di una cultura superiore. Ricordai vagamente un’altra esistenza, trascorsa insieme a quell’altra tribù di cacciatori in cui lei era una di loro, un’intrepida sacerdotessa che gioiva alla vista del sangue e per l’eccitamento della caccia.

Non sarebbe stato poi così male anche se fossimo stati costretti a rimanere in quell’epoca, pensai. Perdere contatto con i Creatori presentava anche qualche lato positivo. Saremmo stati liberi dai loro schemi e dalle loro congetture. Liberi dalle responsabilità di cui mi avevano gravato. Avremmo potuto vivere felici in quel paradiso come una coppia di normalissimi esseri umani; non più dea e creatura ma un uomo e una donna che conducevano una vita normale in un’epoca semplice e primitiva.

Vivere una vita normale, liberi finalmente dal volere dei Creatori. Sorrisi a me stesso nell’oscurità, e per la prima volta da quando eravamo giunti in quel tempo e luogo mi lasciai sprofondare in un corroborante sonno profondo.

Ma insieme al sonno venne un incubo. No, non un incubo: un messaggio. Un avvertimento.

Vidi la statua di Set sovrastare le rive del Nilo. La statua tremò e prese vita sotto il mio sguardo. I suoi occhi spenti di granito si animarono per mettersi a fuoco su di me. Un’ondata di calore secco sembrò far evaporare tutte le forze dal mio corpo; era come se qualcuno avesse spalancato d’improvviso la porta di una gigantesca fornace. Un acre odore di zolfo mi riempì i polmoni. La bocca di Set si aprì sibilando e scoprendo file su file di denti aguzzi.

Era una presenza opprimente. Si profilava sopra di me, eretta sulle artigliate zampe posteriori. La lunga coda dondolava lentamente avanti e indietro mentre quegli occhi da rettile mi guardavano con la stessa espressione di un invincibile predatore che osservi una vittima particolarmente innocua e indifesa.

— Tu sei Orion.

Non aveva parlato; le parole erano fluite direttamente nei miei pensieri. Erano parole colme di malevolenza, pervase da una malvagità così profonda e perfetta da farmi provare brividi su per la spina dorsale.

— Io sono Set, signore di questo mondo. Sei stato inviato qui per distruggermi. Abbandona ogni speranza, sciocco: è impossibile.

Non potevo parlare, non riuscivo nemmeno a muovermi. Allo stesso modo mi ero sentito quand’era stato generato dal Radioso. Anche la sua presenza mi aveva paralizzato; tale era stato l’effetto che aveva prodotto nella mia mente. Eppure, in qualche modo avevo imparato a vincere quella sensazione. Adesso quella mostruosa apparizione carica di malvagità mi aveva soggiogato con forza ancora maggiore. Sapevo, con matematica sicurezza, che Set avrebbe potuto bloccare il mio respiro con un’occhiata, fermare il mio cuore con un semplice movimento del suo occhio rosso e fiammeggiante.

— I tuoi Creatori mi temono, e a ragione. Riuscirò a distruggerli senza fatica, loro e tutte le loro creature, a cominciare da te.

Cercai di muovermi, di dire qualcosa, ma non ero più in grado di controllare nessuna parte del corpo.

— Pensi di avermi danneggiato gravemente, uccidendo una delle mie creature e portando via un gruppetto di schiavi dal mio giardino?

Il terrore che Set riversava dentro di me andava oltre qualsiasi immaginazione. Compresi di trovarmi al cospetto del più terribile fra i timori profondi della specie umana, quello che un giorno avrebbero evocato col nome di Satana.

— Pensi di poter sfuggire al mio castigo, ora che hai raggiunto il tuo paradiso? — proseguì Set, con parole che bruciavano nella mia mente.

Non sapeva ridere, ma nel tono della sua voce percepii un diletto corrosivo come acido mentre diceva: — Vi infliggerò una punizione tale da farvi implorare la morte e il fuoco eterno. Anche nel vostro paradiso posso mandare un flagello in grado di scovarvi nella più fonda delle notti. Non subito. Forse nemmeno per molte notti a venire. Ma presto, molto presto.

Urlai per lo sforzo, nel tentativo di liberarmi dalla sua stretta mentale. Ma le mie grida erano silenziose; non avevo forza sufficiente per dar loro voce. Non riuscivo nemmeno a sudare, nonostante avessi raccolto ogni grammo della mia forza nel disperato tentativo di combattere il potere che quel mostro esercitava su di me.

— Non disturbarti a combattere, umano. Goditi quei frammenti di vita che ti sono rimasti. Vi annienterò tutti, compresa la donna che ami, la sedicente dea. A lei riserverò la più dolorosa delle morti.

Poi, d’improvviso, stavo urlando a squarciagola. Seduto sul terreno muschioso sotto gli alberi di Paradiso, mentre il sole si affacciava su un nuovo giorno, gridavo di terrore, colmo dell’odio verso se stessi che deriva dall’impotenza.

5

Tutti mi si fecero intorno, sgranando gli occhi, lanciandomi sguardi inquisitivi.

— Cosa c’è, Orion?

— Niente — risposi. — Un brutto sogno; nient’altro che un brutto sogno. — Ma ero fradicio di sudore, e dovetti controllare i nervi per non mettermi a tremare.

Mi chiesero di raccontare il sogno, per poterlo interpretare. Risposi che non riuscivo a ricordare nulla, e alla fine li convinsi a lasciarmi in pace.

Ma erano visibilmente scossi. E Anya mi guardava con occhi interrogativi. Sapeva che era necessario ben più di un incubo per farmi gridare.

— Andiamo — dissi, rivolto a tutti. — Dobbiamo inoltrarci ancora di più in questi boschi. — Dobbiamo allontanarci da Set il più possibile, intendevo dire, anche se non potevo pronunciare quelle parole ad alta voce.

Anya si portò al mio fianco. — Era il Radioso? O uno degli altri Creatori?

Scrollando il capo, risposi con una sola parola: — Set.

Il colore scomparve dal suo volto.

Avanzammo nella foresta per molti giorni ancora, seguendo il rigagnolo che sfociò in un torrente più ampio le cui acque scorrevano verso sud. Ormai tutti gli uomini avevano una lancia, e io avevo insegnato loro a indurirne la punta con il fuoco. Volevo raggiungere un luogo in cui vi fossero selci e quarzi in abbondanza, per poter costruire attrezzi e armi di pietra.

Gli uccelli saltellavano veloci fra i rami degli alberi, brillanti lampi di colore in tutto quel verde. Gli insetti producevano un costante ronzio di sottofondo. Scoiattoli e altri piccoli mammiferi pelosi si arrampicavano veloci su per i tronchi al nostro passaggio per poi fermarsi a guardare. La mia sensazione di pericolo si attenuò, i miei timori della presenza strisciante di Set diminuivano a mano a mano che ci inoltravamo in quella pacifica, fresca, benevola foresta.

O meglio, quello era il suo aspetto diurno. Di notte era un’altra faccenda. Nell’oscurità, la foresta era un mondo del tutto differente. Anche con un fuoco di notevoli dimensioni a scaldare e illuminare il nostro accampamento, di notte essa assumeva un aspetto lugubre e minaccioso. Le ombre si muovevano come esseri viventi. Urli e gemiti si propagavano nell’oscurità. I tronchi stessi si mutavano in oscure figure contorte che allungavano le braccia in cerca di una vittima da ghermire. Gelidi brandelli di nebbia fluttuavano come spettri appena oltre il calore del nostro fuoco, facendosi sempre più vicini man mano che le fiamme scemavano.

Il nostro gruppetto passava quelle agghiaccianti notti di tenebra fra sonni agitati, turbati dagli incubi e dal timore di ciò che poteva muoversi al di là della nostra visuale. Avanzavamo alla luce del giorno, quando la foresta era rallegrata dal canto degli uccelli e illuminata dai raggi del sole che filtravano tra i rami degli alberi. Di notte ci rannicchiavamo l’uno vicino all’altro, timorosi di tutto ciò che non potevamo vedere.

Infine raggiungemmo una serie di rocce scabre nelle quali il ruscello, ormai un fiume di notevoli dimensioni, aveva scavato il proprio corso. Seguendo lo stretto passaggio tra la pietra e il fiume giungemmo in uno spiazzo concavo: era come se un enorme blocco di pietra semicircolare fosse stato strappato alla roccia dalle mani poderose di un gigante.

Lasciai Anya e gli altri presso la riva del fiume e mi recai a esplorare quella strana ciotola di pietra. Le sue pareti ricurve si ergevano alte sopra di me, variopinte in strati di color ocra o giallo e del grigio del granito. Pinnacoli di roccia rosata torreggiavano su entrambi i lati della scodella, alti e affusolati contro l’azzurro brillante del cielo.

Attraverso i cespugli che coprivano il terreno di quel piccolo canyon scorsi gli ingressi scuri di molte caverne che si aprivano sui fianchi ricurvi di quella singolare formazione rocciosa. Con l’acqua e gli alberi a poca distanza, godeva di una posizione strategicamente ideale, offrendo un buon punto d’osservazione su eventuali nemici in avvicinamento.

— Ci accamperemo qui — gridai agli altri, ancora presso la riva del fiume.

— …remo quiii — rimbombò un’eco generata dalla conformazione circolare della parete di roccia.

I miei compagni balzarono in piedi, sgomenti. A gambe levate si precipitarono al mio fianco.

— Abbiamo udito la tua voce per due volte — disse Noch, sconvolto.

— È solo l’eco — risposi. — Ascolta. — Urlai il mio nome.

— Orion! — fece l’eco.

— C’è un dio nella roccia! — disse Reeva, tremando sulle ginocchia.

— No, no — cercai di rassicurarli. — Prova anche tu. Grida il tuo nome, Reeva.

La donna serrò le labbra. Abbassato lo sguardo sulle proprie ginocchia sporche, scosse il capo in segno di rifiuto.

Fu Anya a gridare, e a lei fece seguito il giovane Chron.

— È proprio un dio — disse Noch. — O forse uno spirito maligno.

— Né l’uno né l’altro — insistetti. — Non è che un’eco naturale. Il suono rimbalza sulla roccia fino a tornare alle nostre orecchie.

Non riuscivano ad accettare una spiegazione naturale per quel fenomeno, era evidente.

Allora dichiarai: — Be’, se poi è un dio, sicuramente deve trattarsi di una divinità a noi benevola, e aiuterà a proteggerci. Nessuno potrà avvicinarsi a questo canyon senza udirlo.

Accettarono, sia pure con riluttanza, la mia valutazione del fenomeno. Mentre percorrevamo lo stretto sentiero tagliato nella roccia in direzione delle caverne, il loro timore nei confronti di quella strana, spettrale ciotola di pietra era evidente. Invece di esasperarmi per i loro timori superstiziosi ero felice che, se non altro, mostrassero un minimo di coraggio e d’iniziativa. Di nuovo si erano rassegnati a fare come avevo detto, questo è vero, ma non sembravano esserne convinti. Non erano più un gregge di pecore pronte a seguire il loro capo senza discutere. Mi obbedivano ancora, ma non senza mettermi in discussione.

Noch insistette per innalzare un cumulo di pietre alla base della cavità di roccia, per propiziarsi “il dio che parla”. Nonostante la valutassi un’idea colma di superstizione, li aiutai a costruire il loro rozzo monumento.

— Vuoi metterci alla prova, Orion, non è così? — disse Noch, ansimando mentre sollevava una pietra sulla cima del cumulo che ormai mi arrivava alle spalle.

— Mettervi alla prova?

Gli altri si erano disposti in cerchio per ammirare la loro opera ormai completa.

— Tu sei un dio. Il nostro dio.

Scrollai il capo. — No. Sono soltanto un uomo.

— Nessun uomo sarebbe stato in grado di uccidere il drago che ci sorvegliava — disse Vorn, uno degli anziani. La sua barba scura era striata d’argento, e sulla testa mostrava i primi segni di una calvizie incipiente.

— Il drago mi ha quasi ucciso. E se Anya non fosse venuta in mio aiuto, ci sarebbe riuscito.

— Sei un uomo fatto, eppure non hai la barba — disse Noch, come per comprovare la propria tesi.

Mi strinsi fra le spalle. — La mia barba cresce molto lentamente, è vero, ma ciò non mi rende un dio, credimi.

— Ci hai riportato a Paradiso. Soltanto un…

— Non sono un dio — dissi, con forza. — E voi, tutti voi siete tornati a Paradiso con le vostre stesse gambe. Avete camminato fin qui come ho fatto io. E non c’è nulla di divino in tutto questo.

— Eppure — insistette Noch — gli dèi esistono.

Non potei rispondere a quell’osservazione. Sapevo che, in un lontano futuro, esistevano uomini e donne con poteri divini. E conoscevo bene il distorto egocentrismo di chi esercitava simili poteri.

Tutti mi guardavano fisso, in attesa di una risposta. Infine, dissi: — Ci sono molte cose che non siamo in grado di comprendere. Ma io sono un uomo, e la voce che viene dalle rocce non è che un’eco.

Noch scambiò un’occhiata con i suoi compagni, le labbra contorte nel classico sorriso benevolo di chi la sa lunga. Otto uomini del Neolitico, sporchi, vestiti di stracci. Sapevano riconoscere un dio quando ne incontravano uno, a prescindere dalle sue proteste.

Se ora mi temevano come un dio, o se temevano l’eco che avevano nominato “il dio che parla”, nel giro di qualche giorno la luce del benessere spazzò via le loro paure. Le caverne erano asciutte e spaziose. La selvaggina era abbondante e facile da catturare. In breve la vita divenne piacevole.

Gli uomini cacciavano e pescavano nel torrente mentre le donne si adoperavano a raccogliere frutti, tuberi e noci.

Anya insegnò loro a raccogliere spighe di cereali, a stenderle su una roccia piatta e pestarle con pietre, poi lanciare in aria i chicchi perché il vento ne portasse via il loglio. Una settimana più tardi le donne presero a cuocere una sorta di rozze tortillas mentre io mostravo agli uomini come costruire archi e frecce.

Chron e i suoi amici adolescenti divennero piuttosto abili nel catturare gli uccelli con reti di rampicanti intrecciati. Dopo aver banchettato con le loro carni ne usavamo le penne per le nostre frecce.

Una notte, mentre Anya e io eravamo distesi l’uno accanto all’altra in una caverna, mi congratulai per la sua conoscenza delle arti domestiche. Anya rise. — Le ho apprese in un’altra vita, prima dell’inondazione di Ararat. Non ricordi?

Una vaga reminiscenza si affacciò nella mia mente. Rividi col pensiero una tribù di cacciatori molto simile a questa. Un’inondazione causata da un nemico estremamente pericoloso. E ricordai l’agonia della morte fra le onde ribollenti della lava.

— Ahriman — dissi, rivolto più a me stesso che ad Anya.

— Riesci a ricordare eventi sempre più lontani!

La caverna era scura, non avevamo acceso il fuoco. Tuttavia, anche sotto la debole luce delle stelle vidi il volto di Anya illuminarsi di una nuova speranza.

Alzandosi su un gomito mi chiese: — Orion, hai cercato di metterti in contatto con i Creatori?

— No. Se non ci riesci tu, come potrei farlo io?

— I tuoi poteri si sono notevolmente accresciuti dal giorno della tua creazione — disse, parlando velocemente e con eccitazione. — Set ha bloccato me, ma forse tu sei in grado di farcela!

— Non vedo come…

— Prova! Io ti aiuterò. Insieme potremmo avere la meglio sul potere che lui sta usando per ostacolarmi.

Annuii e mi girai sulla schiena. Il pavimento di pietra della caverna era ancora caldo della luce del sole. Come le altre famiglie della tribù avevamo costruito un giaciglio di sterpaglie e muschio in un angolo della caverna, coprendolo con la pelle di un cervo che avevo ucciso, l’animale più grosso che avevamo incontrato nella foresta. C’erano anche i lupi, là fuori; ogni notte ne udivamo gli ululati. Ma non si erano mai avvicinati alle caverne, alte com’erano sulla scoscesa parete di roccia e protette dal fuoco.

— Proviamo? — chiese Anya.

— Sì, certo. — Ma qualcosa mi spingeva a esitare. Quel luogo, quella vita insieme ad Anya, in fondo mi piacevano. Provavo una certa riluttanza a ristabilire il contatto con i Creatori. Essi ci avrebbero costretti a occuparci nuovamente del compito per cui eravamo lì, a seguire il loro schema senza poter difendere il continuum e i loro futili litigi, che potevano sfociare in massacri simili a quelli di Troia o di Gerico. La nostra piacevole esistenza a Paradiso sarebbe terminata nel momento in cui fossimo riusciti a metterci in contatto con loro.

Allora rammentai l’implacabile malvagità di Set. Vidi nella mia mente il suo volto demoniaco e i suoi occhi sfavillanti. Udii le sue parole minacciose: Vi distruggerò tutti, compresa la donna che ami, la sedicente dea. A lei riserverò la più dolorosa delle morti.

Strinsi la mano di Anya e chiusi gli occhi. Fianco a fianco, ci concentrammo entrambi nel tentativo di raggiungere le menti dei Creatori.

Vidi un bagliore, e per un attimo pensai che fossimo riusciti nel nostro intento. Ma invece dell’aura dorata che ammantava il punto spaziotemporale dei Creatori, quella luce aveva una colorazione rossastra, simile al colore delle scure fiamme dell’inferno; simile all’occhio splendente della stella rosso sangue che vegliava imperterrita su di noi, una notte dopo l’altra.

La luce si concentrò in un punto, mettendosi a fuoco come un’immagine al telescopio. Da essa comparve il volto spietato e colmo d’odio di Set.

— Presto, Orion. Molto presto, ormai. So dove siete. Manderò il flagello che avevo promesso. La vostra fine sarà lenta e dolorosa, miserabili scimmie.

Balzai a sedere.

— Cosa c’è? — domandò Anya, terrorizzata, alzandosi a sedere anche lei. — Cos’hai visto?

— Set. Sa dove siamo. Temo di avergli rivelato la nostra posizione nel tentativo di mettermi in contatto con i Creatori. Siamo caduti nella sua trappola.

6

Per tutta la notte rimanemmo svegli a discutere sul da farsi. Le nostre possibilità di scelta erano miseramente limitate. Potevamo rimanere in quel luogo, anche se Set ne conosceva l’ubicazione. Avremmo potuto fuggire spingendoci ancora di più all’interno della foresta nella speranza che non riuscisse a trovarci. Se avessimo cercato di contattare i Creatori, il fascio d’energia mentale che avremmo prodotto sarebbe stato per Set un segnale distinto come un raggio laser sparato nella notte. Ma se non potevamo entrare in contatto con i Creatori, allora eravamo praticamente inermi contro quel demone in forma di rettile e i suoi enormi poteri.

Non arrivammo a nessuna conclusione. Qualsiasi eventualità sembrava portare verso il disastro più totale. Alla fine, mentre i primi raggi del nuovo giorno cominciavano a rischiarare il cielo, Anya si distese sul nostro giaciglio e chiuse gli occhi per piombare in un sonno inquieto.

Mi portai all’ingresso della caverna e sedetti con la schiena contro la roccia, analizzando con lo sguardo il fondo del canyon. Potevo osservare la valle fino al fiume e ancora un po’ più in là. Qualsiasi nemico si fosse avvicinato, da lassù sarebbe stato facilmente individuabile. Inoltre, ogni rumore veniva amplificato dalla conformazione naturale della conca.

La stella rossastra brillava nel cielo mattutino, incurante della luce del sole. Per qualche motivo mi faceva gelare il sangue nelle vene; quella stella non poteva appartenere a quel luogo. Era un’intrusa nel cielo, indizio del fatto che le cose non andavano per il verso giusto.

Vidi Noch e gli altri destarsi. Noch stava diventando piuttosto muscoloso. Il petto e le braccia gli si erano gonfiati notevolmente. Camminava a testa alta. Persino la gracile Reeva si era fatta più in carne, cominciando ad apparire piuttosto attraente. Le ferite sulla sua schiena erano ormai semplici lividi azzurrognoli.

Discendendo il pendio roccioso verso fondovalle raggiunsi Noch, anche lui diretto verso il fiume. Mi arrivava appena alle spalle, e dovette sollevare lo sguardo verso la luce del sole per parlarmi. Ma ogni cenno di servilismo era scomparso dal suo comportamento.

Giungemmo insieme al ruscello e urinammo contro la riva fangosa, da pari almeno in quello.

— Cacceremo di nuovo, oggi? — domandò Noch.

— Tu cosa dici? Pensi che dovremmo farlo? — replicai.

— Abbiamo ancora molta carne della capra che abbiamo ucciso ieri — disse, tirandosi la barba scarmigliata — ma mentre tornavamo qui ho visto le orme di un grosso animale presso la riva; orme che non avevo mai visto prima.

Me le mostrò. Erano orme di un orso di dimensioni piuttosto notevoli, e dissi che era meglio tenersi alla larga da una bestia come quella. A giudicare dalla grandezza delle sue impronte doveva essere un orso delle caverne, che poteva raggiungere un’altezza di quasi due metri in posizione eretta. Le zampe che avevano prodotto quelle impronte potevano spezzare la schiena di un uomo con un sol colpo. Descrissi l’aspetto di un orso, spiegai quanto fosse feroce e i pericoli di un simile incontro.

Con mia sorpresa, le mie parole servirono solo a eccitarlo. Non vedeva l’ora di seguirne le orme.

— Siamo in grado di ucciderlo! — disse. — Tutti noi, insieme. Possiamo farcela.

— Ma perché? — domandai. — Perché correre un rischio simile?

Noch si tirò nuovamente la barba, cercando le parole adatte. Pensai di sapere cosa gli stesse frullando per la testa: voleva uccidere l’orso per provare a se stesso e alle donne che era un valoroso cacciatore. Il re della foresta.

Ma invece disse: — Se quella bestia è pericolosa come dici, Orion, non pensi che potrebbe arrivare alle nostre caverne, di notte, e attaccarci? Potrebbe essere più pericoloso non ucciderlo.

Gli lanciai un sorriso. Aveva cominciato a riflettere con la sua testa, la docilità dello schiavo aveva lasciato posto al coraggio del cacciatore. Forse un giorno sarebbe diventato un capo.

Improvvisamente, la mia mente venne colpita da un pensiero sgradevole. E se quell’orso fosse stato un’arma diretta da Set contro di noi? Un orso delle caverne poteva essere in grado di uccidere buona parte del nostro gruppo, se fosse riuscito a colpire di notte.

— Hai ragione — dissi. — Raduna tutti gli uomini, e gli daremo la caccia.

Noch tornò insieme ai suoi sette compagni, e ognuno di loro imbracciava un paio di rozze lance. Io ero armato di un arco e avevo una mezza dozzina di frecce nella faretra. Alcuni stringevano in mano rozzi coltelli di selce, semplici schegge di pietra affilate su un lato e lavorate in modo da adattarsi al palmo della mano. Anya avrebbe voluto venire con noi, ma io la convinsi ad attendere insieme alle donne per non infrangere quella precaria divisione dei compiti che avevamo stabilito solo poco tempo prima.

— Molto bene — rispose lei, scuotendo il capo con aria infelice. — Resterò con le donne mentre vai fuori a divertirti.

— Resta in guardia — dissi. — Quest’orso potrebbe essere un diversivo di Set per attirarci fuori dalle caverne.

Fu una giornata lunga e spossante, durante la quale rimasi costantemente all’erta. Con tutta probabilità doveva esserci più di un orso in quei boschi. Gli orsi vivono sempre vicino ad altri loro simili. Eppure, per quanto cercassimo, quella serie di impronte sembrava unica.

Le impronte seguivano la riva del fiume, sotto le fronde degli alberi. Uccelli multicolori gridavano al nostro passaggio, e gli insetti balzavano lontani dai nostri passi nel calore del pomeriggio.

Chron si arrampicò su un pino dal fusto inclinato, e dall’alto di quel punto d’osservazione gridò: — Il fiume fa una brusca svolta verso destra e poi diventa molto più ampio. Sembra… iaaah!

Il suo urlo improvviso ci fece sobbalzare. Il giovane schiaffeggiava freneticamente l’aria intorno alla testa con una mano, scendendo giù per il tronco con l’ausilio dell’altra. Quando fu più vicino compresi che era stato attaccato da uno sciame di api furiose.

Mi precipitai sotto l’albero. Chron scivolò e perdette la presa, cadendo fra i rami più bassi. Percorsi gli ultimi passi che mi dividevano da lui e lo presi al volo fra le braccia, poi entrambi cademmo a terra con un rumore sordo e poco dignitoso. L’aria fuoriuscì con violenza dai miei polmoni, e sentii le braccia dolere come se si fossero staccate dalle spalle.

Le api giunsero al suo inseguimento: uno sciame ronzante e bellicoso.

— Nel fiume! — gridai. Tutti e nove corremmo come se avessimo un demonio alle calcagna e ci tuffammo senza un minimo di dignità fra le gelide acque del fiume mentre le api, furibonde, riempivano l’aria come una minacciosa nuvola di dolore. Nessuno fra i miei compagni sapeva nuotare, ma tutti imitarono i miei movimenti mentre abbassavo la testa sotto il pelo dell’acqua allontanandomi carponi dalla riva.

Nove teste balzarono fuori dall’acqua, mentre una moltitudine di mani si muovevano freneticamente per proteggersi dai minuscoli torturatori. Eravamo sufficientemente lontani dalla riva; lo sciame di api distava ora parecchi metri, continuando a ronzare per reclamare i propri diritti ma senza più perseguitarci.

Per alcuni minuti rimanemmo coi piedi nel fango e il volto appena sopra al livello dell’acqua. Le api fecero ritorno al loro alveare in cima all’albero.

Mi tolsi dal viso il gambo fradicio di una ninfea. — Pensi ancora che io sia un dio? — domandai a Noch.

Gli uomini scoppiarono a ridere. Noch rise fragorosamente indicando il viso di Chron, pieno di protuberanze e rosso come il fuoco per le punture. Non era certo una cosa di cui burlarsi, ma in quel momento tutti ci sbellicammo dalle risa. Tutti tranne il povero Chron.

Avanzammo parecchi metri in direzione della corrente prima di uscire dall’acqua. Chron soffriva molto. Lo feci sedere su un tronco e lo esaminai con cura fino a scorgere i minuscoli pungiglioni sul suo volto e sulle spalle gonfie, per poi lavorarmeli con le unghie. Ogni volta il malcapitato strillava e sussultava, ma alla fine riuscii a estrarglieli tutti. Quindi spalmai fango sulle minuscole ulcerazioni.

— Come ti senti adesso? — domandai.

— Meglio — rispose lui, con aria sconsolata. — Il fango è rinfrescante.

Noch e gli altri ridacchiavano ancora. Il volto di Chron era impiastricciato a tal punto che solo gli occhi e la bocca erano ancora visibili.

Il sole si era abbassato verso occidente. La luce del sole non sarebbe durata tanto a lungo da permetterci di rintracciare il nostro orso, e tantomeno di affrontarlo. Ma ero incuriosito dalla descrizione che Chron aveva dato del fiume davanti a noi.

Così tagliammo per i boschi, allontanandoci dalla riva del fiume per incontrarne l’ansa successiva. Avanzavamo con difficoltà; il sottobosco era fitto e intricato, spine e ortiche ci ferivano le gambe nude. Dopo circa mezz’ora scorgemmo nuovamente l’acqua, ma in quel punto il fiume era così ampio da sembrare un lago.

E, chino sulla riva, il nostro orso fissava le piccole onde che increspavano lievemente la superficie dell’acqua. Rimanemmo immobili, trattenendo il respiro, nel folto di alcuni rovi di mora selvatica. L’aria soffiava verso di noi, portando il nostro odore lontano dalle sensibilissime narici dell’orso. Non poteva sapere che eravamo così vicini.

Era una bestia di taglia enorme, dal pelo bruno rossastro. Se Chron si fosse messo in piedi sulle spalle di Noch, l’orso eretto sulle zampe posteriori sarebbe stato ancora più alto di loro. Potei avvertire la gelida mano della realtà richiudersi impietosa intorno alla gola dei miei intrepidi cacciatori. Uno di loro, alle mie spalle, deglutì producendo un sonoro schiocco.

In un’altra epoca avevo già ucciso un animale simile. L’improvviso ricordo di quell’episodio mi fece raggelare.

L’orso, ignaro della nostra presenza, si mise sulle quattro zampe e mosse una mezza dozzina di passi lenti e sicuri nelle acque del lago. Quindi si fece immobile, gli occhi fissi nell’acqua. Infine percosse l’acqua con la zampa, e un grosso pesce argenteo volò piroettando nell’aria, le squame scintillanti sotto la luce del sole, per poi cadere sull’erba dimenando la coda e sforzando le branchie nel disperato tentativo di riprendere a respirare.

— Hai sempre intenzione di affrontarlo? — sussurrai a Noch in un orecchio.

L’uomo si mordicchiava nervosamente il labbro inferiore e i suoi occhi erano colmi di terrore, ma ugualmente riuscì a sollevare e abbassare ripetutamente il capo in segno d’approvazione. Ci eravamo spinti troppo avanti per pensare di poter tornare alle nostre case con nient’altro da mostrare che le punture d’ape sul volto coperto di fango di Chron.

Con rapidi cenni della mano feci disporre a semicerchio il mio gruppetto di cacciatori, segnalando loro di acquattarsi tra i cespugli. Lentamente, mentre l’orso era ancora impegnato a pescare, mi sfilai l’arco dalle spalle. Dopo aver fatto cenno agli altri di rimanere al loro posto, cominciai ad avanzare sul ventre, con cautela, simile più a una serpe che a un valente cacciatore.

Sapevo che quelle frecce rudimentali non erano abbastanza precise da poter colpire a distanza anche un bersaglio grosso come quello. Continuai a strisciare fra i rovi mentre gli uccelli schiamazzavano sopra di me e uno scoiattolo strideva in tono di rimprovero dall’alto del suo albero.

L’orso sollevò lo sguardo girandosi d’attorno, e io mi feci piatto sul terreno. Poi l’animale tornò alle sue mansioni. Un altro guizzo della zampa e un’altra trota uscì dall’acqua compiendo un ampio arco lucente.

Mi alzai lentamente su un ginocchio e tesi l’arco al massimo. L’orso era così grosso e vicino che non potevo mancarlo. Scoccai la freccia. Il dardo si conficcò tra le costole della belva, emettendo il classico suono sordo del legno che colpisce la carne.

L’orso ansimò, più seccato che dolorante, e si guardò intorno. Allora balzai in piedi e incoccai un’altra freccia al mio arco. La bestia ruggì e si mise eretta sulle zampe posteriori, raggiungendo un’altezza pari al doppio della mia. Mirai alla gola, ma la freccia piegò in aria infilzandosi nella spalla dell’animale. Doveva aver colpito l’osso, perché si fermò di colpo come se avesse urtato un’armatura.

Adesso la bestia era veramente furibonda. Ululando con tanta forza da far vibrare il terreno, si abbassò sulle quattro zampe e cominciò a caricarmi. Presi a correre nella speranza che i miei cacciatori fossero sufficientemente coraggiosi da balzare fuori dai loro nascondigli e attaccare l’orso su tutti i lati.

E così fecero. L’animale avanzava velocemente tra i cespugli appena dietro di me quando otto uomini, spaventati ma esultanti, gli affondarono le lance nei fianchi. L’orso ruggì nuovamente e si guardò intorno, pronto ad affrontare i suoi nuovi persecutori.

Non fu un bello spettacolo. Le lance si spezzavano in cascate di schegge, il sangue scorreva a fiotti. Uomini e bestia ruggivano per il dolore e la rabbia. Colpimmo il povero animale fino a quando non fu che un mucchio di pelo tremante fra i cespugli sporchi di sangue. Gli assestai il colpo di grazia col pugnale, e l’orso delle caverne crollò finalmente sul terreno, dove rimase immobile.

Per alcuni istanti rimanemmo a terra, tremando per la spossatezza e per l’iperproduzione di adrenalina. Anche noi eravamo coperti di sangue, ma era quello della nostra vittima. Soltanto l’uomo di nome Pirk si era rotto un braccio. Lo tirai, provocando le sue grida di dolore, quindi improvvisai una fasciatura assicurandolo a un pezzo di legno piatto che avevo ricavato dal ramo di un albero.

— Anya sa preparare unguenti miracolosi — dissi. — Presto il tuo braccio tornerà a posto.

L’uomo annuì, il volto sbiancato dal dolore, le labbra ridotte a una sottile linea esangue.

Gli altri si inginocchiarono di fianco all’orso per scuoiarlo. Noch decise di portare con sé il cranio e la pelle dell’animale per mostrarli alle donne come segno della nostra vittoria.

— Nessuna belva oserà minacciarci con un simile trofeo davanti alle nostre caverne — disse.

Stava scendendo il tramonto quando percepii che non eravamo soli. Gli uomini avevano quasi completato il loro lavoro di scuoiatura. Chron e io avevamo raccolto della legna e acceso un fuoco. Fra le ombre intorno a noi si erano radunate altre presenze. Non animali. Erano uomini.

Mi alzai in piedi e mi allontanai dal fuoco per osservare meglio le ombre che si muovevano nel fitto sottobosco. D’istinto mi chinai per estrarre il pugnale dal fodero che tenevo legato alla caviglia.

Chron mi stava osservando. — Cosa c’è, Orion?

Feci cenno di tacere, portandomi un dito alle labbra. Gli altri sette distolsero lo sguardo da me per portarlo in direzione delle ombre.

Un uomo uscì da dietro i cespugli e rimase a guardarci con aria solenne. La luce del fuoco tinse di rosso il suo volto facendo brillare i suoi occhi. Indossava una tunica di pelle grezza, e in una mano reggeva una lunga lancia che conficcò con la punta nel terreno. Non era più alto di Noch o di qualsiasi altro fra i miei compagni, sebbene apparisse di costituzione più robusta e molto più sicuro di sé. Aveva spalle ampie, ed era più anziano di loro: i suoi capelli e la lunga barba erano grigi. I suoi occhi analizzarono ogni dettaglio del nostro accampamento.

— Chi sei? — domandai.

— Chi siete voi? — ribatté quello. — E perché avete ucciso il nostro orso?

— Il vostro orso?

Il nuovo venuto sollevò la mano e la mosse a semicerchio: — Tutta questa terra intorno al lago è nostro territorio. I nostri padri hanno cacciato qui, e così i loro padri e i padri dei loro padri.

Una dozzina di altri uomini uscirono dall’ombra, tutti armati di lancia. Con loro erano anche alcuni cani con le orecchie tese all’indietro e gli occhi verdi e belluini fissi su di noi in segno di minaccia.

— Siamo nuovi di qui — dissi. — Non sapevamo che altri uomini cacciassero in questa zona.

— Perché avete ucciso il nostro orso? Non vi aveva fatto alcun male.

— L’abbiamo inseguito dalle nostre dimore lungo il fiume. Temevamo che potesse attaccarci nel sonno, di notte.

L’uomo tirò un profondo respiro, quasi uno sbuffo. Era una situazione nuova per lui quanto lo era per noi. Cosa fare? Combattere o fuggire? O forse qualcos’altro?

— Il mio nome è Orion — dissi infine.

— Io mi chiamo Kraal.

— La nostra casa si trova su per il fiume, a una giornata di distanza, nella vallata del dio che parla.

A quelle parole l’uomo inarcò le sopracciglia.

Prima che potesse formulare qualsiasi domanda, aggiunsi: — Ci siamo stabiliti laggiù soltanto da qualche giorno. Siamo fuggiti dai padroni del giardino.

— State fuggendo dai draghi? — interloquì Kraal.

— E dalle sentinelle che volano nell’aria — aggiunse Noch.

— Orion ha ucciso un drago — disse Chron, con orgoglio. — E ci ha resi liberi.

Il corpo di Kraal sembrò rilassarsi. Anche gli altri dietro di lui si distesero; persino i cani allentarono la loro tensione.

— Molto spesso ho visto uomini catturati dai padroni. Ma non ho mai sentito di nessuno che sia riuscito a fuggire. O a uccidere un drago! Dovete raccontarci tutto.

Si avvicinarono al fuoco, posarono le lance e sedettero tra noi per ascoltare la nostra storia.

7

Non riuscii a dire una sola parola. Noch, Chron e persino il povero Pirk narrarono una storia fantastica su come avevo ucciso il drago con una mano sola e su come li avessi guidati verso Paradiso e la libertà. Mentre la notte passava lenta dividemmo la carne essiccata e le noci che ognuno dei due gruppi aveva portato con sé e continuammo a raccontare.

Durante il pasto ci scambiammo racconti di coraggio e pericolo. I cani al seguito del gruppo di Kraal gironzolarono per gran parte della notte, ma di tanto in tanto qualcuno di loro faceva ritorno presso il fuoco e agli uomini seduti intorno a esso.

Kraal narrò di come sua figlia e il marito di lei fossero stati rapiti dai draghi che avevano razziato il loro villaggio presso il lago, molti anni prima.

— Mi hanno lasciato a terra credendomi morto — disse, sollevando la tunica per mostrare una grossa cicatrice scavata fra le costole, che alla luce del fuoco sembrava ancora livida e dolorante. — Ma hanno ucciso mia moglie.

Uno dopo l’altro ognuno narrò la propria storia, e così appresi che i “draghi” di Set razziavano periodicamente i boschi di Paradiso, catturando uomini e donne per condurli in schiavitù a lavorare nel giardino sulle rive del Nilo.

La prima impressione che il giardino di Set mi aveva fatto era dunque completamente errata.

Non era il Giardino dell’Eden. Il vero e proprio Paradiso dell’umanità era invece quella foresta, dove gli uomini erano liberi di vagare fra i boschi e cacciare la selvaggina. Ma molti di loro erano stati catturati dai mostruosi rettili del diabolico Set, costretti ad abbandonare la vita libera e selvaggia del cacciatore neolitico, forzati ad abbracciare quella dell’agricoltore e Dio solo sapeva cos’altro.

Le leggende sull’Eden che i popoli avrebbero tramandato attraverso le generazioni, col tempo sarebbero state distorte: nella realtà gli uomini erano stati strappati da Paradiso verso il Giardino, e non da angeli ma da demoni.

Ovviamente i padroni permettevano ai loro schiavi di riprodursi in cattività. Il figlio di Reeva era nato in schiavitù. Quella notte appresi che anche Chron e gran parte degli uomini del mio gruppo erano nati da genitori che si occupavano del giardino. Noch invece, come sapevo, era stato portato via da Paradiso in tenera età.

— Noi cacciamo le bestie dei campi e dei boschi — disse Kraal con voce sonnolenta mentre la fredda luce della luna filtrava attraverso gli alberi sul suo volto — e i draghi danno la caccia a noi.

— Dobbiamo combatterli — dissi io.

Kraal scosse il capo con espressione grave. — No, Orion, è impossibile. Sono troppo grandi, troppo veloci. I loro artigli sono in grado di strappare le carni dalle ossa. Hanno fauci in grado di uccidere un uomo con un morso solo.

— Possono essere uccisi — insistetti.

— Non da noi. Ci sono cose che un uomo non è in grado di fare. Dobbiamo accettare la realtà per quella che è, non sognare qualcosa che non può essere.

— Ma Orion ne ha ucciso uno — intervenne Chron.

— Può darsi — rispose Kraal, con l’aria di un uomo che aveva già sentito raccontare molte altre storie di fantasia. — È ora di dormire, adesso. Basta parlare di draghi. Domani, non appena il sole sorgerà, dovremo combattere, ed è già un compito abbastanza duro.

Pronunciò quelle parole con estrema naturalezza, senza toni di rammarico o compiacimento nella sua voce.

— Combattere? — feci eco.

Kraal si distese tra le radici di un albero. — Già. È un peccato. Ho veramente gradito le vostre storie. E mi piacerebbe visitare questa vostra valle del dio che parla. Ma domani dovremo combattere.

Mi guardai intorno: erano in dodici contro noi nove, me compreso.

— Perché dovremmo combattere?

Come per cercare di far comprendere qualcosa a un bambino un po’ lento di comprendonio, Kraal sentenziò, con pazienza: — Questo è il nostro territorio, Orion. Voi avete ucciso il nostro orso. Se vi lasciamo andare via impunemente, altri verranno qui a uccidere i nostri animali. E allora noi dove andremo?

Mi feci vicino a lui mentre si voltava sul fianco sano, mormorando: — Va’ a dormire, Orion. Domani dovremo combattere.

Chron mi si avvicinò sollevandosi in punta di piedi, per sussurrarmi all’orecchio: — Domani lo vedranno che razza di combattente sei. Con te come nostro capo li uccideremo tutti, e questa terra diventerà nostra.

Sorridendo tra le ombre prodotte dai raggi lunari si diresse verso un punto in cui il terreno era piano e si distese per dormire.

A uno a uno si addormentarono tutti, e io rimasi solo in mezzo al loro russare. Se non altro, nessuno temeva qualche tiro sporco dai propri avversari. Nessuno temeva di risvegliarsi di colpo con la gola tagliata.

Scesi alla riva del lago e rimasi ad ascoltare l’acqua che lambiva le sponde. Tra gli alberi chiurlò una civetta, l’animale sacro ad Atena. Anya aveva ispirato le leggende di Atena, così come il Radioso, folle com’era, aveva ispirato il mito di Apollo.

E io? I cosiddetti dèi che mi avevano creato nel loro lontano futuro mi avevano chiamato Orion, assegnandomi il compito di combattere i loro nemici attraverso i vasti recessi del tempo. Nell’antico Egitto avevo assunto il nome di Osiride, colui che muore e rinasce. Fra le nevi dell’era glaciale ero stato Prometeo, e avevo donato al primo drappello di uomini affamati e intirizziti la conoscenza del fuoco, permettendo loro di sopravvivere nella desolazione dei ghiacciai alti centinaia di metri che coprivano buona metà della Terra.

“E adesso chi sono, in questo tempo e luogo?” Sollevai lo sguardo verso le stelle sparse nel nero cielo di velluto e di nuovo vidi quell’occhio rosso e malevolo fissarmi da lassù, più luminoso della luna stessa, al punto di proiettare a terra la mia ombra. Una stella mai esistita in nessuno dei cieli che avevo conosciuto prima d’allora. Una stella che in qualche modo sembrava correlata a Set, ai suoi draghi e al suo assoggettamento di quei popoli del Neolitico.

Per un istante fui nuovamente tentato di cercare un contatto con i Creatori. Ma il timore di essere di nuovo localizzato da Set mi dissuase. Rimasi in piedi sulla riva del lago, ascoltando la brezza notturna e lo stormire degli alberi, e desiderai ardentemente che i Creatori cercassero di mettersi in contatto con noi.

Ma non accadde nulla. La civetta chiurlò di nuovo, e il suo verso era una risata amara.

Preferii attardarmi lì piuttosto che fare ritorno all’accampamento improvvisato nel quale gli uomini di entrambe le tribù dormivano saporitamente. Kraal insisteva perché combattessimo, e sapevo che non intendeva certo alludere a qualche rituale incruento. All’alba avremmo dovuto combatterci con lance di legno e coltelli di selce.

A meno che non riuscissi a escogitare qualcosa.

Passai le lunghe ore di quella notte sinistra e minacciosa in meditazione. Una nebbia grigia si alzò fredda dal lago avvolgendo gli alberi nel suo abbraccio fino a nascondermene la cima. La luna la faceva brillare di luce argentea, e il mondo divenne una gelida arena umida e priva di contorni, irradiata dalla fredda, grigia luce lunare, il suo silenzio rotto soltanto da un occasionale verso di civetta o dal distante, sinistro ululare di un lupo. I cani di Kraal latrarono in risposta ai lupi per proclamare il loro territorio.

La nebbia si stava levando e il cielo cominciava già ad assumere una punta di rosa quando sentii che qualcuno stava avanzando verso di me, fra gli alberi avvolti dalla nebbia. Era Kraal. Si portò al mio fianco senza il minimo cenno di timore o di esitazione, e anche lui prese a scrutare il lago. La nebbia andava diradandosi, dissolvendosi così come le paure della notte vengono spazzate via dalla luce del sole.

Indicò il chiarore sull’orizzonte dove presto sarebbe sorto il sole. — Il Ladro di Luce è più vicino.

Seguii la direzione del suo braccio disteso e vidi la stella sanguigna brillare imperterrita nel cielo che si rischiarava.

— E la luce del Punitore è quasi troppo fioca per riuscire a scorgerlo — aggiunse Kraal.

— Il Punitore?

— Non lo vedi? Appena sotto il Ladro di Luce, debolissimo.

Per la prima volta notai un puntino luminoso brillare nelle vicinanze della stella rossa che Kraal chiamava il Ladro di Luce. Un puntolino minuscolo, visibile a malapena.

— Qual è il significato dei loro nomi?

Kraal mi guardò con stupore. — Non sai nulla del Ladro di Luce e del suo Punitore?

— Vengo da molto lontano — dissi. — Molto più lontano di Noch e del suo gruppo.

L’espressione di Kraal si fece assorta. L’uomo cominciò a narrare la leggenda del Ladro di Luce. Gli dèi, fra i quali il dio del Sole era il più potente, non si curavano affatto degli esseri umani. Si limitavano a guardarli combattere per sopravvivere, di gran lunga meno forti dei lupi o degli orsi, sempre affamati e intirizziti; ma non facevano nulla per loro. Il Ladro di Luce, un dio minore, provò pietà per la razza umana e decise di donarle il fuoco.

Il fiato mi si arrestò nella gola. La leggenda di Prometeo. Ero stato io a portare ai primi esseri umani il dono del fuoco, nel gelo dell’Era Glaciale. Kraal raccontava quella storia in modo del tutto singolare, ma aveva compreso alla perfezione la crudele indifferenza dei cosiddetti dèi.

Il Ladro di Luce sapeva che l’unico modo per donare il fuoco all’umanità era rubarlo al sole. Così, un anno dopo l’altro, la stella sottrae al sole parte della sua luce. Invece di rimanere confinato nel dominio del cielo notturno come le altre stelle, a poco a poco usurpa il cielo diurno del sole, facendosi sempre più vicino all’astro ardente. Quando infine riesce a raggiungerlo, lo deruba di parte del suo fuoco. Fa quindi ritorno alla notte, e da lì dona agli uomini un po’ di luce per rischiarare le ore più buie, una luce più intensa di quella della luna stessa.

La leggenda di Prometeo proiettata su sfondo stellare. Il racconto di Kraal aveva senso soltanto nel caso che il sole possedesse una stella gemella, una piccola nana rossa sull’orlo del sistema solare. Invece era una stella solitaria. In tutti i suoi viaggi attraverso il continuum spaziotemporale, Orion aveva sempre visto il sole nel cielo come una stella solitaria.

Fino a quel momento.

— E il Punitore?

— Il Sole e gli altri dèi si infuriarono per il comportamento del Ladro — Kraal proseguì. — Il Punitore perseguita il Donatore di Luce. Gli strappa le viscere, un giorno dietro l’altro, e così via per l’eternità.

Un pianeta orbita intorno alla stella gemella del sole, tradussi mentalmente. Visto da terra sembra avvicinarsi alla sua stella per poi ricomparire sul lato opposto. Il Punitore che sventra il Donatore di Luce, così come l’avvoltoio mangiava il fegato di Prometeo incatenato alla roccia dagli dèi.

— E fu così che ricevemmo il dono del fuoco, Orion — disse Kraal. — Ciò avvenne molto tempo fa, prima che il nonno di mio nonno venisse a cacciare sulle rive di questo lago. Le stelle mostrano ciò che avvenne per farci tenere a mente il nostro debito nei confronti degli dèi.

— Ma a quel che dici — replicai — gli dèi non sono benevoli nei nostri confronti.

— Una ragione in più per rispettarli e temerli, Orion. — Detto ciò, il capotribù si diresse all’accampamento, con l’aria di qualcuno che avesse sentenziato una verità inoppugnabile.

Il sole si era ormai levato sulla riva opposta del lago. Gli uomini si destarono, stiracchiandosi e grattandosi la schiena contro il tronco di un albero. I componenti di entrambe le tribù condivisero il cibo rimasto e l’acqua di fiume che Chron e Pirk avevano raccolto in vesciche d’animale e portato all’accampamento.

— E adesso pensiamo alla nostra battaglia — disse Kraal, raccogliendo da terra la propria lancia lunga e appuntita. I suoi uomini si raccolsero dietro di lui, anch’essi armati di lancia, mentre il mio gruppetto mi si stringeva intorno. I cani si distesero sul ventre, la lingua penzoloni. Ma i loro occhi erano pronti a cogliere qualsiasi movimento.

— Siete in dodici, e noi soltanto in nove — protestai.

Kraal si strinse fra le spalle. — Avresti dovuto portare più uomini.

— Non ne avevo altri. L’uomo fece un gesto con la mano come per dire: “È un problema tuo, non mio.”

— Invece di batterci tutti insieme — suggerii — perché non organizziamo un combattimento singolo? Uno contro uno.

Kraal aggrottò la fronte. — E a che scopo?

— Se vincerete voi, i miei uomini torneranno alle loro dimore e non faranno mai più ritorno da queste parti.

— E se perderemo?

— Entrambe le nostre tribù potranno cacciare in questa zona. La selvaggina quaggiù è sufficiente a sfamarci tutti.

— No, Orion. Molto meglio uccidervi tutti e farla finita una volta per sempre. Dopodiché andremo a prenderci le vostre donne. Così qualsiasi altra tribù saprà che questo è il nostro territorio, e che non possono cacciare qui.

— E come faranno a saperlo?

Kraal sembrò sinceramente sorpreso per la stupidità di tale domanda. — Pianteremo dei paletti con le vostre teste in cima, naturalmente.

— Supponiamo — ribattei — che noi uscissimo vincitori dal confronto. Cosa accadrebbe, allora?

— In nove? Con due ragazzi e un invalido? — Kraal proruppe in una risata.

— Uno di noi ha ucciso un drago — dissi, con voce dura.

— Questo è quel che dite.

— È la verità! È la verità! — gridarono i miei uomini.

Li indussi al silenzio con un gesto della mano, perché la mia dichiarazione di potenza non sfociasse in una rissa. Una nuova idea si stava affacciando alla mia mente. Chiesi a Chron di portarmi arco e frecce.

— Sai cos’è questo? — domandai, tenendo l’arco dritto di fronte a Kraal.

— Certo. Ma non è così efficace contro una lancia. L’arco è un’arma da agguato, inutile per il combattimento corpo a corpo.

Porgendogli arco e frecce, dissi: — Prima di dare inizio alla battaglia, perché non cerchi di colpirmi con questo?

Kraal mi guardò, dapprima sorpreso, poi sospettoso. — Cosa vorresti dire?

Portandomi con la schiena contro un vecchio olmo, spiegai: — Scagliami addosso una freccia; io resterò qui fermo.

— Non capisco.

— Non vuoi credere che ho ucciso un drago. Be’, non vedo draghi qui intorno, stamattina; perciò sono costretto a fornirti un altro tipo di prova. Tira!

Perplesso, insospettito, Kraal incoccò una freccia e tese la corda dell’arco. I miei uomini si allontanarono; Kraal sembrava curioso di scoprire a cosa volevo arrivare. Mi accorsi che tirava la corda soltanto fino al petto.

I miei sensi entrarono in ipervelocità, e il mondo sembrò rallentare intorno a me. Le pupille di Kraal si contrassero leggermente mentre prendeva la mira. Un uccello volò pigramente da un ramo a un altro, sferzando l’aria con lentezza infinita.

A soli dieci passi di distanza Kraal lasciò volare la freccia, che vidi avanzare lenta verso di me. Con estrema facilità distesi una mano e ne alterai la traiettoria.

Gli uomini proruppero in un gemito soffocato.

— Adesso — dissi — state a guardare.

Portatomi di fronte a uno degli uomini di Kraal gli dissi di reggere la lancia con tutt’e due le mani, parallela al terreno. L’uomo lanciò uno sguardo in direzione di Kraal, che annuì, quindi fece con riluttanza come gli avevo detto. Con una repentina rotazione del braccio, lanciando un urlo feroce, spezzai in due la lancia col taglio della mano.

Prima che chiunque potesse dire o fare alcunché, mi portai dietro Kraal e lo afferrai per la vita. Lo sollevai sopra la testa, e con una sola mano lo tenni lassù a gridare e a dimenarsi.

— Vuoi sempre combattere, Kraal? — domandai con una risata. — Vuoi proprio che ci prendiamo le vostre donne?

— Mettimi giù! — gridò il capotribù. — Non è questo il modo di combattere!

Lo misi coi piedi per terra e rimasi a guardarlo fisso negli occhi. Era furibondo. E spaventato.

— Kraal, se ci darete battaglia sarò costretto a uccidere te e la tua gente.

Non rispose. Il suo petto si contraeva e si rilassava con movimenti rapidi e violenti, e il sudore formava rigagnoli lungo le sue guance e fra la barba arruffata.

— Ho un’idea migliore — proseguii. — Permetteresti ai miei uomini di entrare a far parte della tua tribù, sotto la tua guida?

— Ma il nostro capo sei tu, Orioni — gridò Noch con voce lamentosa.

— Io sono un estraneo in questa terra, e il mio luogo d’origine è piuttosto lontano. Kraal è un ottimo capo e un valente cacciatore.

— Ma…

Da ambo le parti si levò una marea di obiezioni. Ma se non altro, avevo ottenuto di farli discutere invece che combattere. Il volto di Kraal perse l’espressione di rabbia impotente che aveva assunto e si fece riflessivo. Il capotribù strinse gli occhi a fessura. Stava soppesando attentamente quella nuova possibilità. Lo invitai a visitare il luogo del dio che parla, e mentre procedevamo verso la valle dell’eco continuammo a discutere della fusione dei due gruppi.

Il progetto che era sorto nella mia mente riguardava più della semplice unione di due tribù di cacciatori. In quei boschi dovevano esserci molti più uomini che rettili. Se fossi riuscito a unire tutte le varie tribù in una sola, quella che ne sarebbe derivata sarebbe stata numericamente superiore ai draghi di Set. Sapevo che il nemico disponeva di una tecnologia molto più avanzata di quella dei neolitici, ma grazie al vantaggio numerico e con il tempo a nostro favore avremmo potuto combatterlo su basi più eque.

Il primo passo era quello di far confluire il gruppo di schiavi che avevo liberato nella tribù di Kraal. Non sarebbe stato facile, ne ero cosciente. Ma nessun inizio lo è mai.

8

Kraal rimase molto impressionato dall’eco, ma cercò di nasconderlo.

— Il dio non fa che ripetere quello che dici.

— Quasi sempre, è vero — risposi, accarezzando nella mente una nuova idea. — Ma qualche volta il dio si esprime con parole sue.

L’uomo emise un grugnito, cercando di assumere un atteggiamento di scetticismo.

Fu anche piuttosto impressionato da Anya, che lo salutò coi modi cortesi più adatti nel rivolgersi a una persona importante. Kraal non aveva mai visto un vestito metallico simile a quello che indossava Anya: era praticamente inattaccabile, e teneva lontana la polvere grazie a una carica elettrica superficiale che la faceva brillare come una dea.

Non aveva mai incontrato una donna così bella, e il suo volto barbuto mostrava con una certa evidenza il rimescolio di soggezione, desiderio e concupiscenza che si muovevano dentro di lui. Era dotato di molta esperienza, e sembrò comprendere i vantaggi che potevano derivare dall’unione della sua tribù con quella di Noch. Ma una cosa simile non era mai stata fatta, e Kraal non era certo tipo da accogliere con entusiasmo un’innovazione.

Quella notte banchettammo tutti insieme sul fondo del canyon, raccolti attorno a un fuoco sul quale avevamo posto ad arrostire conigli, opossum, procioni e altri roditori più piccoli. Le donne portarono il pane, un cibo che Kraal e i suoi uomini non avevano mai mangiato prima, mucchietti di noci, carote, bacche e una radice dal sapore piccante che un giorno sarebbe stata chiamata barbaforte.

In giornata avevo discusso a lungo con Anya su ciò che avevo intenzione di fare, e lei era letteralmente deliziata.

— Sei sicura di riuscirci? — le avevo chiesto.

— Sì, certo, non temere.

Era magnifico ammirarne il sorriso, vedere la gioia e la speranza illuminare i suoi occhi grigi.

Finito di mangiare, le donne rientrarono nelle caverne e gli uomini si disposero seduti a cerchio intorno alle braci morenti del fuoco a raccontare storie.

A un certo punto domandai a Kraal: — Cos’hai deciso riguardo l’unione delle nostre tribù?

L’uomo scosse il capo, in segno d’insoddisfazione. — Non è possibile, Orion.

— Perché no?

Gli altri cessarono di parlare fra loro e rimasero a guardarci. Kraal rispose, con aria addolorata: — Tu hai la tua tribù e io la mia. Non abbiamo gente in comune, nessuna moglie, nessun fratello o cugino. Non esistono legami fra le nostre tribù, Orion.

— Possiamo sempre crearli noi — suggerii. — Molte fra le nostre donne non hanno marito. E sono certo che molti vostri uomini devono ancora ammogliarsi.

Vidi alcuni fra i suoi uomini annuire lentamente. Ma Kraal scrollò nuovamente il capo. — Non è mai stato fatto nulla di simile, Orion. Non è possibile.

Mi alzai in piedi. — Sentiamo cosa ne dice il dio che parla.

Kraal alzò lo sguardo su di me.

— Ripeterà soltanto ciò che tu dirai, Orion.

— Forse. O forse no.

Portando le mani a imbuto intorno alla bocca, gridai nella notte: — O dio che parla, di’ cosa dobbiamo fare!

La mia voce echeggiò da una roccia all’altra. — …cosa dobbiamo fare!

Nel volgere di alcuni battiti del cuore l’unico rumore udibile fu il cicaleccio dei grilli tra l’erba. Poi, un grave sussurro gutturale attraversò l’oscurità. — Io sono il dio che parla. Domandate e riceverete il mio consiglio.

Tutti gli uomini, compresi i miei compagni, balzarono in piedi come se un filo elettrico avesse sfiorato la loro pelle. Gli occhi di Kraal si spalancarono a tal punto che persino nella luce morente del fuoco potei osservarne per intero il bianco intorno alle pupille. Nessuno di loro riconobbe la voce di Anya; nessuno di loro sospettò minimamente che quel rauco sussurro potesse provenire dalla bocca di una donna.

— Chiedi consiglio al dio — dissi a Kraal.

L’uomo aprì la bocca, ma da essa non venne alcun rumore. Gli altri si erano alzati in piedi e fissavano le ombre delle rocce stagliate contro il cielo. Mi vergognai un poco per averli ingannati in quel modo. Pensai che una persona di pochi scrupoli avrebbe potuto far dire al “dio” qualsiasi cosa. Un giorno, oracoli e veggenti avrebbero usato trucchi simili per esercitare il loro controllo sugli ignari.

Ma in quel momento era necessario che Kraal accettasse l’idea della fusione fra le nostre tribù.

Con mia sorpresa, fu Noch a parlare. Con voce tremula e nervosa, gridò verso la parete di pietra: — O dio che parla, pensi sia giusto che la nostra tribù si unisca a quella di Kraal?

— …unisca a quella di Kraal?

Di nuovo scese il silenzio. Questa volta non fu possibile udire nemmeno il rumore del vento. I grilli avevano smesso di cantare.

Allora giunse la risposta: — Due uomini non sono forse più forti di uno, e venti più di dieci? È saggio cercare di accrescere la propria forza.

— Allora pensi che dovremmo unire le nostre tribù? — Noch voleva una risposta definitiva, non una metafora.

— Ssssì — fu la risposta, una lunga, unica sillaba.

Infine Kraal ritrovò la voce. — Sotto la guida di chi?

— …la guida di chi?

— Il capo della più grande fra le due tribù dovrebbe essere anche il capo di quella nuova. Kraal il Cacciatore da questa notte sarà conosciuto come Kraal il Condottiero.

Il petto dell’uomo si gonfiò visibilmente. Un largo sorriso a tutti denti si dipinse sul suo volto mentre si girava verso i suoi compagni, chinando il capo in segno d’approvazione per la saggezza dimostrata dal dio.

— E Orion? — Noch insistette.

— …Orion? — ripeté l’eco.

— Orion rimarrà tra voi ancora per poco — fu la risposta. — Ha altri compiti da svolgere, altre imprese da compiere.

La mia soddisfazione per aver raggirato Kraal e gli altri si raffreddò notevolmente. Anya aveva detto il vero. Non potevamo rimanere lì a lungo. Ci attendevano ben altri compiti.

Guardai Kraal e Noch abbracciarsi l’un l’altro e lessi un’espressione di sollievo sul volto di tutti quando compresero che non avrebbero più dovuto combattere. Non riuscivo a immaginare come le donne avrebbero reagito all’arrivo di stranieri nel loro gruppo. Né mi importava molto, almeno in quel momento. Avevo portato quella gente al loro primo passo verso una piena opposizione a Set e ai rettili padroni. Ma non era che un primo gradino, e l’immensità del compito che mi attendeva gravava sulle mie spalle col peso del mondo intero.

Feci ritorno verso la caverna che dividevo con Anya, stremato. Mentre la luna scompariva oltre l’orizzonte, la stella rossastra si levò sopra la cima degli alberi, splendendo sinistra su di me, rendendo più amara la mia disperazione.

Anya era tutta eccitata quando mi vide scivolare nella caverna per lasciarmi cadere di peso sul nostro giaciglio di rami e pelli.

— Ha funzionato, vero? Li ho visti abbracciarsi fra loro.

— Hai fatto un ottimo lavoro — risposi. — Hai della gente che ti adora davvero, adesso… per quanto non saprei dire come reagirebbero se sapessero di obbedire agli ordini di una dea, e non di un dio.

Inginocchiatasi al mio fianco Anya disse, compiaciuta: — Ho già avuto dei fedeli prima d’ora. Fidia ha scolpito una statua meravigliosa perché tutta Atene potesse adorarmi.

Annuii con stanchezza e chiusi gli occhi. Ero sfinito, demoralizzato, e tutto ciò che desideravo era un po’ di sonno. Anya e io non avremmo mai potuto vivere da semplici esseri umani. Ci sarebbero sempre stati i Creatori a tirare i miei fili; non ci avrebbero mai lasciati in pace. Sempre una nuova missione, un nuovo nemico, un nuovo spaziotempo. Non ci sarebbero mai stati un tempo e un luogo in cui vivere felici. Non per me. Non per noi due.

Anya avvertì il mio sconforto. Carezzandomi la fronte con le dita fresche e affusolate, sussurrò: — Dormi, mio caro. Dormi e riposa.

Mi addormentai. Ma solo per la durata di pochi battiti del cuore. Perché subito apparve il volto satanico di Set, gli occhi rossi come il fuoco, i denti aguzzi scoperti nella parodia demoniaca di un sorriso.

— Ti avevo promesso un castigo, Orion. È arrivato il momento.

Balzai a sedere, facendo trasalire Anya.

— Cosa c’è?

Non fu necessario che rispondessi. Un grido di terrore proveniente da una delle caverne infranse la quiete della notte.

Afferrai la lancia poggiata all’ingresso della caverna e balzai sulla stretta sporgenza rocciosa che formava una scala naturale verso il fondovalle. Anche gli altri erano usciti dalle loro caverne, diretti verso le rocce sottostanti.

C’erano anche gli uomini di Kraal, e tutti correvano e strillavano in preda al terrore, scendendo a rotta di collo lungo i rozzi gradini di pietra, saltando oltre l’orlo del precipizio verso la morte o l’invalidità nel panico della fuga…

Da cosa stavano fuggendo?

— Resta dietro di me — dissi ad Anya mentre mi apprestavo a salire la ripida scalinata di pietra.

Reeva scese gridando verso di me, facendomi quasi cadere di sotto nella foga del suo terrore. Era sola. Il suo bambino era rimasto nella caverna.

Mi inerpicai di corsa su per le rocce disuguali, avvertendo alle mie spalle la presenza di Anya, anche lei armata di lancia. La sinistra luce funesta della stella inondava la parete di roccia di un colore rosso sanguigno, ammantando ogni cosa di un’aura spettrale.

La caverna che Reeva divideva insieme ad altre donne sembrava vuota. Sopra di me potevo ancora udire strilli e grida che non erano più soltanto di terrore ma urla di dolore, di agonia. E il rumore di uomini e donne che correvano, sferrando colpi all’impazzata come per respingere qualche invisibile assalitore.

Nella caverna faceva più buio che all’inferno, ma i miei occhi si abituarono quasi istantaneamente alla ridottissima quantità di luce. Vidi il bambino di Reeva… scomparire tra le fauci spalancate di un enorme serpente.

Prima di riuscire a pensare mi gettai sul rettile e lo ferii alla testa col pugnale. L’animale avvolse alcune spire del proprio corpo intorno al mio braccio, ma l’avevo sorpreso in un momento di massima vulnerabilità, con un boccone ancora chiuso tra le fauci. Colpii il serpente appena dietro la nuca. Lo spessore del suo corpo era pari a quello della mia coscia, ed era così lungo da snodarsi lungo l’intera circonferenza della caverna e avvolgersi ancora in sei spire intorno al mio braccio.

Anya conficcò ripetutamente la punta della lancia nel corpo del rettile mentre la lama del mio coltello ne incideva la spina dorsale per poi riuscire a mozzarne la testa. Lasciato cadere il pugnale, forzai le fauci del serpente e ne estrassi il bambino. Il piccolo era morto, già quasi del tutto rigido, la pelle azzurrognola sotto la debole luce delle stelle.

— È velenoso — dissi ad Anya. — Guarda queste zanne.

— Ce ne sono altri — disse lei.

Fuori dalla caverna le urla non erano diminuite. Balzai in piedi, pervaso da una furia cocente. Era il flagello promesso da Set. Serpenti. Enormi rettili velenosi che strisciavano nel buio della notte per compiere la loro missione omicida. Morte e terrore, erano quelli i marchi del nostro avversario.

Mi diressi all’imboccatura della caverna. — Quassù! — gridai, e la roccia amplificò la mia voce nel suono tonante di un dio. — Venite quassù dove possiamo vederli! Uscite dal fondo del canyon!

Alcuni di loro obbedirono. Soltanto alcuni. Riuscivo già a scorgere molti corpi privi di vita distesi sull’erba, contorti fra i massi e i cespugli che costituivano i nascondigli naturali dei serpenti. Sulla roccia se non altro potevamo vederli. E ciò che si è in grado di vedere può essere combattuto.

Molti dei miei compagni erano fuggiti nella notte in preda all’orrore, col solo scopo di allontanarsi dalla morte silenziosa che colpiva fra le ombre. Una donna giaceva distesa tra le rocce del fondovalle, storpiata per il balzo disperato che aveva spiccato dalla caverna. Un enorme, orribile serpente strisciava verso di lei, le fauci spalancate, le zanne scintillanti alla luce della luna. La donna gridò e cercò di trascinarsi lontano dal rettile. Anya scagliò la lancia contro quell’essere spietato ma mancò il colpo. Il serpente affondò le sue zanne mortali fra le carni della malcapitata, e le urla della donna si levarono in un agghiacciante crescendo per poi spegnersi in un’agonia gorgogliarne.

Gli altri salivano con fatica i ripidi gradini di pietra verso la stretta sporgenza sulla quale eravamo io e Anya. E i serpenti scivolavano dietro di loro sui lunghi corpi sottili e colorati di grigio e di bianco, gli occhi gialli e scintillanti, facendo guizzare la lingua biforcuta e scoprendo i denti traboccanti veleno, all’inseguimento delle loro prede.

Organizzai il gruppetto sulla sporgenza, gli uomini armati di lance e coltelli disposti sul suo perimetro e le donne nella caverna. Tutte a eccezione di Anya, che era rimasta dietro di me con una lancia nella mano e un coltello di selce nell’altra, sbuffando per lo sforzo e l’eccitamento, gli occhi infiammati dall’ansia della battaglia.

I serpenti attaccarono. Torcendosi su per i gradini, scartavano di lato per schivare le nostre lance, si raccoglievano in spire e scattavano verso di noi alla velocità della luce. Anche noi cercavamo di scansarli, saltando per salvare le gambe dai loro denti velenosi.

Rispondemmo al loro attacco colpendoli con le nostre lance di legno brandite a mo’ di mazze. Un serpente prese ad arrotolarsi intorno alla lancia di Anya, guidato da un’intenzionalità quale la mente di nessun rettile poteva possedere.

Le lanciai un urlo d’avvertimento e lei, con calma innaturale, tagliò le carni del serpente col proprio coltello di selce. Il rettile indietreggiò. Lo afferrai per la gola sanguinante e Anya gli mozzò la testa. Gettammo i resti insanguinati del suo corpo sul fondo del canyon.

La lotta sembrò protrarsi per ore. Due dei nostri uomini vennero colpiti da quei denti velenosi e morirono tra grida strazianti, muovendo gli arti all’impazzata per il dolore tremendo. Un altro si sporse troppo sull’orlo del precipizio e cadde di sotto. Si ferì gravemente, e in breve alcuni serpenti gli si fecero intorno. Udimmo le sue grida disperate, seguite da un silenzio improvviso.

D’un tratto, non vedemmo più nessun serpente. Nessun serpente vivo, comunque. Una dozzina di corpi senza vita si contorcevano ai nostri piedi nel loro stesso sangue. Osservai la carneficina disseminata sul nostro campo di battaglia. Era sorto il sole, e i suoi intensi raggi dorati illuminavano le fronde degli alberi.

Sotto di noi giacevano i cadaveri di otto uomini con gli arti contratti e il volto sfigurato. Scendemmo a valle, con estrema cautela, per raccogliere il resto dei nostri caduti. Pirk era fra loro. E anche Noch; il suo ritorno a Paradiso era stato breve e amaro.

Passammo la mattinata in cerca di cadaveri. Con mio grande sollievo ne trovammo soltanto altri due. Verso mezzogiorno, Kraal e altri tre dei suoi mi si fecero vicini.

Kraal scosse il capo in direzione dei corpi senza vita. — Te l’avevo detto, Orion — disse con voce severa, cercando di trattenere le lacrime del proprio odio frustrato. — Non possiamo fare nulla contro i padroni. Ci cacciano per loro diletto. Sottomettono in schiavitù la nostra gente. Tutto ciò che ci resta da fare è piegare la testa e accettare questa realtà.

Anya udì le sue parole. Era in ginocchio accanto ai corpi morti dei serpenti, sezionandone uno per estrarne le ghiandole velenose.

Balzò in piedi con rabbia e gettò il corpo scuoiato del rettile lungo sei metri contro di lui, facendolo vacillare sotto il suo peso.

— Tutto ciò che ci resta da fare è piegare la testa? — Urlò Anya al colmo dell’ira. — Coniglio, non vedi che possiamo ucciderli, proprio come loro fanno con noi?

Kraal la guardò strabuzzando gli occhi. Nessuna donna aveva mai osato rivolgergli parole tanto dure, e penso che neanche un uomo l’avesse mai fatto.

Colta dalla rabbia di una dea infuriata, Anya avanzò verso di lui, stringendo saldamente il coltello nella mano. Kraal indietreggiò.

— Il dio ti ha chiamato Kraal il Condottiero — Anya lo schernì. — Ma questa mattina meriteresti piuttosto il nome di Kraal il Codardo! È questo ciò che vuoi?

— No… no, certo…

— E allora smetti di piangere come una donnetta e comincia a comportarti da vero capo. Riunisci tutte le tribù, e insieme combatteremo i padroni e li stermineremo!

Le ginocchia di Kraal furono sul punto di cedere. — Tutte le tribù…?

Molti fra gli altri si erano radunati intorno a noi. Uno di loro disse: — Dobbiamo consultare il dio che parla.

— Certo — approvai immediatamente. — Questa notte. Il dio parla soltanto dopo il calar del sole.

Le labbra di Anya si contorsero in un sogghigno celato con difficoltà. Sapevamo entrambi ciò che il dio avrebbe detto.

9

Fu così che cominciammo a unire le tribù di Paradiso.

Non appena Kraal si riebbe dalla sorpresa dell’attacco dei serpenti e la voce divina di Anya gli disse che il suo destino era quello di resistere ai padroni in tutte le loro forme e la loro potenza, cominciò veramente ad assumere la dignità di Kraal il Condottiero. E la nostra gente imparò a difendersi.

Passarono i mesi, segnati dal periodico mutamento del volto della luna. Abbandonammo la valle del dio che parla e procedemmo verso l’interno della foresta che si stendeva attraverso l’Africa dal Mar Rosso fino all’Atlantico. Verso sud i boschi si trasformarono gradualmente in una foresta tropicale che ricopriva gran parte del continente.

Ogni volta che incontravamo una nuova tribù cercavamo di convincerla a unirsi a noi per resistere ai padroni. Gran parte dei capitribù opponevano forte resistenza all’idea di compiere qualcosa di nuovo, qualcosa che potesse suscitare le ire dei terribili draghi che razziavano le loro case.

Mostravamo loro i teschi dei serpenti che avevamo ucciso. Raccontavamo della mia lotta contro il drago. Anya assunse il ruolo di sacerdotessa, cadendo in trance ogni volta che si rendeva necessario parlare per voce divina. Alle donne insegnava a cucinare il pane, nonché a raccogliere erbe e radici medicinali. Io insegnavo agli uomini a costruire armi e utensili migliori.

Nei recessi della mia memoria scoprii la conoscenza della lavorazione a freddo di metalli teneri come il rame e l’oro. L’oro, come in ogni epoca, era un materiale piuttosto raro; tuttavia incontrammo una tribù presso la quale le mogli del capo amavano adornarsi con pietruzze d’oro. Mostrai loro come battere il metallo lucente in dischetti e mezzelune per mezzo di rudimentali martelletti di pietra. Il risultato fu molto apprezzato. Divenni un uomo stimato, il che costituiva davvero un ottimo aiuto per convincere il capo ad aderire al nostro progetto.

In un luogo trovammo un certo numero di pezzetti di rame semisepolti fra l’erba. Ne ricavai lame e punte di freccia affilate ma piuttosto fragili. Insegnai ai miei cacciatori a temprare i loro strumenti di metallo riscaldandoli per poi immergerli nell’acqua fredda. Questa pratica li rendeva più resistenti senza comprometterne l’affilatura.

Col passare dei mesi costruimmo mole di pietra con cui affilare asce, coltelli, raschietti, punte di freccia e di lancia. Individuai uno strato di roccia nel quale erano visibili tracce di rame, così insegnai ai miei uomini a costruire fucine di pietra e ad attizzare il fuoco mediante un mantice ricavato da una vescica di capra. Potemmo così fondere il metallo dalla roccia per costruire arnesi più efficienti. E armi migliori. Il mio ruolo non era più quello di Orion il Cacciatore, ma piuttosto quello di Efesto, maniscalco degli dèi. Fu durante quei mesi che per la prima volta nel mondo brillarono armi e utensili con la punta di metallo.

Mentre gli anziani delle varie tribù si dimostravano cocciuti come lo era stato Kraal, i giovani per lo più si mostravano entusiasti all’idea di resistere ai demoniaci padroni. Ci assicurammo la loro lealtà facendo appello al loro coraggio nonché offrendo loro il segreto delle nuove armi di metallo e il più antico e universale fra gli incentivi… le donne.

In ogni tribù vi erano giovani donne in cerca di marito o giovani uomini in cerca di mogli. Spesso gli scapoli organizzavano razzie contro le tribù vicine per derubarli delle loro donne. Quella consuetudine generava faide che potevano trascinarsi per intere generazioni.

Sotto la tutela di Anya creammo una vera e propria agenzia matrimoniale, fornendo a ogni tribù notizie su uomini e donne disponibili. Per quanto arretrati nel campo della tecnologia e dell’organizzazione sociale, i tribali non erano certo degli ingenui. Presto si resero conto che un matrimonio al quale entrambe le famiglie fornivano spontaneamente il loro consenso era comunque preferibile alla razzia o al rapimento sotto la costante minaccia della vendetta.

Nonostante le terribili storie sulla crudeltà e la concupiscenza del genere umano, nonostante le ciniche vanterie del Radioso sulla ferocia che aveva riversato nell’Homo Sapiens, gli esseri umani hanno sempre preferito la cooperazione alla competizione laddove ne erano in grado. Fornendo alle tribù una possibilità di estendere i propri intrecci di parentela, estendevamo anche i loro legami di lealtà con altri gruppi.

Persino la timida Reeva trovò un nuovo compagno: nientemeno che Kraal. Da quando il suo bambino era stato ucciso dai serpenti, Reeva si era chiusa sempre più in se stessa; si era fatta pensosa, riflessiva, quasi indolente. Poi, un mattino, Kraal mi aveva comunicato che Reeva aveva acconsentito a diventare sua moglie. Il suo sorriso a tutti denti contagiava di gioia chiunque lo guardasse.

Eppure la notizia mi aveva reso inquieto. Chiesi consiglio ad Anya, che si limitò a scrollare le spalle.

— Reeva è sempre stata in cerca di protezione — disse. — Se non è riuscita a ottenerla da te, è logico che la cerchi presso l’uomo più prestante che sia ancora disponibile.

— Protezione? — osservai. — O potere?

Anya mi guardò con espressione grave. — Potere? Non ci avevo pensato.

Per Anya e me fu un bel periodo. Nonostante la minaccia incombente di Set e dei suoi rettili, la nostra vita insieme a Paradiso era piuttosto piacevole. Ogni giorno portava con sé una ventata di novità, ogni notte era colma di ardente passione. Eravamo consci dell’importanza del nostro compito, fieri di aiutare quelle tribù a organizzarsi contro il male incarnato. Lo scorrere del tempo smise di preoccuparci. Avevamo una causa, un fine; avevamo noi stessi. Cos’altro potevamo pretendere?

Dopo sette mesi di viaggio attraverso i boschi avevamo costituito un’alleanza di alcune decine di tribù sotto la guida simbolica di Kraal. Gran parte degli appartenenti a quelle tribù continuavano a vivere come prima… con la differenza che adesso disponevano di nuovi attrezzi, nuovi tipi di cibo, nuove consorti, nuove idee. Soltanto alcuni fra i giovani di ogni tribù si erano messi in cammino insieme a noi.

Tutto questo poteva bastare?

Sapevo che non era così. Per tutti quei mesi non avevamo mai incontrato uno solo di quei temibili draghi o serpenti. Ogni volta che alzavo lo sguardo oltre le fronde degli alberi riuscivo a scorgere soltanto il cielo, del tutto sgombro a eccezione di alcune nuvole. Nessuno pterosauro era uscito alla nostra ricerca. Eppure nel profondo dell’animo sapevo che Set doveva seguire con esattezza ogni nostro movimento, giorno dopo giorno. Sapeva esattamente tutto ciò che facevamo. Con assoluta convinzione derivata dal mio istinto, ero certo che si preparasse a colpire.

Come e quando non potevo saperlo. Avrei dovuto scoprirlo.

Quella notte la nostra tribù errante si accampò presso una radura protetta da alti pini. I loro tronchi si slanciavano dritti come le colonne di una cattedrale. Il terreno sotto di essi era privo d’erba, ma era coperto da un fitto, morbido strato di aghi. Stendemmo a terra le pelli e ci apprestammo a dormire.

Eravamo una quarantina di persone sotto la guida nominale di Kraal, pronti a offrire oggetti di metallo, medicine e giovani uomini e donne in cambio di lealtà e della promessa di opporre resistenza ai rettili quando questi fossero giunti a compiere le loro periodiche scorrerie.

Presso un’estremità della radura si ergeva un grosso macigno grigio e imperturbabile sotto gli ultimi raggi del tramonto. Scambiai un’occhiata con Anya, quindi chiesi a Kraal di seguirci in cima al masso.

Ci arrampicammo di roccia in roccia fino a raggiungere la cima del macigno, dalla quale potevamo scorgere i nostri compagni raccogliersi in piccoli gruppi intorno ai fuochi.

— Se i draghi torneranno a caccia di schiavi per Set — domandai — come faremo a riunire tutte le tribù per combatterli?

Kraal emise un sospiro simile a un grugnito, per comunicare a suo modo che era intento a riflettere. Anya rimase in silenzio.

— Quando cacciamo il cervo o le capre — proseguii — i nostri uomini escono in cerca di prede. Ma cosa potremo fare quando saranno i draghi a uscire alla nostra ricerca?

Kraal capì subito dove volevo arrivare. — Potremmo inviare alcuni uomini presso i confini di Paradiso, pronti ad avvertirci quando avvistassero qualche drago.

Anya annuì in segno d’approvazione.

— Dovremo impiegare molti uomini — dissi. — I più veloci, pronti a passare la notizia da una tribù all’altra.

Così creammo i mestieri dell’esploratore e del messaggero, e cominciammo ad addestrare uomini e donne a tale scopo. Selezionammo giovani svelti di piede ma non così avventati da decidere di attaccare un drago da soli, o così suggestionabili da annunciare l’arrivo dei draghi ogni volta che scorgessero un semplice ammasso di nuvole basse sull’orizzonte.

Dopo alcune settimane di addestramento, guidai il primo gruppo di esploratori verso i confini settentrionali di Paradiso, là dove la foresta degradava nella sterminata savana che un giorno sarebbe stata il deserto del Sahara.

Anya chiese di venire con me, ma riuscii a convincerla che sarebbe stata di maggiore aiuto se fosse rimasta al fianco di Kraal, per aiutarlo a indurre altre tribù a servire la nostra causa.

— Non voglio che Kraal rimanga solo — dissi — senza nessuno di noi al suo fianco.

Anya strabuzzò gli occhi. — Non ti fidi di lui?

Soltanto allora realizzai quel pensiero. — Non è una questione di fiducia. Quel che abbiamo creato è del tutto nuovo per lui, come per gli altri. Uno di noi dovrebbe sempre restare al suo fianco. Per precauzione.

— Preferirei conficcare una lancia fra le costole di qualche rettile — disse lei.

Scoppiai a ridere. — Avrai altre occasioni per farlo, amore mio. Ho l’impressione che Set sappia esattamente ciò che stiamo facendo, e che abbia deciso di prendere tempo per colpirci dove e quando più gli piace.

Anya distese un braccio per carezzarmi il viso. — Stai attento, Orion. Se Set dovesse ucciderti… sarebbe la fine. Per sempre.

C’erano stati momenti in cui avevo desiderato che la morte scendesse a mettere fine una volta per tutte all’agonia della mia esistenza. Ma non ora. Non a Paradiso, con Anya al mio fianco.

Le diedi un bacio lungo e appassionato. Quindi partii.


Il giovane Chron era diventato un mio seguace, e cercava di rimanere gomito a gomito con me praticamente in ogni momento della giornata. Naturalmente si era offerto come volontario per la prima missione di esplorazione. Dovetti ammettere che possedeva tutte le qualità necessarie a un esploratore: una buona dose di coraggio moderata dal buon senso, vista acuta e gambe agili.

Eravamo in cinque, e per più di una settimana percorremmo la foresta in direzione nord. La nostra meta era la ciotola di roccia presso la quale avevamo posto il nostro primo accampamento, molti mesi prima. Da lì, come sapevamo, distavamo poco più di una giornata di marcia dai confini della prateria.

— Pensi che il dio ci parlerà, Orion? — domandò Chron mentre avanzavamo fra gli alberi. Avevo disposto il nostro gruppo in formazione tattica: due in avanscoperta, a portata di voce, io e Chron dietro di loro e un uomo alla retroguardia.

— Non credo — risposi, con aria assente. — Non ci fermeremo abbastanza a lungo.

La mia attenzione era rivolta al cinguettio degli uccelli e al ronzio degli insetti intorno a noi. Finché continuavano a produrre i loro abituali rumori eravamo al sicuro. In quella foresta il silenzio era indice di pericolo.

Un paio di merli ci seguivano svolazzando da un albero all’altro, gracchiando sopra di noi. Al di sopra di essi il cielo si era fatto scuro. Presto avrebbe cominciato a piovere.

Verso il tramonto si scatenò un acquazzone, e quella notte dormimmo bagnati e senza un fuoco per riscaldarci, in un misero accampamento improvvisato. La pioggia cadeva così violenta da formare un lenzuolo d’acqua. Ci sistemammo sotto una grossa quercia, raggomitolandoci l’uno contro l’altro come un patetico quintetto di scimmie, congelati fino al midollo. La nostra cena consistette di alcuni grilli che trovammo fra l’erba, immobili e silenziosi nel gelo della sera. Erano croccanti sotto i denti, e avevano un sapore dolciastro e nauseabondo.

Infine la pioggia cessò, e la foresta si ravvivò nuovamente col suono dei suoi insetti, grondante un’infinità di gocce d’acqua che cadevano dalle foglie. Si levò una nebbia grigia e fredda che ci avvolse fra le sue dita spettrali.

I miei prodi esploratori erano ovviamente contrariati. — La nebbia — disse Chron, tremando — è come l’alito di uno spettro. — Gli altri approvarono brontolando, in preda ai brividi.

Sorrisi. Sapendo che i rettili col freddo s’intorpidiscono, ribattei: — Questa nebbia è un dono degli dèi. Nessun serpente e nessun rettile possono muoversi con questo freddo. La nebbia è qui per proteggerci.

Il sole del mattino spazzò via la nebbia permettendoci di proseguire per la nostra strada. Giungemmo infine al lago presso il quale sorgeva il villaggio di Kraal.

Gli uccelli che volteggiavano sulle nostre teste costituivano un brutto presagio. Dapprima pensammo che fossero pterosauri, perciò avanzammo verso il villaggio protetti dall’ombra degli alberi. Gli uccelli volavano in ampi cerchi, e il silenzio era assoluto.

Non tutti gli uomini della tribù di Kraal avevano deciso di accompagnarlo nel suo viaggio ispirato dal dio. Gli altri erano rimasti alle loro capanne di rami e fango presso la riva meridionale di quel lago.

Ma i draghi erano scesi contro di loro.

Le narici ci misero in allarme prima ancora di raggiungere ciò che era rimasto del villaggio. L’odore nauseabondo della putrefazione era così forte che, quando scostammo gli ultimi cespugli di fronte alla radura sabbiosa in cui era stato il villaggio, fummo presi da conati di vomito.

Il terreno era nero per la cenere. Tutte le capanne erano state rase al suolo. Alcuni pali erano stati conficcati nel terreno presso la riva, e una dozzina di uomini e donne erano stati impalati su di essi; erano i loro cadaveri a puzzare in quel modo. E con alcune solide assi di legno era stata costruita una specie di forca, dalla quale due corpi pendevano a testa in giù, le carni strappate del tutto dalle ossa, al punto che non riuscimmo a distinguere se fossero stati uomini o donne.

Uno dei miei esploratori era nativo di quel villaggio. Rimase impietrito a fissare quell’atroce spettacolo, senza pronunciare una sola sillaba, fino a quando le gambe non gli cedettero facendolo cadere di peso sulla sabbia rovente.

Gli altri, Chron compreso, dapprima rimasero di sasso, ma a mano a mano che avanzavamo fra i resti carbonizzati delle capanne e i cadaveri degli sventurati che le avevano abitate, il volto di Chron si fece sempre più livido per la rabbia.

Indicai una serie di enormi impronte munite di tre artigli che si allontanavano tra la sabbia e la cenere. Draghi.

Chron agitò in alto la lancia. — Andiamo a ucciderli!

Un altro lo guardò sbalordito come se fosse diventato pazzo. — Non potremo mai uccidere creature simili!

Guardandolo negli occhi, Chron disse: — Allora gettiamoci fra le acque del lago e facciamola finita! Se non possiamo vendicare una simile strage, non siamo degni dell’aria che respiriamo!

Cercai di calmarlo mettendogli una mano sulla spalla. — Uccideremo i draghi — dissi, con voce calma. — Ma non ci getteremo a capofitto nella foresta dietro le loro orme. Non faremmo che assecondare i loro piani.

Come a conferma dei miei sospetti, uno pterosauro apparve nel cielo al di sopra delle placide acque del lago. Indugiò nell’aria per qualche momento, quindi ripiegò le ali di pelle per gettarsi in picchiata verso il pelo del lago, senza sollevare un solo spruzzo. Un istante più tardi apparve di nuovo con un pesce nel suo lungo becco.

— Sta pescando, non è alla nostra ricerca — disse Chron.

Inarcai un sopracciglio. — Anche una vedetta deve mangiare.

Lo pterosauro distese le ali e si allontanò, battendo le ali e camminando sulla superficie dell’acqua coi piedi palmati, quindi prese quota e scomparve verso nord.

— Andiamo — dissi. — I draghi sono stati qui due o tre giorni fa. Se agiremo d’astuzia, riusciremo a prenderli in trappola proprio mentre si aspettano di farci cadere nel loro tranello.

10

I draghi avevano lasciato una traccia fin troppo evidente attraverso la foresta, sradicando cespugli e giovani alberi mentre tornavano alla savana da cui erano giunti. Le loro impronte procedevano soltanto in quella direzione. Dovevano essere scesi al villaggio facendo molta più attenzione, costeggiando la riva o discendendo il fiume stesso.

Sì, seguirli era troppo facile. Sapevo che dovevano essere da qualche parte laggiù, pronti a far scattare la trappola che avevano in serbo per noi.

Ordinai al mio gruppetto di esploratori di tenersi alla larga da quelle impronte. Ci muovemmo silenziosi come spettri, scivolando nella foresta tra il denso fogliame e gli alberi frondosi, cercando di non lasciare traccia del nostro passaggio.

Raggiungemmo le colline che si ergevano parallele a un tratto del fiume. Ci arrampicammo su per le rocce nude e, raggiuntane la cima, riuscimmo a vedere facilmente la pista che i draghi avevano lasciato tra gli alberi.

Tenendoci al di sotto della linea d’orizzonte, in breve raggiungemmo la scodella di roccia che avevamo abitato fino a qualche mese prima.

E i draghi erano lì. Erano in dodici, intenti a mangiare.

Ci appiattimmo sull’orlo della roccia e osservammo i giganteschi rettili che avevano raso al suolo il villaggio di Kraal.

Quei mostri erano considerevolmente diversi dalla bestia che avevo ucciso ormai molti mesi prima. Erano decisamente più grossi e massicci, lunghi oltre sei metri dalla testa alla coda. Camminavano eretti sulle zampe posteriori, e le loro terribili teste distavano più di cinque metri da terra. Le zampe anteriori erano corte e relativamente snelle, e le usavano per tenere ferme le loro prede. Sul collo lungo e forte si ergeva un cranio massiccio, che sembrava costituito quasi interamente da denti simili a coltelli da macellaio. La coda era corta e tozza.

Il colore della loro pelle variava dal marrone chiaro al verde marcio: ben presto mi accorsi che mutava come quello di un camaleonte a mano a mano che le bestie si spostavano da una zona all’altra della valle.

Riconobbi il fetore che saliva verso di noi; proveniva dal cibo che stavano mangiando. Occorsero alcuni minuti prima che Chron e i miei compagni realizzassero di cosa si trattava. Sentii il corpo del giovane irrigidirsi contro il mio.

Gli portai una mano alla bocca, premendogliela stretta. Gli altri si mossero ma non fiatarono.

Il banchetto dei draghi era costituito di carne umana. Dovevano aver portato con sé dal villaggio alcuni cadaveri come provviste. Li vidi usare gli artigli delle zampe anteriori per tenere ferme le prede e strappare grossi pezzi di carne con quei micidiali coltelli che erano i loro denti.

Nonostante la loro stazza, sembravano in grado di correre piuttosto velocemente, molto più di un uomo. Potevano usare la coda per colpire una vittima sufficientemente vicina, e le zanne e gli artigli di cui erano dotati costituivano un arsenale decisamente temibile.

A un mio cenno ci ritraemmo dall’orlo della scarpata, quindi procedemmo in silenzio per quasi mezz’ora prima che qualcuno fosse in grado di pronunciare una sola parola. Le nostre lance dalla punta di rame erano ridicole a paragone dei denti e degli artigli di quei mostri.

Persino Chron sembrava intimorito. — Come possiamo ucciderli, soltanto noi cinque?

— Anche se con noi fossero venuti tutti gli uomini della tribù, nessuno avrebbe avuto il coraggio di attaccarli — disse uno degli altri.

— Sono animali terribili, vero — dissi. — Ma noi abbiamo un’arma che loro non posseggono.

— Le lance non serviranno a niente contro di loro.

— L’arma di cui parlavo non la stringiamo fra le mani — replicai.

— È qui. — Mi battei la tempia con un dito.

Scesi dalla collina, facemmo un ampio cerchio verso nord e guadammo il fiume in un punto in cui l’acqua spruzzava bianca tra le rocce e i massi dai contorni smussati. Continuai a scrutare il cielo, ma non vidi più nessuno pterosauro.

Raggiunti gli alberi sulla riva opposta, mi accovacciai sul terreno sabbioso e con le dita tracciai una mappa sulla rena. — Questa è la valle del dio che parla, dove i draghi si sono appostati per tenderci un’imboscata. Qui c’è il fiume. E questi siamo noi.

Esposi il mio piano. Dapprima i miei compagni espressero una certa riluttanza, ma quand’ebbi finito di rispondere alle loro domande furono costretti ad ammettere che, se tutto fosse andato secondo i piani, avremmo potuto anche farcela.

Disponevamo di un’altra arma che i draghi non possedevano: il fuoco. I rettili avevano usato il fuoco già acceso nelle capanne per dare alle fiamme il villaggio presso il lago. Avevo intenzione di usare contro di loro il fuoco e l’elemento sorpresa.

Per tutta la notte ci adoperammo a raccogliere legna secca. Il suolo della valle era disseminato di cespugli e rami secchi. Sapevo che durante la notte i draghi si sarebbero addormentati, o comunque intorpiditi. I rettili s’impigriscono ogni volta che il termometro scende. Perciò, il momento migliore per attaccare sarebbe stato quello subito precedente l’alba, quando la temperatura raggiunge il punto più basso della giornata.

Il mio unico timore era che qualcuno di loro si appostasse di sentinella. Magari qualche serpente sensibile al calore come quelli che ci avevano attaccati nelle caverne. Potevo solo sperare che Set fosse tanto arrogante da pensare che un drappello di cinque uomini dovesse necessariamente accamparsi per la notte e riprendere il viaggio soltanto allo spuntar del sole.

Facemmo decine di viaggi fra le rocce umide e scivolose, portando con noi fasci di sterpi e rami staccati dal vento. Sorse la luna, una snella falce crescente che a malapena riusciva a contrastare la luce emessa dalla lucente stella rossa.

Rapidi e silenziosi, ci apprestammo a trasportare il nostro carico di legna verso il canyon.

All’imboccatura della valle vidi profilarsi la sagoma scura di un drago. Era seduto sulle zampe posteriori, immobile. Ma vidi anche la luce rossastra della stella brillare riflessa nei suoi occhi. Era sveglio.

Una guardia. Una sentinella. Il demoniaco Set non era poi così presuntuoso, dopotutto.

Distesi un braccio per far fermare dietro di me gli uomini, che lasciarono cadere i fardelli e rimasero a bocca aperta a fissare il mostro che si stagliava contro la notte. Lentamente, il rettile voltò il capo verso di noi. Indietreggiammo per appiattirci contro la parete di roccia, fra le ombre.

Il drago non si era accorto della nostra presenza. Anzi, sembrava in stato di dormiveglia, pigro e indolente.

— Non possiamo andare avanti! — sussurrò Chron.

— Dovremo ucciderlo — dissi io. — E senza far rumore, per non svegliare gli altri.

— Ma come…

Lo zittii portandomi un dito alle labbra. Quindi ordinai: — Rimanete qui e fate silenzio. Non parlate, non vi muovete. Ma se sentiste il mostro ruggire, allora scappate con quanto fiato avete in corpo, senza curarvi di me.

Sapevo che c’erano un gran numero di domande che volevano pormi, ma non potevamo perdere tempo in ulteriori spiegazioni o discussioni. Senza aggiungere una parola, mi protesi verso l’alto in cerca di un appiglio sulla ripida parete di roccia e cominciai ad arrampicarmi.

La roccia era friabile, e più d’una volta temetti di cadere e rompermi l’osso del collo. Ma dopo una sudata di alcuni minuti, incontrai una sporgenza che correva parallelamente al terreno.

Era molto stretta, appena sufficiente a farmi avanzare mettendo un piede davanti all’altro. Appiattendomi contro la parete di roccia ancora calda per la luce del sole, avanzai lentamente e con fatica fino sulla perpendicolare del drago.

Il lontano chiurlo di una civetta risuonò nell’oscurità. I grilli cantavano imperterriti la loro eterna melodia stridula mentre le rane presso la riva del fiume intonavano note più alte. Nessun essere vivente nella foresta sembrò accorgersi della morte, pronta a colpire.

Dovetti voltarmi e rischiai di perdere la presa e cadere, ma riuscii ad appiattirmi contro la parete. Estrassi il pugnale dal fodero legato contro la gamba. Avevo una sola possibilità per uccidere quel mostro. Se avessi fallito, mi sarei trasformato nel suo spuntino notturno.

Indugiai soltanto il breve tempo necessario per tirare un profondo respiro e ridurre la distanza che mi separava dalla schiena del drago, quindi mi lasciai cadere nel vuoto.

Atterrai sulla schiena del mostro con un colpo tale da farmi uscire tutta l’aria dai polmoni. Prima che il rettile potesse capire cosa stava accadendo, affondai la lama del pugnale nella base del suo cranio. Incontrai la resistenza dell’osso o di una cartilagine alquanto coriacea. Con ogni grammo della mia forza, spinsi la lama ancora più profondamente verso il cervello del mostro.

Sentii la bestia andare incontro alla propria morte. Un istante prima era tesa, vitale, le fauci spalancate; quello successivo giaceva a terra come un pallone sgonfio, immobile come la roccia. Cadde col volto nella polvere, atterrando con un tonfo che mi richiamò alla mente l’immagine di un elefante caduto da un precipizio.

Rimasi avvinghiato alla pelle del drago. Per un breve istante la notte cessò di produrre i propri lievi rumori. Ma in breve rane e grilli ripresero a cantare. Un lupo ululò alla luna. Nessuno degli altri draghi sembrava essersi accorto di nulla.

Feci ritorno presso i miei uomini in attesa. Persino nell’oscurità riuscii a scorgere i loro ampi sorrisi. Senza sprecare un solo istante, ci adoperammo a impilare la legna presso l’imboccatura del canyon.

Quando avemmo finito di sistemare l’ultimo fascio di sterpi il cielo cominciava a ingrigire. La barriera che avevamo formato era drammaticamente minuta. Ma era il meglio che potessimo fare.

Attraverso i rami e le sterpaglie vidi i draghi seduti presso la parete di roccia, immobili come immense statue, tanto grandi da poter raggiungere la più bassa delle caverne con il muso. I loro occhi sembravano aperti, ma erano completamente immobili a eccezione del lento, ritmico pulsare dei loro fianchi mentre esalavano il profondo, regolare respiro del sonno.

Passò qualche istante prima che Chron riuscisse a produrre il fuoco da un paio di bastoni. Ma alla fine un sottile sbuffo di fumo si alzò dalle sue mani operose, immediatamente seguito da una fiammella. Avvicinai un rametto alla fiamma mentre Chron appiccava il fuoco a un cespuglio. Quindi balzammo in piedi e ci portammo verso altri punti della barriera dove appiccare nuovi fuochi.

Quando ci riunimmo di nuovo, ognuno di noi aveva acceso un gran numero di fuochi. L’intera barriera era in fiamme; i cespugli secchi crepitavano vivacemente, formando lingue di fiamma che guizzavano nell’aria.

I draghi non accennavano a svegliarsi. Temendo che il fuoco potesse spegnersi prima di diffondersi alla vegetazione del canyon, presi un ramo infuocato e con quella torcia diedi alle fiamme un buon numero di alberi e rovi. Allora anche l’erba cominciò a prendere fuoco. Fiamme e fumo salirono alti, e il vento li spinse all’interno del canyon.

I draghi cominciarono a muoversi. Dapprima uno di loro si scosse come da uno stato di trance, sollevandosi sulle zampe posteriori e dondolando il capo. Poi fu la volta di un secondo drago, che lanciò un sibilo tale da farcelo udire distintamente nonostante il roboante crepitio delle fiamme. Infine, anche gli altri si svegliarono di colpo tutti insieme, tremando e barcollando, storditi sulle zampe, sibilando e sbuffando.

Avevo sperato che nel freddo dell’alba potessero svegliarsi pigri e intorpiditi. Non era così. In breve tutti si posero sul chi vive, camminando nervosamente avanti e indietro lungo la scodella di pietra mentre le fiamme, spinte dal vento, si propagavano in mezzo a loro.

Per alcuni minuti si limitarono a muoversi disordinatamente, ringhiando e sibilando, furenti dalla rabbia e dal terrore. Erano troppo grossi per riuscire ad arrampicarsi lungo la parete di roccia e fuggire come avrebbe potuto fare un uomo. Erano in trappola; gli alberi i cespugli e l’erba intorno a loro si erano trasformati in un mare di fiamme e fumo denso. Il calore mi strinava i peli delle braccia, bruciacchiandomi il volto.

Indietreggiammo. I draghi, come in accordo mentale fra loro, sembrarono raggiungere la stessa decisione nello stesso momento, lanciandosi alla carica attraverso le fiamme.

In fila per due, i rettili si immersero nell’olocausto che avevamo preparato per loro. Soffiando e sibilando come enormi vaporiere guadarono il mare di fuoco a testa alta per mantenerla al di sopra del fuoco e del fumo. I primi calpestarono incautamente i cespugli infuocati, schiacciandoli a terra a vantaggio dei loro compagni. Uno di essi cadde nel fuoco emettendo urla strazianti. Poi un altro. Ma gli altri continuarono la loro avanzata precipitosa, calpestando i corpi dei loro simili.

Sei dinosauri morirono tra le fiamme, sacrificando le proprie vite per liberare l’accesso agli altri. Rimasi attonito, sbigottito di fronte a quella dimostrazione d’intelligenza e spirito di sacrificio. Un semplice dinosauro non poteva sviluppare un simile grado d’intelligenza: le dimensioni del suo cervello erano troppo ridotte; il suo cranio era composto per lo più d’osso.

Dovevano essere controllati da qualche altro intelletto. Ma non era quello il momento più adatto per tentare di sciogliere quell’enigma; i cinque mostri superstiti erano riusciti a oltrepassare la barriera infuocata.

E caricavano verso di noi.

Potevo vedere brandelli di carne nuda e fumante sulle zampe e sui fianchi bruciati dal fuoco. Ci avevano individuati, appiattiti contro la parete di roccia, armati soltanto delle nostre lance dalla punta di rame.

— Scappiamo! — gridò qualcuno.

— No — risposi. — Affrontiamoli…

Ma era troppo tardi. I miei compagni fuggirono a gambe levate di fronte a quei terribili mostri sibilanti. Tutti tranne il giovane Chron, che rimase al mio fianco mentre tre di quei giganti si avventavano su di noi e gli altri due cambiavano traiettoria per inseguire gli uomini in fuga.

Mi maledissi per non aver preparato un piano di ritirata. Eravamo intrappolati contro la roccia.

I draghi avevano subito bruciature terribili, e strillavano in preda al furore. Afferrammo le lance con entrambe le mani.

Il mondo sembrò rallentare mentre i miei sensi entravano in ipervelocità. Vidi il primo rettile dirigersi contro di me, le fauci spalancate e le zampe anteriori distese. I suoi artigli avrebbero potuto ridurre in pezzi un rinoceronte.

Mi raggomitolai e conficcai la lancia nel ventre dell’animale. La bestia gridò con tutto il fiato che aveva in corpo, scartò di lato e cadde a terra. Mi voltai e vidi Chron, la base della lancia appoggiata contro la roccia, cercare disperatamente di tenere lontano il drago che cercava di ghermirlo.

Estrassi la lancia insanguinata dalle viscere dell’animale, e arrampicatomi sul suo corpo esangue immersi la punta metallica della mia arma nella coscia dell’altro rettile. Il mostro, barcollando, si voltò verso di me. Di nuovo conficcai la lancia nel ventre della bestia mentre Chron colpiva più in alto, vicino al cuore.

Prima ancora che il mostro toccasse terra, il terzo drago si scagliò contro di me. La mia lancia era ancora conficcata fra le carni del rettile che avevo colpito. Mentre cercavo di liberarla, fra le urla dell’animale agonizzante, il suo compagno calò gli artigli contro di me. Li vidi scendere a velocità rallentata e cercai di sgattaiolare via, ma scivolai nel denso lago di sangue che copriva il terreno e caddi su un lato.

Sentii gli artigli del drago affondarmi nel fianco e nel braccio sinistro. Prima che il dolore raggiungesse la mia mente serrai i vasi sanguigni e inibii i nervi preposti a comunicare segnali del dolore al mio cervello.

Sollevato il capo vidi Chron trafiggere la gola del drago. La bestia arretrò con un ruggito tremendo, strappando l’arma dalle mani dell’adolescente. Mi misi in ginocchio e afferrai col braccio sano la lancia ancora immersa fra le viscere del secondo drago.

Chron si era appiattito contro la parete di roccia, gli occhi spalancati per il terrore, rannicchiandosi su se stesso mentre il mostro ferito calava gli artigli contro di lui, con furia cieca ispirata dal dolore. Nel frenetico desiderio di uccidere il suo torturatore, non si curava della lancia che gli sporgeva dalla gola. I suoi artigli incisero profonde scanalature nella pietra. Abbassò il muso per azzannare Chron e anch’io avvertii il suo respiro, caldo e fetido dell’odore di carne maldigerita.

Afferrai la lancia e riuscii a estrarla dalla carcassa morente, mentre Chron scansava disperatamente i colpi furiosi del drago. Il ragazzo era più veloce del rettile, ma non di molto. Tutto sarebbe dipeso da chi si fosse stancato per primo.

Mi portai in piedi e con tutta la forza che mi era rimasta in corpo affondai la lancia nel fianco del drago, avvertendo la sua punta di rame raschiare contro una costola per penetrare più profondamente, fin dentro ai polmoni.

Il drago emise un urlo come di mille demoni e calò la coda massiccia su di me. Non riuscii a portarmi del tutto al di fuori della sua traiettoria e caddi a terra privo di sensi.

La prima cosa che vidi quando mi risvegliai fu Chron inginocchiato sopra di me, gli occhi colmi di lacrime.

— Sei vivo! — disse, con un filo di voce.

— Quasi — gracchiai di rimando. La mia schiena era insensibile, e avevo il braccio e il fianco sinistro feriti.

Con l’aiuto di Chron mi rimisi in piedi. Il ragazzo non aveva riportato ferite, a parte qualche semplice escoriazione. I tre draghi giacevano a terra lì vicino, immense montagne di carne grigia coperte di scaglie. Anche distese a terra, le loro carcasse erano molto più alte di me.

— Li abbiamo uccisi tutti. — La voce di Chron era sbigottita.

— Gli altri — dissi. Avevo la gola in fiamme e la voce rauca.

Chron raccolse le lance e insieme c’incamminammo verso la direzione in cui erano fuggiti i nostri compagni. Non dovemmo allontanarci troppo. I loro corpi, laceri e coperti di sangue, giacevano privi di vita a pochi minuti di cammino.

Chron raccolse le loro lance, inspirando profondamente per controllare le proprie emozioni. I cadaveri dei nostri compagni erano una vista decisamente agghiacciante. Mosche e formiche avevano già cominciato a radunarsi intorno agli squarci nelle loro carni, profondi fino all’osso.

Il giovane sollevò lo sguardo, stringendo gli occhi a fessura. — Dove sono i draghi? Pensi che…

— Se ne sono andati — risposi.

— Potrebbero tornare.

Scrollai il capo. — Non credo. Guarda le loro orme. Guarda la distanza tra un’impronta e l’altra. Si sono allontanati di corsa. Si sono fermati quel poco che serviva per massacrare i nostri amici e poi sono fuggiti verso nord. Non torneranno. Non oggi, almeno.

Riprendemmo la marcia, diretti verso sud. Fu Chron a cacciare la cena, quella sera. Dopo un buon pasto e una notte di riposo mi sentii considerevolmente meglio.

— Le tue ferite stanno guarendo — disse Chron il mattino dopo. — Persino la bruciatura sulla tua schiena è meno grave di quanto non fosse ieri notte.

— Guarisco in fretta — risposi. Grazie a colui che mi aveva creato.

Quando raggiungemmo il villaggio in cui avevamo lasciato Anya, Kraal e gli altri, avevo ripreso le forze quasi del tutto. Le ferite sul mio braccio erano ormai semplici cicatrici.

Non vedevo l’ora di rivedere Anya. E Chron ribolliva dal desiderio di raccontare ai compagni le nostre imprese.

— Abbiamo ucciso dieci draghi, Orion. Dieci! Aspetta che ascoltino questo!

Gli lanciai un sorriso, ma mi chiesi come Kraal e la sua gente avrebbero preso la notizia del massacro del loro villaggio.

Ma prima che riuscissi a parlare, fu Kraal ad avere pessime notizie per me.

— La tua donna non è più qui — disse. — L’hanno presa i draghi.

11

— Anya non è più qui? — Ero allibito. — L’hanno presa i draghi?

Il nostro villaggio era un misero gruppo di capanne di fango situato tra querce e olmi maestosi.

Sedemmo sul terreno dello spiazzo comune sotto i caldi raggi del sole di mezzodì che brillava fra gli alberi. Tutti si raccolsero intorno a noi, fissandoci con occhi spauriti e preoccupati.

— Abbiamo ucciso dieci draghi! — disse Chron, d’impulso.

Cercai gli occhi di Kraal. L’uomo cercava di evitare il mio sguardo, spostando nervosamente il peso del corpo da un piede all’altro come un bambino pescato sul luogo di una marachella. Reeva sedeva dietro di lui e indossava una strana collana di denti d’animale.

Non c’era alcun segno di battaglia nel villaggio. Nessuno fra i suoi abitanti era ferito. Tutti gli uomini della tribù erano presenti.

— Dimmi cos’è successo — dissi a Kraal.

Il suo volto si contorse in una smorfia di dolore.

— O lei o noi — disse Reeva. — Se non gliel’avessimo data ci avrebbero uccisi tutti.

— Dimmi cos’è successo — ripetei, mentre la rabbia cominciava a ribollire nelle mie vene.

— Sono venuti i draghi — mormorò Kraal, abbassando lo sguardo per la vergogna e il rincrescimento. — E i loro padroni. Hanno detto che volevano te e la tua donna. Se vi avessimo consegnati a loro, ci avrebbero lasciati in pace.

— E voi avete fatto così?

— Anya non si è opposta — rispose Reeva, con tono quasi furibondo. — Ha compreso la saggezza della decisione.

— E avete lasciato che la prendessero senza contrastarli?

— Erano draghi, Orion — lamentò Kraal. — Molto grossi. Erano in sei, cavalcati dai padroni.

Reeva si fece avanti verso di me. — Sono io la sacerdotessa, adesso. I poteri di Anya sono passati dentro di me.

Avrei voluto afferrarla per il collo e strozzarla. Questa era la ricompensa per tutto ciò che Anya le aveva insegnato. I miei sospetti su di lei erano fondati. Non era la protezione quella che cercava, ma il potere.

La ignorai e mi rivolsi a Kraal. — E credi che adesso i draghi vi lasceranno in pace?

Annuì in silenzio.

— Certo che lo faranno — disse Reeva, con tono di sfida. — Perché procureremo loro nuovi schiavi. Non ci faranno alcun male. I padroni ci ricompenseranno!

La mia rabbia sfociò in una sensazione di totale disfatta. Tutto ciò che Anya e io avevamo insegnato a questa gente si sarebbe ritorto contro altri esseri umani. Invece di stringersi in alleanza contro Set, avevano ceduto al primo segno di pericolo, accettando di collaborare con i demoni.

— Dove l’hanno portata?

— A nord — rispose Kraal.

L’amarezza che provai era come acido che bruciava dentro di me. — Allora andrò a nord. Non mi vedrete mai più.

— Io vengo con te — disse Chron.

Gli occhi scuri di Reeva scintillarono. — Andrai a nord, Orion. Questo è sicuro.

Da dietro una fila di capanne di fango uscirono un paio di esseri dall’aspetto di rettili. La folla si aprì in silenzio di fronte a loro.

Erano simili a Set ma più piccoli, quasi umani nella forma. Quasi. I loro piedi erano muniti di artigli, e i loro corpi erano coperti di scaglie rosse scintillanti sotto la luce del sole che filtrava attraverso gli alberi. E avevano lunghe code sottili in continuo movimento. Volto da rettile e occhi con pupille a fessura. Al posto del naso avevano un paio di buchi, e non erano visibili orecchie.

Sfoderai il pugnale, e Chron sollevò le lance contro di loro.

— No — dissi al giovane. — Non immischiarti.

Allora un paio di dozzine di lance puntarono verso di me. Gli uomini del villaggio mi fissavano con aria minacciosa, imbracciando le armi.

— Ti prego, Orion — disse Kraal con voce triste e soffocata. — Se ti opporrai ci distruggeranno tutti.

Il tradimento era completo. Compresi che Reeva aveva convinto Kraal a passare al nemico. Lui era il capotribù, ma adesso lei era la sua sacerdotessa, e poteva manovrarlo a suo piacimento.

Udii un rumore di passi pesanti attraverso il fogliame. Dietro le misere capanne di fango emersero le teste di due draghi carnivori.

I padroni superarono Kraal e Reeva, portandosi di fronte a me. Erano alti quanto me, più alti degli uomini della tribù di tutta la testa. I loro volti da rettile non manifestavano emozione alcuna, ma in quegli occhi da serpente brillava un odio profondo nei miei confronti.

Silenziosamente, quello alla mia destra stese una mano. Gli consegnai il pugnale. L’avevo vinto sulle pianure di Ilio, davanti alle mura di Troia; Odisseo in persona me l’aveva donato come ricompensa del mio comportamento in battaglia. In quel momento non poteva servirmi a nulla. Eppure separarmi da esso era ugualmente un dolore.

Il padrone produsse un sibilo, quasi un sospiro, e porse a Kraal il mio pugnale. L’uomo lo prese con imbarazzo.

L’altro rettile si voltò verso i draghi e sollevò una mano. I mostri si fermarono a breve distanza dalle capanne. Senza quel cenno le avrebbero schiacciate sotto i piedi. I padroni si erano preoccupati di mantenere la parola: il villaggio non avrebbe corso alcun pericolo finché la gente di Kraal era intenzionata a cooperare.

— Non potete lasciarlo nelle loro mani! — urlò Chron agli uomini della tribù. I suoi occhi erano gonfi di lacrime, la voce rotta per la rabbia dell’impotenza.

Mi sforzai di sorridergli. — Non puoi fare nulla, Chron. Accetta l’inevitabile. — Quindi riportai lo sguardo su Kraal e Reeva. — Ma tornerò.

Kraal abbassò lo sguardo, ma Reeva mi lanciò uno sguardo di sfida.

— Tornerò — ripetei.


I padroni mi accompagnarono oltre le capanne. Con fischi e sibili fecero accovacciare i draghi su se stessi per lasciarci salire sul loro dorso; io venni posto alle spalle del rettile che mi aveva tolto il pugnale. Se anche costui (o costei, non avevo modo di capirlo) temeva che potessi afferrarlo alla gola per strangolarlo, non lo diede minimamente a vedere.

I draghi avanzarono pesantemente. Mi voltai a dare un ultimo sguardo al villaggio. I suoi abitanti erano ancora riuniti nella radura centrale, immobili. Chron sollevò la lancia sopra la testa in segno di sfida. Fu un bel gesto, tutto ciò che poteva fare.

L’intero villaggio era stato soggiogato; tutti gli uomini avevano piegato il capo a eccezione di un adolescente. Mi domandai quanto a lungo sarebbe potuto restare in vita se Reeva l’avesse giudicato una persona troppo pericolosa per i suoi piani.

Poi gli alberi si chiusero intorno al villaggio celandolo alla vista. I draghi procedevano a passo sostenuto, trotterellando sulle zampe posteriori, schiacciando il fogliame sotto i piedi. Non avevano sella né redini. Ero costretto a tenermi saldo con le mani e i piedi in groppa al dinosauro. Ci eravamo sistemati dietro il suo capo massiccio, di modo da non rischiare di venire colpiti dalle fronde degli alberi.

Gli umanoidi erano vestiti soltanto della loro pelle squamosa, senza una cintura o una tasca in cui riporre gli oggetti. Non sembravano disporre di arnesi, né di armi a eccezione delle loro zanne e dei loro artigli. E dei temibili draghi che stavamo cavalcando, naturalmente.

Mi domandai se comunicassero fra loro, quindi riflettei che senza un linguaggio non poteva svilupparsi l’intelligenza. Set aveva comunicato con me attraverso poteri telepatici. Forse anche i suoi sosia usavano la telepatia al posto del linguaggio.

Parlai al rettile seduto davanti a me senza ottenere alcun risultato. Qualsiasi cosa dicessi non sembrava produrre alcun effetto su di lui. Per quel che ne sapevo, era completamente sordo.

Eppure conduceva il drago senza sforzo. Doveva impiegare una qualche specie di telepatia, conclusi. Ricordai i neanderthaliani, i quali preferivano comunicare telepaticamente, sebbene fossero in grado di esprimersi mediante suoni.

Continuammo ad avanzare nella foresta senza fermarci. Scese la notte, ma anche allora le nostre cavalcature si limitarono a rallentare il passo. Se anche i draghi avevano bisogno di sonno non lo dimostravano, e per quanto ne sapevo i padroni che li guidavano potevano essere immersi in un sonno profondo. Mi chiesi se sapessero che, in caso di necessità, ero in grado di rimanere sveglio per settimane. O forse pensavano che potessi addormentarmi senza cadere dalla nuca di quel dinosauro saltellante?

Decisi di scoprirlo.

Mi lasciai scivolare dalla schiena del drago. Colpito il terreno con i talloni, mi allontanai dal percorso delle bestie che avanzavano con passo pesante e mi nascosi in una fitta macchia di sottobosco.

I draghi si fermarono di scatto e fecero dietro-front. Potevo udire il loro respiro pesante nell’oscurità, simile allo sbuffo di un gigantesco motore a vapore. Era nuvolo, e il cielo era così scuro che non riuscivo a scorgerli.

Dai rettili in groppa a quei colossi non giungeva alcun suono, però sentivo i draghi avvicinarsi, fiutando il terreno come enormi cani da caccia. Mi nascosi più profondamente tra i cespugli, appiattendomi a terra come uno scarafaggio in cerca di quiete.

Nella foresta era sceso il silenzio assoluto: non si sentiva ronzare un solo insetto.

Nell’oscurità un’immagine si formò nella mia mente. Il villaggio dal quale ero stato prelevato veniva raso al suolo da decine di draghi. Uomini e donne schiacciati tra le fauci impietose dei dinosauri. Vidi Chron squartato dai mostruosi artigli di un drago.

Qualcuno mi aveva inviato un messaggio. Che si trattasse dei padroni ai quali stavo cercando di sfuggire, o di Set in persona, il messaggio era piuttosto eloquente: o mi arrendevo o Chron e gli abitanti del villaggio sarebbero stati massacrati senza pietà.

Mi misi in piedi. L’oscurità era totale anche fuori dal cespuglio. Nemmeno la brezza più lieve muoveva l’aria. Dopo qualche istante udii il respiro sibilante e i passi poderosi di un drago. Uscii in un punto più aperto fra gli alberi e vidi gli occhi rossi di un rettile scintillare verso di me dalla schiena del dinosauro.

— Mi sono addormentato e sono caduto — mentii.

Non ci fu nessuna reazione da parte sua. Il rettile rimase a osservarmi in silenzio mentre il drago si chinava per farmi nuovamente salire sulla sua groppa. Quindi riprendemmo il nostro viaggio verso nord.

All’alba ricominciò a piovere, e io mi afferrai più saldamente sulla groppa dell’animale; ero zuppo, furente, deluso, e soprattutto terrorizzato all’idea di ciò che Set forse stava facendo ad Anya. Avevamo fallito, tutti e due. I nostri brevi momenti di felicità a Paradiso erano costati la vita di entrambi.

D’improvviso un nuovo pensiero balenò nella mia mente. I rettili avevano stipulato un vero e proprio accordo con la tribù di Kraal. Per quanto spregevole fosse stato il comportamento di Kraal, era possibile leggere in quell’atto un piccolo segno di vulnerabilità da parte di Set. I rettili non avevano mai dovuto ricorrere alla collaborazione di nessuno, prima del mio incontro con Kraal. L’idea dell’alleanza fra le varie tribù per resistere ai rettili doveva aver convinto Set a ideare quella nuova tattica.

I rettili erano vulnerabili. Dopotutto, avevamo ucciso alcuni dei loro temibili draghi disponendo delle armi più primitive. Avevamo convinto le tribù a unirsi nella battaglia.

Ma una voce nella mia mente continuava a chiedere cosa stesse accadendo ad Anya.

Il nostro operato era stato annullato dal sapiente uso che Set faceva del terrore. Il vecchio metodo dell’ostaggio: fai come ti dico o ucciderò coloro che ami. Kraal si era arreso di fronte a quella minaccia, spinto da Reeva. Set non si sarebbe mai abbassato a trattare con gli umani se non avesse cominciato a temere che potessimo costituire un pericolo.

Ma che ne era di Anya?

La tattica dell’ostaggio funzionava alla perfezione, fui costretto ad ammettere. Anya era nelle sue mani, e presto avrebbe avuto anche me. E tutto ciò che avevo insegnato a Kraal sarebbe servito soltanto a trovare nuovi schiavi per i demoniaci padroni.

Fu in questo tumulto di paure e rimorsi in conflitto fra loro che attraversai la foresta sulla schiena del drago durante quel giorno di pioggia. Bagnato, infreddolito e scoraggiato, posai la testa sul collo dell’animale e cercai di addormentarmi. Se anche la pioggia costituiva un fastidio per i rettili che mi avevano fatto prigioniero, non lo dimostravano minimamente. L’acqua picchiettava leggera sulle loro scaglie, e la fredda umidità dell’aria non sembrava avere alcun effetto su di loro.

Chiusi gli occhi e feci in modo di mantenere salda la presa sulla pelle bagnata e scivolosa del drago. Volevo dormire, in modo di essere riposato quando fossi giunto al cospetto di Set. Speravo anche, senza crederci veramente, che durante il sonno i Creatori decidessero di mettersi in contatto con me come avevano fatto nelle mie vite precedenti, in altre epoche.

Il mio ultimo pensiero cosciente fu rivolto ad Anya. Era ancora viva? Stava soffrendo le torture che Set aveva minacciato di riservarle?

Mi decisi a prendere sonno. Un sonno privo di sogni o di messaggi. In qualsiasi altro momento sarei stato felice di assaporare per qualche ora un oblio così totale e riposante. Ma quando mi svegliai mi sentii deluso, abbandonato, impotente.

Scrollatomi di dosso gli ultimi brandelli di sonno, mi accorsi che era quasi notte. Eravamo usciti dalla foresta, e avanzavamo attraverso l’immenso mare d’erba verso il giardino presso il Nilo. La luna stava sorgendo dietro l’orizzonte, e con essa anche la stella dallo stesso colore sanguigno degli occhi di Set.

12

Il sole era alto in un cielo così azzurro da farmi quasi dolere gli occhi. Avanzavamo nel giardino presso il Nilo, e i draghi, rallentato il passo, percorrevano un ampio corridoio di alberi. Il terreno sotto di noi era una distesa di ghiaia priva d’erba.

Non riuscii a scorgere nessuno schiavo, né altri draghi o rettili. Il giardino sembrava del tutto deserto, a parte noi.

Alta davanti a me si profilava una grossa struttura, un edificio, o meglio una parete liscia e ricurva. Sotto la luce del sole priva d’ombre aveva lo stesso colore di un guscio d’uovo e sembrava altrettanto levigata. Era ricurva verso l’interno, e degradava visibilmente verso la sommità. Nessuna fortificazione, nessuna finestra, nessuna feritoia. Soltanto una parete incurvata, costituita da un materiale che non era né pietra né legno.

I nostri draghi rallentarono ulteriormente la marcia quando fummo vicini a essa, quindi presero a percorrerne il perimetro. Doveva essere alta più di tre piani, valutai, e così ampia da coprire una superficie maggiore di quelle di Troia e Gerico messe insieme.

Avanzammo lungo la vasta base tondeggiante della parete per alcuni minuti, e a un tratto una sezione si aprì su se stessa per scoprire un ampio passaggio. I draghi l’attraversarono.

Gli animali percorsero al passo la lunga, ampia galleria che si snodava al di là. Le loro zampe munite d’artigli ticchettavano sul selciato. Il loro capo toccava quasi il soffitto, composto dello stesso materiale plastico e liscio della parete esterna. Infine emergemmo nuovamente alla luce del sole.

Eravamo giunti in un’immenso cortile circolare affollato di rettili di ogni tipo e dimensioni e di schiavi umani, sudati e seminudi. La facciata interna della parete era completamente liscia e impossibile da scalare.

Sul lato opposto del cortile c’era una specie di recinto per bestiame entro il quale erano chiusi i draghi erbivori che fungevano da guardiani di schiavi. Alcuni di loro allungavano il collo verso mangiatoie colme d’erba. Altri indugiavano placidi, muovendo lentamente la coda, con gli occhi rivolti verso il cortile, sollevando e abbassando il capo. In posizione eretta raggiungevano più della metà dell’altezza del soffitto.

Sul lato opposto del cortile c’erano recinti più solidi entro i quali passeggiava nervosamente un gran numero di carnosauri, sibilando e chiudendo di scatto la bocca, gli enormi denti lucenti come sciabole sotto la luce del sole.

Un terrazzamento pendeva da una sezione della parete incurvata a un’altezza di più di cinque metri. Decine di pterosauri dormivano su di essa con le grandi ali di pelle ripiegate, i lunghi becchi rivolti verso il basso e gli occhi chiusi. Non riuscii a scorgere alcuna traccia di escrementi sulle travi che reggevano il ripiano. O quei rettili volanti erano molto ben educati, o gli schiavi che li accudivano svolgevano il loro lavoro con estrema efficienza.

Nell’immenso giardino contai otto rettili umanoidi a passeggio nei campi, seduti su panche o intenti al lavoro. Nessuno di loro parlava con gli altri. Rimanevano a distanza, come se non si curassero affatto dei propri simili.

Alcuni schiavi addetti a riempire le mangiatoie degli erbivori trasportavano grosse ceste di vimini colme di fogliame. Altri quattro schiavi uscirono dalla bassa imboccatura di un cunicolo, curvi sotto il peso di un piano di legno sul quale erano impilati grossi pezzi di carne destinata ai carnosauri. Altri ancora si affrettavano intorno, intenti a compiti che non mi erano chiari ma che dovevano essere piuttosto importanti, a giudicare dalla loro velocità. Altri due si portarono ai piedi dei sauri che cavalcavamo, chinando il capo mentre i rettili scivolavano a terra invitandomi, con un cenno, a fare altrettanto.

La scena era quella dell’interno di un castello medievale o di una piazza di mercato orientale: i draghi con la loro pelle multicolore, i rettili dalle scaglie di rosso corallo, l’immensa parete ricurva, gli pterosauri, gli schiavi al lavoro. Eppure erano altri i particolari che trovavo ancora più singolari. La mancanza totale del fuoco e la relativa mancanza di rumore.

Tutto accadeva in un silenzio quasi assoluto; non si udiva una sola voce. Soltanto l’occasionale sbuffare di un drago o il ronzio di un insetto infrangevano quella quiete così irreale. I piedi nudi degli schiavi non producevano alcun rumore sul terreno polveroso del cortile. I rettili non emettevano alcun suono, e i loro servitori umani non osavano fiatare.

Mi lasciai scivolare a terra e fissai i due schiavi muti di fronte a noi. Uno di loro era una giovane donna, nuda fino alla cintola come il suo compagno. Senza dire una parola, rivolsero un cenno ai draghi che li seguirono verso i recinti dei carnivori.

Uno dei rettili che mi avevano catturato mi diede un colpetto sulla spalla e indicò in direzione di una stretta soglia nella parete ricurva. Ero pronto a giurare che la parete fosse stata perfettamente liscia fino a quel momento.

Con un rettile avanti a me e l’altro di dietro, m’immersi nella fresca ombra di un corridoio che sembrava seguire la circonferenza interna delle mura. Giungemmo a una rampa di scale a spirale che portava in basso e iniziammo una lunga discesa. Era buio, soprattutto dopo essere rimasti così a lungo alla luce del sole. Il corridoio non era illuminato; a malapena riuscivo a distinguere la schiena del rettile che camminava poco più di un metro davanti a me.

Infine ci arrestammo di fronte a quella che sembrava una parete. Una porzione di muro scivolò su se stessa. I rettili che mi avevano scortato fin lì fecero un gesto per esortarmi ad avanzare.

Entrai in una camera debolmente illuminata, e la porta si richiuse con violenza alle mie spalle. Ma sapevo di non essere solo. Riuscivo ad avvertire la presenza di un altro essere vivente.

Sebbene i miei occhi fossero in grado di adeguarsi quasi istantaneamente a qualsiasi condizione di luce, la camera rimase immersa nella quasi totale oscurità. Poi un raggio di luce rossa, simile al sinistro luccichio della stella insanguinata della notte, inondò una parte della stanza.

Set era seduto su un grosso divano privo di schienale. Un trono dell’ebano più scuro, sollevato a circa un metro dal pavimento sul quale mi trovavo. Su entrambi i lati della sua figura erano poste un gran numero di statue in legno e in pietra; una di esse si sarebbe detta d’avorio. Erano tutte di diversa grandezza e fattura; dovevano essere state intagliate da mani diverse. Alcune erano piuttosto rozze. Quella d’avorio, invece, era un vero e proprio capolavoro.

Tutte raffiguravano lo stesso soggetto: la creatura infernale di nome Set.

Dai suoi occhi rossi a forma di fessura emanava un odio implacabile. Col suo volto provvisto di corna, il corpo coperto di scaglie cremisi e la lunga coda in continuo movimento era veramente l’incarnazione del demonio. Migliaia di generazioni di esseri umani avrebbero tremato di fronte alla sua immagine. Il suo volto era quello degli incubi più tremendi, del terrore più irrazionale, di un’eterna inimicizia senza confini né pietà.

Avvertivo quell’odio bruciare nel mio stesso animo. Mi tremarono le ginocchia per l’odio e l’orrore quando mi resi conto di trovarmi di fronte al principale nemico di tutto il genere umano.

— Tu sei Orion. — Le parole erano una lama nella mia mente.

Risposi, a voce alta: — E tu sei Set.

— Miserabile scimmia. Saresti tu ciò che i tuoi Creatori hanno pensato di mandare contro di me?

— Dov’è Anya? — domandai.

La bocca di Set si dischiuse quasi impercettibilmente. In un viso umano il suo avrebbe potuto essere un sorriso crudele. Molte file di denti appuntiti, simili a quelle di uno squalo, scintillarono nell’intensa luce rossa.

— Il punto debole dei mammiferi risiede nel loro attaccamento ad altri mammiferi. Prima fisicamente poi emotivamente, per tutta la vita.

— Dov’è Anya? — ripetei.

Set sollevò una mano e una parte della parete alla sua destra si trasformò in una finestra. Vidi decine di esseri umani stipati in una piccola stanza umida. Alcuni erano seduti, altri afferravano manciate di cibo incolore da una ciotola e se lo portavano alla bocca. Un uomo e una donna si accoppiavano in un angolo della stanza, ignorando gli altri e ignorati dagli altri.

— Scimmie — disse Set nella mia mente.

Osservai attentamente ma non riuscii a vedere Anya. Quindi pensai che quello era il primo esempio di tecnologia che avessi avuto occasione di notare da parte di Set e dei suoi rettili.

Set sollevò un artiglio e cominciai a udire un brusio e un cicaleccio di voci, urla, frammenti di conversazione, persino risate umane. Il pianto di un bambino. La voce rotta di un uomo che si lamentava amaramente di qualcuno che l’aveva chiamato vecchio pazzo. I sussurri di un trio di donne sedute in gruppo sul pavimento.

— Stupide scimmie chiacchierone — commentò Set. — Sempre a parlare. Sempre a borbottare. Cos’avranno mai da dirsi?

Quelle voci umane suonavano calde e rassicuranti alle mie orecchie.

Le parole di Set nella mia mente si fecero velenose. — Esseri umani sempre insieme un giorno dopo l’altro, e ancora sentono il bisogno di biascicare parole, di produrre rumore. Sarà un mondo migliore quando anche l’ultimo uomo sarà eliminato.

— Eliminato?

— Ah, vedo che ciò risveglia la tua curiosità scimmiesca; non è così?

— Hai intenzione di spazzare via l’intera razza umana?

— Vi cancellerò tutti dalla faccia della terra. — Anche se le sue parole giungevano come una proiezione nella mia mente, in esse mi sembrò di avvertire un sibilo di disprezzo.

La mia mente lavorava all’impazzata. Come poteva pensare di riuscire a spazzare via l’intera razza umana? Ero certo dell’esistenza dei Creatori in un lontano futuro, il che significava che il genere umano doveva essere sopravvissuto.

Udii Set prorompere nell’equivalente di una risata, uno strillo tanto acuto da raggelare il sangue, simile allo stridio di un’unghia contro una lavagna.

— I Creatori non esisteranno più quando avrò portato a termine il mio progetto. Piegherò il continuum al mio volere, Orion, e il tuo misero gruppetto di sedicenti dèi scomparirà come la fiamma di una candela spenta dal vento.

L’immagine sulla parete si fece sempre più scura.

— Anya…

— Vuoi incontrare la tua donna? Allora vieni con me. — Si alzò in piedi, ergendosi sopra di me come un terribile spettro di morte. — La incontrerai. E condividerai il suo destino.

Attraversammo un’altra soglia nascosta ed entrammo in un corridoio così poco illuminato da permettermi a malapena di distinguere la possente figura di Set davanti a me. Lui e i suoi simili, pensai, dovevano essere in grado di vedere senza problemi alla luce di una radiazione sotto l’infrarosso. Chissà se, per contro, non riuscivano a distinguere i colori di frequenza superiore, come il blu e il viola? Archiviai nella mente quella congettura per future considerazioni.

Il corridoio divenne una scala che scendeva a spirale verso le profondità della terra. Dalle pareti emanava un debole chiarore rosato, appena sufficiente a non farmi inciampare. Scendevamo sempre più in basso. Set era quasi trenta centimetri più alto di me, e la sua testa sfiorava il soffitto della galleria. Era di costituzione piuttosto robusta ma il suo corpo non era rigonfio di muscoli: aveva una sua grazia flessuosa simile alla mortale agilità di un boa constrictor.

Osservai un paio di sporgenze ossee che gli percorrevano il cranio per incontrarsi, sulla nuca, con la colonna vertebrale. Viste davanti, quelle sporgenze erano simili a due piccole corna, immediatamente sopra ai suoi occhi da serpente. Notai che dalla sua spina dorsale sporgevano alcuni spuntoni, vestigia di quelle che molti eoni prima dovevano essere state piastre ossee. Anche l’estremità della coda presentava un piccolo rigonfiamento che doveva essere stato un’arma difensiva.

La galleria si fece sempre più stretta e ripida. E sempre più calda. Cominciai a sudare. Il pavimento era spiacevolmente arroventato sotto i miei piedi nudi.

— Fin dove scende questa galleria? — domandai, e la mia voce echeggiò fra le pareti levigate.

La sua voce rispose nella mia mente: — I tuoi Creatori traggono la loro energia dal sole; io derivo la mia dalle profondità del pianeta, dall’oceano di metallo fuso che ribolle fra la crosta esterna di questo mondo e il suo nucleo.

— Il nucleo interno della Terra — mormorai.

— Un mare di energia — Set continuò — alimentato da gravità e radioattività, ribollente di correnti elettriche e campi magnetici, caldo al punto che il ferro e gli altri metalli vi si trovano allo stato liquido.

Era la descrizione dell’inferno. La sua energia proveniva dall’inferno.

Procedemmo sempre più in basso. Mi domandai perché Set non avesse costruito un ascensore. Camminammo in silenzio nella debole luce rosata per quelle che sembrarono molte ore. Era come passeggiare nell’interno di un forno.

Ha chiuso Anya quaggiù, dissi fra me e me. Per quale motivo l’ha rinchiusa a tale profondità? Teme forse di essere visto da qualcuno? Ha forse qualche altro nemico oltre ai Creatori? Forse qualche suo simile contrario ai suoi progetti?

I miei pensieri vorticavano senza fine, ma sempre tornavano a concentrarsi sulla stessa, terribile domanda: cosa avrà fatto ad Anya?

A poco a poco divenni cosciente di un’altra presenza nella mia mente, un intelletto che mi sondava con tale delicatezza che a malapena mi riusciva di avvertirlo. Dapprima pensai che si trattasse di Anya. Ma poi mi accorsi che era una presenza aliena, ostile. Allora compresi perché stessimo impiegando così tanto tempo per raggiungere la prigione di Anya. Set sondava la mia mente, m’interrogava con tale delicatezza da non farmene quasi accorgere, consultava i miei ricordi… Perché?

Set percepì la mia presa di coscienza di ciò che stava facendo.

— Sei cocciuto come la tua donna. Dovrò usare metodi più radicali anche con te, così come ho dovuto fare con lei.

Divenni preda di una furia incontenibile, guidata dalla disperazione. Avrei voluto colpirlo sulla schiena e rompergli l’osso del collo. Ma sapevo che era in grado di sopraffarmi con estrema facilità. Avvertii il suo maligno divertimento di fronte ai miei pensieri.

— Soffre molto, Orion. La sua agonia si farà sempre più insostenibile, finché non le permetterò di morire.

13

La ripida galleria a spirale si interruppe di fronte a un’altra porta invisibile. Set non fece, mi sembrò, nessun movimento, eppure essa si aprì per rivelare ciò che a una prima occhiata sembrava un laboratorio.

Non riuscii a vedere Anya da nessuna parte. Nella camera echeggiava il ronzio diffuso e uniforme dell’energia elettrica. Uno in fila all’altro, su due lati di quella stanza angusta si snodava una serie di quadri di controllo. Alle nostre spalle c’erano un lungo tavolo da lavoro ingombro di strani oggetti e una sedia priva di schienale, ideata per una creatura bipede e munita di coda. La quarta parete era completamente spoglia.

Set sollevò gli artigli della mano destra e la parete cominciò a scivolare su se stessa rivelando una stanza molto più ampia, anch’essa ingombra di strane apparecchiature.

E Anya.

Era rinchiusa in un cilindro di vetro posto su una piattaforma rialzata. Completamente nuda, la donna era immobile, gli occhi chiusi e le mani distese lungo i fianchi. Lampi elettrici azzurri lambivano ogni centimetro della sua pelle.

— Non ti sembra felice? — risuonò la voce sibilante di Set nella mia mente.

Sembrava in stasi ipotermica. Oppure morta. Su ogni lato della piattaforma, all’esterno del cilindro di vetro in cui era chiusa Anya, vidi quattro statue raffiguranti Set. La più alta, scolpita nel legno, mi arrivava al petto.

— Guarda — Set ordinò.

Mi voltai a seguire la direzione indicata dal suo artiglio e vidi una fila di schermi snodarsi lungo tutta la parete.

— Mostrano i diagrammi delle sue onde cerebrali.

Una serie di punte di metallo dentellate danzavano nervosamente su e giù, al ritmo dei guizzi d’elettricità che percorrevano il corpo di Anya.

A un cenno della mano di Set i lampi azzurri aumentarono d’intensità, si fecero più intensi e più repentini sulla sua pelle. Il corpo nudo di Anya sembrò rimpicciolire in preda al tremore. Le sue palpebre si serrarono ancora di più, e lacrime di dolore si affacciarono sotto di esse. Con la coda dell’occhio vidi gli indicatori sugli schermi muoversi più freneticamente, lingue di fiamma che bruciavano nella mia mente.

Quel mostro la torturava con l’efficienza e la spietatezza con le quali un esercito di formiche rosse strazia le carni di qualunque essere vivente incontrino nel loro cammino.

— Basta! — gridai. — Basta!

— Apri la tua mente, Orion. Mostrami ciò che voglio vedere.

— E in cambio…?

— Vi permetterò di morire insieme.

Fissai intensamente i suoi occhi da rettile. In essi non vidi nessuna espressione di trionfo, nessuna gioia, nessun sadico piacere. Soltanto l’odio più puro. Odio per la razza umana, odio per i Creatori, per Anya, per me. Set stava semplicemente compiendo i passi necessari per raggiungere il suo scopo, senza il minimo scrupolo.

Anch’io sentivo l’odio ribollire dentro di me. Ma, impotente com’ero, scrollai le spalle e chinai il capo.

— Arresta il suo dolore e potrai fare di me ciò che vorrai — dissi.

— Farò diminuire il suo dolore — rispose Set. — Ma non lo farò cessare del tutto fino a quando non avrò appreso ciò che voglio sapere. Allora potrete morire entrambi.

I lampi azzurri sulla pelle di Anya si fecero più pallidi e si mossero più lentamente. Gli indicatori mostrarono che il suo dolore si era fatto meno intenso.

Allora la mente spietata e potente di Set penetrò nella mia come una punta d’acciaio rovente, in cerca della conoscenza che voleva. Mi sentii come immobilizzato, incapace di muovere un dito mentre quell’essere frugava nella mia mente in cerca di ricordi.

Vidi, udii e percepii tutti gli avvenimenti del mio passato. Il Radioso che annunciava di voler sterminare gli altri Creatori per rimanere l’unico, vero dio della razza umana. Lo splendore primitivo del Karakorum e Ogatai, gran Khan dei mongoli e mio amico, l’uomo che avevo assassinato. Il freddo umido e intenso della Cornovaglia medievale, dove i cavalieri di Artù si erano massacrati senza fine a vicenda.

Set si aggirava colmo d’ira nella mia mente, stimolando ricordi, pensieri, vite che erano state esiliate dalla mia coscienza, frugando alacremente, facendosi largo tra esse attraverso gli eoni in cui avevo vissuto, alla disperata ricerca di qualche particolare conoscenza.

Ma nel suo errare per la mia mente indifesa non poté fare a meno di esporre a me la sua. Il legame creatosi fra noi, per quanto straziante, si estendeva in entrambe le direzioni. Non che potessi leggere ogni suo pensiero, né potevo frugare direttamente fra i suoi banchi di memoria come lui faceva con me; ma neanche lui in quella circostanza poteva evitare che parte dei suoi pensieri giungessero alla mia mente.

Mi vidi nel laboratorio in cui il Radioso mi aveva creato. Mi vidi alla deriva su un mare in bonaccia, mezzo morto di sete. Mi vidi su un mondo in orbita intorno alla stella di nome Sirio. Mi vidi morire nell’esplosione di una grossa astronave, stringendo Anya tra le braccia.

Infine mi ritrovai in quella camera di tortura aliena, con Anya sofferente nella sua prigione di vetro e i malvagi occhi rossi di Set puntati contro di me.

— Bah! Tutte sciocchezze. Sai molto meno di quanto pensassi. — Per la prima volta le sue parole, infuocate nella mia mente, sembrarono colme di rabbia e delusione.

Il mio corpo ritrovò il controllo di se stesso. Mi sentivo formicolare tutto mentre il controllo di Set su di esso si faceva più debole.

Set portò nuovamente il suo sguardo da rettile su Anya. — Lei sa. Dovrò cercare anche nella sua mente.

— No! — gridai, mentre il rettile portava la mano verso gli strumenti sulla parete.

Aveva concentrato la sua attenzione su di essi, non curandosi di me per una semplice frazione di secondo. Per me fu più che sufficiente.

Afferrai la statua di legno più vicina e lo colpii sulla schiena. Set cadde contro gli schermi indicatori allineati sulla parete. Sollevata nuovamente la statua sopra la testa, la scagliai con tutte le forze contro il tubo di vetro in cui era rinchiusa Anya. Il vetro andrò in frantumi, e le scintille elettriche smisero di percorrerle la pelle.

Afferrai Anya per la vita e la feci scendere da quel piedistallo di dolore.

— C… cosa…? — domandò, non appena ebbe aperto gli occhi.

— Da questa parte! — dissi, trascinandola con me.

Set si era messo in ginocchio e stava per sollevarsi in piedi. — Fermati! — la sua voce ruggì nella mia mente, e qualcosa dentro di me smaniava per obbedire.

Ma uno stimolo ancora più intenso mi spinse a proseguire, a non obbedire al suo comando mentale. Trascinai Anya attraverso la porta e lungo il corridoio, mentre Set continuava a gridare i suoi ordini telepatici.

Il corridoio non terminava nel punto in cui ci eravamo fermati: l’avevo letto nella mente di Set. Una sezione della parete scivolò su se stessa, e io e Anya ci lanciammo in un nuovo ramo di quella lunga galleria.

Sempre più in basso.

— Orion… ha catturato anche te?

— Reeva e Kraal hanno stretto un accordo con lui, e il prezzo da pagare eravamo noi due.

Scendemmo sempre più in basso, i piedi nudi sempre più doloranti sul pavimento arroventato. La tenue luce emanata dalle pareti non era sufficiente a proiettare ombre.

— Tutto bene? — domandai, continuando a trascinarla per il polso.

Anya rispose, correndo a perdifiato: — Quel dolore… era nella mia mente.

— Tutto bene?

— Fisicamente sì… ma… ora ricordo, Orion. È un demonio; è crudele e spietato.

— Lo ucciderò.

— Dove mi stai portando? Perché continuiamo a scendere?

— L’energia — dissi. — La sua fonte d’energia è nel sottosuolo, nelle profondità della Terra.

Ciò che avevo letto nella mente di Set non era stato che un confuso groviglio di sensazioni. Anche lui, come i Creatori, era in grado di manipolare lo spaziotempo, e la fonte delle titaniche energie di cui aveva bisogno era sotto di noi.

— Non potremo più fuggire — disse Anya, mentre ci precipitavamo giù per il tunnel — se continuiamo a scendere.

— Certo non possiamo fuggire in superficie. Le schiere di Set ci aspetterebbero al varco. Decine di draghi e chissà quanti rettili al suo servizio.

— Verranno a cercarci.

Annuii tristemente.

Set aveva cercato nella mia mente una conoscenza di cui i Creatori dovevano disporre e che lui non aveva. Qualcosa che riguardava il continuum spaziotemporale, una crisi avvenuta alcuni milioni di anni prima e alla quale cercava di porre rimedio, per volgerla a proprio vantaggio.

Improvvisamente, il suo volto traboccante d’odio prese forma nella mia mente. — Non puoi fuggire al mio furore, miserabile scimmia. Tutto ciò che otterrai saranno i tormenti più atroci e la disfatta totale.

Anche Anya sembrò vedere quella stessa immagine. I suoi occhi si dilatarono per un istante. Quindi gridò: — Ci teme, Orion. Sei riuscito a incutergli timore.

— TREMATE! — tuonò la voce di Set nelle nostre menti.

Non dissi nulla, continuando ad avanzare lungo quel tunnel a spirale, allontanandomi sempre più dal sole e dalla libertà. Sapevo che i tirapiedi di Set dovevano essersi gettati al nostro inseguimento, mortificando ogni nostra speranza di far ritorno all’esterno, nel mondo della luce e del calore.

Non che quella galleria fosse minimamente fredda. Il pavimento si era fatto quasi incandescente, e dalle pareti emanava una chiarore rosso. Era come dirigere verso le porte dell’inferno.

Mi accorsi di impugnare ancora la statua di Set, stringendole con forza le dita intorno al collo. Era l’unica cosa simile a un’arma di cui disponessimo, e l’avevo portata con me a dispetto del suo peso considerevole. Mi era stata utile una volta, ed ero certo che in breve sarei stato costretto a usarla di nuovo.

La galleria si aprì infine in una vasta camera circolare ingombra di strumenti e attrezzature appartenenti alla tecnologia aliena di Set. La stanza era ancora più luminosa della galleria, e il suo soffitto era molto basso, quasi claustrofobico. Al centro della camera c’era uno steccato di ferro di forma circolare. Al suo interno vedemmo aprirsi un precipizio così profondo da non riuscire a scorgerne la fine. Dal pozzo salivano vampate di calore intenso, e mi sembrò di udire un suono grave e roboante, simile alle pulsazioni del cuore gigantesco di qualche bestia incredibilmente enorme.

— Un pozzo nucleare.

— Un pozzo…?

— La fonte d’energia alla base del potere di Set. Il pozzo scende fino al nucleo fuso della Terra.

Sapevo che doveva essere così, ma la conferma di quel sospetto mi fece ugualmente battere le palpebre per lo stupore. Set sfruttava l’inesauribile energia racchiusa nel cuore della Terra. Grazie a essa era in grado di produrre alterazioni al flusso spaziotemporale. Ma perché? A che scopo? Non lo sapevo.

Il corridoio terminava in quella stanza. Non c’era altra via d’uscita se non quella da cui eravamo appena giunti, e avevo la certezza che decine, centinaia di rettili si erano lanciati al nostro inseguimento.

Anya era completamente assorta nell’analisi dei banchi di strumenti e pannelli di controllo allineati lungo le mura circolari della stanza. Avevamo pochi minuti a nostra disposizione prima che tutti i rettili di Set piombassero su di noi, ma Anya continuava a concentrare la propria attenzione sui macchinari che avevamo di fronte. Aveva dimenticato persino il dolore della tortura di Set e la propria nudità.

Ma io ero immune da tali dimenticanze. Era la donna più bella del mondo, alta, slanciata e aggraziata come una dea guerriera, i lunghi capelli neri sciolti sulle spalle, gli occhi grigi e luminosi intenti allo studio di quella tecnologia aliena.

— Sul fondo del pozzo sta per verificarsi un fenomeno di distorsione spaziotemporale. L’energia laggiù è sufficiente a completarla, se concentrata adeguatamente.

Dal tono con cui pronunciava quelle parole, capii che stava parlando più a se stessa che a me.

Si voltò. — Orion, dobbiamo distruggere tutti questi strumenti. Colpisci! Presto.

— Con piacere — risposi, sollevando la statua di legno.

— Non fate che aumentare l’agonia che vi infliggerò! — gridò Set nella mia mente.

— Ignoralo — disse Anya.

Calai la statua contro il più vicino banco di strumenti. Riuscii a infrangere con facilità la leggera calotta di plastica che lo rivestiva. Piovve una cascata di scintille bianche e azzurre. Un sottile filo di fumo salì da esso.

Passai da una consolle all’altra, rompendo, infrangendo, distruggendo. Immaginai di colpire il volto di Set, e il compito si fece piacevole.

Avevo distrutto appena un quarto dell’ampia circonferenza quando Anya gridò: — Stanno arrivando!

Balzai verso l’unica via d’ingresso alla camera e udii il calpestio di decine di piedi artigliati scendere verso di noi.

— Cerca di trattenerli il più possibile — disse Anya.

Potei guardarla soltanto per un momento. Si dette da fare per distruggere i pannelli successivi, per strapparne i cavi interni, con le dita coperte di sangue. Il balenio delle scintille proiettava una luminescenza azzurrina sui lineamenti risoluti del suo bellissimo volto.

Poi i rettili si fecero su di me. L’ingresso non era stretto come desideravo. Erano in grado di attaccarmi anche tre alla volta. Usai la statua del loro signore e padrone a mo’ di arma, colpendoli con tutta la furia e l’odio che si erano accumulati dentro di me in tutti quei mesi.

Cominciai a ucciderli. Due, tre, dozzine, fino a perdere il conto. Ero lì fermo sulla soglia e picchiavo, colpivo, sferzavo con una forza e una rabbia sanguinaria quali non avevo mai conosciuto. La statua di legno si trasformò in uno strumento di morte che spaccò ossa, frantumò crani, versò il sangue dei miei nemici inumani finché la soglia non si riempì dei loro corpi e il pavimento divenne scivoloso per il sangue.

I miei nemici non disponevano di armi a eccezione di quelle fornite loro dalla natura. Sferzavano l’aria coi loro artigli affilati, straziandomi le carni. Il mio sangue scorreva insieme al loro, ma la cosa non mi destava alcuna preoccupazione. Ero diventato una forza devastatrice, inesorabile come il fuoco o la valanga.

Anya si portò al mio fianco, stringendo in pugno una lunga lamina di metallo strappata a uno di quei macchinari, come una spada vendicatrice. Lanciò un grido di battaglia, e io ruggii in risposta tutta la rabbia prodotta dalla mia disperazione mentre i rettili sibilavano e calavano gli artigli su di noi.

Lentamente ma inesorabilmente ci spinsero all’interno della camera rotonda, decisi ad accerchiarci. Ci disponemmo schiena contro schiena, continuando a colpire con tutta la furia che il nostro sangue e i nostri nervi potessero generare.

Ma non era sufficiente. Per ogni rettile che cadeva un altro prendeva il suo posto. Altri due. Altri dieci.

Senza scambiarci una parola, ci aprimmo un varco fra i mostri per portarci sull’orlo del pozzo. Con l’inferriata alle nostre spalle continuammo a batterci senza alcuna speranza di salvezza per il semplice piacere di uccidere quanti più nemici fosse possibile prima che, com’era inevitabile, finissero per sopraffarci.

Uno degli umanoidi si arrampicò sul parapetto dietro di noi e cercò di saltare oltre il pozzo alle nostre spalle. Ma non riuscì a percorrere l’intera larghezza della voragine e cadde nell’abisso emettendo grida strazianti.

Da alcuni minuti avevo bloccato gli impulsi nervosi che portavano alla mia mente le sensazioni del dolore e della fatica, ma a ogni colpo il mio braccio si faceva più pesante e più lento. Gli artigli di un rettile mi colpirono il petto, e altri mi ferirono il viso. La fine era ormai prossima.

Nel caos della battaglia compresi che non volevano ucciderci. Morivano a decine per obbedire all’implacabile comando di Set, che ci voleva vivi. Una morte rapida non era ciò che voleva per noi.

Non gli avrei permesso di posare nuovamente le sue zampe crudeli sulla mia dea. Con un guizzo finale delle mie forze afferrai Anya per la vita e la spinsi con me oltre l’orlo del pozzo che scendeva verso le forze implacabili del nucleo terrestre.

Cademmo sempre più in basso. Giù verso il cuore fuso della Terra.

E la morte.

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