LIBRO SECONDO Purgatorio

Guarda! La morte si è eretta un trono

Da sola in una strana città

Lontana nell’oscuro Occidente,

Dove il bene e il male, il meglio e il peggio

Son giunti alla requie eterna.

14

Cademmo sempre più in basso.

Illuminati dall’intenso bagliore rosso, laggiù sotto di noi, Anya e io eravamo privi di peso, in caduta libera come paracadutisti o astronauti a gravità zero. Sembrava di galleggiare a mezz’aria, fluttuando nel nulla, arrostendo a fuoco lento nel calore intenso che saliva dal basso. Un vento infuocato simile all’alito caldo di un motore a razzo urlava contro di noi. Non riuscivamo a respirare, non potevamo parlare.

Ordinai al mio corpo di estrarre ossigeno dai vacuoli delle cellule: un espediente temporaneo, ma sempre meglio che essere costretti a respirare anche una sola boccata di quell’aria così rovente da bruciare i polmoni. Mi augurai che Anya avesse avuto la stessa idea.

Il poco che avevo potuto leggere nella mente di Set aveva rivelato che quel pozzo apparentemente senza fondo in cui stavamo cadendo scendeva fino al nucleo della Terra; il suo tremendo calore forniva potenza a un dispositivo distorsore in grado di scagliarci in un altro luogo e in un altro tempo.

Era l’unica possibilità di cui potessimo disporre per sfuggire a Set e alla morte lenta che aveva preparato per noi. O alla morte nel rovente abbraccio del metallo fuso che si faceva sempre più vicino.

Strinsi Anya a me, e lei mi passò un braccio intorno al collo. Non scambiammo una sola parola. Quell’abbraccio diceva già tutto da solo. Pensai che Set e i suoi rettili non avrebbero mai potuto conoscere quel tipo di intimità, quella condivisione del piacere nel contatto corporale, retaggio esclusivo dei mammiferi.

Serrando le palpebre, cercai di riportare alla mente le sensazioni dei miei precedenti passaggi attraverso lo spaziotempo. Cercai con tutte le forze di contattare i Creatori, inutilmente. Continuavamo a cadere verso il centro della Terra, avvinghiati l’uno all’altra in caduta libera mentre il calore che ribolliva sotto di noi cominciava a far sfrigolare le nostre carni.

Energia. Era necessaria l’immensa energia del cuore infuocato di un pianeta, o quella delle irradiazioni di una stella, per distorcere il flusso spaziotemporale e creare una spaccatura nel continuum.

Più ci avvicinavamo al metallo fuso del pozzo di Set e più l’energia si approssimava a quella necessaria per il salto. Soltanto che quella stessa energia ci stava uccidendo, togliendoci il respiro, bruciandoci le carni.

Non avevamo scelta. Spinsi il mio corpo a utilizzare ogni singola goccia d’umidità per avvolgermi nel sudore, nella speranza che quello strato sottile potesse assorbire parte del calore mantenendomi in vita almeno per qualche istante.

Il volto di Anya, così vicino al mio, cominciò a brillare. Pensai che gli occhi mi si stessero liquefacendo, ma poi la sentii dissolversi nel nulla.

Il suo bel volto assunse un’espressione amara, disperata. Quindi prese a ondeggiare e vacillare sotto i miei occhi, cominciò a offuscarsi e a sbiadire e infine svanì in un’ombra diafana e spettrale.

Sempre fra le mie braccia, Anya mutò forma. Il suo corpo solido si dissolse nel nulla, e tutto ciò che vidi di lei fu una sfera raggiante di luce argentea, debolmente screziata di rosso a causa del chiarore sotto di noi.

Compresi allora con chiarezza come effettivamente lei fosse una dea, tanto progredita rispetto alla mia forma umana quanto lo sono io rispetto a quella di un’alga. Aveva mantenuto le sue spoglie umane soltanto per amor mio.

Adesso, di fronte alla morte, aveva fatto ritorno alla sua vera essenza, quella di un globo di pura energia che pulsava e si riduceva sotto i miei occhi.

— Addio — disse la sua voce nella mia mente. — Addio, amore.

Il globo argenteo scomparve, e io rimasi solo e abbandonato nella mia discesa verso l’inferno.

Mi costrinsi a pensare che almeno lei si sarebbe salvata. Era riuscita a fuggire, forse era addirittura riuscita a fare ritorno presso gli altri Creatori, dissi a me stesso. Ma non potei nascondere l’amarezza che cresceva dentro di me, l’oscura sofferenza che si riversava in ogni atomo del mio essere. Mi aveva abbandonato, mi aveva lasciato solo ad affrontare il mio destino. Sapevo che aveva agito per il meglio, eppure mi sentivo inghiottire in un abisso di dolore infinito, più scuro e profondo del pozzo nel quale stavo cadendo.

Lanciai un disarticolato, inutile grido di rabbia nel quale era racchiuso tutto il mio furore contro Set e i suoi oscuri poteri, contro i Creatori che mi avevano dato vita solo perché compissi il loro volere e contro la dea che mi aveva abbandonato.

Anya mi aveva lasciato solo. C’era un limite a ciò che una dea era in grado di affrontare per amore di un mortale. Ero stato uno stupido a pensare che potesse non essere così. Dolore e morte erano retaggio dei miserabili esseri che servivano i Creatori; di certo non si addicevano agli dèi.

Poi, un’ondata di freddo intenso fluì dentro di me come il respiro dell’angelo della morte, come se fossi penetrato nel cuore di un antico ghiacciaio o nelle più remote profondità dello spazio intergalattico. Un gelo e un’oscurità così assoluti da farmi temere che ogni molecola del mio corpo si fosse congelata.

Volevo gridare, ma non avevo corpo. Non c’era più nessuno spazio, nessuna dimensione. Esistevo, ma senza una forma mia propria, senza vita, in una vacuità in cui non c’erano né luce, né calore, né tempo.

Nell’essenza immateriale che era la mia mente vidi un globo, un pianeta, un mondo in lenta rotazione sotto di me. Sapevo che era la Terra, ma come non l’avevo mai vista prima. Era un mondo marino, coperto interamente dall’oceano, azzurro e abbagliante sotto la luce del sole. Lunghe processioni di nuvole fra le più bianche e pure che avessi mai veduto fluttuavano alla deriva sopra quel globo d’acqua. L’oceano non possedeva un’isola sufficientemente grande da essere visibile dal punto in cui mi trovavo. I poli erano liberi dai ghiacci e coperti anch’essi da un’acqua di intenso colore blu.

Il pianeta girava lento e maestoso sul suo asse, ma alla fine riuscii a scorgere una terra. Un unico continente brunoverde e immenso: l’Asia, l’Africa, l’Europa, le Americhe, l’Australia, l’Antartico e la Groenlandia tutte unite in una sola, gigantesca massa di terra. Anch’essa era costellata di mari interni, di laghi estesi quanto l’India, di fiumi più lunghi dell’eterno Nilo e più ampi del mitico Rio delle Amazzoni.

Sotto i miei occhi incorporei la vasta distesa di terra cominciò a incrinarsi. Nella mia mente potevo udire il titanico gemito di quelle immense masse di basalto e granito, osservare il rollio dei terremoti, vedere intere catene montuose emergere dal terreno straziato. Una serie di vulcani s’illuminò di rosso intenso e la terra si divise mentre gli oceani si precipitavano a colmare gli spazi generati da tale spaccatura, spumeggiando, sollevando nubi di vapore.

Mi sentii precipitare nuovamente verso il globo in continua rotazione mentre i suoi continenti si deformavano allontanandosi tra loro. Sentii i miei sensi tornare a reagire come avevano sempre fatto e il mio corpo riacquistare materialità.

Poi l’oscurità più totale.

I miei occhi si misero a fuoco su un chiarore tremolante. Una tenue luminescenza che aumentava e diminuiva, aumentava e diminuiva con pulsioni sempre più lente. Ero disteso sulla schiena sopra qualcosa di morbido e spugnoso. Ero vivo, e nuovamente nel mondo.

Con uno sforzo misi a fuoco la realtà intorno a me. Quel chiarore era la luce del sole che brillava attraverso le fronde ondeggianti di un boschetto di felci enormi, incurvate dalla calda brezza. Cercai di mettermi a sedere, ma scoprii di essere troppo debole. Ero esausto e disidratato; la mia pressione sanguigna era pericolosamente bassa, a causa dell’enorme quantità di liquido che avevo sottratto al mio corpo per proteggere la pelle dal calore.

Sopra di me, oltre le grandi felci che ondeggiavano al vento, il cielo era coperto di nuvole grigie. L’aria era calda e umida, il terreno soffice e bagnato come quello di una palude. Potevo sentire gli insetti ronzare intorno a me; nessun altro suono.

Cercai di sollevare il capo per guardarmi intorno, ma anche quel movimento era troppo faticoso.

Mi misi a ridere. Salvare la pelle da quell’inferno per morire di fame laggiù, soltanto perché non avevo più la forza di mettermi in piedi… la situazione aveva un che di tremendamente ironico.

Poi Anya si piegò su di me, sorridendo.

— Sei sveglio — disse, con voce dolce e calda come la luce del sole dopo una pioggia.

Un’ondata di meraviglia, gioia e indicibile gratitudine mi colpì con tale violenza che, se solo nel mio corpo fosse rimasta acqua a sufficienza, sarei scoppiato a piangere. Non mi aveva abbandonato! Non mi aveva lasciato ad affrontare la morte da solo. Anya era lì al mio fianco, nella sua forma umana, ancora con me.

Indossava una veste color sabbia che le arrivava alle cosce ed era assicurata sulle spalle da una sola striscia di tessuto argenteo. I suoi capelli erano perfettamente integri, e sulla sua pelle non era rimasta traccia alcuna del calore ardente e degli artigli che aveva dovuto affrontare.

Cercai di parlare, ma tutto ciò che uscì dalla mia gola riarsa fu un rauco stridio.

Anya si piegò su di me e baciò dolcemente le mie labbra screpolate, quindi mi sollevò il capo e accostò un recipiente colmo d’acqua alla mia bocca. Era verdastra e popolata delle minuscole forme di vita proprie delle paludi, ma in quel momento fu per me dolce e rinfrescante come ambrosia.

— Ho dovuto mutare, amore mio — disse, quasi in tono di scusa. — Era l’unico modo che conoscessi per proteggerci da quel terribile calore.

Ancora non ero in grado di parlare. E forse era meglio così. Non avrei potuto confessarle di aver pensato che mi avesse abbandonato.

— Nella mia vera… — Esitò, quindi riprese da capo. — Nell’altra forma ho assorbito energia dal fondo del pozzo e l’ho usata per proteggerci.

Riuscendo infine a ritrovare la voce risposi, con voce gracchiante: — Allora non sei stata tu a… il salto…

Anya scosse il capo. — Non sono stata io a operare la transizione spaziotemporale, no. Qualsiasi siano il tempo e il luogo in cui ci troviamo adesso, sono quelli sui quali era registrata l’apparecchiatura di Set.

Ancora disteso sulla schiena, la testa poggiata sul grembo di Anya, dissi: — Il Cretaceo…

Anya non rispose, ma i suoi occhi grigi e percettivi sembravano guardare ben oltre quel tempo e luogo.

Presi un altro lungo sorso d’acqua dal recipiente che reggeva fra le mani.

Ancora qualche sorsata e sarei riuscito a parlare normalmente. — Il poco che sono riuscito a scorgere nella mente indagatrice di Set comprendeva la nozione che qualcosa era accaduto, sarebbe accaduto o forse accadrà in quest’epoca… sessanta o settanta milioni prima dell’era neolitica.

— Il tempo della Grande Estinzione — mormorò Anya.

— L’epoca in cui i dinosauri vennero spazzati via dalla faccia della terra.

— Insieme a migliaia di altre specie di piante e di animali. Nel periodo in cui il pianeta venne colpito da un disastro di proporzioni apocalittiche.

— Che genere di disastro?

Anya scrollò le spalle con grazia. — Non lo so. Non ancora.

Appoggiato su un gomito fissai profondamente i suoi meravigliosi occhi grigi. — Vorresti dire che i Creatori… nessuno di voi sa cosa sia accaduto in uno dei momenti più critici di tutta la storia del mondo?

Anya rispose con un sorriso. — Non abbiamo mai dovuto occuparcene, amore mio. Perciò, cancella pure quello sguardo accusatore dal volto. Ci siamo sempre occupati della razza umana; della tua specie, Orion. Quella degli esseri che abbiamo creato…

— Gli esseri che si sono evoluti fino a generare voi — dissi.

Anya piegò la testa in segno di ammissione. — Perciò, finora non abbiamo mai avuto occasione di occuparci di eventi occorsi più di sessantacinque milioni di anni prima della nascita della nostra razza.

Le forze facevano lentamente ritorno nel mio corpo. Le mie carni erano ancora rosse per le bruciature e sfregiate dagli artigli dei rettili. Ma mi sentivo abbastanza forte da potermi mettere in piedi.

— Questo preciso periodo di tempo sembra rivestire un’importanza cruciale per Set — dissi. — Dobbiamo scoprirne il motivo.

Anya annuì. — Sì. Ma non adesso. Resta disteso, vado a cercare qualcosa da mangiare.

Notai che le sue mani erano vuote, prive di armi o strumenti di alcun genere.

Anya colse il mio pensiero. — Non sono stata in grado di far ritorno alla terra dei Creatori. Set continua a bloccare ogni possibilità di contatto con loro. Tutto ciò che ho potuto fare è stato usare l’energia del suo apparecchio distorsore. — Abbassò lo sguardo, quindi aggiunse, con un sorriso permeato di modestia: — Per coprirmi.

— Sempre meglio che arrostire vivi — risposi. — E poi hai un bellissimo vestito.

Con maggiore serietà, Anya disse: — Siamo soli qui, tagliati fuori da qualsiasi possibilità di soccorso da parte di chiunque, e solo Set sa in quale luogo e in quale tempo ci troviamo.

— Verrà a cercarci.

— Forse no — disse Anya. — Forse pensa di essersi sbarazzato di noi.

Stringendo i denti per il dolore, mi sollevai a sedere. — No. Ci darà la caccia finché non saremo morti. Non credo che abbia intenzione di lasciare nulla al caso. E poi, questo è per lui un momento estremamente importante dello spaziotempo. Non ci lascerà liberi di interferire nei suoi piani, quali che siano.

Mettendosi in piedi, Anya disse: — Ogni cosa a suo tempo. Prima di tutto il cibo, poi un riparo. Dopodiché…

Le sue parole vennero interrotte da un rumore di spruzzi, tanto vicino da farci trasalire.

Per la prima volta osservai attentamente il posto in cui eravamo. Sembrava una palude, sovrastata da enormi felci e dai tronchi grossi e contorti di alberi di mangrovia. Tutt’intorno a noi era un folto sottobosco di cespugli spinosi. L’aria stessa era estremamente umida, opprimente, calda e densa di vapore.

A non più di dieci metri dal punto in cui ci trovavamo, il terreno muschioso sul quale eravamo degradava in un acquitrino in cui l’acqua scorreva pigramente attraverso i fusti delle canne e le radici contorte delle mangrovie. Proprio l’habitat caratteristico in cui vivono i coccodrilli. E i serpenti.

Anya era in piedi, e attraverso il fitto fogliame scrutava l’acqua a pochi metri da noi. Mi costrinsi a star su, barcollando, e feci cenno ad Anya di arrampicarsi sull’albero più vicino.

— E tu? — mormorò.

— Proverò anch’io — risposi, con un filo di voce.

Tra le diramazioni dell’albero, diverse erano cresciute quasi parallele al terreno, ed erano coperte di viticci che rendevano piuttosto facile l’arrampicata anche per me. Anya mi aiutò a muovere gli ultimi passi su per il tronco, e infine raggiungemmo un grosso ramo e ci stendemmo sulla sua corteccia calda e ruvida. Sentii alcuni insetti percorrermi la schiena e vidi una mosca, o un’ape, o un qualcosa grande quasi quanto un passero ronzare davanti ai miei occhi con un frenetico sbattere d’ali.

I rumori che avevamo udito si facevano sempre più vicini. Gente di Set alla nostra ricerca? Trattenni il respiro.

Fu come se una collina fosse scaturita dal terreno per muoversi a fatica attraverso la palude. Una massa di carne squamosa alta cinque metri, grigia e inzaccherata di fango, comparve dal sottobosco muovendosi verso la radura presso la quale le acque verdastre e schiumose scorrevano lente.

Allora fui sul punto di mettermi a ridere. Il muso di quella creatura era piatto e largo, simile al becco di un’anatra. La curvatura della bocca si torceva in un sorriso idiota permanentemente dipinto sul suo volto, facendolo sembrare il personaggio di qualche cartone animato.

Nonostante l’espressione del suo muso, comunque, il dinosauro si guardò intorno con molta attenzione prima di uscire allo scoperto. Si sollevò sulle zampe posteriori, superando in altezza l’albero sul quale eravamo nascosti, e girò intorno il capo fiutando l’aria con l’ansimare di una locomotiva a vapore. I suoi piedi erano piuttosto simili a zoccoli. I suoi occhi gialli oltrepassarono il ramo sul quale avevamo trovato riparo, senza scorgerci.

Con un soffio simile al rumore dei freni ad aria di un camion, il becco-d’anatra si lasciò ricadere sulle quattro zampe ed emerse completamente dalla palude. Dal muso alla coda misurava una decina di metri. E non era solo.

Era un’intera processione di dinosauri a becco d’anatra, in un’unica fila di quarantadue esemplari. Con la dignità della loro mole avanzavano lungo il torrente affondando fino al ginocchio nelle acque fangose.

Rimanemmo affascinati a guardarli discendere il ruscello per poi sparire lentamente nell’intricato sottobosco della palude.

— Dinosauri — disse Anya quando gli animali scomparvero del tutto fuori vista e gli insetti della foresta ripresero a ronzare. Nella sua voce lessi un tono di meraviglia, e neanche un minimo di timore.

— Siamo nel Cretaceo — dissi. — I dinosauri sono i padroni del mondo.

— Dove pensi che stiano andando? Sembrerebbe una migrazione preordinata…

Di nuovo non riuscì a finire la frase. I suoni della foresta si erano nuovamente interrotti.

Anya si appiattì nuovamente contro la mia schiena. Non udimmo alcun suono, il che mi preoccupò più del rumore prodotto dalla pesante marcia dei becchi-d’anatra.

D’un tratto, a non più di trenta metri da noi la vegetazione si piegò di lato, e da essa emerse la più terribile creatura che avessi mai visto. Una testa enorme, lunga quasi due metri, occupata per lo più da una bocca munita di denti lunghi come sciabole. I suoi occhietti malvagi in qualche modo denotavano intelligenza, come gli occhi di una tigre intenta alla caccia o quelli di un’orca marina.

Avanzava lentamente lungo il torrente che solo un minuto prima era stato percorso dai becchi-d’anatra.

Un tirannosaurus rex. Senza alcun dubbio. E di taglia enorme; al suo confronto i dinosauri carnivori di Set non erano che semplici cuccioli. Un paio di zampe rattrappite e ormai vestigiali gli pendevano dal petto. Avanzava sulle zampe posteriori, raggiungendo quasi l’altezza delle più alte cime degli alberi, scrutando nella direzione in cui si erano allontanati i becchi-d’anatra. Teneva sollevata la coda come per controbilanciare con essa l’incredibile peso della testa.

Potevo percepire la tensione del corpo di Anya premuto contro il mio. Io stesso ero immobile, come un topo impietrito dal terrore di fronte a un leone. Il tirannosauro torreggiò sopra di noi con le sue scaglie verdi e grigie sotto i raggi del sole che filtravano tra le foglie. Gli artigli sui suoi piedi erano più grandi e affilati delle falci di una mietitrice.

Si allontanò a passi lenti sulle orme dei becchi-d’anatra. Proprio mentre riprendevo a respirare, un secondo tirannosauro emerse dalla giungla silenziosamente com’era comparso l’altro. E un terzo.

Anya mi diede col gomito un colpetto sul fianco, attirando la mia attenzione alle nostre spalle, dove altri due di quegli enormi bruti emergevano dal fitto degli alberi.

Cacciavano in gruppo. Erano sulle tracce dei becchi-d’anatra, e lo facevano con la scrupolosità e la metodicità di un branco di lupi.

Superarono l’albero sul quale eravamo nascosti. Se anche ci avessero scorti o in qualche modo avessero individuato la nostra presenza, non lo dettero a intendere. Mi ero sempre figurato un tirannosauro come una macchina assassina priva di mente, pronta a richiudere le fauci su qualsiasi essere vivente incontrasse sul suo percorso, a prescindere dalle dimensioni di questo o dalla fame che provava.

Ovviamente non era così. Quei bruti possedevano un grado d’intelligenza sufficiente a indurli a cooperare nella caccia ai becchi-d’anatra.

— Seguiamoli — disse Anya quando l’ultimo di essi scomparve tra le canne e le felci che celavano il corso d’acqua alla nostra vista.

Devo averla guardata come se pensassi che fosse impazzita.

— Possiamo rimanere a distanza di sicurezza — aggiunse, incurvando leggermente le labbra alla vista dell’espressione sul mio volto.

— Ho l’impressione — risposi — che siano ben più veloci di noi. E non credo esista un albero tanto alto da poterci tenere al sicuro nel caso volessimo sfuggire a quelle bestie.

— Ma danno la caccia ai becchi-d’anatra, non a noi. Non credo possano nemmeno considerarci prede.

Scossi il capo. Potevo anche essere coraggioso, ma certo non ero uno sciocco. Anya era impaziente come una cacciatrice sulle orme della sua preda, ansiosa di osservare i tirannosauri da vicino. Io li temevo; temevo che potessimo trasformarci da cacciatori in prede.

— Non abbiamo armi, non abbiamo nulla con cui difenderci — dissi. — E poi, sono ancora troppo stanco per…

Il volto di Anya mutò da un’espressione di superiorità a un’aria di sincero rincrescimento nel lampo di un istante. — Avevo dimenticato! Oh, Orion, sono così stupida… perdonami… Avrei dovuto ricordare…

Interruppi il suo farfugliare con un bacio. Anya sorrise e, col volto ancora arrossato per l’imbarazzo, mi disse di attenderla mentre andava in cerca di qualcosa da mangiare. Quindi si calò giù per il tronco e si diresse verso la palude coperta di fango.

Rimasi supino sotto la luce del sole che filtrava tra le foglie. Un piccolo animaletto peloso attraversò di corsa un ramo più in alto verso la cima dell’albero, scese verso il ramo sul quale mi trovavo e rimase a fissarmi per un istante coi suoi occhi rotondi, neri e scintillanti, contorcendo nervosamente la coda priva di pelo, senza emettere un singolo suono.

— Salute, piccolo mammifero — dissi. — Per quel che ne so, potresti essere l’antenato di tutta la razza umana.

L’animaletto saettò su per il tronco e scomparve nella chioma dell’albero.

Incrociate le mani dietro la testa, rimasi ad aspettare il ritorno di Anya. Era fuggita al calore del pozzo nucleare riassumendo la propria vera forma, in modo da poter assorbire il calore che ustionava le nostre carni. Quindi aveva usato lo stesso apparato di Set per trasportarci in questo punto del continuum. Allora aveva riassunto la propria forma umana, senza un graffio, addirittura con un abito nuovo.

Un antico aforisma si formò spontaneo nella mia mente: il rango ha i suoi privilegi. Una dea, una creatura altamente evoluta, discendente dal ceppo umano ma così avanzata rispetto all’umanità da non aver bisogno di un corpo fisico… una creatura simile sarebbe stata certamente in grado di passeggiare con tutta tranquillità in un paesaggio del Cretaceo, al seguito di un branco di tirannosauri. La morte per lei non aveva alcun significato.

Per me era un’altra cosa. Ero morto e tornato in vita molte volte, ma sempre per volere dei Creatori. Ero una loro creatura; un essere umano, decisamente mortale. Non potevo sapere se la mia morte sarebbe stata definitiva, non avevo alcuna garanzia di essere salvato dall’oblio eterno e di tornare nuovamente in vita.

Milioni di anni dopo il buddismo avrebbe insegnato che tutti gli esseri viventi sono legati alla grande ruota della vita, destinati a morire e reincarnarsi all’infinito. L’unica via d’uscita da questo circolo vizioso sarebbe il raggiungimento del nirvana, l’oblio totale, una definitiva fuga dal mondo, come essere risucchiati da un buco nero e scomparire per sempre dall’universo.

Non volevo raggiungere il nirvana. Non avevo ancora soddisfatto tutti i miei desideri. Amavo una dea, e desideravo con tutto il cuore che lei amasse me. Lei diceva di amarmi, ma nei tremendi momenti in cui ero solo nella discesa di quel pozzo senza fondo, avevo compreso pienamente quanto non fosse umana, non nel modo in cui lo sono io, nonostante il suo aspetto esteriore.

Temevo che l’avrei perduta. O peggio ancora, che si sarebbe stancata dei miei ristretti limiti di essere umano, abbandonandomi per sempre.

15

Per tre giorni rimanemmo in quella palude colma di vapori, perché potessi riprendere le forze. Ero certo che Anya e io fossimo gli unici esseri umani sull’intero pianeta… anche se in effetti lei era qualcosa di più.

La palude era calda e umida. Il terreno era scivoloso sotto i nostri piedi, e ogni passo era una vera e propria lotta contro le fitte felci e le foglie, più grosse dell’orecchio di un elefante che si appiccicavano alla nostra pelle ogni volta che venivano a contatto con esse. I rampicanti imperavano ovunque soffocando gli alberi, scaturendo dal terreno muschioso col risultato di rendere più difficoltosa la nostra marcia.

Il fetore della decomposizione era tutt’intorno a noi, un odore di morte. Il calore era opprimente, l’umidità risucchiava tutte le forze dal mio corpo.

Mi sentivo in trappola, imprigionato in un mondo scintillante di vegetazione coperta d’acqua. La giungla ci opprimeva come un’entità viva, premendo tutta l’aria fuori dai nostri polmoni, nascondendoci il mondo alla vista. Non riuscivamo a scorgere a più di qualche metro davanti a noi in tutte le direzioni, a meno di avanzare nel corso del fiumiciattolo fangoso, e anche allora la vegetazione della giungla ostacolava la nostra vista a tal punto che un branco di brontosauri avrebbe potuto benissimo trovarsi a breve distanza da noi senza che riuscissimo a scorgerli.

Non c’era granché da mangiare. Le piante erano tutte strane ai nostri occhi, e ben poche di esse producevano frutti o bacche dall’aspetto commestibile. Gli unici pesci che fossimo in grado di scorgere in quelle acque scure erano minuscoli guizzi d’argento, troppo piccoli e veloci perché potessimo catturarli. Ci nutrivamo di rane e piccole larve d’insetti, nauseanti ma abbastanza nutrienti.

Ogni sera la pioggia scendeva a dirotto dalle grosse nuvole grigie che si formavano durante il caldo estenuante del pomeriggio. La mia pelle era sempre bagnata. Dopo tre giorni e tre notti di vapore e umidità, anche Anya cominciò a palesare un certo disagio.

Il cielo era quasi sempre grigio. L’unica notte in cui riuscii a vedere le stelle, finii col rimpiangere di averlo fatto. Mentre Anya era immersa nel sonno, cercai di scorgere il disegno di qualche costellazione a me familiare. Tutto ciò che riuscii a scorgere fu la lugubre stella rossa, alta nel cielo scuro che continuava a spiarci.

Cercai Orione, la costellazione di cui porto il nome, ma non riuscii a trovarla. Infine individuai l’Orsa Maggiore, e il cuore sembrò sprofondarmi in petto. Era radicalmente diversa dal Carro che avevo conosciuto in altre epoche. La sua sagoma squadrata era snella e appiattita, più simile a quella di una brocca che non a quella di un carro. La sua estremità era più ricurva che mai.

Eravamo lontani così tanti milioni di anni da qualsiasi epoca avessi mai conosciuto, che persino le stelle erano mutate. Rimasi a guardare quel Carro così irriconoscibile e mi sentii scoraggiato, distrutto, roso da una malinconia quale non avevo mai provato.

A parte qualche elusiva creatura pelosa che viveva sui rami più alti degli alberi, non scorgemmo mai altri mammiferi. I rettili, al contrario, erano ovunque.

Un mattino Anya stava riempiendo una zucca presso l’orlo del ruscello quando improvvisamente un gigantesco coccodrillo balzò fuori dall’acqua; era rimasto in agguato col massiccio corpo squamato nascosto tra le canne e le foglie galleggianti, lasciando fuori dall’acqua soltanto gli occhi e le narici. Anya dovette correre a perdifiato e arrampicarsi sull’albero più vicino per sfuggire all’attacco del coccodrillo il quale, nonostante le ridotte dimensioni delle proprie zampe, per poco non riuscì a catturarla.

Nella palude vivevano tartarughe e lucertole dalla lunga coda e grandi come maiali, nonché un’infinità di serpenti che strisciavano sinuosi nell’acqua e sugli alberi.

Ma i veri dominatori di quel mondo erano i dinosauri. Non tutti erano di dimensioni gigantesche. Usando un grosso ramo a mo’ di mazza, Anya aveva cercato di ucciderne uno poco più grande di una gallina. Abituato a scappare dai suoi più mastodontici cugini, l’animale era riuscito a fuggire, sibilando come una teiera.

Un pomeriggio vidi un rettile simile a un armadillo avanzare verso di noi. Dietro di sé trascinava una coda corta e munita di spuntoni dall’aspetto letale.

Gli insetti ronzavano e sciamavano intorno a noi, ma mai nessuno di loro c’infastidì. Dapprima trovai quel fatto piuttosto singolare, ma poi compresi che i mammiferi erano così pochi che gli insetti non avevano ancora sviluppato la tendenza di succhiarne il sangue.

La terza notte dissi ad Anya che mi sentivo sufficientemente forte per mettermi in cammino.

— Sei sicuro?

— Sì. È ora che lasciamo questo buco d’inferno.

— Per andare dove? — domandò lei.

Scrollai le spalle. L’acquazzone serale era appena terminato. Sedevamo rannicchiati su un ramo, coperti da un rifugio improvvisato costruito alla bell’e meglio con alcune grosse foglie. Non si era rivelato molto utile; i rigagnoli di pioggia si erano incanalati tra le venature, col risultato che ci eravamo bagnati lo stesso. Gli ultimi brandelli di pioggia cadevano a gocce da migliaia di foglie, trasformando il nostro mondo verde in una scintillante sinfonia di gocce cristalline. Le vesti di Anya erano sporche e logore. I miei abiti pendevano stracciati e maleodoranti dal mio corpo.

— In qualsiasi altro posto. Sempre meglio che qui — risposi.

Anya fece un cenno d’approvazione col capo.

— Più lontano possibile da questo luogo — aggiunsi.

— Hai sempre paura che Set possa venire alla nostra ricerca?

— E tu no?

— Suppongo che dovrei. Ma continuo a pensare che non sia più costretto a occuparsi di noi. Siamo in trappola, qui: perché mai dovrebbe spendere tempo prezioso alla nostra ricerca? Moriremo qui, amore mio, in quest’epoca dimenticata da tutti, dove nessuno potrà mai aiutarci.

Fra le ombre della sera il suo bel volto era triste, la sua voce mesta e demoralizzata. Nel Neolitico avevo desiderato di poter trascorrere una vita normale insieme ad Anya, ma la fresca foresta di Paradiso era del tutto diversa da quella fetida giungla in decomposizione. Anche se ci avevano traditi, a Paradiso almeno esistevano altri esseri umani. In quella palude, invece, eravamo completamente soli.

— Non siamo ancora finiti — dissi. — E non intendo aiutare Set a sopprimerci.

— Perché mai dovrebbe farlo?

— Perché questo è un periodo della massima importanza per lui — risposi. — Sa bene in che epoca aveva focalizzato il suo distorsore spaziotemporale; sa bene che siamo qui. Quando potrà far funzionare nuovamente l’apparecchio verrà a cercarci, per assicurarsi che non interferiamo in ciò che ha in serbo per questo momento del continuum.

Anya comprese la logica del mio ragionamento, ma rimase ugualmente indecisa sul da farsi.

— Faremo meglio ad allontanarci da questa dannata palude — aggiunsi. — Non è un posto in cui ci sia possibile rimanere. Partiremo domani, alle prime luci del mattino. Dirigeremo verso i monti, dove il clima è più fresco e asciutto.

Nelle ombre sempre più fitte vidi i suoi occhi scintillare d’improvviso interesse. — Potremmo seguire la via percorsa dai becchi-d’anatra. Si muovevano verso un territorio più elevato, ne sono sicura.

— Coi dinosauri dietro di loro — brontolai.

— Già — disse lei, ritrovando parte dell’entusiasmo che avevo udito nella sua voce tre giorni prima. — Sono curiosa di vedere se li hanno attaccati.

— Ci sono momenti — dissi — in cui si direbbe che tu sia assetata di sangue.

— La violenza è parte integrante del retaggio umano, Orion. E sono ancora sufficientemente umana da provare l’eccitazione della caccia. Tu no, forse?

— Soltanto quando il cacciatore sono io.

— Tu sei il mio cacciatore — disse lei.

— E ho già trovato ciò che cercavo. — La tirai verso di me.

— Essere una preda non è poi tanto male — Anya mi sussurrò in un orecchio. — In certi casi.

16

La mattina seguente c’incamminammo verso le colline. Mi ero aspettato di trovare un mondo più familiare, un paesaggio fitto d’erba e fiori con cani, conigli e cinghiali selvatici. Sapevo che non avrei potuto incontrare altri esseri umani, ma ugualmente il mio subconscio andava alla ricerca di forme di vita a me familiari.

Ciò che incontrammo invece fu un mondo di dinosauri e pochi altri esseri viventi. Enormi pterosauri alati scivolavano senza sforzo nel vento fra cieli picchiettati di nuvole. Minuscoli dinosauri quadrupedi gironzolavano fra macchie di vegetazione. I loro cugini maggiori si profilavano come montagne, brucando miti le felci e i cespugli più teneri che crescevano su quella terra.

Non c’erano fiori in quel paesaggio così remoto, o almeno nessuno che fossi in grado di riconoscere come tale. Sulla cima di alcuni cespugli di forma vagamente cilindrica crescevano gruppetti di foglie colorate. Per il resto, tutte le piante che incontravamo avevano un aspetto sgradevole, repellente; erano armate di spine e di polloni, soffici, carnose e del tutto aliene.

Neanche gli alberi mi apparvero familiari, a eccezione di qualche occasionale gruppetto di cipressi e delle mangrovie che crescevano fitte presso qualsiasi corso d’acqua, con le radici contorte e nodose saldamente aggrappate al terreno zuppo, come centinaia di dita robuste. E palme, alcune delle quali estremamente grandi, dal tronco nudo e squamato, le foglie ondeggianti nel vento umido sopra di noi. Non esistevano erbe o cereali; soltanto distese ondeggianti di canne.

Di notte ci arrampicavamo su un albero, sebbene sapessi che i dinosauri dormivano di notte come noi. Eppure, disarmati com’eravamo contro i tirannosauri e i loro cugini carnivori, non avevamo alcuna alternativa se non quella di nasconderci o fuggire.

Durante i primi giorni di marcia non scorgemmo altri tirannosauri, anche se il terreno era disseminato delle loro impronte a tre dita. Anya insistette affinché seguissimo le loro orme, che avanzavano insieme a quelle ancora più profonde dei becchi-d’anatra. In alcuni punti, anzi, le impronte dei predatori coincidevano nel terreno esattamente con quelle delle loro prede.

C’erano anche altri carnivori. Predatori che avanzavano veloci su due zampe, alti poco più di un uomo. Correvano a coda distesa afferrando le loro prede con le zampe anteriori. E dinosauri più piccoli che sbuffavano e sibilavano come vaporiere mentre le zanne e gli artigli dei grossi carnosauri ne straziavano le carni.

Anya e io ci gettavamo a terra ogni volta che ne scorgevamo uno. Armati soltanto dei nostri sensi, ci appiattivamo sul terreno umido rimanendo immobili. Non venimmo mai attaccati. Non potrei dire se fu perché non ci avessero mai scorti o perché non ci consideravano carne per i loro denti. Né avevo particolare desiderio di scoprirlo.

Una volta incontrammo una mezza dozzina di triceratopi che si abbeveravano sulla riva di un torrente, ognuno più grande di quattro rinoceronti, con tre lunghe corna che sporgevano dal capo e un massiccio scudo osseo sulla base del cranio. I loro fianchi grigi erano pezzati di rosso, giallo e marrone. Erano piuttosto goffi ed estremamente nervosi. Un paio di carnosauri bipedi e carnivori si fecero avanti nel torrente; non tirannosauri, ma animali comunque piuttosto grossi, coi denti lunghi e dall’aspetto minaccioso.

I triceratopi si guardarono intorno e si disposero in formazione uno di fianco all’altro, a testa bassa, le lunghe corna puntate contro i dinosauri carnivori come una fila di lance. I carnosauri sbuffarono e soffiarono, zigzagando nervosamente sulle lunghe zampe posteriori per valutare la situazione. Quindi si voltarono e si allontanarono veloci.

Mi sentii quasi dispiaciuto. Non che agognassi particolarmente di esser testimone della violenza e dello spargimento di sangue di una battaglia di dinosauri. Pensavo semplicemente che, a prescindere da chi sarebbe stato il vincitore, avremmo potuto contare su un bel po’ di carne. Non avevamo potuto mangiare altro se non qualche piccolo dinosauro e alcuni mammiferi pelosi che avevamo ucciso con le nostre clave. Un bel pezzo di carne l’avrei senz’altro gradito.

Durante la seconda notte di viaggio mi svegliai nell’oscurità più totale con un’acuta sensazione di pericolo. Anya e io eravamo rannicchiati sul ramo di un albero.

Non eravamo soli. Percepivo la minacciosa presenza di qualcuno… o qualcosa. Ma in quelle tenebre non mi era possibile scorgere quasi nulla. La notte era immersa nel silenzio, se si vuole eccettuare il brusio degli insetti in sottofondo. In quell’epoca l’ululato dei lupi non risuonava ancora nella notte, né il ruggito dei leoni. Soltanto i progenitori dei topi di campo e degli scoiattoli erano svegli e attivi nell’oscurità, e cercavano di produrre quanto meno rumore possibile.

Le nuvole si divisero. La luna era ancora bassa, ma la stella rossa che avevo già veduto nel Neolitico brillava alta sopra la mia testa. Nella sua luce mi sembrò di ravvisare il luccichio di un paio di occhi malvagi che mi fissavano.

Senza attendere un comando cosciente, il mio corpo entrò in ipervelocità. Appena in tempo, proprio mentre un grosso serpente si avventava contro di me, le mascelle spalancate, le zanne già traboccanti veleno. Vidi il suo capo indietreggiare e poi scattare verso di me, il tutto al rallentatore.

La mia mano destra si strinse intorno al collo del serpente, così grosso che le mie dita riuscivano a coprire soltanto metà della sua circonferenza. Il contraccolpo di quel lungo corpo muscoloso per poco mi scaraventò oltre il ramo. Ma riuscii a serrare le gambe e la mano ancora libera intorno a esso, mentre con la schiena colpivo il tronco dell’albero con tale violenza da farmi uscire tutto il fiato dai polmoni.

Premendo il pollice contro la mascella del rettile, riuscii a tenerne la testa sempre a un braccio di distanza. Il serpente si contorse cercando di liberarsi dalla mia stretta. Anya si svegliò, intuì immediatamente la situazione e afferrò la mazza.

Riuscii a mettermi in ginocchio, cercando di non cadere dal ramo sotto gli spasimi violenti del serpente.

— Resta giù! — ordinai ad Anya.

Dopodiché, con la velocità del fulmine feci scivolare la mano lungo il corpo del rettile, afferrandolo per la coda per poi scaraventarlo con tutte le forze contro il tronco dell’albero. La sua testa colpì il legno con un tonfo sonoro e soddisfacente. Ripetei l’operazione più volte, finché il rettile smise di dimenarsi o di muoversi del tutto. La sua testa pendeva senza vita dalla mia mano. Lo gettai da parte e lo sentii cozzare contro i rami più bassi per schiantarsi infine sul terreno.

Anya sollevò il capo. — Un regalo di Set? — domandò in un sussurro.

Scrollai le spalle nell’oscurità. — Chi può dirlo? È pieno di serpenti, qui. Probabilmente cacciano i mammiferi notturni che vivono su questi alberi. Potremmo semplicemente aver scelto l’albero sbagliato.

Anya mi si fece più vicina. La sentii tremare. Da quella notte in poi dormimmo sempre a turno. E allora compresi perché tutti gli esseri umani, nel corso dei secoli, condividono tre paure istintive: quella del buio, quella dell’altezza e quella dei serpenti.

17

A poco a poco, mentre avanzavamo in quella terra sempre più ripida, Anya e io ci costruimmo alcuni utensili rudimentali. Non mi riuscì di trovare nessuna selce, ma avevo raccolto una pietra che si adattava perfettamente al palmo della mia mano e cominciai a sfregarla ogni notte contro altre pietre, per renderne l’orlo sufficientemente affilato. Anya raccolse alcuni rami piuttosto lunghi tra gli alberi fatti cadere dal vento sulla nostra strada, quindi ne indurì un’estremità nel fuoco che ormai accendevamo tutte le notti fino a farne delle vere punte di lancia.

Ero preoccupato per questa faccenda del fuoco. Naturalmente, era indispensabile per cuocere il poco cibo che riuscivamo a procacciare. In un’altra epoca il suo scopo sarebbe stato anche quello di tenere lontani i predatori durante il sonno. Ma in quel mondo di serpenti e dinosauri, dominato dai rettili invece che dai mammiferi, mi chiedevo se il calore del fuoco non avrebbe attratto i predatori piuttosto che tenerli lontani.

E poi, c’era sempre Set. Certo nessun altro all’infuori di me e Anya avrebbe potuto accendere un fuoco in quel luogo. Per chiunque disponesse di una tecnologia tale da poter esaminare grandi aree del globo, il chiarore sarebbe stato evidente come un faro nell’oscurità.

E tuttavia un fuoco notturno era indispensabile, non solo per cucinare o per la nostra sicurezza, ma anche per il conforto psicologico che forniva. Una notte dopo l’altra ci rannicchiavamo l’uno contro l’altra a guardare le fiamme guizzare nel buio, consci del fatto che sarebbero passati oltre sessanta milioni di anni prima che qualcuno potesse accendere un altro fuoco.

In quelle regioni collinose il sole era più luminoso. Ma le stelle continuavano a essere poco familiari ai miei occhi. Notte dopo notte cercavo d’individuare la costellazione di Orione, ma sempre senza risultato.

Cominciai a mettere alla prova le mia capacità di cacciatore. Con la lancia costruita da Anya catturai dinosauri della grandezza di uccelli e, di tanto in tanto, anche prede più grandi.

Una notte posi ad Anya una domanda che mi frullava in testa fin da quando eravamo giunti in quell’epoca. — Quando hai cambiato forma… per trasformarti in una sfera d’energia — l’idea che quella fosse la sua forma reale ancora mi disturbava — dove sei stata? Cos’hai fatto?

La luce del fuoco proiettava ombre fugaci sul suo viso, più o meno nello stesso modo in cui ella aveva preso a scintillare durante la nostra discesa nel pozzo di Set.

— Ho cercato di tornare presso gli altri Creatori — rispose con voce bassa, quasi mesta. — Ma la strada era bloccata. Ho cercato di trasportarci in un tempo e uno spazio differenti nel continuum. Ma l’apparecchio di Set era predisposto per questo punto, e avrei dovuto impiegare una dose d’energia per me fatale per cercare di vincere quell’impulso e spostarci verso un’altra direzione.

— Sei cosciente di quel che ti accade quando… cambi forma?

— Sì.

— Saresti in grado di farlo adesso?

— No — ammise lei, con aria cupa. Indicando con un gesto il fuoco del nostro accampamento e i frammenti d’osso di dinosauro sul terreno, disse: — Non c’è energia sufficiente per farlo. Disponiamo appena della poca energia necessaria a mantenere in vita la nostra forma umana.

La sua voce sorrise mentre diceva quelle parole, ma in fondo a essa colsi una punta di amarezza. E forse anche di paura.

— Allora sei intrappolata in questa forma umana — dissi.

— Io ho scelto questa forma, Orion. Per stare con te.

Aveva pronunciato quelle parole in segno d’amore. Ma mi fece star male pensare che, per colpa mia, era più indifesa e vulnerabile che mai.

Nel giro di una settimana raggiungemmo le colline dove l’aria, se non più fresca, era almeno più secca di quanto non fosse nelle paludi.

Ogni notte scrutavo le stelle in cerca della costellazione mia omonima, cercando di non pensare che quella stella rossa alta nel cielo mi stesse sorvegliando come l’occhio di qualche dio… o di qualche demone.

Intorno a mezzanotte Anya si destava per intraprendere il suo turno di veglia. Una notte domandò: — Cosa stai cercando fra le stelle?

Mi sentii quasi imbarazzato. — Cercavo me stesso.

Anya puntò il dito verso una porzione di cielo. — Lassù.

Non era Orione. Non la buona, vecchia costellazione del Cacciatore che conoscevo. Rigel non esisteva ancora. La rossa, lucente Betelgeuse era invisibile ai miei occhi. Al posto delle tre stelle che formavano la cintura e la spada, si scorgeva un semplice, tenue chiarore nebuloso.

Il sangue mi si raggelò nelle vene. Nemmeno Orione esisteva ancora in quel punto desolato dello spaziotempo. Non c’era nulla che ci legasse a quel luogo, così lontani com’eravamo da tutto ciò che avevamo conosciuto. Eravamo stranieri in quella terra, esiliati, abbandonati dagli dèi, braccati da forze che non avevamo nemmeno cominciato a contrastare, destinati alla morte eterna.

Un’intensa sensazione d’infelicità pervase il mio animo. Mi sentivo del tutto impotente, incapace di qualsiasi azione. Sapevo che era soltanto questione di tempo prima che Set ci scovasse e decidesse di farla finita.

Per quanto mi sforzassi, non riuscivo a scrollarmi di dosso quella tristezza. Non avevo mai provato tanta pena prima d’allora, tanta disperazione. Cercavo di nasconderla ad Anya, ma dagli sguardi preoccupati che mi lanciava di tanto in tanto compresi che doveva aver intuito quanto mi sentissi vuoto e privo di vitalità.

Giungemmo infine al territorio dei becchi-d’anatra.

Era la cima piatta di una collina non troppo scoscesa. C’erano così tante impronte che gli zoccoli degli animali avevano scavato un vero e proprio sentiero nel terreno polveroso.

— Devono tornare qui ogni anno — disse Anya nel seguire quel sentiero verso la cima del rilievo.

Non risposi nulla. Non mi riusciva di condividere quell’entusiastica curiosità che sembrava pervadere Anya. Ero ancora immerso nell’oscurità dei miei pensieri.

Avremmo dovuto intuire che qualcosa non andava dai sibili e dagli sbuffi degli pterosauri che sbattevano le ali di pelle nell’aria, scendendo in picchiata di tanto in tanto. Mentre ascendevamo il dolce pendio della collina li udimmo battere i lunghi becchi d’osso, come se stessero combattendo fra loro.

Un ricordo si affacciò indistinto alla mia mente. Il modo in cui gli pterosauri si comportavano mi suggeriva qualcosa, ma non riuscivo a capire di cosa si trattasse. Nell’istante in cui raggiungemmo la cima del colle, il ricordo si fece distinto.

Era un’immensa distesa di ossa.

Sul fondo concavo dell’altopiano c’erano centinaia di nidi in cui i becchi-d’anatra avevano deposto le uova per innumerevoli generazioni.

Ma i tirannosauri erano passati di lì.

Un alito di vento portò alle nostre narici un fetore di carne putrescente. Gli pterosauri battevano le ali sibilando contro di noi, mettendo in buona evidenza i piccoli artigli posti sul bordo anteriore. Si comportavano come avvoltoi: beccavano le ossa in cerca della poca carne ancora intorno a esse. Caricai con la lancia il più vicino dei rettili alati, e l’intero gruppo di volatili si alzò in volo sibilando di rabbia, librandosi alto sopra le nostre teste, aspettando che ci allontanassimo per riprendere il festino che avevamo interrotto.

Pensai che Anya scoppiasse in lacrime. Nient’altro che ossa e brandelli di carne putrefatta, le gabbie toraciche dei sauri simili a relitti di navi in secca e più alte di me.

— Guarda! — gridò Anya. — Delle uova!

I nidi erano piccole incavature scavate nel terreno nelle quali giacevano alcune uova delle dimensioni del mio braccio, disposte in disegni circolari. Molte di esse erano rotte.

— Bene — dissi, indicando un paio di uova ancora intere sul terreno. — Ecco il nostro pranzo.

— Non oserai… — Anya sembrava indignata.

Lanciai uno sguardo verso gli pterosauri ancora intenti a battere le ali o a planare sulle nostre teste.

— O il nostro pranzo o il loro.

Anya era ugualmente risentita.

— Queste uova ormai non si schiuderanno più — le dissi. — E anche se lo facessero, i piccoli becchi-d’anatra sarebbero facile preda di qualsiasi predatore, adesso che non hanno più una madre a proteggerli.

Seppure con riluttanza, alla fine Anya riconobbe la situazione. Discesi la collina per raccogliere un po’ di legna secca, e lei rimase a proteggere il nostro pranzo dagli pterosauri.

Mentre raccoglievo ramoscelli e arbusti secchi pensai a quanto i tirannosauri fossero stati metodici nel loro assalto contro i becchi-d’anatra. Per quanto ne sapevo, li avevano uccisi tutti. Il che non mi sembrava naturale. Di solito i predatori uccidono tanti animali quanti ne possono mangiare, permettendo alle altre potenziali prede di allontanarsi indisturbate. I tirannosauri erano vere e proprie macchine assassine? O forse erano stati diretti dalla volontà di qualcun altro… come Set?

Avevano seguito il gruppo migrante di becchi-d’anatra per arrivare al loro territorio di riproduzione e uccidere tutti i dinosauri che vi si trovavano. Com’era evidente, la collina era stata abitata da ben più di quella quarantina di becchi-d’anatra che avevamo visto passare nella palude. C’erano più di cento nidi, lassù. E tutti erano stati distrutti dai tirannosauri.

Quando tornai alla cima del colle con una discreta fascina di legna secca, Anya mi mostrò la risposta alle mie domande.

— Guarda qui — disse, indicando l’orlo di uno dei nidi.

Lasciai cadere la legna presso il nido in cui giaceva il nostro futuro pranzo e mi portai presso di lei.

Impronte. Zampe con tre dita, ma molto più piccole di quelle di un tirannosauro. Erano grandi come quelle di un uomo. O meglio, un umanoide.

— Uno degli scagnozzi di Set?

— Ce ne sono altre — disse Anya, facendo un gesto in direzione degli altri nidi. — Credo siano stati loro a rompere le uova durante l’attacco dei tirannosauri.

— Ciò significa che Set o qualcuno della sua razza si trova qui, in questo luogo e in questo tempo.

— Perché mai avranno intenzione di sterminare i becchi-d’anatra?

— E quel che è peggio — continuai — di chiunque si tratti, deve essere alla nostra ricerca.

Anya sollevò lo sguardo e scrutò l’orizzonte, come se così facendo fosse in grado di scorgere Set o qualcuno della sua gente.

La terra era pianeggiante e coperta di verde, sempre lo stesso tono di verde a perdita d’occhio. Non un fiore. Persino i ruscelli che scorrevano in quella zona avevano un colore verde spento. Le mangrovie fiancheggiavano i corsi d’acqua, e gigantesche felci crescevano a macchie nel vento caldo. Eserciti interi avrebbero potuto nascondersi in quella regione senza che potessimo scorgerli.

Di nuovo pensai a quanto eravamo vulnerabili, quanto poco efficienti nella lotta dei Creatori contro Set e la sua specie. Due esseri umani soli in un mondo di dinosauri. Scrollai il capo come per liberarlo dalle ragnatele che lo affollavano, ma non riuscii a scuotermi di dosso quella sensazione d’impotenza.

Anya, invece, non mostrava alcun segno di sconforto. — Dobbiamo trovare il loro quartier generale — disse. — Dobbiamo capire cos’abbiano intenzione di fare in quest’epoca, quali siano i loro obiettivi.

Emisi un profondo sospiro. — Prima, però — ribattei — pensiamo al pranzo.

Tornando a rivolgere la mia attenzione alle uova che avevamo trovato, accesi un piccolo fuoco, sicuro che da qualche parte molte paia di occhi ci stessero osservando. Ma dovevamo ben mangiare, e nessuno di noi se la sentiva di consumare uova o carne crude. Usando un osso di scapola appuntito scavai una buca nel terreno di modo che dal basso le fiamme non fossero visibili. Ero comunque ben conscio che persino i più rudimentali rilevatori di calore potevano individuare con facilità estrema il nostro fuoco nell’aria frizzante della serata.

— Orion! Vieni, presto!

Mi voltai, afferrando l’osso più vicino da usare come arma, e vidi Anya fissare sgomenta le nostre uova. Una di esse era incrinata. Anzi, si stava ancora incrinando. Si schiuse sotto i nostri occhi, e un becco-d’anatra in miniatura non più lungo di mezzo metro scivolò fuori dal guscio su quattro zampe piccole e tozze.

Anya gli s’inginocchiò di fronte.

Il piccolo dinosauro emise un debole fischio stridulo, simile al suono che un bambino potrebbe produrre con un flauto di latta.

— Guarda, ha anche un dentino da latte — disse Anya.

— Dev’essere affamato — pensai a voce alta.

Anya si diresse verso il fuoco che avevo acceso e ne estrasse un paio di ramoscelli sui quali erano ancora un paio di foglie non del tutto secche. Le staccò dai rami e le porse al piccolo dinosauro, il quale cominciò a masticarle senza alcun indugio.

— Mangia! — Anya sembrava pazza di gioia.

Io ero meno eccitato. Mangiare l’altro uovo era ormai fuori questione, anche se non si fosse schiuso quella sera o il mattino seguente. La nostra cena fu composta di un misero rettile grande come un topo che riuscii a catturare prima del calare della sera e di qualche melone che colsi da un cespuglio: il primo frutto dall’aspetto familiare nel quale m’imbattei dal giorno del nostro arrivo in quel luogo.

Il mattino seguente, Anya mise in chiaro che non aveva nessuna intenzione di abbandonare il nostro piccolo dinosauro.

— Dovremo nutrirlo — obiettai.

— È un erbivoro — ribatté lei. — Non è un mammifero, non ha bisogno di latte materno.

Avevo fretta di allontanarmi dal luogo di quel massacro. La nostra migliore difesa nei confronti di chiunque avesse diretto l’attacco contro di loro era il movimento. Anya si disse d’accordo, ma il nostro cammino quel mattino fu estremamente lento, perché il piccolo becco-d’anatra non era in grado di procedere molto velocemente. Non mostrava alcuna curiosità nei confronti del mondo intorno a sé. Si limitava a seguire Anya, proprio come fanno gli anatroccoli appena usciti dall’uovo con qualsiasi oggetto in movimento cada entro il loro campo visuale, convinti che si tratti della loro madre.

Anya sembrava piuttosto compiaciuta di quella sua maternità. Raccoglieva le foglie più tenere e carnose per il suo piccolo, e talvolta ne masticava persino qualcuna prima di porgerla alla bestiola.

Dal cimitero dei becchi-d’anatra io avevo portato con me qualcosa di completamente diverso: un lungo osso puntuto che si adattava perfettamente al palmo della mano, di forma e dimensioni ideali per diventare un’ottima mazza. Se volevamo sopravvivere era necessario che ci procurassimo armi e utensili.

Per quale motivo dovessimo sopravvivere, quale fosse il nostro fine al di là della mera sopravvivenza fisica, quella era una domanda ancora priva di risposta. Oh, certo sapevo che dovevamo combattere Set e quelli che erano i suoi obiettivi in quell’epoca. Ma come potessimo, da soli e praticamente inoffensivi, sopraffare Set e la sua gente, quello era per me un vero e proprio enigma.

A dispetto del mio pessimismo, Anya riuscì a ritrovare le orme dei tirannosauri.

— Gli umanoidi sono andati con loro — disse, indicando le impronte più piccole disseminate insieme a quelle dei dinosauri.

— Subito dietro di loro — congetturai.

— Penso di sì. Dobbiamo trovarli, Orion, e cercare di apprendere da loro quali siano le intenzioni di Set.

— Non sarà facile.

Anya mi lanciò un sorriso. — Se fosse stato facile non saremmo qui. Tu e io non veniamo mai impiegati in compiti facili, Orion.

Non potei fare a meno di ricambiarle il sorriso. — Se sono veramente in grado di controllare i tirannosauri non abbiamo una sola possibilità di riuscita.

Il sorriso svanì sul volto di Anya.

Notammo che le impronte dei tirannosauri dirigevano nuovamente verso la palude che avevamo lasciato appena qualche giorno prima. Mi sentivo miserabilmente scoraggiato all’idea di dover fare ritorno a quella fetida, umida oscurità. Avrei voluto tenermi lontano da essa il più possibile. Per la prima volta nelle mie molte vite conobbi la paura, un terrore pericolosamente vicino al panico.

Anya non notò il mio stato d’animo. — A rigor di logica, il quartier generale di Set in quest’epoca dovrebbe trovarsi nei pressi del luogo in cui siamo entrati in questo punto del continuum. Forse potremo usare il suo dispositivo per fare ritorno al Neolitico, quando avremo finito qui.

— Vorresti tornare nella sua fortezza?

Anya ignorò la mia domanda. — Orion, hai notato che i tirannosauri hanno abbandonato il loro habitat usuale giù nelle paludi per seguire e sterminare i becchi-d’anatra? E che subito dopo sono tornati indietro? Dovevano necessariamente essere sotto il controllo di Set.

Mi dissi d’accordo: non sembrava probabile che quei giganteschi carnivori intraprendessero un tale viaggio verso la terra dei becchi-d’anatra senza qualche forma di stimolo esterno.

Quella sera ci accampammo presso le rive di un lago, su una lunga spiaggia di sabbia bianca e pulita così fine da sembrare quasi polvere sotto i nostri piedi. La spiaggia era lunga circa venti o trenta metri, e ai suoi margini crescevano file di cipressi nodosi e contorti, col muschio che pendeva dai rami. Oltre a essi si stagliavano alte palme da cocco e felci dalle foglie seghettate simili a enormi ventagli ondeggianti.

La sabbia era tutt’altro che immacolata, però. Era disseminata delle impronte di un gran numero di dinosauri: le orme profonde degli enormi sauropodi, quelle di rettili più piccoli e quelle dei temibili carnosauri. Tutti scendevano ad abbeverarsi presso quel lago, e alcuni di loro anche per cacciare.

Quando il sole scese dietro l’orizzonte, colorando il cielo e l’acqua di rosa e verde pastello, vidi una striscia rossa e arancione scendere dal cielo e immergersi nel lago. Nel giro di un istante risalì sopra la superficie dell’acqua con un pesce stretto tra le fauci.

Piuttosto che un uccello l’animale sembrava un rettile, con un lungo muso munito di denti e una lunga coda. Ma era coperto di piume, e i suoi arti anteriori erano indubbiamente ali. Invece di risalire nell’aria, continuò a volare radente sul pelo dell’acqua fino a raggiungere la riva, quindi si voltò verso il sole prossimo al tramonto e distese le ali come in segno d’adorazione.

— Non può riprendere il volo fin quando le ali non gli si asciugheranno — disse Anya.

— Chissà che sapore ha — borbottai in risposta.

Se anche l’uccello-rettile aveva udito le nostre voci, non lo dette a intendere. Si limitò a rimanere sulla spiaggia ad asciugare le penne al sole e a digerire il suo pasto a base di pesce.

Improvvisamente venni colpito dall’idea che avremmo potuto fare lo stesso. — Ti piacerebbe una cena a base di pesce? — chiesi ad Anya.

Era seduta vicino a una macchia di cespugli, intenta a nutrire il suo piccolo dinosauro, che sembrava solo capace di mangiare tutto il tempo.

Senza attendere risposta mi avvicinai alle placide acque del lago che si tingeva di rosa sotto gli ultimi raggi del sole. L’uccello-rettile batté il becco ripetutamente e si allontanò di qualche passo. Nel giro di pochi minuti avevo arpionato un paio di pesci. Ero felice per quel cambiamento nella nostra dieta.

Anya aveva raccolto altre foglie e una manciata di bacche per il nostro piccolo becco-d’anatra. Il dinosauro sembrava mangiare di gusto.

— Se a lui non fanno male, forse possiamo mangiarle anche noi — suggerì Anya mentre ero intento ad accendere il fuoco.

— Può darsi — risposi. — Ne assaggerò uno…

Il becco-d’anatra emise un fischio improvviso e si strinse ad Anya. Balzai in piedi e scrutai, nell’oscurità che si faceva sempre più fitta, i boschi che circondavano la spiaggia. Udii distintamente uno schianto.

— C’è qualcosa che viene verso di noi — sussurrai concitatamente. — Qualcosa di grosso.

Non avevamo il tempo di spegnere il fuoco. Ed eravamo troppo lontani dagli alberi per sperare di poterli raggiungere. E poi, il pericolo sembrava provenire proprio da lì.

— Nell’acqua — gridai, correndo verso il lago.

Anya prese in braccio il becco-d’anatra. Il piccolo dinosauro era immobile come una statua, e sembrava averne lo stesso peso. Glielo tolsi di mano e, mettendomelo sotto un braccio, trascinai Anya tra le acque del lago.

Ci immergemmo, e io ressi il muso del piccolo oltre il pelo dell’acqua, perché potesse respirare. Era piuttosto agitato, ma non sembrava averne paura. O forse aveva più paura di ciò che stava giungendo dai boschi. L’acqua del lago era calda, troppo calda; sembrava di nuotare in un brodo.

Andammo verso il largo fino a quando soltanto le nostre teste emergevano dalla superficie. Il becco-d’anatra mi si sistemò su una spalla, e io lo sorressi con un braccio; continuava ad avanzare nell’acqua cercando di restare sempre vicino ad Anya per afferrarla in caso di bisogno.

Il bosco era ormai del tutto immerso nell’ombra. Gli alberi si scostarono di lato come un sipario, e da essi uscì un gigantesco, spaventoso tirannosauro, la pelle squamata rossiccia sotto la luce del tramonto.

Mosse qualche passo verso il nostro fuoco, si guardò intorno e infine rivolse lo sguardo verso le acque del lago. Con un tuffo al cuore compresi che, se ci avesse scorti e avesse avuto intenzione di catturarci, non doveva che entrare in acqua e afferrarci fra le sue micidiali zanne. L’acqua, sufficientemente profonda da permettere a noi di nuotare, a lui sarebbe arrivata appena ai garretti.

Il tirannosauro avanzò fino alla riva del lago, quindi esitò come una vecchietta timorosa di bagnarsi i piedi.

Trattenni il fiato. L’enorme bestia sembrava guardare nella mia direzione. Il piccolo becco-d’anatra sulla mia spalla, terrorizzato, si era tutto irrigidito e cercava di non produrre un solo rumore. Il mondo sembrò congelarsi per un eterno, lungo momento. Nemmeno l’acqua che lambiva le rive sembrava fare alcun rumore.

Infine il tirannosauro emise un possente sospiro di stizza, simile allo sbuffo di un camino, e si allontanò dal lago per scomparire nuovamente fra i boschi.

Quasi sopraffatti dalla felicità, ci spingemmo a nuoto verso la riva e, usciti dall’acqua, ci lasciammo cadere di peso sulla sabbia.

Allora udimmo un fischio sinistro levarsi dal lago.

Voltando il capo verso l’acqua vidi l’enorme collo sinuoso di un dinosauro acquatico sollevarsi dalle profondità del lago, sempre più alto, come un ascensore di carne stagliato contro il tramonto acceso di colori pastello. Il becco-d’anatra si liberò dalla mia stretta e corse ad acciambellarsi vicino ad Anya.

— Il mostro di Loch Ness — sussurrai.

— Cosa?

Allora compresi. In un’altra occasione quel dannato tirannosauro non avrebbe mai esitato a entrare in acqua, ma il lago era abitato da un dinosauro ancora più grande che ne aveva fatto il proprio territorio. Per il tirannosauro, tutto ciò che si trovava in acqua era carne per quell’altra bestia. Per questo ci aveva lasciati in pace.

Il dinosauro acquatico lanciò un altro sibilo, quindi tornò ad affondare il lungo collo tra le onde.

Mi voltai sulla schiena e cominciai a ridere sfrenatamente, come un pazzo o un soldato colpito da una crisi isterica dopo aver osservato la morte da vicino ed esserle sopravvissuto. Senza saperlo, ci eravamo gettati letteralmente tra le fauci del demonio.

18

La mia risata svanì nel nulla quasi immediatamente. Eravamo in trappola.

— Non vedo nulla di cui ridere — disse Anya tra le ombre purpuree della sera.

— Non c’è niente da ridere — convenni. — Ma che altro possiamo fare? Un tirannosauro e forse più di pattuglia nei boschi; un mostro e forse più nelle profondità del lago, e noi intrappolati fra di essi. È più che ridicolo. È da non credere. Se i Creatori potessero vederci, si sbellicherebbero dalle risa per la stupida, cieca comicità di una simile situazione.

— Possiamo sfuggire al tirannosauro — disse Anya con un cenno di disapprovazione, quasi di rabbia, nella voce. Notai che dava per scontato che in quei boschi ci fosse un solo mostro alla nostra ricerca.

— Lo pensi davvero? — domandai, con tono cinicamente caustico.

— Quando sarà scesa la notte potremo scivolare tra gli alberi…

— Per andare dove? Tutto ciò che otterremmo sarebbe rendere la caccia più interessante agli occhi di Set.

— Hai qualche idea migliore?

— Sì — dissi. — Trasformati nella tua vera essenza e lasciami quaggiù da solo.

Anya trasalì come se l’avessi schiaffeggiata. — Orion… sei… sei arrabbiato con me?

Non risposi. Il sangue mi bruciava nelle vene per l’ira. Ero furioso nei confronti dei Creatori che ci avevano messi in quella situazione. E, nel mio inconscio, inveivo contro me stesso per essermi rivelato così impotente in quella circostanza.

Anya rispose: — Sai bene che non posso trasformarmi a meno che non disponga di una quantità sufficiente di energia. E non ho intenzione di lasciarti solo, qualsiasi cosa accada.

— Esiste comunque un modo in cui potresti scappare. — dissi, raffreddando la mia rabbia. — Entrerò nel bosco e attrarrò il tirannosauro lontano da te. Allora potrai passare senza timore. Ci incontreremo sulla collina dei becchi-d’anatra…

— No — disse lei con decisione. Anche nell’oscurità che si faceva sempre più fitta riuscii a scorgere il movimento fluente dei suoi capelli color ebano mentre scuoteva il capo.

— Non potremmo mai…

— Qualsiasi cosa decideremo di fare — disse Anya con fermezza nella voce — la faremo insieme.

— Non capisci? — la implorai. — Siamo in trappola. E senza una via d’uscita. Salvati almeno tu, finché puoi.

Anya fece un passo verso di me e mi carezzò il viso con la mano, fresca e morbida. I suoi occhi grigi scrutarono nel profondo dei miei. Sentii allontanarsi la tensione che mi aveva attanagliato i muscoli del collo e della schiena.

— Non è da te, Orion. Non avevi mai ceduto prima d’ora, in nessuna situazione.

— Non ci siamo mai trovati di fronte a una situazione simile. — Ma mentre pronunciavo quelle parole cominciavo a sentirmi più calmo, meno angosciato.

— Come hai detto qualche giorno fa, amore mio, siamo ancora vivi. E finché abbiamo vita il nostro compito è combattere Set e i suoi mostruosi propositi, quali che siano.

Era la verità, e lo sapevo bene. E sapevo anche di non potermi opporre. Era un Creatore, e io una delle sue creature.

— E qualsiasi cosa faremo, mio triste amore — disse Anya, con voce più bassa — la faremo insieme. Fino alla morte, se necessario.

La voce mi si strozzò in gola, attanagliata da un groviglio di emozioni. Era una dea, e non mi avrebbe mai abbandonato. Mai.

Rimanemmo a guardarci intensamente negli occhi per alcuni istanti quindi, in mancanza di un piano migliore, decidemmo di compiere il giro del lago. Il becco-d’anatra ci seguì trotterellando, sempre al seguito di Anya.

Come possono due esseri umani sconfiggere un tirannosauro di trenta tonnellate a mani nude? Conoscevo la risposta: non potevano. Qualcosa nella mia mente sottolineò che nel Neolitico avevo ucciso alcuni dinosauri carnivori di Set, e praticamente senz’armi. Eppure quel tirannosauro sembrava molto superiore a qualsiasi nostra possibilità. La mia non era paura: mi sentivo impotente, disperato; la mia depressione valicava ogni timore.

Così c’incamminammo nella notte che andava infittendosi, col debole sciacquio delle onde che s’infrangevano sulla riva del lago sempre alla nostra destra. Si levò la luna, crescente e sottile come una scimitarra, e poco dopo anche la stella sanguigna fece capolino da dietro l’orizzonte.

In un filo di voce, Anya disse: — Se solo potessimo catturare uno degli scagnozzi di Set e costringerlo a rivelare dove si trovi il suo accampamento e da cosa sia motivato il suo interesse per quest’epoca, potremmo escogitare un piano.

Invece di formulare qualche tipo di apprezzamento sull’ingenuità della sua affermazione, mi limitai a emettere un grugnito.

— Devono possedere armi e strumenti. Forse potremmo catturarne uno. Faremmo meglio a prepararci…

Riuscii a tenere per me ciò che pensavo veramente dei suoi sogni a occhi aperti.

— Non li ho mai visti portare con sé nessun’arma o strumento — borbottai.

— Set possiede una tecnologia avanzata quanto la nostra — disse lei. Capii che con ciò intendeva alludere alla tecnologia dei Creatori.

— Già, ma i suoi simili girano sempre a mani vuote… a eccezione dei loro artigli. — Fu allora che capii. — E i rettili, sotto il loro controllo.

Anya si fermò di colpo. — I tirannosauri.

— E i draghi, a Paradiso.

— Usano gli animali come noi usiamo gli arnesi — disse lei.

Il nostro piccolo becco-d’anatra emise un piccolo sbuffo, tanto per far sapere che era sempre con noi. Anya si chinò e lo prese in braccio.

La mia mente correva a ruota libera. Ricordai un’altra razza di creature intelligenti in grado di controllare gli animali con la mente. I neanderthaliani e il loro capo, Ahriman. La mia memoria riempì gli spazi vuoti con immagini quasi dimenticate del duello suicida che lui e io avevamo intrapreso nel corso di cinquantamila anni. Serrai le palpebre e rimasi immobile, sforzando ogni cellula del mio corpo nel tentativo di ricordare.

— Penso — dissi, con voce tremante — di poter controllare gli animali come fanno gli umanoidi.

Anya mi si portò più vicina. — No, Orion. Una tale capacità non è stata mai instillata dentro di te. Nemmeno il Radioso ne conosce il segreto.

— Ho guardato a fondo nella mente di Ahriman — risposi. — Parecchie volte. Ho vissuto con i neanderthaliani. Penso di poter riuscire.

— Se solo fosse vero!

— Proviamo… col nostro piccolo amico, qui.

Sedemmo a gambe incrociate sulla sabbia. Il becco-d’anatra si acciambellò sul grembo di Anya, poggiando il muso sulla propria coda raggomitolata, e chiuse gli occhi quasi istantaneamente.

E io chiusi i miei.

Era una mente semplice, ma non così primitiva da non possedere un certo istinto di conservazione. Nel fresco della sera cercava il calore del corpo di Anya e il sonno necessario ad accumulare le energie necessarie per il giorno dopo. Dapprima non vidi nulla, ma una marea di stimoli olfattivi fluì dentro di me: il caldo odore muschiato del corpo di Anya, quello pungente delle acque del lago, l’aroma delle foglie e della corteccia. La mia mente si sorprese che i fiori non aggiungessero la loro fragranza all’aria notturna, ma poi ricordai che in quell’era non esistevano ancora. Forzai il piccolo dinosauro ad aprire gli occhi e vidi il suo mondo, scuro e indistinto, ancora ottenebrato dal sonno. Un’irresistibile riluttanza ad abbandonare il calore del corpo materno di Anya s’impadronì della mia mente, ma alla fine mi alzai vacillando sulle quattro zampe. Trotterellai verso la riva del lago. Annusai intorno ma non individuai alcun segno di pericolo, quindi mi immersi nell’acqua fino a quando i miei piccoli zoccoli non fecero fatica a toccare il fondo melmoso. Quindi cambiai direzione e feci ritorno con piacere a quel grembo materno.

— È tutto bagnato! — Anya lamentò fra le risa.

— E dorme sodo — dissi io.

Per alcuni minuti restammo seduti l’uno di fronte all’altra, Anya col piccolo dinosauro che sospirava ritmicamente sul suo grembo.

— Avevi ragione — sussurrò lei. — Sei davvero in grado di farlo.

— È solo un cucciolo — risposi. — Controllare un animale più grosso potrebbe rivelarsi molto più difficile.

— Ma puoi riuscirci — disse Anya. — Lo so che puoi.

— Inoltre, avevi ragione — continuai. — Il nostro piccolo amico è una lei.

— L’avrei giurato!

Guardando in direzione del bosco ormai immerso nelle tenebre, feci scivolare la mia coscienza attraverso gli alberi e le felci gigantesche che ondeggiavano lamentose nel vento notturno. C’erano alcuni tirannosauri, là fuori. Erano addormentati, ma il loro sonno era leggero. Forse c’era una possibilità di attraversare il bosco senza svegliarli. A ogni modo, valeva la pena di tentare.

— Ci sono dei rettili con loro?

— domandò Anya quando suggerii di incamminarci verso gli alberi.

— Non ne ho percepito nessuno — dissi. — Il che non significa necessariamente che non ve ne siano.

Attendemmo fino a quando non avvertii che i tirannosauri erano sprofondati in una fase di sonno più profondo. I grilli cantavano fra gli alberi, la sottile luna crescente si fece più alta nel cielo, seguita dalla lugubre stella rossa.

— Fra quanto hai intenzione di metterti in cammino? — domandò Anya, carezzando distrattamente il piccolo dinosauro sul suo grembo.

Mi alzai lentamente in piedi.

— Presto. Fra pochi…

Un suono agghiacciante echeggiò nella notte. Guardando verso il lago vidi il lungo collo serpeggiante del dinosauro acquatico profilarsi contro le stelle, nei pressi della bianca nebbia cosmica che un giorno sarebbe stata la costellazione di Orione. In lontananza udii un grido di risposta librarsi nell’oscurità.

Dal lago soffiò una gelida brezza che sembrò schiarirmi la mente come il vento dirada la nebbia.

Aiutai Anya ad alzarsi in piedi. Il piccolo becco-d’anatra non si mosse quasi fra le sue braccia.

— Pensi che Set possa influenzare la mia mente così come la sua gente può controllare i dinosauri? — domandai.

— Ha sondato la tua mente, laggiù nella sua fortezza — rispose lei.

— Pensi che possa essere lui a farmi sentire — esitai a usare quella parola — …così depresso?

Anya annuì con solennità.

— Usa la disperazione come arma per minare la tua forza, per guidarti verso la distruzione.

Cominciai a comprendere. — E non appena l’hai capito, hai cominciato a contrastare questa sua forza.

— No, Orion — rispose Anya.

— Sei stato tu a reagire. L’hai fatto da solo.

Era davvero così? Forse Anya l’aveva detto soltanto per incoraggiarmi. Ma continuai a pensare che il suo ruolo nel risveglio della mia mente fosse stato determinante.

Nel giro di qualche istante cessai di preoccuparmene. Non era poi così importante stabilire di chi ne fosse il merito: mi sentivo di nuovo molto potente, e quel terribile sentimento di disperazione si era dissolto.

— I tirannosauri dormono sodo — dissi ad Anya. — Con un po’ di cautela possiamo farcela.

Appoggiai una mano sulla sua spalla, e in quel momento udii un gorgoglio levarsi dal lago. Mentre mi voltavo, ero convinto che avrei visto uno o più di quegli enormi dinosauri emergere dall’acqua.

Invece le acque sembravano dividersi per fare posto a qualcosa di così scuro e immenso che persino i dinosauri sembravano minuscoli al suo confronto.

Un edificio, una struttura emersa dalle profondità del lago. Torri a strapiombo così ampie e imponenti da nascondere il cielo alla vista. Balconate e camminamenti si snodavano sospesi tra snelli minareti. Minuscole luci rosse brillavano a intermittenza mentre, un piano dopo l’altro, il complesso continuava a salire dall’acqua, gigantesco e terribile.

Anya e io rimanemmo a bocca aperta, ammutoliti, mentre la titanica struttura si sollevava dal lago come il palazzo di qualche dio del mare, grottesco e bellissimo, sinistro e maestoso. L’acqua s’increspò in alte onde che strabordarono dal letto del lago, bagnando la terra sotto i nostri piedi per poi affrettarsi indietro, come impazienti di tornare verso la base del castello.

Una torre si stagliava più alta delle altre contro il cielo notturno. E, subito sopra di essa, lucente come un faro, la stella rosso sangue brillava allo zenit.

— Che stupidi siamo stati! — Anya sussurrò fra le ombre.

Mi voltai a guardarla. I suoi occhi erano spalancati e attoniti.

— Abbiamo pensato che il quartier generale di Set fosse la sua fortezza del Neolitico, sulle rive del Nilo. E invece non era che una delle sue molte dimore!

— È questo il suo quartier generale — dissi. — Qui, in quest’epoca. E lui dev’essere là dentro, ad attenderci.

19

Non pensammo di fuggire neanche per un momento. Set si trovava in quel lugubre castello, e con lui il pozzo che scendeva verso il cuore incandescente della terra fornendogli l’energia necessaria per raggiungere il suo scopo. Dovevamo accedere a quell’energia, se volevamo fare qualcosa, non fosse altro che sfuggire a quell’epoca dominata dai dinosauri.

Ma i miei pensieri erano concentrati su ben altro che sulla fuga. Volevo incontrare di nuovo Set, confrontarmi con lui, cacciarlo e ucciderlo nello stesso modo in cui lui aveva cercato di cacciare e uccidere noi. Aveva piegato in schiavitù i miei amici, torturato la donna che amavo, prosciugato la mia volontà di combattere e di vivere. Ormai mi consumavo dal desiderio di chiudere le dita intorno a quel collo squamato e strozzare via la vita dal suo corpo.

Ero di nuovo Orion il Cacciatore, potente e impavido.

Nei recessi della mia mente una voce mise in dubbio il mio nuovo coraggio. Era Anya a manipolarmi? O stavo semplicemente reagendo nel modo in cui ero programmato durante la mia creazione? Il Radioso mi aveva spesso deriso affermando di aver instillato simili istinti di violenza e di vendetta in me e nella mia razza. Senza dubbio, gli esseri umani avevano sofferto per millenni a causa di quegli istinti. Eravamo nati per uccidere, e l’aggraziata facciata di civiltà dietro la quale ci nascondevamo non era che una mano di vernice a coprire la violenza che vi si celava.

“E allora?” risposi a quella voce nella mia mente. Comunque la razza umana era sopravvissuta a tutto ciò cui gli dèi del continuum ci avevano costretti. Adesso dovevo affrontare il diavolo incarnato, e quegli istinti sarebbero stati la mia unica protezione. Di nuovo avrei dovuto contare sulle capacità istintive del cacciatore: scaltrezza, forza, circospezione e, soprattutto, pazienza.

— Dobbiamo entrare — disse Anya, guardando ancora con occhi sbigottiti il castello immerso nelle tenebre.

Feci un cenno di assenso. — Prima, però, dobbiamo scoprire cos’ha intenzione di fare in quest’epoca, e perché.

Il che significava che dovevamo nasconderci e rimanere a osservare, guardando senza essere visti. Anya convenne sull’utilità di quella strategia, sebbene la rendesse inquieta. Avrebbe preferito penetrare nel castello con la forza. Sapeva che tale desiderio non aveva praticamente nessuna probabilità di riuscita, e che avremmo dovuto aspettare il momento più propizio. Ma ugualmente esitò prima di dirsi d’accordo.

Raccolsi il piccolo becco-d’anatra dalle sue braccia e guidai il nostro sparuto gruppetto fra gli alberi, tenendomi alla larga dai tirannosauri che dormivano nel bosco. Il piccolo dinosauro sembrava più pesante di quanto non lo fosse stato prima. O ero più stanco di quanto non pensassi, o stava crescendo con estrema rapidità.

Ci aprimmo la strada con molta cautela attraverso la fitta boscaglia. Il becco-d’anatra era sempre addormentato, e fortunatamente anche i tirannosauri intorno a noi.

— Questo tuo cucciolo presto diventerà un problema — sussurrai ad Anya che mi seguiva da vicino mentre scostavo felci e rovi con la mano libera.

— Niente affatto — bisbigliò lei in risposta. — Se m’insegnerai a controllarla, potrà uscire in esplorazione per noi. Cosa di più normale in questo mondo di un piccolo dinosauro a spasso nella foresta?

Fui costretto ad ammettere che, almeno in parte, aveva ragione. Mi chiesi tuttavia se i becchi-d’anatra fossero soliti allontanarsi da soli. Sembravano animali usi ad andare in branco, come tanti altri erbivori che nel numero trovavano sicurezza.

Ci fermammo in un luogo in cui una grossa palma era caduta su un masso. Sotto il tronco caduto cresceva un fitto groviglio di rovi, e di fronte a esso una folta macchia di canne. Usando le lance a mo’ di pale scavammo nella sabbia una trincea, larga appena a sufficienza da permettere di sistemarcisi sul fondo. Col grosso tronco sopra di noi, il macigno su un lato e i cespugli a proteggerci la retrovia, quel rifugio era ragionevolmente sicuro. Tra le canne e le felci era possibile osservare il lago.

— Niente fuoco finché staremo qui — dissi.

Anya sorrise con soddisfazione. — Mangeremo pesce crudo, e assaggeremo le bacche e i frutti dei vari cespugli.

Cominciò così quello che divenne un lungo susseguirsi di settimane d’osservazione. Ogni mattina il castello s’immergeva nel lago; l’intera sua struttura, titanica, affondava lentamente nell’acqua spumeggiante come se temesse la luce del sole. E ogni notte emergeva nuovamente, gocciolante e scura come un gigante malvagio.

Mentre il castello era immerso sott’acqua uscivamo a pescare e cacciare. Facevamo bene attenzione a evitare i tirannosauri che si muovevano fra i boschi e al di là di essi. Per la verità, non sembravano particolarmente interessati a seguire le nostre impronte. Piuttosto il contrario: sembravano ignorarci.

Cominciai a insegnare ad Anya a controllare il nostro becco-d’anatra, che stava rapidamente assumendo età e dimensioni più mature. Anya l’aveva chiamata Giunone, e quando gliene chiesi il motivo scoppiò a ridere.

— Uno scherzo, Orion, che soltanto i Creatori potrebbero apprezzare.

Sapevo che i Creatori di tanto in tanto si fregiavano del nome di qualche dio dell’antichità. Il Radioso si faceva chiamare Ormazd, ma in altre occasioni si era dato nome Apollo, o Yaweh. Anya stessa era stata adorata col nome di Atena tanto dagli Achei quanto dai Troiani. Doveva esserci anche una Giunone fra di loro, e Anya si era divertita a battezzare con il suo nome il nostro becco-d’anatra dai piedi piatti e il dorso arrotondato.

Dopo alcuni giorni cominciai a notare che il castello usciva dall’acqua ogni notte un po’ più tardi, per attardarsi un po’ più a lungo ogni mattina. Dapprima la cosa mi sorprese, ma ero molto più interessato a sorvegliare il viavai dentro e fuori di esso piuttosto che le sue emersioni e immersioni. Alle prime luci dell’alba divenne possibile osservare con maggiore chiarezza cosa stava accadendo e perché.

Ogni volta che il castello emergeva dall’acqua una rampa lunga e stretta si protendeva da un cancello posto fra le sue pareti, come la lingua di un serpente, per raggiungere la sponda del lago a circa un quarto della sua circonferenza rispetto al punto in cui io e Anya eravamo nascosti. Ogni giorno, invariabilmente, una dozzina di umanoidi di Set simili a quelli che avevamo incontrato nel Neolitico scendevano quella rampa verso la spiaggia, per poi sparire fra gli alberi.

I tirannosauri erano lì in attesa, richiamati presso le rive del lago da forze a noi sconosciute. Nell’oscurità della notte o alla pallida luce dell’alba gli umanoidi selezionavano una dozzina di quei giganti e si allontanavano con loro tra i boschi.

Non mi ci volle molto per intuire che ogni rettile controllava un solo tirannosauro. Ogni gruppo di umanoidi formava un branco di sauri da condurre con sé verso qualche misteriosa missione. Dopo alcuni giorni, la squadra faceva ritorno con il suo branco. Gli umanoidi rientravano nel castello e i tirannosauri s’incamminavano verso le paludi, che sembravano essere il loro ambiente naturale.

— Radunano qui i tirannosauri per impiegarli in qualche compito — concluse Anya una mattina piena di sole, quando il castello era affondato del tutto sotto la superficie del lago.

Camminavamo sulla sabbia diretti verso la nostra trincea, entrambi armati di lancia mentre il becco-d’anatra, che ormai mi arrivava alla cintola, sbuffava e fischiava affannosamente dietro di noi. Sulle spalle reggevo una cordicella alla quale erano assicurati tre pesci che avrebbero costituito la nostra colazione.

— Riesco a immaginare un solo impiego per i tirannosauri — dissi ad Anya, ricordando il massacro presso la collina dei becchi-d’anatra. — Ma non ne vedo il senso.

Anya aveva pensato la stessa cosa e si era posta la stessa domanda.

Se non altro, avevo compreso perché il castello emergeva dal lago ogni mattina qualche minuto più tardi. Saliva in superficie soltanto quando la stella rossa era alta nel cielo. E s’immergeva non appena la stella spariva sotto la linea dell’orizzonte.

Quando riferii ad Anya la mia scoperta, ella mi guardò con aria interrogativa. — Ne sei certo?

— La stella è così luminosa da essere visibile persino a mezzogiorno — risposi. E sono sicuro che il castello rimarrà in superficie alla luce del sole, nei prossimi giorni.

— Per cui Set non ha intenzione di nascondersi da nessuno — Anya rifletté.

— E da chi dovrebbe nascondersi? Da noi?

— Ma allora perché il castello s’immerge tutti i giorni? Perché non rimane in superficie?

— Non lo so — ammisi. — Ma prima è necessario rispondere a una domanda ancora più complessa: perché emerge soltanto quando quella maledetta stella appare nel cielo?

Anya rimase a bocca aperta. Si fermò dov’era, nel fitto fogliame che cresceva vicino al nostro rifugio. Poi si voltò e rimase a scrutare tra le foglie l’orizzonte verso occidente. La stella rossastra era quasi scesa sulla linea del lago, disegnando sull’acqua una striscia rossa e luminosa puntata come uno stiletto verso di noi.

Per altre due notti rimanemmo a guardare il castello emergere dall’acqua soltanto quando la stella era alta nel cielo, prossima allo zenit. Ormai rimaneva in emersione anche alla luce del giorno, per immergersi soltanto quando l’astro era basso sul lago.

— Hai ragione — disse Anya. — segue la stella.

— Ma perché? — volevo sapere.

— Set deve provenire da uno dei mondi in orbita intorno a essa — Anya intuì. — Dev’essere la stella del suo pianeta natale.

L’altra nostra domanda, quali fossero i compiti delle squadre miste di umanoidi e tirannosauri, poteva trovare risposta in un solo modo: seguendone una. Non riuscivo a decidermi se fosse meglio allontanarci insieme o se avrei dovuto lasciare Anya presso il lago, perché continuasse a osservare ciò che accadeva presso il castello.

Lei desiderava venire con me, e alla fine mi dissi d’accordo. Non volevo lasciarla sola, perché non avremmo potuto comunicare una volta che ci fossimo separati. Se uno di noi avesse avuto bisogno d’aiuto, l’altro non avrebbe potuto saperlo.

Così un mattino impugnammo le lance e ci mettemmo all’inseguimento di un gruppo di nove umanoidi che seguivano a breve distanza un branco di nove tirannosauri. Li lasciammo allontanarsi oltre l’orizzonte prima di abbandonare il nostro rifugio, in modo che non potessero scorgerci. Non rischiavamo di perderne le tracce; anche un bambino poteva seguire le orme dei dinosauri, profonde nel morbido terreno argilloso.

Per tre giorni avanzammo imperterriti in quel paesaggio del Cretaceo. Piovve per metà del tempo, una pioggia fredda e grigia che scendeva da un cielo ancor più grigio e coperto da nuvole così basse che sembrava di poterle toccare soltanto sollevando un braccio. Il terreno si fece fangoso; il mondo si ridusse a quel poco che potevamo scorgerne attraverso la fitta pioggia. Il vento ci sferzava impietosamente.

La piccola Giunone non sembrava minimamente turbata dal brutto tempo. Masticava continuamente teneri arbusti trotterellando dietro di noi, un piccolo dinosauro in rapido sviluppo con un sorriso stupido costantemente dipinto sul becco e una coda piatta che trascinava dietro di sé.

Il nostro cammino mutò in un incedere difficoltoso attraverso quell’acquazzone, arrestandosi del tutto quando fu troppo scuro per proseguire. Improvvisammo un modesto accampamento su un piccolo rilievo roccioso a pochi metri d’altezza sopra il mare di fango. Quando il sole sorse di nuovo, la terra fumava letteralmente per l’umidità che trasudava dal terreno zuppo. Osservando le impronte notammo che i tirannosauri avevano proseguito nel fango alla stessa velocità con la quale avevano sempre avanzato. Si erano fermati soltanto per dormire, come avevamo fatto noi, gelati fino al midollo, bagnati, affamati e senza un fuoco.

Anche i tirannosauri dovevano avere fame, pensai. Doveva essere necessario un ingerimento di cibo pressoché incessante per muovere venti tonnellate di carne a quella velocità. Ma non notammo alcun segno di rallentamento nel loro passo, né ossa sul terreno o pterosauri in volo circolare a indicare il sito di qualche banchetto.

— Per quanto tempo possono andare avanti senza mangiare? — chiese Anya mentre il sole picchiava con violenza sulla terra facendone evaporare tutta l’umidità portata dalla pioggia. Il terreno trasudava una nebbia fredda, ma ero contento che fosse così: la nebbia ci proteggeva da eventuali occhi indagatori.

— Sono rettili — riflettei a voce alta. — Non hanno bisogno di mantenere costante la loro temperatura corporea. Possono resistere senza cibo molto più tempo di qualsiasi mammifero della stessa stazza.

— Ovviamente — disse Anya. Sembrava stanca. E affamata.

Catturammo un paio di dinosauri della taglia di grossi cani. Si crogiolavano pigramente al sole perché il calore potesse penetrare meglio nei loro corpi. Non mostrarono alcun timore al nostro approssimarci, perché non avevano mai visto un essere umano prima d’allora. E non ne avrebbero mai più visti altri.

Cercammo di accendere un fuoco, ma gli sterpi e i cespugli erano ancora così zuppi per la pioggia del giorno precedente che fummo costretti a mangiare quella carne senza cuocerla. Dovemmo masticare a lungo, ma se non altro c’era acqua in abbondanza per lavarla.

Usammo Giunone come assaggiatrice di tutto ciò che riguardava il regno vegetale. Se il becco-d’anatra mordicchiava una pianta e poi la sputava, ce ne tenevamo ben lontani. Se la masticava con aria felice, provavamo ad assaggiarla anche noi. Per quanto ne so preparammo la prima insalata mai apparsa sulla faccia della terra, composta di piante dalle foglie tenere che si sarebbero estinte alla fine del Cretaceo insieme ai dinosauri che se ne nutrivano.

Il terreno cominciò a salire e a farsi più asciutto. E ancora le profonde impronte dei tirannosauri continuavano a spingersi innanzi, finché insieme a esse comparvero le orme di altri dinosauri.

— Dev’essere un percorso migratorio — disse Anya, con voce eccitata.

Io tenevo d’occhio le colline di fronte a noi. — Non avanziamo troppo in fretta. Potremmo imbatterci in qualche branco di animali carnivori.

Dietro mia insistenza ci portammo a lato del sentiero scavato dai dinosauri. Scorgemmo le impronte degli artigli di molti carnosauri, alcuni fra i quali più piccoli dei tirannosauri.

A giudicare dalle apparenze, quella strada doveva essere percorsa dai becchi-d’anatra e altri sauri erbivori ogni anno all’incedere dell’inverno.

Furono di nuovo gli pterosauri a farci insospettire. Vorticavano a stormi nel cielo, sulla verticale di un punto al di là dei colli verso i quali eravamo diretti. Con imprudente curiosità Anya salì di corsa il pendio, impaziente di vedere cosa stava accadendo. Cercai di tenerle dietro, e anche la piccola Giunone partì al galoppo dietro di me.

Udimmo strilli, fischi e urla che non potevano provenire dai rettili alati in volo nel cielo. Erano suoni di terrore e di morte.

Anya raggiunse la cima del colle e s’irrigidì, atterrita. Mi portai al suo fianco e abbassai lo sguardo sulla vallata lunga e stretta sotto di noi.

Infuriava una vera e propria battaglia.

20

Migliaia di erbivori erano attaccati da centinaia di tirannosauri. La battaglia si snodava per vari chilometri di terreno spoglio e roccioso, già rosso e scivoloso per il sangue.

Una battaglia infuriava nella valle davanti ai nostri occhi, coi becchi-d’anatra, i triceratopi e altri erbivori quadrupedi più piccoli che cercavano disperatamente di oltrepassare la stretta imboccatura della gola e i tirannosauri, mostri distruttori, che ne facevano strage schiacciandone il dorso con quei loro terribili denti e straziandone i corpi coi loro artigli affilati come scimitarre.

Sembrava una battaglia navale d’altri tempi, con possenti corazzate a infrangere le file serrate dei galeoni. Riportava alla mente anche una banda di predoni a cavallo all’attacco di una grossa carovana.

Le urla e i fischi degli erbivori feriti echeggiavano strazianti tra le pareti rocciose della vallata. La nostra piccola Giunone emetteva penosi lamenti, stringendosi tremante al fianco di Anya.

Non riuscivo a scorgere nessun umanoide, nessun luogotenente di Set. Ma sapevo che dovevano essere da qualche parte lì intorno, nascosti fra le rocce o dietro qualche masso come noi, a dirigere i tirannosauri nel massacro dell’orda migrante.

La battaglia però non era del tutto priva di pericoli per gli aggressori. Nei pressi di un cumulo di rocce, tre triceratopi avevano caricato un tirannosauro, facendolo cadere a terra per poi trafiggerlo ripetutamente coi loro lunghi corni appuntiti. In un altro luogo, un piccolo dinosauro protetto da un’armatura che lo faceva somigliare a un armadillo era riuscito ad aprirsi la strada attraverso quel mare di polvere, per trovare scampo nell’aperta campagna che si stendeva oltre l’imboccatura della vallata.

Ma per lo più erano i tirannosauri a mietere vittime, senza sosta. Becchi-d’anatra, triceratopi e altri erbivori giacevano a terra in gran numero, straziati dai micidiali artigli.

— Gli umanoidi devono aver portato qui i tirannosauri proprio per massacrare i dinosauri in migrazione — disse Anya con un certo distacco.

Provai un sentimento di furia cieca alla vista dell’insensato massacro che si stava compiendo sotto di noi.

— Cerchiamoli — dissi, incamminandomi lungo la cima del colle, stringendo la lancia nella mano destra.

Anya mi venne dietro, e Giunone prese a trotterellare dietro di lei, chiaramente poco contenta della direzione verso cui avevamo deciso di procedere. Il piccolo dinosauro emetteva suoni stranamente simili a nitriti.

— Orion, cos’hai intenzione di…?

Scuro in volto, interruppi la sua domanda: — Nel corso delle molte vite che ho vissuto ho imparato una lezione fondamentale: danneggia i tuoi nemici per quanto ti sia possibile. Set vuole sterminare questi dinosauri? Allora farò tutto il possibile per intralciare questo massacro.

Anya mi seguì in silenzio mentre mi arrampicavo sempre più in alto lungo la cresta rocciosa del colle, fra le grida di Giunone che continuava a lamentarsi.

— Resta qui con lei — dissi ad Anya. — È terrorizzata, e le sue urla potrebbero insospettire gli umanoidi.

— Ti seguiremo dietro la collina — rispose Anya. — Se non sarà costretta a osservare quel massacro, forse riuscirà a calmarsi.

Anya e il becco-d’anatra discesero il pendio per un centinaio di metri. Riuscivo a vederle seguire da lontano il mio cammino mentre procedevo verso il punto in cui supponevo che gli umanoidi si fossero nascosti. Procedevo chinato su me stesso al punto di strisciare le mani per terra come fanno i gorilla.

Nel giro di alcuni minuti individuai uno dei tirapiedi di Set disteso ventre a terra sulle rocce scaldate dal sole, assorto in contemplazione della battaglia che infuriava nella valle. Prima che potesse accorgersi della mia presenza, gli infilai la lancia nella schiena con tale violenza che la punta scheggiò la roccia sotto di lui. Il rettile emise un suono sibilante e per qualche istante si dibatté come un pesce fuor d’acqua.

Ne tastai il polso ma non riuscii ad avvertirne il battito cardiaco. Il sangue scendeva copioso sotto il suo corpo. Mi appiattii contro la roccia al suo fianco e rivolsi lo sguardo verso la gola. A causa delle nuvole di polvere che si levavano nella valle era difficile comprendere nei dettagli la dinamica della lotta, ma alla fine riuscii a scorgere un tirannosauro ritto sulle zampe posteriori che batteva le palpebre con aria sgomenta. Aveva smesso di uccidere. Piegatosi sul corpo insanguinato di un triceratopo il bruto prese a nutrirsi delle sue carni, strappando grossi bocconi dalla carcassa massiccia.

Gli altri tirannosauri continuavano a far strage di erbivori, ancora sotto il controllo mentale delle truppe di Set. Mi alzai e mi spinsi più avanti.

La lancia si era smussata, e il manico si era spezzato in due parti. Anya si arrampicò allora verso di me per porgermi la sua. Dapprima esitai, ma alla fine decisi di accettarla, scambiandola con la mia. In caso di bisogno avrebbe sempre potuto usarla come mazza.

Vidi altri due umanoidi seduti fra i massi, entrambi concentrati sulla carneficina che si stava compiendo a fondovalle. Compresi che il controllo dei tirannosauri in mezzo a tanta confusione doveva richiedere tutta la loro attenzione. Erano sordi e ciechi a tutto ciò che accadeva intorno a loro.

Mi avvicinai ugualmente con cautela alle loro spalle. Balzando in avanti, conficcai la lancia nel corpo del rettile più vicino. Nel morire, quello lanciò uno strillo simile a un fischio. L’altro balzò subito in piedi e si voltò per affrontarmi, ma tutto ciò avvenne con estrema lentezza, perché i miei sensi erano entrati in ipervelocità.

Lo vidi girarsi verso di me, vidi i suoi occhi rossi scintillare, la sua bocca aprirsi in quella che poteva essere rabbia, sorpresa o paura. I suoi artigli non stringevano arma alcuna. Con tutta la forza del mio peso sferrai un calcio contro il suo petto con tanta violenza da rompergli le ossa. L’umanoide cadde in avanti e rotolò giù per il pendio, atterrando ai piedi di un tirannosauro dall’aria stordita.

La grossa bestia, libera dal controllo mentale, ghermì il suo padrone strappandone in due il corpo con un solo colpo dei micidiali denti aguzzi.

Mi rannicchiai su un fianco e cercai di individuare il tirannosauro controllato dall’altro umanoide. Lo trovai stordito dalla confusione della battaglia che lo circondava. Chiusi gli occhi. Quando li riaprii, mi trovai a circa dieci metri di distanza dal terreno coperto di sangue, battendo le palpebre nella polvere che mi circondava. Un’incontenibile brama di sangue si era impadronita di me, sovrastando la fame che mi tormentava le viscere.

Ero Tirannosaurus rex, signore dei rettili carnivori, il più feroce animale che abbia mai percorso la terra. Esultai per la forza e la potenza che sentivo crescere dentro di me.

Con uno strillo acuto e straziante mi precipitai in avanti nell’orgia di violenza che mi circondava. Ma non avanzai verso i deboli, indifesi becchi-d’anatra o i più pericolosi triceratopi. Volevo attaccare i tirannosauri ancora sotto il controllo diretto degli umanoidi di Set.

I miei simili uccidevano ma non si fermavano a mangiare. Dopo aver squarciato la gola di un becco-d’anatra lo lasciavano cadere nella polvere, sprecando tutto quel buon sangue fresco, abbandonando tutta quella carne senza affondarvi i denti nemmeno una volta. Uccidevano e si affrettavano a cercare un’altra vittima.

Mi spinsi oltre un monticello di erbivori morti e feriti per raggiungere un tirannosauro, il quale non prestò attenzione alla mia presenza, pronto ad azzannare un becco-d’anatra che strillava disperatamente nel tentativo di allontanarsi da quel massacro.

Proprio mentre il tirannosauro stava per dilaniare il tenero collo del becco-d’anatra, affondai i denti nella sua colonna vertebrale e gustai il sapore del sangue e della carne viva nella mia bocca. Il mostro emise uno strillo quindi lasciò cadere il capo sul petto, fra le zampette vestigiali; le sue terribili fauci restarono chiuse per sempre.

Guardai cadere la bestia morta, quindi caricai contro un altro tirannosauro. Anch’esso non mi prestò alcuna attenzione, e con un sol morso ne spezzai il collo. Ma altri due tirannosauri avevano interrotto la loro caccia per mettere a fuoco lo sguardo su di me.

Senza esitazione presi a caricarli. Cademmo tutti e tre al suolo con tanta violenza da far tremare la terra.

A grande distanza udii una debole voce gridare: — Orion, attento!

Ma ero intento a combattere la battaglia della mia vita contro due tirannosauri. E stavo vincendo! Già uno di essi barcollava, metà del suo fianco squarciato e zampillante copiosi fiotti di sangue rosso rubino. Ero ferito anch’io ma non provavo alcun dolore, soltanto la gioia esaltante della battaglia. Indietreggiai lentamente e vidi l’altro nemico avanzare verso di me, le fauci spalancate, dimenando le piccole zampe anteriori.

Dietro di lui si erano raggruppati altri tirannosauri, tutti rivolti contro di me. Indietreggiai fino a quando non sentii la mia coda sfregare contro la parete di roccia.

— Orion! — udii nuovamente; questa volta era un grido più incalzante, più pressante.

Poi tutto si fece nero.

In qualche modo compresi di essere caduto in stato d’incoscienza. Ero sprofondato nelle tenebre, tagliato fuori da qualsiasi percezione sensoria, ma non ero nel freddo mondo disincarnato del vuoto spaziotemporale. Non avevo ancora lasciato il continuum. Qualcuno era giunto alle mie spalle mentre dirigevo il tirannosauro e mi aveva stordito con un colpo, facendomi perdere i sensi. Nonostante gli avvertimenti di Anya.

Ero stato uno sciocco. E adesso ne pagavo il prezzo.

Appena ebbi realizzato l’accaduto, feci in modo che il mio corpo si rimettesse più rapidamente possibile. Chiusi i canali ricettivi del dolore e inviai una buona dose di sangue verso la ferita sul mio cranio. Rimisi in funzione i canali sensori. Ma tenni gli occhi sempre ben serrati, e non mi mossi. Volevo farmi un quadro della situazione senza che nessuno si accorgesse del mio rinvenimento.

Avevo i polsi legati stretti dietro la schiena, e altre corde o rampicanti mi circondavano le braccia e il petto. Giacevo volto a terra sul caldo terreno roccioso, infastidito da sassolini e piccole pietre appuntite.

L’unico suono che udii fu il sibilo di Giunone. Nessuna voce, nemmeno quella di Anya. Sondai con la mente lo spazio intorno a me. Anya era vicina, ne potevo avvertire la presenza. E anche quella di una mezza dozzina di menti gelide come cadaveri rinchiusi nel ghiaccio.

— Lasciate che gli dia un’occhiata — sentii Anya implorare. — Potrebbe essere morto, o ferito gravemente.

Nessuna risposta. Non un suono. In lontananza udivo il sibilare del vento, non più le grida e i fischi dei dinosauri. La battaglia era terminata.

Non potevo apprendere altro con gli occhi chiusi, così li aprii e mi spostai di lato.

Anya era in ginocchio, le braccia dietro la schiena legate da viticci. Giunone giaceva ventre a terra, col muso poggiato fra le zampe anteriori, come un pupazzo.

Sei rettili dalle scaglie rosse mi fissavano senza batter ciglio, la coda sollevata all’altezza delle ginocchia. Il loro inguine era leggermente increspato, ma per il resto privo di tratti caratteristici; come per gran parte dei rettili, anche i loro organi sessuali erano nascosti.

Non pronunciarono una sola parola. Dubito che potessero produrre alcun suono articolato, anche volendolo. Né proiettavano alcuna immagine mentale. O erano incapaci di comunicare con noi oppure si rifiutavano di farlo. Ma ovviamente erano in grado di comunicare fra loro, e possedevano la capacità di controllare i tirannosauri.

Due di loro mi fecero mettere in piedi senza tante cerimonie. Per un istante rimasi in preda alle vertigini, ma subito regolai il livello della pressione sanguigna, e quella sensazione scomparve. Un altro umanoide afferrò Anya per i capelli e la fece alzare in piedi. Riuscii a liberarmi dalla stretta dei due individui al mio fianco e sferrai un calcio da karateka contro quel demonio coperto di squame, subito sotto il mento aguzzo. La sua testa si piegò all’indietro con tanta violenza che potei udire un rumore di vertebre rotte. Il rettile cadde all’indietro e rimase disteso a terra, immobile.

Mi voltai per affrontare gli altri, le mani ancora strettamente assicurate dietro la schiena. Anya era in piedi, pallida e scura in volto, con Giunone tremante ai suoi piedi.

Uno degli umanoidi si chinò sul corpo del compagno e lo esaminò sommariamente. Quindi si voltò a guardarmi. Non avevo modo di leggere cosa gli passasse per la mente dietro quel volto privo d’espressione. I suoi occhi rossi mi fissarono per un lungo momento, quindi il rettile si rimise in piedi e indicò in direzione del lago.

C’incamminammo. Due rettili si portarono in testa davanti a noi, gli altri tre ci seguirono da dietro. Nessuno di loro osò più toccare uno di noi.

— Come comunicano fra loro? — Anya domandò a voce alta.

— Mediante qualche forma di telepatia, ovviamente — risposi. — Pensi che riescano a capire quel che diciamo?

Anya cercò di scrollare le spalle nonostante i legacci. — Non sono nemmeno certa che possano udire. Non credo che i loro sensi funzionino secondo gli stessi parametri dei nostri.

— Rispetto a noi hanno una maggiore capacità visiva oltre la soglia dell’infrarosso — ricordai da quel poco che avevo notato all’interno della fortezza neolitica di Set.

— Alcuni rettili non dispongono nemmeno di un apparato uditivo.

Mi voltai leggermente a guardare i tre che avanzavano dietro di noi. — Ho l’impressione che ci comprendano con sufficiente chiarezza. Sembra che abbiano afferrato pienamente l’idea che li avrei combattuti se ti avessero fatto del male.

— L’hai dimostrato abbastanza chiaramente!

— Sì, lo so, ma la cosa più importante è che hanno compreso che non li avrei combattuti se ti avessero lasciata in pace.

Avanzammo in silenzio per un po’. Quindi domandai: — Cos’è accaduto nella gola, dopo che mi hanno attaccato?

— Gran parte dei dinosauri ancora in vita sono riusciti a fuggire — disse Anya, contorcendo le labbra in un sorriso agrodolce. — Gli umanoidi sono stati costretti ad abbandonare il loro controllo sui tirannosauri per occuparsi di te…

Sentii il mio volto avvampare di vergogna. — Mentre io ero facile preda per loro, concentrato com’ero a controllare il mio.

— Ma tutti gli altri hanno smesso di attaccare nello stesso istante in cui sono stati lasciati soli con i propri istinti.

Pensai all’eccitazione che avevo provato durante il controllo del tirannosauro. Non si era trattato del semplice controllo della bestia da qualche luogo remoto; ero stato il tirannosauro, potente, terribile, inebriato della mia stessa forza e della brama di sangue. La seduzione dei sensi era stata irresistibile. Se mai avessi dovuto riprendere il controllo di un simile mostro, avrei dovuto prestare più attenzione: era troppo facile tramutarsi in esso e dimenticare tutto il resto.

Gli umanoidi ci guidarono lungo lo stesso percorso dell’andata fino al calar della notte, quando il mondo fu immerso nell’oscurità. Nuvole scure si erano radunate per tutto il pomeriggio e la sera; le stelle erano nascoste alla vista. Il vento soffiava gelido, e in esso fiutai l’incombere della pioggia.

Ci arrestammo nei pressi di un rilievo fra due stagni poco profondi. I rettili ci aiutarono a sedere ma non allentarono minimamente i nostri legami. Poi si disposero a semicerchio intorno a noi. Giunone, che per tutto il giorno aveva continuato a masticare tutte le foglie che le fossero capitate a tiro, si acciambellò fra me e Anya e cadde immediatamente in un sonno profondo.

— Abbiamo fame — dissi agli umanoidi che sedevano inespressivi al nostro fianco.

— E freddo — disse Anya.

Nessuno di essi ebbe la benché minima reazione. Loro non avevano fame, questo era evidente. Non potevamo sapere per quanto tempo fossero in grado di resistere senza mangiare. O non avevano mai notato che noi mammiferi dobbiamo mangiare con maggior frequenza o, più probabilmente, non se ne curavano affatto. Oppure, con probabilità ancora maggiore, avevano capito che la fame ci rendeva deboli, riducendo le probabilità di una nostra eventuale fuga.

Smise di piovere subito prima dell’alba. Ci rimettemmo in cammino con difficoltà attraverso il terreno coperto di fango, scivolando e cadendo di continuo senza poterci aiutare con le mani che avevamo ancora legate dietro la schiena. Ogni volta i rettili ci aiutavano a rimetterci in piedi. Due di loro rimasero indietro, pronti ad aiutare Anya, mentre gli altri tre procedevano al mio fianco.

La pioggia scese a intermittenza per tutta la durata del nostro cammino verso il castello. Giungemmo finalmente a destinazione sotto i caldi raggi del sole pomeridiano. Le mura massicce della fortezza e le sue torri slanciate brillavano dei colori dell’arcobaleno sotto i suoi raggi. Alta nel cielo, così luminosa da essere perfettamente visibile anche alla luce del sole, la stella brillava rossa sopra di noi.

21

Ci guidarono su per la stretta rampa di scale verso l’unica porta che si apriva fra le alte mura del castello. L’ingresso era ampio appena quel poco che bastava a permettere a due di quei rettili di varcarlo fianco a fianco, ma era alto almeno sette metri. Spuntoni aguzzi sporgevano dai lati del portale e sulla sua volta ad arco, simili a denti di metallo scintillante.

Nell’immergerci fra le ombre del castello avvertii il ronzio vibrante di potenti macchinari. L’aria fra le mura della fortezza era ancora più calda di quella umida fuori di esse: un calore intenso che mi avvolse come una marea soffocante, stimolando la traspirazione di tutti i pori sulla mia pelle, prosciugandomi del tutto le forze.

Il quintetto dei nostri catturatori ci affidò alle attenzioni di altri quattro rettili decisamente più grossi ma del tutto identici a loro. Erano così simili l’uno all’altro da dare l’impressione di essere stati clonati da una stessa cellula originaria.

I nuovi guardiani ci liberarono dai legacci, e per la prima volta da giorni interi fummo nuovamente in grado di muovere le braccia e le dita in preda ai crampi. Un normale essere umano avrebbe potuto uscirne paralizzato, con le braccia atrofizzate e le mani incancrenite per la mancanza di flusso sanguigno. Io ero riuscito a spingere il sangue oltre il punto in cui le funi si serravano strette contro le mie carni, dirigendole verso le arterie più profonde, e Anya aveva fatto lo stesso. Ma anche così, passò molto tempo prima che i segni dei legami scomparissero dalle nostre carni.

La prima cosa che Anya fece dopo aver flesso le dita insensibili fu carezzare la testa di Giunone, che sibilò di piacere per l’attenzione. Fui sul punto di provare un pizzico di gelosia.

Ci rinchiusero in una cella grande come un dormitorio, tutti e tre. Era completamente spoglia, senza un solo filo di paglia a coprire il duro terreno. L’intero castello sembrava costruito di materiale plastico, lo stesso di cui era composta la fortezza di Set nel Neolitico.

Le pareti sembravano perfettamente lisce, ma ugualmente un pannello scivolò su se stesso e da esso uscì un vassoio colmo di cibo: carne allo spiedo fumante, verdura cotta, un paio di bottiglie d’acqua e persino un mucchietto di foglie per Giunone.

Mangiammo avidamente, anche se non riuscivo a togliermi dalla mente l’idea che stessimo consumando l’ultimo pasto concesso al condannato.

— Cosa facciamo adesso? — chiesi ad Anya, pulendomi il mento col dorso della mano.

Anya si guardò intorno. — Senti anche tu queste vibrazioni d’energia?

Annuii. — Set deve rifornire d’energia l’intero apparato mediante il pozzo nucleare.

— Dobbiamo trovarlo — disse Anya. — E distruggerlo.

— Più facile a dirsi che a farsi.

Mi guardò coi suoi occhi grigi e solenni. — Dobbiamo riuscirci, Orion. L’esistenza del genere umano e l’intero continuum dipendono da ciò.

— Allora il primo passo da fare — dissi, tirando un sospiro di rassegnazione — è uscire da questa cella. Qualche suggerimento?

Come in risposta alla mia domanda la porta di metallo si aprì, e dietro di essa apparvero altre due guardie. O forse erano due dei quattro che ci avevano condotti in cella, non c’era modo di capirlo.

Ci pungolarono con le loro dita artigliate esortandoci a uscire nel corridoio, mentre Giunone ci seguiva a balzi, circospetta.

Il corridoio era caldo e immerso nell’oscurità: le lampade alte sopra di noi irradiavano una luce rossastra così intensa da farmi concludere che gran parte della loro luce doveva essere infrarossa, quindi invisibile ai miei occhi ma apparentemente chiara e brillante per quei rettili. Chiusi gli occhi e cercai di mettermi in contatto con la mente di Giunone. E, in effetti, dal punto di vista del becco-d’anatra, il corridoio era perfettamente illuminato e la temperatura confortevole.

Il corridoio piegò verso il basso, lentamente ma risolutamente. Mentre avanzavo osservando la scena attraverso gli occhi di Giunone, mi resi conto che le pareti non erano affatto spoglie. Erano decorate da vivaci mosaici raffiguranti scene in cui aggraziati rettili umanoidi erano ritratti in splendidi parchi e radure, in giardini coltivati con armonia, in riva al mare o sulla cima di qualche montagna.

Analizzai quelle opere d’arte. In ogni scena non era presente più di un umanoide, sebbene su molte di esse si scorgessero altri rettili, per lo più quadrupedi. Nessuno fra gli umanoidi indossava un qualunque tipo di abito né reggeva mai nulla dall’apparenza di un’arma o uno strumento. Nemmeno una cintura o una tasca di qualsiasi sorta.

Poi, con un brivido che mi percorse la schiena, notai che in ogni immagine era raffigurato un sole rosso brillante, così grande da nascondere alla vista un buon quarto del cielo. In alcune scene appariva addirittura un secondo sole, giallo, minuscolo e lontano.

Erano scene di un mondo che non era la Terra. La stella rossa in esse rappresentata era la scura stella cremisi che avevo osservato una notte dopo l’altra, quella sinistra stella rosso-sangue così luminosa da poter essere scorta persino alla luce del giorno, che brillava sulla verticale del castello anche in quello stesso momento.

Feci per rivelare ad Anya ciò che avevo scoperto, ma i nostri guardiani si arrestarono di fronte a una porta di legno intagliato così ampia che una dozzina di uomini avrebbero potuto attraversarne la soglia l’uno di fianco all’altro. Mi sporsi per toccarla. Sembrava di legno scuro, simile a ebano, ma al tatto aveva la consistenza della plastica. Ed era fredda, un fenomeno piuttosto singolare in un ambiente tanto surriscaldato.

La porta si divise e si aprì in silenzio. Anya e io attraversammo la soglia senza attendere che ci incalzassero a farlo e ci ritrovammo in una camera immensa dalla volta estremamente alta sopra le nostre teste. Giunone ci seguì trotterellando.

Tornato in possesso dei miei sensi, riuscii a distinguere appena il soffitto arcuato della stanza. La luce era fioca, l’aria oppressivamente calda, come di fronte a un forno aperto in un pomeriggio di mezz’estate.

Set era disteso su un divano privo di schienale, posto su una piattaforma sollevata dal pavimento. Questa volta non c’erano statue raffiguranti la sua persona, né schiavi umani ad adorarlo. Alcune file di torce erano allineate sui lati del trono; le loro fiamme erano avvolte dall’oscurità, come se diffondessero la tenebra piuttosto che la luce.

Avanzammo lentamente verso il trono nero come la notte e la figura demoniaca che vi sedeva sopra. Il volto di Anya era scuro, le labbra serrate in una sottile linea esangue. I segni delle corde che l’avevano legata erano purpurei per la rabbia in contrasto con la sua pelle d’alabastro.

Di nuovo percepii furore e odio implacabile riversarsi da Set come lava fusa dalla bocca di un vulcano. E di nuovo in risposta a essi sentii la furia e l’odio impadronirsi del mio animo, bruciare dentro di me, crescere a mano a mano che ci avvicinavamo al suo trono. Lassù sedeva il demonio incarnato, l’eterno nemico, e il mio unico scopo era quello di spodestarlo e finirlo con le mie mani.

Di nuovo sentii Set prendere il controllo del mio corpo, obbligarmi ad arrestarmi a pochi passi dal suo scanno, paralizzare i miei arti in modo che non potessi saltargli addosso per strappargli il cuore dal petto.

Anya era al mio fianco, rigida quanto me. Anche lei sembrava subire l’abbraccio mentale di Set, e lottava per liberarsene. Forse, se avessimo unito le nostre forze, avremmo potuto sopraffare i suoi poteri demoniaci. Se solo avessi potuto farlo distrarre in qualche modo… Anche un semplice istante poteva essere sufficiente.

— Siete più intraprendenti di quanto non pensassi — la sua voce ribollì nella mia mente.

— E meglio informati — risposi, con astio.

I suoi occhi rossi e simili a fessure brillarono verso di me. — Meglio informati? E come?

— So che non sei nativo della Terra. Vieni dal mondo orbitante intorno alla stella rossa; il mondo che Kraal chiamava il Punitore.

Il mento appuntito del rettile si abbassò di qualche centimetro verso il suo petto coperto di scaglie. Poteva essere un cenno d’assenso, ma anche solo un movimento compiuto inconsciamente mentre ponderava sulle mie parole.

— La stella si chiama Sheol — rispose, mentalmente. — E il mio mondo d’origine è il suo unico pianeta, Shaydan.

— Nel tempo dal quale provengo — dissi — c’è un unico sole visibile nel cielo, e la tua stella non esiste.

Questa volta Set annuì con decisione. — Lo so, mio scimmiesco avversario. Ma il tuo tempo d’origine, il tuo intero continuum, presto verranno distrutti. Tu e la tua razza sparirete nel nulla. E così Sheol e Shaydan saranno salvi.

Fu Anya a ribattere. — Sono già andati distrutti. Ciò che speri di ottenere va ben oltre le tue possibilità. Sei già stato sconfitto, ma non lo vuoi ancora ammettere.

La bocca priva di labbra di Set si tese all’indietro per scoprirne i denti aguzzi. — Non tentare i tuoi trucchi su di me, Creatrice. So bene che il continuum non si snoda in maniera lineare. Esiste un punto critico in questo punto preciso dello spaziotempo. Sono qui per spazzare via dalla faccia della Terra voi e la vostra razza.

— Rettili al posto degli esseri umani? — lo provocai. — Non è possibile.

La sua aria divertita si inasprì. — Sei certo della tua superiorità, vero? Ciarlone di un mammifero, il continuum nel quale la tua razza regna su questo pianeta è così debole che i tuoi Creatori sono costretti a combattere strenuamente per preservarlo. I mammiferi non sono sufficientemente forti per dominare lo spaziotempo molto a lungo, e presto verranno spazzati via da una razza di creature veramente superiori.

— La tua? — Cercai di pronunciare quelle parole in tono di scherno, ma vi riuscii solo in parte.

— La mia, sì — rispose Set. — Dissennati mammiferi che andate in giro rumoreggiando e parlottando a vanvera per tutto il tempo, il sangue caldo è la vostra condanna. Siete costretti a mangiare così tanto cibo da sterminare le bestie e isterilire i campi che vi nutrono. Vi riproducete con tale furia da infestare il mondo di vostri simili, rovinando non solo la terra ma anche i mari e l’aria stessa che respirate. Siete dei parassiti, e il mondo starà meglio dopo la vostra scomparsa.

— E voi sareste migliori?

— Noi non siamo costretti a riscaldare il nostro sangue. Non dobbiamo condannare all’estinzione intere specie animali per soddisfare i nostri stomachi. Non ci riproduciamo oltre misura. E non emettiamo tutti quei rumori che voi chiamate comunicazione intelligente! Per questo siamo migliori, più forti e più atti a sopravvivere di voi, ciarlone scimmie malcresciute. Per questo noi sopravvivremo al posto vostro.

— Sopravvivrete uccidendo tutti i dinosauri e piantando qui il vostro stesso seme? — domandai.

Percepii un’ondata di divertimento nella sua mente. — E così — rispose — la scimmia nuda non è poi così ben informata quanto suppone, dopotutto.

Avvertendo il mio stato di confusione, Set proseguì: — Io posso disporre dei dinosauri a mio piacimento. Li ho creati io. Io ho portato il mio… seme su questo pianeta circa duecento milioni di anni orsono, quando la Terra era popolata soltanto da alcuni rospi e da qualche salamandra appena emersi dal mare.

La voce di Set aumentò di tono nella mia mente, assumendo un’incisività quale non avevo mai conosciuto. — Io ho ripulito questo miserabile pianeta per fare spazio alle mie creature, l’unica specie animale in grado di sopravvivere su quella terra così arida. Ho spazzato via migliaia di specie per preparare questo mondo alla mia venuta.

— Tu hai creato i dinosauri? — udii stridere debolmente una vocetta sbigottita. La mia.

— Sono la conseguenza del lavoro svolto da me su questo pianeta duecento milioni di anni prima di quest’epoca. Il frutto del mio genio.

— Ma ti sei spinto troppo in là — disse Anya. — I dinosauri si sono rivelati troppo resistenti.

Set fece scivolare lo sguardo su di lei. — Sono stati un’ottima premessa. Ma adesso è giunto il tempo della loro estinzione. Questo pianeta dev’essere preparato all’avvento della mia vera e propria discendenza.

— Gli umanoidi — dissi io.

— I figli di Shaydan. Ho preparato questo mondo per loro.

— Assassino — gridò Anya. — Distruttore! Pasticcione!

Potei percepire la compassione che Set provava per lei. E un freddo divertimento in risposta alle sue parole. — Io uccido per preparare l’avvento della mia stessa razza. Distruggo la vita su scala planetaria per fare posto alla vita della mia genìa. E non ho mai commesso alcun pasticcio.

— E invece sì — lo accusò Anya. — Duecento milioni di anni fa. E adesso sei costretto a distruggere le tue stesse creature perché si sono rivelate troppo efficienti. E di nuovo commetterai un errore fra sessantacinque milioni di anni, perché il genere umano insorgerà contro di te e la tua razza. Diventerai per loro il simbolo del male implacabile. Ti combatteranno per l’eternità.

— Cesseranno di esistere — rispose calmo Set — non appena la mia opera sarà completata. E voi cesserete di esistere molto prima di allora.

Durante l’intera conversazione, nel corso della quale io e Anya pronunciavamo parole e Set rispondeva per mezzo di silenziose proiezioni mentali, cercai di forzare il suo controllo sul mio corpo, e sapevo che Anya aveva fatto lo stesso. Ma per quanto intensamente provassimo, non riuscimmo mai a muovere un solo dito. Persino Giunone, rannicchiata ai piedi di Anya, sembrava paralizzata.

— Non riuscirai mai a spazzare via i dinosauri dalla faccia della terra — dissi. — Abbiamo sventato il tuo tentativo di sterminio dei becchi-d’anatra, e…

Set emise un sibilo contro di me. Lo percepii come una specie di risata. — E cosa pensi di aver ottenuto, scimmia malcresciuta? Hai aiutato qualche centinaio di dinosauri a scampare alla morte che avevo preparato per loro, ma ugualmente incontreranno il loro destino; forse la settimana prossima, forse fra diecimila anni. Posso disporre di tutto il tempo di cui ho bisogno, ciarlona d’una scimmia. Io ho creato i dinosauri e io li distruggerò a mio piacimento.

Detto ciò rivolse un cenno verso Giunone. Il nostro piccolo becco-d’anatra sembrava riluttante ad avvicinarsi a lui eppure impossibilitato a resistere. A malincuore, come tirata da un guinzaglio invisibile, Giunone si portò ai piedi del palco e ne salì i tre grossi scalini, fermandosi di fronte ai piedi artigliati di Set.

— Non farlo! — Anya gridò, in un accesso d’ira.

Sforzai ogni atomo del mio corpo per cercare di liberarmi dalle catene mentali di Set. Nella mia lotta vidi con occhi colmi di orrore Set sollevare la piccola Giunone come un giocattolo privo di peso. Il piccolo becco-d’anatra si dimenava furiosamente, in preda al terrore, ma non poteva sfuggire alla stretta di Set più di quanto io potessi liberarmi dalla sua morsa mentale.

— Non farlo! — Anya urlò di nuovo.

Set sollevò Giunone verso le fauci e affondò le zanne nella morbida gola indifesa dello sventurato cucciolo di dinosauro. Il sangue uscì a fiotti. Giunone emise un solo grido acuto e straziante, che si concluse in un gorgoglio di sangue. I suoi occhi gialli si chiusero lentamente, le sue tozze zampette si rilassarono prive di vita.

Percepii la tronfia e vanagloriosa sensazione di compiacimento di Set. Lasciò cadere ai suoi piedi il corpo della piccola Giunone, ancora in preda alle contrazioni, e rise mentalmente della disperazione di Anya.

Abbassò la guardia soltanto per un momento, ma fu un periodo sufficiente a permettermi di liberarmi dalla sua morsa. Mi scagliai verso il piedistallo, le dita protese verso la gola coperta di scaglie di Set.

Il rettile mi colpì col dorso della mano con la stessa facilità con cui avrebbe potuto schiacciare una mosca. Venni scaraventato di lato e caddi dalla piattaforma, atterrando sulla schiena, stordito e quasi in stato d’incoscienza.

22

Attraverso una vaga nebbia purpurea vidi Set seduto sul trono, che sembrava non essersi neanche mosso per respingere il mio attacco.

— Pensi che ti abbia paralizzato per timore di un attacco da parte tua? — La sua voce beffarda giunse chiara nella mia mente confusa. — Povera scimmia innocua, potrei schiacciarti le ossa senza la minima fatica. Impara a temermi, poiché sono molto più potente di te!

Allontanando il dolore, pompando una maggiore quantità di sangue nella testa in modo da mettere fine al mio stordimento, mi misi a sedere, quindi mi alzai lentamente in piedi.

— Non sei ancora convinto?

Anya era ancora immobile nella sua stretta, ma l’espressione dipinta sul suo volto era terribile: un misto di ripugnanza e indicibile terrore. Il corpo senza vita di Giunone giaceva immobile ai piedi della piattaforma, in una pozza di sangue.

Io ero in grado di muovermi. Feci un passo verso il trono e il mostro che vi sedeva.

Set si alzò in tutta la sua statura e scese sul pavimento. Torreggiava su me, più alto e molto più robusto, le scaglie rosse scintillanti sotto la luce delle torce, gli occhi infiammati di uno sprezzo divertito sotto il quale si celava un odio immenso.

I miei sensi tornarono a funzionare a ipervelocità, e tutto intorno a me sembrò rallentare. Vidi le vene pulsare sul cranio di Set, le membrane oculari scendere e sollevarsi sulle sue pupille. Vidi i muscoli delle braccia e delle gambe di Anya tendersi nel tentativo di liberarsi dal controllo mentale di Set. Invano.

Mi abbassai in posizione difensiva, le mani alzate a coprirmi il volto, indietreggiando. Il rettile avanzò verso di me con sicurezza estrema, le braccia distese lungo i fianchi; gli artigli dei piedi producevano sul pavimento un picchiettio simile a quello di un metronomo.

Mi avventai contro le sue ginocchia. Atterralo, pensavo, e ne annullerai il vantaggio della statura. Ma per quanto fossi veloce, i suoi riflessi lo erano molto più dei miei. Mi sferrò un calcio nelle costole, tanto potente da farmi volare in aria. Atterrai con un colpo estremamente violento. Sebbene con sforzo, riuscii a rimettermi in piedi. Set avanzò nuovamente verso di me, con una risata sibilante.

Fintai col sinistro, quindi affondai il pugno destro verso l’inguine del rettile con tutta la forza che riuscii a concentrare. Set parò il colpo con una mano e mi afferrò la gola con l’altra. Sollevandomi da terra, portò la mia testa alla stessa altezza della sua. Eravamo l’uno di fronte all’altro, ma i miei piedi penzolavano a più di un metro da terra, il fiato sempre più corto nei miei polmoni.

Il volto di Set era direttamente davanti al mio, così vicino che potevo sentire il suo caldo respiro pesante sibilare da quella bocca ricolma di zanne appuntite, mentre il sangue di Giunone cominciava a rapprendersi sul suo mento aguzzo. Mi stava strozzando, e con suo enorme piacere.

Con tutte le forze che mi erano rimaste in corpo gli conficcai entrambi i pollici negli occhi. Con la mano libera il mio avversario riuscì a bloccarmi la mano destra, ma la sinistra raggiunse il suo obiettivo. Set lanciò un grido straziante per quell’inatteso dolore, scaraventandomi contro la parete come un bambino furente avrebbe gettato via un giocattolo che non lo divertiva più.

Perdetti i sensi. L’ultima cosa che riuscii a percepire fu un brivido di soddisfazione per aver causato del male al mio nemico. Una magra consolazione, ma pur sempre meglio che niente.

Non avevo modo di sapere per quanto tempo ero rimasto inconscio. Mi risvegliai disteso sul pavimento nella sala del trono di Set. Avvertii la sensazione di essere sollevato e trasportato di peso, ma non riuscii a vedere o sentire nulla. Infine fui gettato di peso a terra e lasciato solo.

Udii un suono in lontananza. Una voce fioca. Era così distante e confusa da convincermi che non avesse nulla a che fare con me.

Eppure continuava a chiamare, ripetutamente, con la costanza delle onde che s’infrangono su una spiaggia, insistente come un faro che ripete la propria luce all’infinito.

In qualche modo quel suono sembrava familiare. “Perché si ripete di continuo”, suggerì come in sogno una parte della mia mente. “Ascoltando un suono per lungo tempo si finisce con l’abituarvisi. Non curartene. Riposa. Ignora quel suono e alla fine svanirà.”

Invece non dava cenno di volersi allontanare. Al contrario, si faceva sempre più forte, sempre più distinto.

— Orion — chiamava.

— Orion.

Non saprei dire quante volte lo udii prima di ricordare che quello era il mio nome, realizzando che quella voce stava chiamando proprio me.

— Orion.

Ero ancora stordito, questo era certo. Eppure la mia mente era vigile e attenta nonostante l’insensibilità del mio corpo inanimato.

— Chi sei? — chiese la mia mente.

— Ci siamo già incontrati — rispose la voce. — Mi hai conosciuto col nome di Zeus.

Ricordai. Un altro tempo, un’altra vita. Era uno dei Creatori, come Anya, come il Radioso che gli antichi Greci chiamavano Apollo.

Zeus. Mi ricordavo di lui fra tutti i Creatori. Come per tutti loro, il suo aspetto fisico era perfetto, divino. Una costituzione perfetta, pelle perfetta, occhi scuri e severi e capelli ancora più scuri. Aveva una barba ben curata e leggermente striata di grigio. Mi resi conto che quella era solo un’illusione, un’immagine prodotta appositamente per me. Sapevo che, se avessi visto Zeus nella sua vera forma, mi sarebbe apparso come una sfera d’energia luminosa, simile ad Anya e agli altri Creatori.

Non ricordavo Zeus come capo dei Creatori. Non avevano un vero e proprio capo, né esisteva fra loro alcuna delle relazioni che guidano i rapporti fra i mortali. Eppure, ai miei occhi sembrava più saggio, più solenne e più ponderato di tutti i suoi simili nelle sue decisioni. Dove gli altri sembravano essere facile preda delle proprie passioni personali, lui sembrava preoccuparsi costantemente di mantenere sotto controllo qualsiasi evento, di proteggere il flusso del continuum, di prevenire disastri che avrebbero potuto spazzare l’intero genere umano dalla faccia della Terra, compresi gli stessi Creatori. Fra tutti loro, soltanto lui e Anya erano riusciti a guadagnarsi tutta la mia lealtà.

— Orion, riesci a sentirmi?

— Sì.

— Set è riuscito a schermarvi da noi con estrema efficienza. Non possiamo raggiungervi.

— Ci tiene prigionieri…

— Lo so. So tutto ciò che avete fatto.

— Abbiamo bisogno d’aiuto.

Silenzio.

— Abbiamo bisogno d’aiuto — ripetei.

— Non possiamo aiutarvi in nessun modo, Orion. Persino questo fugace contatto che abbiamo preso con te consuma molta più energia di quanto possiamo permetterci.

— Set la ucciderà.

— Non possiamo farci niente. Potremo dirci già fortunati se riusciremo a salvare le nostre vite.

Compresi subito quel che intendeva. Io ero sacrificabile; non c’era alcun motivo per cui dovessero rischiare la vita per salvare una delle loro creature. Anya era una perdita incresciosa. Ma se l’era cercata, perché aveva voluto assumere forma umana per associarsi con una semplice creatura. Le era rimasto addosso qualcosa di umano, scegliendo di rischiare la propria vita invece di lasciare che creature come Orion si assumessero i rischi per affrontare i quali erano state create.

Gli altri Creatori, compreso il cosiddetto Zeus, erano già pronti a fuggire. Nelle loro forme effettive avrebbero potuto disperdersi nell’universo e vivere dell’energia irradiata dalle stelle per innumerevoli eoni.

— Già — ammise Zeus con riluttanza — è la nostra ultima possibilità.

— La lascerete morire? — Sapevo che la mia vita non contava granché ai loro occhi. Ma Anya era una di loro. Non conoscevano dunque la lealtà? O il coraggio?

— Tu ragioni in termini umani, Orion. La sopravvivenza è il nostro unico scopo; il tuo è il sacrificio. Anya è molto astuta; probabilmente sarà in grado di sorprendere sia te sia lo stesso Set.

Sentii il contatto fra noi farsi sempre più debole. La sua voce s’affievoliva ogni momento di più.

— Se veramente potessi fare qualcosa per aiutarti, Orion, lo farei con tutto il cuore.

— Ma non a rischio della tua vita — risposi.

Quell’idea lo sorprese, come riuscii a percepire. Mettere a repentaglio l’esistenza di un Creatore per la salvezza di una delle sue creature? Agire di modo che tutti i suoi simili dovessero rischiare la propria sopravvivenza a causa di un suo capriccio? Questo mai.

Non che fossero codardi. Quegli esseri quasi divini erano al di sopra di una tale qualità. Erano estremamente realistici. Se non fossero riusciti a sconfiggere Set, avrebbero dovuto fuggire di fronte alla sua furia. Cosa importava loro se l’intero genere umano sarebbe stato spazzato per sempre da quel continuum?

— Orion — chiamò la voce di Zeus, ancora più debole di prima. — Dobbiamo occuparci di forze che vanno al di là della tua comprensione. Universi su universi. Dobbiamo affrontare la crisi definitiva là fuori, fra le stelle e le nuvole di plasma che attraversano la galassia. Forse l’umanità ha già giocato la sua parte evolvendosi fino a noi, e ora non ha più un ruolo da svolgere.

— Set potrebbe prendere il controllo di una tale quantità di continuum da scovare ognuno di voi, per lontano che possiate nascondervi. Abbandonate la razza umana e darete a Set il potere necessario a cercarvi per tutto lo spaziotempo e distruggervi — risposi mentalmente, in preda all’ira.

— No — ribatté Zeus, con voce così fioca da giungermi come un debole sospiro soffocato. — Non è possibile. Non…

Ma nella sua voce che svaniva gradatamente nel nulla colsi un cenno di dubbio. Dubbio e timore.

Aprii gli occhi. Ero in una piccola cella spoglia, non più grande di una bara, ripiegato malamente su me stesso come un sacco. Avevo la testa sulle ginocchia e le braccia sui fianchi, premuto da un lato contro la fredda parete della cella e dall’altro contro la porta.

La poca luce in quell’ambiente proveniva da una debole fluorescenza rossastra che emanava dalle pareti. L’unico suono che riuscissi a udire era quello del mio respiro.

Solo. I Creatori erano pronti ad abbandonare me e Anya alla distruzione finale. Pronti ad abbandonare l’intero genere umano e a fuggire nelle profondità dello spazio interstellare.

E io non potevo farci nulla.

Fui sul punto di mettermi a piangere, raggomitolato in quel cubicolo claustrofobico. Orion il potente cacciatore, creato dagli dèi per scovare e distruggere i loro nemici, difensore del continuum. Che ridere! Scoppiai in una sonora risata. Orion, strumento dei Creatori, rinchiuso da solo in una prigione del castello appartenente al nemico supremo, mentre colei che ama con tutta probabilità viene torturata a morte sotto gli occhi divertiti del demonio.

La cella era tanto angusta da non permettermi quasi di muovermi. In qualche modo riuscii comunque ad alzarmi in piedi. O quasi. Il soffitto del cubicolo era troppo basso perché riuscissi a restarvi eretto. Dovetti piegare la testa, premendo le spalle, le braccia, la schiena e le gambe contro la superficie della cella. Le pareti e la porta erano scivolose, composte di un materiale simile a plastica. Il contatto con esse mi fece rabbrividire.

Feci pressione con tutte le forze contro la porta, ma da essa non si levò nemmeno uno scricchiolio. Spinsi ancora più forte, ma non notai alcun segno di cedimento.

Sconfitto, esausto, mi lasciai scivolare sul pavimento con le ginocchia premute contro il viso, i muscoli indolenziti per lo sforzo.

Una voce beffarda si fece strada nella mia mente. — Sei stato creato per agire, Orion, non per pensare. Lascia che sia io a pensare per te; tu limitati a seguire i miei ordini.

La voce del Radioso, il dio che diceva di avermi creato.

— L’intelligenza che ho instillato dentro di te è adeguata soltanto per la caccia — lo udii schernire. — Non illuderti di poter fare di più.

Quelle insinuazioni cariche di disprezzo mi avevano reso furente. Ero andato contro di lui, lo avevo sfidato e alla fine l’avevo portato a uno stato di follia maniacale. Gli altri Creatori erano stati costretti a proteggerlo contro la mia rabbia e il suo stesso delirio isterico.

Posso sempre pensare, dissi fra me e me. Se non sono in grado di usare la forza fisica, allora tutto ciò che resta è il potere della mia mente.

— Set usa come arma la disperazione — ricordai le parole di Anya.

Aveva tentato di controllarmi, di manipolare le mie emozioni. Aveva tentato ma aveva fallito. Cos’aveva in serbo per me, adesso; perché aveva deciso di rinchiudermi in una cella tanto scomoda?

Veniva da un altro mondo, dal pianeta in orbita intorno a Sheol, la stella gemella del sole. Perché era sceso sulla Terra? Qual era la sua epoca d’origine? Da cosa derivava il suo odio nei confronti della razza umana?

Diceva di aver creato i dinosauri duecento milioni di anni prima. E che stava procedendo alla loro estinzione per far posto alla sua razza sulla Terra.

Un lampo saettò nel mio sangue mentre riportavo alla mente le parole di Set che risuonavano in tutto il loro tono derisorio: Vi riproducete con tale furia da infestare il mondo di vostri simili, rovinando non solo la terra ma anche i mari e l’aria stessa che respirate. Siete dei parassiti, e il mondo starà meglio dopo la vostra scomparsa.

E ancora: Noi non ci riproduciamo oltre misura.

E allora, perché era venuto sulla Terra? Perché non era rimasto su Shaydan, il mondo in cui la sua razza poteva vivere in armonia con il proprio ambiente? Avevo rimirato le scene idilliache di quel mondo raffigurate nei mosaici delle pareti del castello. Perché abbandonare un’esistenza così felice per far posto alla genìa dei rettili sulla Terra?

Potevo immaginare tre eventualità.

La prima: Set mi aveva mentito, e i mosaici erano semplici idealizzazioni. Shaydan era sovrappopolata, e la gente di Set aveva bisogno di spazio vitale.

Oppure, Set era stato cacciato da Shaydan, esiliato dal suo pianeta natale per motivi che non potevo conoscere.

O ancora, il pianeta Shaydan era esposto alla minaccia di qualche catastrofe di tali proporzioni da rendere imperativo il trasferimento della sua popolazione su un pianeta più sicuro.

Poteva trattarsi di una combinazione fra queste tre eventualità, o di altre delle quali non avevo alcun indizio.

Come scoprirlo? Sondare la mente di Set era impossibile. Persino trovandomi in una stessa stanza con lui non ero stato in grado penetrare le sue formidabili difese mentali più di quanto non fossi in grado di sfondare le pareti dell’angusta prigione nella quale ero rinchiuso.

E Anya? Forse lei era in grado di farlo…

Nella penombra della cella serrai gli occhi e cercai col pensiero la mente di Anya. Non sapevo in che parte del castello si trovasse, o se si trovava ancora in quella fortezza. O se era ancora viva, pensai con un brivido.

Ma lo stesso mi misi mentalmente alla sua ricerca.

— Anya, amore mio. Puoi sentirmi?

Nessuna risposta.

Cercai di concentrarmi più a fondo. Raffigurai un’immagine del suo volto stupendo, le labbra così espressive, il naso dritto e sottile, i capelli scuri come il cielo di mezzanotte, i grandi occhi grigi e luminosi che mi guardavano con aria solenne, colmi di tanto amore quanto nessun mortale poteva mai sperare di ottenere.

— Anya, mia amata — gridai mentalmente. — Ascoltami. Rispondi alla mia chiamata.

Non riuscii a percepire nulla, nessun tipo di risposta.

Forse era già morta, pensai con orrore. Forse Set ne aveva straziato le carni con gli artigli, dilaniandole fra i suoi denti aguzzi e spietati.

Improvvisamente colsi il più debole degli sfavillii, una scintilla lontana contro l’oscurità della mia anima. Focalizzai ogni neurone della mia mente, ogni sinapsi del mio essere su di essa.

Era Anya, ne ero certo. Quell’infinitesimo guizzo argenteo mi guidava come una stella cardinale.

Provai quasi le stesse sensazioni che avevo avvertito quand’ero entrato nella mente semplice di Giunone. Ma adesso il mio pensiero era proiettato in una coscienza infinitamente più complessa. Era come cadere a spirale giù per uno scivolo interminabile, come uscire dall’oscurità del sottosuolo nell’accecante luce del sole, come entrare in un universo immensamente più vasto. Compresi ciò che Teseo doveva aver provato nel palazzo di Cnosso, cercando di guadagnarne l’uscita attraverso un labirinto inestricabile.

Anya non disse niente, non diede nemmeno alcuna indicazione di aver percepito il mio contatto con la sua mente. Pensai di comprenderne il motivo. Se avesse palesato tale contatto anche col più insignificante dei cenni, Set avrebbe subito capito che ero sveglio e attivo… se non altro, mentalmente. Per celare la mia presenza non doveva fornirmi alcun tipo di risposta.

Istantaneamente, senza dover usare le parole, riferii i dettagli del mio contatto con Zeus. Non ricevetti nessuna reazione. Anya cercava di schermare la propria mente da quella di Set con qualsiasi barriera difensiva le fosse possibile adottare. Dal modo in cui mi ignorava mi domandai se avesse effettivamente percepito la mia presenza.

Set era ancora disteso sul trono, gli occhi rivolti su Anya, contraendo involontariamente la coda dietro di sé. Il corpo della povera Giunone era stato portato via, e il pavimento non mostrava più traccia alcuna di macchie di sangue. Mi domandai per quanto tempo fossi rimasto in stato d’incoscienza. Forse pochi minuti. Forse giorni interi.

Anya non soffriva. Set non la stava torturando, né la minacciava. Parlavano l’uno con l’altra, quasi da pari. Persino i nemici più mortali si trovano talvolta nella necessità di discutere pacificamente.

— Allora siete disposti a lasciare questo pianeta per sempre? — udii la voce di Set risuonare nella mente di Anya.

— Se non abbiamo altra possibilità di scelta… — rispose Anya, anche lei senza parlare.

— Come posso essere certo che manterrete fede al nostro accordo? Che garanzie mi offrite?

— Quale accordo? — domandai, ma ancora dalla mente di Anya non giunse alcuna risposta. Era come se per lei non esistessi.

— Hai vinto. Il tuo potere è troppo grande per noi. Se ci permetterai di allontanarci senza darci la caccia, il pianeta Terra sarà tuo per l’eternità.

— Sì, ma come posso fidarmi? Come posso essere certo che, fra mille o mille milioni di anni non torniate per combattere i miei discendenti?

Anya scrollò mentalmente le spalle. — Per allora avreste distrutto la razza umana. Non avremmo più alcun mezzo per combattervi.

— Potreste sempre creare altri esseri umani, come avete fatto con l’uomo di nome Orion.

— No. Quello è stato un semplice esperimento, ed è fallito. Non è servito a nulla contro di te.

Quelle parole di Anya mi fecero infiammare per la vergogna. Aveva ragione, e mi seccava doverlo ammettere.

— Allora non avete intenzione di portarlo con voi quando lascerete la Terra?

— Come potrebbe venire con noi? — ribatté Anya. — Non è che un umano. Non può mutare forma. Non è in grado di sopravvivere nelle profondità dello spazio interstellare che diventeranno la nostra nuova dimora.

Venni colto da un fremito di orrore. Anya e gli altri Creatori erano pronti a fuggire dalla Terra, abbandonando il genere umano nelle mani di Set. L’intero genere umano. Anche me.

— Allora potrò tenere per me la creatura chiamata Orion? — Le parole di Set avevano un tono per metà di domanda e per metà di richiesta.

— Certo — Anya rispose con incuranza. — Non ha più alcun valore per noi.

Nelle profondità della mia cella sotterranea lanciai un grido, un selvaggio ululato di dolore di fronte alla tremenda agonia del tradimento.

Загрузка...