LIBRO TERZO Inferno

Fuggii, e chiamai Morte;

L’Inferno tremò di fronte all’odioso nome,

singhiozzando in ogni suo antro,

e in risposta esso echeggiò: Morte.

23

Non lasciai la mente di Anya. Ne venni espulso come un batterio da un organismo, scaraventato fuori di essa come un ospite indesiderato.

Per ore rimasi a urlare come una bestia legata in catene nella mia cella scura e angusta, senza potermi muovere. Ero rannicchiato in posizione fetale, urlando e gemendo contro quell’universo così gelidamente indifferente nei miei confronti. Tradito.

Abbandonato dall’unica persona in tutto il continuum che avessi mai amato, lasciato al mio destino con tanta noncuranza come la buccia di un frutto assaggiato e poi gettato via.

Anya e gli altri Creatori erano pronti a fuggire, pronti a riassumere le loro forme fisiche naturali: globi d’energia pura che avrebbero continuato a vivere fra le stelle per l’eternità. Erano pronti ad abbandonare la razza umana, le loro stesse creature, nelle mani di Set e della sua genìa, che le avrebbero spazzate via dalla faccia della Terra.

Cosa importava, ormai? Piansi amaramente, maledicendo la mia ingenuità nel pensare che una dea, un Creatore, potesse amare un uomo al punto di rischiare la vita per lui. Anya era stata coraggiosa e intraprendente finché era stata certa di poter fuggire ai nemici che doveva affrontare. Ma quando aveva capito che Set possedeva effettivamente il potere di mettere fine alla sua esistenza, aveva immediatamente messo fine a quel gioco.

Aveva scelto la vita per sé e per la sua gente, lasciandomi lì a morire.

Persi il senso del tempo. Dovevo aver dormito. Forse avevo anche mangiato. Ma nella mia mente non c’era spazio per altro che l’enormità del tradimento di Anya e la certezza della morte.

Che venga, dissi a me stesso. Sarà una liberazione. La fine, una volta per tutte. Ero pronto a morire. Non avevo più nulla per cui vivere.

Non ricordo come o quando, ma mi ritrovai nuovamente in piedi nella camera del trono, al cospetto di Set.

Battendo le palpebre nella fioca luce rossastra delle torce, mi resi conto di poter muovere braccia e gambe. Set non mi aveva immobilizzato attraverso il suo controllo mentale.

La sua enorme mole si profilava scura di fronte a me. — No, non sei costretto da nessun tipo di legame — le sue parole si formarono nella mia mente. — Non è più necessario, ormai. Sai bene che sono in grado di annientarti in qualsiasi momento.

— Lo so — risposi automaticamente.

— Per essere una scimmia dimostri una certa intelligenza — mi schernì la sua voce dentro di me. — Vedo che hai intuito il mio progetto di portare la mia gente su questo mondo e fare della Terra la nostra nuova dimora.

— Già — dissi, mentre la mia mente continuava a chiedersene il motivo.

— Molti fra i miei hanno deciso di accettare il loro destino su Shaydan. Sanno che Sheol è una stella instabile e che presto esploderà. Presto, cioè, in termini cosmici. Fra qualche milione di anni. Abbastanza presto, però.

— Ma tu non hai nessuna intenzione di accettare il tuo destino — replicai.

— No, davvero — rispose Set.

— Ho passato gran parte della mia vita a plasmare questo pianeta secondo i miei scopi, modellandone le forme di vita di modo da rendere l’ambiente più adeguato alla mia gente.

— Puoi viaggiare nel tempo come i Creatori.

— Molto meglio dei tuoi sciocchi Creatori, miserabile scimmia — rispose Set. — I loro ridicoli poteri si basano su quel poco d’energia che riescono a ottenere dal vostro sole giallo. Permettendo alla maggior parte di tale energia di disperdersi nello spazio! Che spreco. Che folle errore. Che errore fatale.

Emise un sibilo di piacere, quindi proseguì: — Anche la mia stessa gente ha sempre utilizzato l’energia oscillante della nostra stella morente. Io solo ho intuito quanta energia possa venire estratta dal cuore fuso di un pianeta delle dimensioni della Terra. Presa nella sua totalità, la quantità di energia complessiva di una stella è milioni di volte maggiore, naturalmente. Ma nessuno è in grado di utilizzarne l’emissione energetica totale; è possibile manipolare soltanto la minima frazione intercettata dal proprio pianeta.

— Ma un pozzo nucleare… — mormorai.

— Raggiungere il nucleo fuso di un pianeta fornisce molta più energia; un’energia estremamente concentrata, costante e abbastanza potente da permettere di superare in un balzo eoni interi, con la stessa facilità con cui tu potresti saltare una pozzanghera. Ecco perché ho potuto impadronirmi di questo pianeta, perché i tuoi Creatori sono costretti a salvarsi la vita disperdendosi tra le stelle più lontane.

Non dissi nulla. Non c’era nulla che potessi dire. L’unica domanda che si agitava nella mia mente riguardava quando Set avrebbe deciso di mettermi a morte.

— Non ho intenzione di ucciderti troppo presto — disse nella mia mente, leggendo i miei pensieri senza che fossi in grado di formularli in una domanda. — Rappresenti il segno della mia vittoria sui tuoi Creatori, il mio trofeo. Ho intenzione di esibirti per tutta Shaydan.

Portai lo sguardo sui suoi occhi rossi da serpente e capii quel che aveva in mente. Molti fra la sua gente non credevano di potersi salvare migrando sulla Terra. Set voleva mostrarmi a essi per provare che ormai era signore del pianeta, e che nessuno avrebbe più opposto resistenza al loro arrivo.

— Ma bene, scimmia pensante! Sei riuscito a intuire le mie intenzioni. Sarò il salvatore della mia razza! Conquistatore di un mondo intero e salvatore della mia gente! Questa la mia impresa e la mia gloria.

— Un’impresa davvero gloriosa — risposi. — Inferiore soltanto alla tua vanità.

— Stai riacquistando coraggio e sfrontatezza, adesso che sai che non ho intenzione di ucciderti subito. — Percepii furia nelle sue parole. — Ma stai ben certo che morirai, in un modo e in un momento che non solo mi compiaceranno, ma indurranno i miei simili a obbedirmi. Obbedirmi e adorarmi.

— Adorarti? — quelle parole mi scioccarono. — Come un dio?

— E perché no? I tuoi sconclusionati Creatori si sono lasciati venerare dalla loro progenie umana, non è così? E perché la mia razza non dovrebbe adorare me, che l’ho salvata dalla distruzione? Ho conquistato la Terra da solo. Da solo ho spalancato le porte alla salvezza di Shaydan.

— Uccidendo miliardi di creature terrestri.

Set scrollò le spalle possenti. — Io ho creato molte di esse, perciò posso fare di loro ciò che voglio.

— Ma non hai creato il genere umano!

Il rettile sibilò una risata. — No, questo è vero. Coloro che l’hanno creato stanno fuggendo verso gli angoli più remoti della galassia. La razza umana ha perso ogni ragione di vita, Orion. Perché si dovrebbe permettere loro di sopravvivere quando ormai hanno cessato di svolgere ogni funzione, così come i dinosauri, i trilobiti o gli ammoniti?

Allo stesso modo anch’io non sarei sopravvissuto alla cessazione della mia utilità, pensai. Quando avevo cessato di essere utile ai Creatori, essi mi avevano abbandonato. Quando avessi cessato di essere utile a Set, egli mi avrebbe ucciso.

— Ma prima di lasciarti morire, scimmia malcresciuta — continuò Set, con tono sarcastico — ti permetterò di dare sfogo alla tua curiosità e vedere il mondo di Shaydan. Sarà l’ultima soddisfazione della tua esistenza.

24

Set scese pesantemente dal trono e mi guidò lungo i corridoi immersi nella penombra, sempre più in basso. La luce era così intensamente rossa e fioca ai miei occhi da farmi temere di essere diventato cieco. Le pareti sembravano spoglie, ma sapevo che dovevano essere decorate da mosaici simili a quelli dei corridoi superiori. Semplicemente, non riuscivo a percepirli.

La figura massiccia di Set avanzava davanti a me, le squame di quella schiena muscolosa scintillanti nella luce di tenebra, dimenando la coda da una parte all’altra al tempo dei suoi passi. Il ticchettio dei suoi artigli sul pavimento fece affacciare alla mia mente l’immagine di un metronomo. Un metronomo che batteva gli ultimi istanti della mia vita.

Attraversammo laboratori e stanzoni ricolmi di strane apparecchiature. E continuammo a scendere, sempre più giù. Cercai di osservare gli interminabili corridoi attraverso gli occhi di Set, ma la sua mente era ermeticamente schermata, e per me non c’era modo di penetrarvi.

Ma riuscì a percepire il mio tentativo.

— Trovi che la luce sia troppo bassa? — domandò nella mia mente.

— Mi sembra di essere cieco — dissi, a voce alta.

— Non importa. Seguimi.

— Perché dobbiamo camminare? — domandai. — Possiedi l’abilità di compiere balzi immensi attraverso lo spaziotempo, eppure sei costretto a camminare da una parte all’altra del tuo castello. Non avete ascensori o piani scorrevoli?

— Noi di Shaydan non impieghiamo la tecnologia in ciò che possiamo fare anche senza il suo ausilio. A differenza della tua razza non proviamo tutto quel vostro fascino scimmiesco per i giocattoli. Ciò che riusciamo a compiere grazie al nostro corpo lo facciamo da soli. In questo modo siamo in grado di mantenere un perfetto equilibrio col nostro ambiente.

— E sprecare ore intere in termini di tempo e di energia — brontolai.

Percepii in lui un genuino divertimento. — Cosa sono poche ore per chi è in grado di viaggiare attraverso lo spaziotempo a proprio piacimento? Cosa importa spendere un po’ di energie, se si ha la sicurezza di poterle assimilare nuovamente attraverso il cibo?

Rammentai che erano passate parecchie ore dall’ultimo pasto che avevo consumato. Mi sentivo lo stomaco vuoto.

— Uno dei difetti di voi mammiferi — disse Set, avendo percepito il mio pensiero. — Avete questo assurdo bisogno di mangiare continuamente soltanto per mantenere costante la temperatura corporea. Noi siamo molto più in sintonia col nostro ambiente di voi, scimmie bipedi. Il nostro bisogno di cibo è molto inferiore.

— A prescindere dalle capacità della mia specie di adeguarsi al suo ambiente — dissi — ho fame.

— Mangerai a Shaydan — Set rispose nella mia mente. — Mangeremo entrambi sul mio pianeta.

Raggiungemmo infine una camera circolare simile in tutto e per tutto a quella situata nella sua fortezza del Neolitico. Avrebbe potuto benissimo essere la stessa, per quel che ne sapevo: anche se, ovviamente, non mostrava alcun segno della lotta che io e Anya vi avevamo ingaggiato.

Al pensiero di Anya, al solo ricordo del suo nome il mio corpo s’irrigidì e una vampata di rabbia pervase tutto il mio essere. Era più che rabbia. Dolore. L’amaro, terribile dolore di un amore disprezzato, della fiducia ridotta in frantumi dall’arma sottile del tradimento.

Cercai di scacciarla dalla mia mente. Analizzai la stanza in cui mi trovavo. Le sue pareti circolari erano rivestite da file di quadranti, indicatori e consolle, macchinari atti al controllo della titanica energia emanata dal pozzo nucleare. Nel centro della camera si apriva un grosso foro circolare protetto da una cupola trasparente di materiale plastico a prova d’urto, non più soltanto dal corrimano metallico come nella fortezza del Neolitico.

La camera pulsava di energia. La temperatura nell’intero castello di Set era molto più elevata di quanto un essere umano potesse trovare confortevole. Ma quella camera era ancora più calda; parte del calore proveniente dal nucleo terrestre riusciva a filtrare attraverso i macchinari e gli scudi termici trasformando la stanza nell’anticamera dell’inferno.

Set ne traeva piacere. Si diresse verso la cupola di plastica e guardò in basso nelle profondità del pozzo, mentre la luce di quell’energia proiettava lampi rossastri sulle sporgenze ossee e sulla mascella del suo volto coperto di squame. Compiaciuto come un bagnante disteso al sole, Set distese le possenti braccia intorno alla cupola in una sorta d’abbraccio, assorbendo il calore che filtrava da essa.

Io ne rimasi ben lontano. Faceva troppo caldo per i miei gusti. Nonostante gli sforzi compiuti per controllare la temperatura del mio corpo, dovetti comunque permettere alle mie ghiandole sudorifere di fare il loro lavoro, e nel giro di qualche secondo fui immerso in un bagno di sudore dalla testa ai piedi.

Dopo alcuni istanti Set tornò verso di me e accennò in direzione di una bassa piattaforma posta sul lato opposto della camera. La sua base era fiancheggiata da una serie di neri oggetti tubolari simili a riflettori o proiettori. In corrispondenza della piattaforma il basso soffitto era coperto di strumenti analoghi.

Senza dire una parola, salimmo sulla piattaforma. Set era dietro di me, leggermente spostato di lato. Posò una mano artigliata sulla mia spalla; un chiaro segno di possesso per qualsiasi specie disponga di mani. Strinsi i denti, ben conscio di non potergli nuocere in nessun modo, né fisicamente né mentalmente. Non da solo. Un essere umano privo di strumenti non è un nobile selvaggio, pensai; è solo una patetica scimmia senza peli, sempre vicina alla morte.

A metà altezza dal soffitto potevo vedere le nostre immagini riflesse sulla cupola di plastica che copriva il pozzo nucleare. Grottescamente distorto sulla sua superficie curva, il mio volto contratto sembrava pallido e indifeso in confronto alle possenti spalle e alla testa da rettile priva d’espressione che si ergevano dietro di me. E ai suoi artigli chiusi intorno alla mia spalla.

Improvvisamente cominciammo a cadere, piombando nell’oscurità più totale come se il mondo fosse scomparso sotto i nostri piedi. Avvertii un pungente gelo criogenico mentre fluttuavo nel nulla, privo di corpo e tuttavia tremante, in preda al terrore.

— Perdonami.

La voce di Anya raggiunse la mia coscienza. Un debole grido supplichevole, quasi un singhiozzo. Soltanto quello. Una sola parola. Da qualche luogo fra gli interstizi dello spaziotempo, dalle profondità del tessuto quantizzato del continuum, era riuscita a raggiungermi con quello straziante, fugace messaggio.

O era la mia immaginazione? Il mio stesso ego che si autocommiserava, rifiutando di credere che Anya potesse abbandonarmi di sua spontanea volontà? Perdonarla? Non erano parole degne di una dea, riflettei. Doveva essere un messaggio generato dalle mie stesse emozioni, dal mio inconscio che cercava di costruire una fortezza intorno al dolore e alla pena che provavo, un castello da erigere nella desolazione del mio cuore.

Il freddo e l’oscurità cessarono d’improvviso. Il mio corpo riprese forma e dimensione. Di nuovo i miei piedi erano saldamente piantati sul terreno e gli artigli di Set erano stretti sulla mia spalla sinistra.

Eravamo sul pianeta Shaydan.

Ero immerso nell’oscurità. Il cielo era scuro, coperto di nuvole basse dal funereo colore grigio brunito. Spirava un vento caldo che sferzava la mia pelle con minuscole particelle di polvere sospese nell’aria. Cercando di vincerne la violenza, abbassai lo sguardo verso i miei piedi. Eravamo su una piattaforma, ma oltre l’orlo la terra era sabbiosa e coperta di sassolini. Un cespuglio contorto si agitava nel vento. Un mucchietto d’erba essiccato rotolava veloce sul terreno.

Faceva caldo; un calore secco, simile a quello di una fornace. Potevo sentirlo penetrare dentro di me, prosciugare tutte le mie forze, strinare i peli delle mie braccia e delle mie gambe scoperte. Mi sentivo indolente e pesante, come se una grossa catena invisibile mi spingesse verso il terreno. La gravità era più forte di quella terrestre, compresi. Nessuna meraviglia che i muscoli di Set fossero così possenti.

Non riuscivo a vedere a più di qualche metro di distanza. L’aria stessa era satura di una nebbia giallognola formata dalla polvere portata dal vento. Respiravo con difficoltà, come se i polmoni si riempissero dei bollenti fumi sulfurei di qualche fornace. Mi domandai per quanto tempo potessi sopravvivere in quell’atmosfera.

— Abbastanza per servire al mio scopo — rispose Set al mio pensiero.

Cercai di parlare ma l’aria, pesante, si rapprese nella mia gola e cominciai a tossire.

— Trovi Shaydan poco piacevole, scimmia parlante? — Da Set emanava un divertito compiacimento. — Forse la penseresti diversamente se potessi ammirarla attraverso i miei occhi.

Battei le palpebre appesantite dalle lacrime e, improvvisamente, vidi quel mondo attraverso gli occhi di Set. Mi aveva permesso di entrare nella sua mente. Permesso? Mi aveva obbligato a farlo, impadronendosi della mia coscienza con la stessa facilità con cui avrebbe potuto cogliere un frutto da un albero. Aveva preso per sé la mia mente.

E vidi Shaydan come la vedeva lui.

I mosaici che avevo scorto nel castello presero la giusta collocazione nei miei pensieri. Attraverso gli occhi di quel rettile nato e cresciuto in quell’ambiente, mi ritrovai nel mezzo di una scena davvero idilliaca.

Quelle che per me erano nebbia e polvere, agli occhi di Set erano perfettamente invisibili. Eravamo sulla sommità di un piccolo poggio che si affacciava su un’ampia vallata. All’orizzonte si stendeva una città con edifici bassi e del colore del terreno, in diversi toni di verde e marrone. Verso la collinetta su cui eravamo si snodava una strada fiancheggiata da alberi bassi, così piccoli da farmi chiedere se fossero veramente alberi e non piuttosto grossi cespugli.

Quello che mi era sembrato un vento sferzante carico di particelle di polvere abrasive era adesso una brezza gentile. Sapevo che la mia pelle veniva corrosa da quel pulviscolo, ma per Set esso non era che il caldo abbraccio del suo pianeta natale.

Notai che la piattaforma sulla quale eravamo in piedi era del tutto simile a quella posta nel castello di Set sulla Terra. Forse si trattava proprio della stessa; forse era stata traslata insieme a noi attraverso lo spaziotempo. Gli stessi proiettori tubolari erano allineati lungo ogni suo lato, a eccezione del punto in cui alcuni scalini permettevano l’ascesa o la discesa.

Sollevato lo sguardo, vidi altri proiettori montati su alti tralicci posti a intervalli regolari intorno alla piattaforma.

Più in alto ancora era Sheol, così vicina da coprire un quarto abbondante del cielo, così immensa da incombere su di me come un’enorme cupola pronta a spremere l’aria dai miei polmoni doloranti.

La stella era così vicina che potevo scorgere vortici di gas incandescenti ribollire sulla sua superficie, ognuno di essi più vasto di un intero pianeta. Chiazze scure si contorcevano lungo la superficie, come brillanti tentacoli di fiamma. Il colore del corpo celeste era così profondamente rosso da sembrar quasi proiettare tenebra invece che luce. Sembrava pulsare come per inspirare ed espirare irregolarmente, rantolando con vibrazioni tremende che scuotevano l’intera sua massa.

Era una stella morente. E di conseguenza anche il pianeta Shaydan era condannato.

— Basta così.

Con quelle parole Set mi spinse fuori dalla sua mente. Tornai a essere semiaccecato, indifeso sotto la sferza del vento cocente; solo nel mondo dei miei nemici.

Ma Set non aveva interrotto il legame mentale fra noi con tanta velocità da farmi abbandonare la sua mente a mani vuote. Mentre osservavo la superficie di Sheol attraverso i suoi occhi, avevo appreso tutto ciò che egli sapeva della stella e degli altri pianeti che formavano il nostro sistema solare.

Il Sole era nato insieme a questa sua compagna, formando con essa un sistema binario. Mentre il Sole era una stella gialla e brillante, con eoni di vita davanti a sé, la sua più piccola compagna era una nana rossa, dotata di una massa appena sufficiente a mantenere attiva la sua fusione interna, instabile e condannata all’estinzione.

Intorno al Sole orbitavano quattro mondi solidi: il più vicino a esso portava il nome del messaggero degli dèi perché si muoveva avanti e indietro nel cielo a velocità vertiginose; il successivo aveva il nome della dea dell’amore per la sua bellezza; il terzo era la Terra e al quarto, dall’aspetto rosso e rugginoso, era stato dato il nome di un dio della guerra.

A più del doppio della distanza fra il Sole e il pianeta rosso, c’era l’orbita della debole stella che Set e la sua gente chiamavano Sheol. Un unico pianeta orbitava intorno a essa: Shaydan, il mondo di Set. Il pianeta condannato di una stella prossima all’estinzione.

Incapace di accettare la morte della sua razza, Set aveva passato interi millenni a esaminare gli altri mondi del sistema solare. Usando l’energia interna del proprio pianeta, aveva imparato a viaggiare attraverso lo spaziotempo, a muoversi attraverso le vastità che separano i mondi e gli abissi anche maggiori che si stendono fra le varie epoche.

Scoprì che, più esterni al Sole rispetto a Sheol, orbitavano giganteschi mondi composti di gas così freddi da trovarsi permanentemente allo stato liquido; mondi gelidi, troppo lontani dal Sole per poter ospitare la sua razza.

Dei quattro pianeti solidi che orbitavano intorno alla stella gialla, il primo non era che una nuda distesa di roccia battuta impietosamente dal calore e dalle radiazioni del Sole. Quello successivo era molto bello se osservato da lontano, ma sotto le nuvole che ne formavano l’atmosfera era un mondo infernale di gas venefici, e il terreno così caldo da fondere il metallo. Il pianeta rosso era freddo, con un’aria troppo rada per permettere la respirazione, e la vita che un tempo l’aveva popolato si era estinta ormai da molte ere. Peggio ancora, era un corpo troppo piccolo per possedere un nucleo fuso, e non poteva offrire risorse energetiche.

Rimaneva soltanto il terzo pianeta in orbita intorno al sole giallo. Da epoche remote esso ospitava la vita, un porto sicuro in cui l’acqua allo stato liquido, elisir di vita, scorreva a torrenti raccogliendosi in laghi e in mari, cadendo dal cielo, fluendo in oceani che circondavano il pianeta. E quel pianeta d’acqua era abbastanza vasto da racchiudere un nucleo di metallo fuso, disponendo di energia sufficiente a provocare innumerevoli distorsioni spaziotemporali e a piegare il continuum al volere di Set.

La Terra ospitava già alcune forme di vita, ma Set vedeva la cosa come una sfida piuttosto che un ostacolo. Disponendo dell’energia necessaria, attraverso alcune azioni ben mirate, sarebbe stato in grado di occuparsene adeguatamente. Viaggiò attraverso le epoche più remote del pianeta, saggiando i millenni e gli eoni, analizzando, osservando, imparando. Mentre i suoi simili restavano a guardare Sheol tremare e cominciare a contorcersi nell’agonia finale, Set ponderava con estrema attenzione e preparava i suoi piani.

Tornato indietro nel tempo, nel periodo in cui la vita aveva appena incominciato a emergere dalle acque, Set fece piazza pulita di quasi tutte le forme viventi del pianeta, disseminandovi le proprie creature. Passarono i millenni e i rettili cominciarono ad assumere il comando della terra, dei mari e dei cieli. Mutarono l’intero ecosistema del pianeta, alterando persino la composizione della sua atmosfera.

Ma ormai erano destinati all’estinzione. Era giunto il tempo in cui i discendenti delle creature di Set, i dinosauri, avrebbero dovuto lasciare spazio alla sua gente, gli abitanti di Shaydan. Set intraprese l’eliminazione dei dinosauri e di migliaia di altre specie animali, ripulendo la Terra ancora una volta per prepararla all’avvento della sua gente.

Sorse però un nuovo problema. Nel futuro remoto del tempo in cui Set stava operando, i discendenti delle scimmie si erano evoluti in creature in grado anch’esse di manipolare lo spaziotempo, così da forgiare il continuum a loro piacimento. A questo scopo avevano persino creato una genìa di guerrieri, che avevano inviato in vari punti cruciali del continuum.

Sapevo di essere uno di quelli. I Creatori mi avevano inviato ad affrontare Set, sottovalutandone le capacità in misura così tragica che adesso erano stati costretti a fuggire tra le stelle, abbandonando la Terra e tutta la vita presente su di essa fra le mani spietate di Set.

Set era stato il vincitore di quella battaglia di portata cosmica. La Terra era sua. La razza umana sarebbe stata spazzata via per l’eternità. Io sarei stato esibito in tutta Shaydan come prova del trionfo di Set e infine annientato nel corso di qualche cerimonia.

Sapevo di non avere nessuna possibilità di evitare il mio destino. Dopo il tradimento di Anya mi restava a malapena la volontà di sopravvivere.

Ero morto parecchie volte, ma sempre i Creatori mi avevano fatto risorgere perché potessi continuare a servirli. Conoscevo il dolore della morte e il terrore che ogni volta l’accompagna. Sarebbe dunque stata quella, la disfatta finale? Sarebbe stata la mia fine? Sarei stato cancellato per l’eternità dal libro della vita?

In passato i Creatori mi avevano sempre riportato alla luce. Ma adesso loro stessi erano in fuga, per salvare la propria vita.

Mi stupiva che Set, spietato e malvagio qual era, avesse veramente intenzione di lasciarli sopravvivere.

25

La possibilità di manipolare lo spaziotempo fornisce il controllo sull’orologio delle ore, dei giorni, delle stagioni e degli anni. E l’abilità di controllare il tempo rimuove il ritmo frenetico dell’esistenza, insegnando la pazienza e la prudenza, permettendo il lusso di esaminare ogni passo della propria vita da qualsiasi possibile angolazione prima di procedere oltre.

Set aveva viaggiato lungo i millenni, attraverso gli eoni per preparare il terreno alla migrazione della sua gente sulla Terra. Non aveva alcun motivo per affrettarsi.

Procedeva nel suo modo calmo e calcolato, mettendomi in mostra di fronte ai suoi simili, persino adesso che Sheol cominciava a pulsare nel cielo sopra di noi.

Per gran parte del tempo rimasi quasi cieco nell’atmosfera scura di Shaydan. il pianeta era decisamente più vasto della Terra; la sua gravità mi schiacciava rendendo pesante ogni mio passo, sfibrandomi a ogni mio movimento. Il vento soffiava impietoso, scagliando con violenza particelle di pulviscolo contro le mie carni. Ero costantemente esausto, affamato, con la pelle rossa e scorticata come se fossi stato costantemente torturato da una sferza, a ogni ora del giorno e della notte.

In qualche rara occasione Set mi permetteva di guardare il mondo attraverso gli occhi della sua gente, e di nuovo potevo osservare quel placido mondo deserto, rigido ma incantevole con le sue irte montagne scolpite dal vento e il cielo giallo sfolgorante.

Set non mi permise più di penetrare nella sua mente. Forse temeva potessi apprendere concetti che avrebbe preferito tenermi nascosti.

A poco a poco, nelle nostre visite di città in città in quello che sembrava un giro interminabile di conferenze, cominciai a comprendere la reale natura della gente di Shaydan.

Il fatto che i rettili potessero sviluppare l’intelligenza mi aveva stupito fin dal primo momento in cui mi ero trovato nel giardino presso il Nilo. Com’era evidente, Set e la sua razza avevano sviluppato un cervello sufficientemente grosso e complesso, come era accaduto sulla Terra per i mammiferi. Ma l’intelligenza è più che una semplice questione di volume cerebrale. Se così non fosse, elefanti e balene sarebbero intellettualmente superiori all’uomo.

Avevo sempre pensato che a prescindere dalla grandezza dei loro cervelli i rettili, che depongono le uova lasciando la prole a cavarsela da sé, non potessero mai raggiungere quel tipo di comunicazione intergenerazionale che è necessaria allo sviluppo dell’intelligenza propriamente detta. Eppure, in qualche modo, Set e la sua gente dovevano aver superato quell’ostacolo.

L’intelligenza, era mia convinzione, doveva dipendere necessariamente dalla comunicazione. Le scimmie imparano mediante l’osservazione dei loro genitori. I bambini apprendono prima mediante la semplice osservazione, poi attraverso la parola e più avanti attraverso la lettura. Set derideva di continuo l’abitudine degli uomini alla parola. Derideva la nostra necessità di comunicare attraverso i suoni, a prescindere dall’importanza delle informazioni con essi scambiate.

La gente di Shaydan non parlava. Comunicavano l’un l’altro in silenzio, mentalmente, nello stesso modo in cui Set comunicava con me. Ma come si era sviluppata questa loro abilità telepatica?

Per tutto il tempo in cui Set mi guidò attraverso il pianeta per esibirmi come suo trofeo, cercai di trovare la risposta a quella domanda. Cercavo di osservare e analizzare, per quanto mi era possibile nella miseria della mia cattività. Ogni volta che Set mi permetteva di guardare il suo mondo attraverso gli occhi di qualcuno fra i suoi simili, cercavo di afferrare tutte le informazioni che potevo cogliere.

Le nostre tappe richiamavano alla mia mente l’immagine di un re medievale in visita ai suoi possedimenti insieme alla propria corte. Procedevamo a dorso di rettili quadrupedi non dissimili ai sauropodi terrestri. La civiltà di Shaydan era apparentemente divisa in varie comunità ben distinte, ognuna delle quali si accentrava intorno a una città di pietra, argilla cotta al sole e altri materiali inorganici. In nessun edificio vidi mai impiegati legno o metalli.

Ci spostavamo da una città all’altra in processione, con Set ad aprire il corteo protetto da due dei suoi sulle loro cavalcature. Io cavalcavo dietro di lui, e alle mie spalle c’erano una dozzina di cavalieri e alcune bestie da soma che portavano acqua e cibo per il nostro viaggio. Gli spostamenti duravano all’incirca una settimana, secondo quel poco che potevo stimare in quell’aria scura e carica di sabbia. Perché il pianeta mostrava sempre lo stesso lato verso la sua stella, e tutte le città di quel mondo erano disposte sulla sua faccia luminosa.

Per tutto il tempo di quel giorno senza fine il vento, impietoso, mi sferzava le carni, accecando i miei poveri occhi arrossati. Set e la sua gente avevano squame per proteggere le loro carni e palpebre trasparenti per coprire gli occhi; l’aveva puntualizzato come ulteriore prova della superiorità dei rettili sui mammiferi. Ormai non avevo più la forza o la volontà di controbattere.

Gli individui al suo seguito non indossavano armature, vesti sgargianti o sete preziose, né portavano monili d’oro o d’argento. I rettili non indossavano nulla sopra le loro pelli squamate, quella di Set rosso carminio e quelle del suo seguito colorate di toni più chiari di rosso. Io ero ancora vestito dei miei vecchi abiti di pelli; non indossavo altro.

L’acqua su Shaydan non era abbondante. Era un mondo desertico, con pochi magri ruscelli e qualche lago. Niente mari né oceani. Il cibo che mi fornivano consisteva di verdura cruda e, di tanto in tanto, qualche pezzo di carne.

— Alleviamo molti branchi di animali da macello — rispose Set alla mia domanda inespressa. — Li alleviamo facendo estrema attenzione a mantenere il loro numero in equilibrio con l’ambiente. Quando giunge il tempo di ucciderli, entriamo nella loro mente facendoli addormentare, quindi ne arrestiamo il battito cardiaco.

— Molto umano — dissi, domandandomi se fosse in grado di interpretare la mia battuta. Se anche lo era non ne diede alcun cenno.

Le città non erano cintate da mura. A giudicare dall’aspetto logoro dei loro edifici dovevano essere piuttosto antiche. Persino nell’atmosfera ostile di quel mondo infernale dovevano essere occorsi millenni per trasformare strutture in pietra tanto solide nelle sagome arrotondate che erano divenute. Non vidi nessun edificio nuovo; tutto sembrava essere sorto nella stessa epoca, moltissimo prima.

Nessuno squillo di tromba annunciava il nostro arrivo in città, e nessuna scorta nobiliare veniva incontro alla nostra carovana. La gente si affollava allineandosi lungo la strada per inchinarsi solennemente al nostro passaggio e poi fissarci con curiosità. Altri si raccoglievano nella piazza principale, in cui invariabilmente incontravamo i capi locali.

Tutto nel silenzio più assoluto. La gente di Shaydan non parlava, né produceva alcun tipo di rumore. Nessun applauso, nemmeno uno schiocco di dita o delle fauci. Restavano a guardare in assoluto silenzio mentre ci fermavamo e smontavamo dalle nostre cavalcature. Talvolta qualcuno di loro faceva un cenno verso di me. Una volta o due pensai di aver udito un sibilo… una risata? Ma per il resto, era nel silenzio più totale che ci accompagnavano verso l’edificio più grosso della piazza. Nessun suono, a eccezione dell’ululare incessante del vento. Sempre in silenzio un quartetto di guardie si disponeva dietro di me, che mi trascinavo esausto al seguito di Set e degli ufficiali della città giunti a salutarlo.

Tutta quella gente, la corte di Set e gli abitanti delle città, erano copie più piccole di Set. Attraverso la nebbia polverosa che per loro era semplicemente la luce del giorno, cominciai a notare qualche piccola differenza fra gli abitanti di una città e quelli di un’altra. Le loro squame erano verdi in un luogo e violette in un altro. Vidi persino una città popolata da rettili le cui squame formavano un disegno simile a un tessuto scozzese.

In ogni città, comunque, tutti gli individui avevano le squame dello stesso colore. Era come se indossassero tutti la stessa uniforme, anche se sapevo che quello doveva essere il colore naturale della loro pelle. Soltanto le tonalità variavano leggermente da un individuo all’altro della stessa città, e alla fine notai che più piccolo era un rettile e più la tonalità del colore delle sue squame era chiara. La taglia e la colorazione erano forse indici dell’età di un individuo? O ne indicavano il rango?

A quelle domande non ricevetti mai nessuna risposta mentale.

A prescindere da tutto ciò, comunque, in ogni città, una volta smontati dalle nostre cavalcature, venivamo condotti nell’edificio più vasto della piazza principale. I tetti arrotondati delle strutture cittadine non mostravano che una piccola parte della loro effettiva estensione. Gran parte della città si snodava sottoterra, e gli edifici erano interconnessi da ampie gallerie.

Ogni volta venivamo scortati in una grossa sala rettangolare su un’estremità della quale un rettile delle dimensioni di Set sedeva su una piattaforma rialzata. Si trattava evidentemente del patriarca locale. La sala delle udienze si riempiva allora di cittadini minori della città, dai colori più tenui, inferiori di rango. O almeno, queste erano le mie supposizioni.

Set si portava allora di fronte al patriarca, tenendomi al suo fianco. In più di un’occasione mi ero accasciato sul pavimento, stanco e sfibrato a causa della forza di gravità. Set ignorava le mie condizioni lasciandomi disteso a terra, e io ero grato per quell’opportunità di riposo. Per Set, naturalmente, era una perfetta esibizione della debolezza degli abitanti della Terra, prova evidente della fattibilità del suo progetto.

Le camere erano immerse nell’oscurità come tutte le stanze in cui ero stato; la luce artificiale era di una frequenza così bassa dello spettro che sembrava irradiare oscurità. E calore. Quei rettili si crogiolavano in un calore tale da provocarmi le vertigini nonostante tutti i miei sforzi per tenere sotto controllo la temperatura interna del mio corpo.

Di tanto in tanto Set mi permetteva di osservare la stanza attraverso gli occhi di qualcuno del suo seguito. Attendevo con ansia tali momenti. Ciò che vedevo allora era un salone splendido dalle pareti maestose e risplendenti di mosaici che raffiguravano scene di storia antica e gli antenati dei patriarchi che sedevano di fronte a noi. E mentre la vista che mi era concessa a prestito analizzava ciò che accadeva intorno a me, io frugavo con avidità nella mente del mio ospite temporaneo, cercando di apprendere tutto il possibile senza allarmare lui o il suo signore Set.

Talvolta le nostre udienze duravano appena qualche minuto. Ma il più delle volte Set rimaneva di fronte alla piattaforma del patriarca per ore intere, in silenziosa conversazione, senza quasi muovere un muscolo o contorcere la coda. Sapevo che mi portava come prova del fatto che la gente di Shaydan poteva emigrare senza rischio sulla Terra. Ma non riuscivo a capire quanto successo la sua idea stesse riscuotendo. Le visite brevi sottintendevano un accordo veloce o un rifiuto netto? E le lunghe ore di discorsi silenziosi indicavano che Set e i suoi ospiti litigavano animatamente o che erano intenti a discutere ogni dettaglio del piano per la colonizzazione della Terra?

A poco a poco, mentre ci spostavamo attraverso la vasta, arida superficie di Shaydan e grazie alle occasionali brevi occhiate nella mente dei seguaci di Set, cominciai a farmi una prima idea su quel popolo e sulla sua civiltà.

Nonostante la stanchezza fisica, la mia mente era ancora ben attiva. In effetti, non avevo molto da fare se non cercare di analizzare tutto ciò che potevo sul mio nemico e il suo mondo. La cosa mi aiutava a dimenticare la fame di cui soffrivo costantemente e il dolore di quel vento sferzante. Il mio corpo era costretto dal controllo di Set, ma non la mia mente. Analizzavo tutto ciò che mi era possibile. Osservavo e studiavo. Imparavo.

Il punto di partenza della mia analisi, naturalmente, era il fatto che si trattava di rettili. O meglio, l’equivalente shaydiano dei rettili terrestri. Non controllavano attivamente la loro temperatura corporea come fanno i mammiferi, sebbene mantenessero il loro calore interno con adeguata efficienza.

Si riproducevano deponendo uova. Come i rettili terrestri, praticamente tutte le specie che vivevano su Shaydan abbandonavano il nido non appena deposte le uova, senza mai fare ritorno alla loro prole.

Ciò che nasceva da quelle uova erano versioni in miniatura dei rettili adulti, già dotati di zanne e artigli nonché di tutti gli istinti dei loro genitori. I piccoli possedevano tutti gli attributi dei loro genitori, a eccezione della taglia. Diventando adulti crescevano di dimensione, e più l’individuo era anziano più diventava grande e più il colore delle sue squame si faceva intenso. Le sole limitazioni alla grandezza di uno shaydiano erano i limiti fisici entro i quali le ossa e i muscoli erano in grado di sopportare il peso sempre maggiore del suo corpo.

Ciò significava che Set e gli altri patriarchi che avevamo incontrato in ogni città dovevano essere considerevolmente più vecchi degli altri intorno a loro. Che età aveva Set? Secoli, quantomeno. Forse millenni.

I neonati shaydiani ereditavano tutte le caratteristiche fisiche dei loro genitori, incluse non soltanto la struttura del cervello, ma anche l’abilità di comunicare telepaticamente. Molti eoni prima, quell’abilità doveva essere sorta in seguito a qualche mutazione genetica, tramandata alle generazioni successive. Gli individui telepatici erano vissuti più a lungo, generando molte più uova dalle quali erano nati altri individui dotati di tale dono. Col passare delle generazioni i telepatici avevano spinto all’estinzione i loro simili meno fortunati. Forse attraverso atti di violenza, come un tempo avevano fatto i Creatori coi neanderthaliani.

La comunicazione telepatica era la chiave dell’intelligenza. Nel deporre le uova, una madre shaydiana imprimeva nella mente ancora informe della sua progenie tutte le esperienze della sua vita. Ogni generazione di rettili telepatici impartiva così a quella successiva tutta la conoscenza di tutte le generazioni precedenti. Disponendo dell’esperienza dei suoi progenitori, un piccolo rettile era sufficientemente equipaggiato, sia mentalmente sia fisicamente, per affrontare il mondo esterno.

La civiltà che quella razza di rettili intelligenti aveva costruito su Shaydan esisteva da parecchi milioni di anni terrestri. Ogni comunità era guidata dal membro più anziano. L’età media degli individui era di qualche migliaio di anni. A creature in grado di leggere la mente altrui, la sfiducia era ignota. Eventuali discordie fra individui venivano giudicate dal patriarca… e in effetti, quella sembrava essere l’unica motivazione della sua carica.

Ogni comunità lavorava con l’efficienza instancabile e modesta di un formicaio o di un alveare. Non esistevano guerre, poiché ogni comunità viveva entro i limiti del proprio ambiente. I figli di Shaydan erano vissuti in perfetta armonia.

Fino a quando avevano compreso che Sheol, la loro stella, un giorno avrebbe distrutto il pianeta su cui vivevano.

I patriarchi si erano consultati a vicenda su come affrontare quella terribile certezza. Molti di loro avevano concluso che la fine era inevitabile, e che l’unica decisione possibile era quella di accettare il proprio destino. Alcuni erano giunti persino a raccomandare il suicidio, affermando che era meglio morire con dignità, per scelta spontanea, piuttosto che attendere il cataclisma che li avrebbe spazzati via tutti.

Ma l’istinto di sopravvivenza era radicato profondamente in loro. Cominciarono così a espandersi verso il sottosuolo, a estendere le loro città e le loro dimore nel sottosuolo, nella speranza che la massa del loro pianeta potesse proteggerli dalle radiazioni che un giorno Sheol avrebbe scaraventato contro la superficie. Ma se anche così fosse avvenuto, sapevano che quello sarebbe stato soltanto il primo stadio dell’agonia della stella. Alla fine essa sarebbe esplosa, distruggendo con sé il loro mondo.

Fra tutti i patriarchi di Shaydan, soltanto Set si era opposto al clima generale di passività e accettazione. Soltanto lui aveva cercato un modo in cui evitare il fato che attendeva la sua gente, la sua intera razza. Gli altri patriarchi dapprima lo avevano giudicato pazzo o estremamente sciocco per la sua decisione di spendere gli ultimi secoli della propria vita nel tentativo di sfuggire all’inevitabile. Ma Set non se n’era curato.

Adesso, più di un secolo dopo i suoi primi studi, mi portava in visione presso i patriarchi come prova del fatto che avrebbero potuto migrare in massa sulla Terra e intraprendere una nuova vita sotto il calore del sole giallo.

Non avevo modo per calcolare quanto tempo impiegassimo per viaggiare da una città all’altra. Non c’era modo di contare i giorni, e su Shaydan non sembravano esistere stagioni. Ogni volta che mi veniva permesso di sbirciare nella mente di uno dei rettili, cercavo di afferrarne qualche pur minimo cenno, ma non mi riusciva mai di comprendere come misurassero il passare del tempo.

Compresi che la comunicazione telepatica degli Shaydiani doveva avere un raggio limitato; altrimenti, perché Set avrebbe intrapreso un viaggio così lungo e disagevole? Avrebbe potuto rimanere comodamente nella propria città e conversare con gli altri patriarchi attraverso i propri poteri telepatici. Oppure, se trovava necessario esibirmi fisicamente di fronte a ognuno di essi, ciò poteva significare che la comunicazione telepatica non era in grado di svolgere una simile funzione. Dovevano vedermi di persona.

Comunque fosse, ciò significava che vi erano dei limiti persino ai formidabili poteri mentali di Set. Conservai quella speranza per eventuali usi futuri; c’erano così poche altre speranze a cui potessi aggrapparmi…

Di tanto in tanto, durante i nostri viaggi, mi sembrava di sentire il terreno tremare. Più di una volta udii l’eco di un rombo simile al brontolio di un tuono lontano. Né Set né alcuno del suo seguito sembrarono accorgersene mai, sebbene ogni volta le nostre cavalcature si fermassero per un istante ad annusare l’aria, spaventate.

Durante una delle nostre udienze, il terreno tremò di nuovo. Il pavimento di pietra si sollevò sotto i miei piedi, facendomi cadere in ginocchio. Una fessura si aprì a zigzag nel muro dietro la piattaforma del patriarca. Il rettile serrò la stretta sui braccioli della sua sedia, sibilando in un tono che non avevo mai udito prima. Persino lo stesso Set barcollò leggermente e, guardatomi intorno, vidi che i convenuti si erano stretti l’uno all’altro con aria impaurita.

Per la prima volta udii le voci telepatiche di molti shaydiani, distinte e prive di protezione.

— La terra trema di nuovo!

— Ci resta poco tempo.

— Sheol sta per spazzarci via!

Come un lampo nella mia mente compresi che i violenti sconvolgimenti nelle profondità del nucleo di Sheol causavano analoghe pulsazioni anche all’interno del suo pianeta.

“Ci resta poco tempo” aveva detto uno di loro. Ma se anche Set e il patriarca la pensavano allo stesso modo, non ne avevano mostrato alcun segno. Quando la polvere sollevata dal terremoto si fu posata, Set mi sollevò in piedi senza tante cerimonie e riprese la sua silenziosa conversazione col patriarca dalle scaglie olivastre che aveva di fronte.

Ma non prima che riuscissi a cogliere nella mente dei rettili impauriti che orribile mostro Set fosse in realtà. Con un tal numero di menti aperte alla mia, seppure per pochi secondi, appresi che Set e i patriarchi dominavano i loro simili attraverso un dispotismo di ferro, una tirannia priva di scrupoli intessuta inestricabilmente nei geni stessi della loro gente.

Compresi in quel terribile lampo di comunicazione mentale che quasi tutto ciò che Set mi aveva detto era stata una distorsione, un’alterazione della verità. Era il principe della menzogna.

Per molto tempo mi ero domandato perché nessuno fra gli abitanti delle città che avevamo visitato si avvicinasse mai alle dimensioni dei patriarchi. Dapprima avevo pensato che nessuno fra loro avesse raggiunto un’età altrettanto veneranda. Ma perché no? In teoria, i nuovi nati dovevano essere altrettanti nella sua generazione quanto in qualsiasi generazione successiva. Cos’era accaduto ai coetanei di Set? Erano tutti morti?

In quella breve occhiata nelle menti di così tanti shaydiani trovai la terribile risposta alla mia domanda. Set e i patriarchi erano i vincitori di una guerra devastatrice che aveva quasi distrutto l’intera Shaydan un migliaio di anni prima che i suoi abitanti si accorgessero dell’imminenza del cataclisma. Set aveva scoperto come clonare le proprie cellule, producendo copie di se stesso senza bisogno di ricorrere alla riproduzione e, in generale, alle femmine della sua razza.

Peggio ancora, aveva imparato a strutturare quelle repliche di se stesso in modo che rispondessero ai suoi desideri: limitandone l’intelligenza in modo da non offrire mai loro la possibilità di sfidarlo; limitandone la durata della vita in modo che non potessero mai raggiungere la sua stessa età ed esperienza.

Con fredda crudeltà, Set aveva raccolto presso di sé un gruppo di maschi della propria specie offrendo loro il dominio del mondo intero per tutti i millenni della loro vita. Costoro avevano guidato una spietata guerra di genocidio contro i loro stessi simili, con particolare attenzione alle femmine della specie, clonando guerrieri ogni volta che ne dovessero disporre e massacrando coloro che si opponevano al loro dominio.

Per due secoli la guerra genocida aveva infuriato su tutta la superficie di Shaydan. Alla fine, Set e i patriarchi erano rimasti soli a capo di un mondo di cloni remissivi. Tutti maschi. Ogni madre e ogni figlia erano state sistematicamente uccise. Ogni uovo ancora non dischiuso era stato scovato e distrutto.

Dovettero passare alcuni secoli prima che i nuovi dominatori riuscissero a rimediare al danno ecologico che avevano apportato al loro mondo. Ma il fattore tempo non aveva più grande rilevanza. Sapevano che avrebbero potuto esercitare il loro dominio per millenni a venire lasciando il potere, quando fosse giunto il momento, nelle mani di copie esatte di loro stessi. Tramite la telepatia avrebbero potuto trasferire la propria personalità nei corpi clonati e continuare così a esistere per sempre.

Naturalmente, la loro società funzionava con la stessa efficienza di una colonia di formiche. La guerra era ormai sconosciuta su Shaydan. Set e i patriarchi governavano un mondo di cloni incapaci di far altro che obbedire. Ma Set voleva ancora di più. Voleva essere adorato.

Poi, come un castigo per i loro peccati, era giunta la certezza assoluta del fatto che Sheol sarebbe esplosa, distruggendo l’intero pianeta.

Giustizia cosmica. O, se non altro, cosmica ironia. Mi faceva sorridere l’idea che, nonostante tutti i suoi atteggiamenti moralistici sulla superiorità dei rettili e il loro rispetto per l’ambiente, Set fosse in realtà uno spietato omicida di massa. Il massacratore genocida della sua stessa gente, che aveva scelto le vie del potere e della morte a quelle della natura e della vita.

Dovevo immaginare che non sarei riuscito a nascondere a lungo la mia nuova conoscenza.

— Pensi che sia un ipocrita, eh, scimmia senza pelo? — chiese a un certo punto, mentre cavalcavamo attraverso una tempesta di sabbia. Era davanti a me, come sempre, voltandomi la schiena.

— Penso che sei un essere malvagio e spietato, se non altro — risposi. Non m’importava se riusciva o meno ad ascoltare le mie parole. Poteva comunque percepire quel pensiero formarsi nella mia mente.

— Ho salvato Shaydan dal tipo di eccessi che voi mammiferi avete creato sul vostro pianeta. Priva di un rigoroso controllo, anche la mia gente avrebbe finito col distruggere il proprio ambiente.

— E così hai ucciso la tua gente.

— Avrebbero comunque distrutto se stessi e il loro ambiente, se non fossi intervenuto.

— Questa non è che una razionalizzazione. Vi siete arrogati il diritto di scelta in materia di vita e di morte, tu e i tuoi patriarchi. Il vostro regno non conosce amore.

— Amore? — Sembrava sinceramente stupito. — Intendi dire sesso?

— Intendo dire amore, amore per la vostra stessa gente. Un’amicizia così profonda da indurvi a mettere in gioco la vostra vita per proteggerla… — Le parole soffocarono nella mia gola. Pensai ad Anya, e il ricordo del suo tradimento bruciò dentro di me come bile amara. Ebbi un conato di vomito.

Un sentimento di divertito disprezzo emanò dalla mente del rettile. — Lealtà e spirito di sacrificio. Concetti da mammifero. Segni della vostra debolezza. Così come le vostre idee sul cosiddetto amore. L’amore è un’invenzione scimmiesca, generata per giustificare le vostre manie ossessive della riproduzione. Per la mia specie il sesso non è mai stato importante come per la vostra, scimmia dal sangue caldo.

Trovai la forza per ribattere. — No, la vostra unica ossessione è quella per il potere, non è così?

— Ho ripulito questo mondo di modo da portarvi nuova vita, una forma di vita superiore.

— Creata artificialmente. Mutilata nel corpo e nella mente, così da non avere altra scelta se non quella di obbedirti.

Udii nella mia mente il sibilo della sua risata. — Così come sei tu, Orion. Una scimmia iperspecializzata, creata dai tuoi esseri superiori, menomata nel corpo e nella mente per servirli senza possibilità di scelta.

Fui colto da una rabbia cocente. Perché in fondo aveva ragione.

— Naturale che tu senta di odiare me e ciò che ho fatto. — Il gelido compiacimento di Set mi travolse come l’acqua di un ghiacciaio disciolto. — Hai capito che è esattamente ciò che i Creatori hanno fatto a te, e tu li odii per questo.

26

Infine, dopo mesi o forse anni di viaggio, facemmo ritorno alla città di Set.

Era in tutto e per tutto simile alle altre. Fuori dal terreno un gruppo di antichi edifici di pietra, corrosi da millenni di vento e sabbia. Nel sottosuolo, un alveare di passaggi e gallerie, un livello dietro l’altro, sempre più profondi nelle viscere della terra.

Le squame degli shaydiani di quella città erano tinte di vari toni di rosso. L’intera popolazione si raccolse sulla strada principale che portava alla città per accogliere il loro signore nel modo silenzioso dei rettili.

Tre guardie rosa salmone mi condussero nelle profondità della terra verso una piccola cella spoglia, così scura che fui costretto a muovermi a tastoni lungo le sue pareti per percepirne le dimensioni. Era più o meno quadrata, e così piccola che potevo quasi toccarne contemporaneamente le pareti opposte a braccia distese. Nessuna finestra, naturalmente. Niente luce. E un caldo insopportabile, come se volessero arrostirmi a fuoco lento.

Ovunque toccassi le pareti o il pavimento, i muri mi bruciavano la pelle. Ricordai vagamente che sulla Terra alcuni orsi venivano costretti a “danzare” facendoli camminare su un pavimento riscaldato, di modo che si sollevassero sulle zampe posteriori, saltellando intorno per evitare di scottarsi. Allo stesso modo anch’io cercai di tenermi in punta di piedi. Ma alla fine, la stanchezza e l’insostenibile gravità del pianeta ebbero la meglio su di me, e crollai sul pavimento.

Per la prima volta da quando ero giunto a Shaydan feci un sogno. Ero di nuovo con Anya fra i boschi di Paradiso, e insieme conducevamo una vita semplice, felici e così innamorati che ovunque appoggiassimo i piedi i fiori spuntavano dal terreno. Ma quando avevo disteso le braccia per cingerle i fianchi, Anya era cambiata. Si era trasformata in una sfera scintillante di luce argentea, troppo luminosa per i miei occhi. Allora mi ero ritratto da lei, coprendomi gli occhi con un braccio.

In lontananza era giunta la voce beffarda del Radioso, colui che mi aveva creato.

— Orion, tu miri troppo in alto. Come puoi aspettarti che una dea possa amare un verme, una lumaca, un’ameba?

Tutti i cosiddetti dèi si erano allora materializzati di fronte a me: quello dagli occhi solenni e i capelli scuri che conoscevo col nome di Zeus; Ermes, dal volto sparuto e sorridente; Era dalla bellezza crudele; Ares dai capelli rossi e decine di altri. Ognuno di essi era vestito in abiti sontuosi impreziositi da gioielli scintillanti.

Ridevano di me. Io ero nudo, ed essi indicavano il mio corpo emaciato coperto di lividi e di ferite provocate dal vento scorticatore di Shaydan. Urlavano le loro risa contro di me. Anya, o Atena, non era con loro, ma avvertivo la sua lontana presenza come fiocchi di neve che mi raggelavano l’anima.

Gli dèi e le dee ridevano divertiti alla vista delle mie miserie, e io ero lì, incapace di muovermi, incapace persino di parlare. I boschi di Paradiso presero quindi a ondeggiare, a piegarsi sotto la neve che cadeva dal cielo coprendo gli alberi e la terra. Persino le risa degli dèi vennero smorzate dalla neve silente. Infine anche loro scomparvero nel nulla, e io rimasi solo in un mondo scintillante di bianco.

Il soffice biancore della neve si trasformò in una scintillante distesa argentea come metallo. Poi la luce assunse un tono rossastro sempre più intenso, e sembrò sollevarsi per riprendere forma. Questa volta era l’enorme mole di Set a profilarsi dinnanzi a me, sibilando una risata crudele di fronte al mio dolore e alla mia perdita.

Compresi allora che durante i lunghi mesi del nostro cammino non ero riuscito a sognare soltanto perché non me lo aveva permesso. E ora che il nostro viaggio era terminato, si divertiva a fare irruzione nei miei sogni, distorcendoli a suo piacimento.

Per tutto il tempo in cui rimasi in quella cella rovente mi consumai per l’odio. I servitori di Set mi porgevano da mangiare quel poco che bastava per mantenermi in vita: un liquido caldo dal sapore rancido e alcune foglie di verdura, niente più. Non ero più esposto a quel vento sferzante, ma il calore della cella sotterranea prosciugava tutte le mie forze, bruciandomi i polmoni.

Ogni notte sognavo Anya e gli altri Creatori, sapendo che Set era lì a scavare fra ricordi che non avevo mai saputo di possedere. I sogni mutavano sempre in incubi: notte dopo notte, cercavo di avvertire Anya e gli altri, ma sempre li vedevo ridursi in pezzi, i corpi traboccanti sangue, i crani sfasciati, gli arti mutilati dal corpo.

Per mano mia.

Con mio grande orrore, ero io il loro esecutore. Li bruciavo vivi. Cavavo gli occhi dai loro teschi. Bevevo il loro sangue. Il sangue di Zeus. Quello di Era. Persino il sangue di Anya.

Notte dopo notte l’incubo era sempre lo stesso. Mi recavo in visita presso i Creatori nel loro santuario dorato. Loro mi deridevano. Io imploravo Anya di aiutarmi, di comprendere il messaggio di orrore e morte che recavo con me. Ma lei fuggiva, o si mutava in una forma che non potevo raggiungere.

Allora il massacro aveva inizio. Cominciavo invariabilmente dal Radioso, colpendolo come una belva feroce, strappando quel sorriso sciocco e compiaciuto dal suo volto, squarciando il suo corpo perfetto con artigli d’acciaio affilati come lame di rasoio.

Notte dopo notte, sempre lo stesso sogno. Sempre lo stesso orrore. E ogni volta esso si faceva sempre più realistico. Mi svegliavo immerso nel sudore, tremando come un ossesso, non osando abbassare lo sguardo sulle mie mani tremanti per il timore di trovarle sporche di sangue.

Dietro tutti quegli incubi avvertivo la presenza minacciosa di Set. Scavava nella mia mente senza pietà, attingendo da ricordi che il Radioso o chiunque mi avesse creato aveva posto al di fuori della portata del mio io cosciente. Rivivevo così una vita dietro l’altra, dal momento in cui l’umanità era stata originata a futuri così distanti che la razza umana si era evoluta in forme e poteri irriconoscibili. E ognuno di quei sogni, inesorabilmente, giungeva alla medesima scena orripilante.

Mi ritrovavo di fronte ai Creatori. Li colpivo mentre ridevano di me, li squartavo mentre i loro volti continuavano a deridermi. Li uccidevo tutti. Ogni volta cercavo di risparmiare Anya; le gridavo di fuggire, di tramutarsi in modo che non potessi raggiungerla. Talvolta lo faceva. Talvolta mutava in una sfera di luce argentea, ponendosi al di là delle mie possibilità di nuocerle. Ma quando non lo faceva, la uccidevo con la stessa crudeltà con la quale ero solito massacrare gli altri. Le tagliavo la gola, la sventravo, schiacciavo il suo bel viso tra le mie mani provviste di artigli.

E ogni volta mi risvegliavo tra i singhiozzi. Non avevo nemmeno più la forza per gridare. Mi ridestavo in quella cella rovente e priva di luce, terribilmente debole, il corpo e la mente sfiniti.

E il peggio era che conoscevo le intenzioni di Set. Esplorava la mia mente, attraversando la rete dei miei ricordi come un esercito conquistatore impegnato nella razzia di un villaggio indifeso, in cerca della chiave che gli avrebbe permesso di proiettarmi nel regno dei Creatori.

Aveva intenzione di inviarmi in un momento precedente a quello in cui i Creatori si fossero accorti della sua esistenza. Voleva farmi presentare al loro cospetto in un momento in cui avessero abbassato la guardia, non aspettandosi certo di venire attaccati, tanto meno da una delle loro creature.

Set mi avrebbe accompagnato in quel viaggio attraverso lo spaziotempo. La sua mente e la sua volontà sarebbero venuti con me, nella mia mente. Avrebbe visto attraverso i miei occhi. Avrebbe colpito servendosi delle mie stesse mani.

E quel che era peggio, io provavo un odio genuino nei confronti dei Creatori, nei recessi della mia mente. Lui aveva scovato quella vena di rabbia, di amaro risentimento che strisciava dentro di me. Aveva sibilato di piacere quando aveva appreso quanto odiassi il Radioso, il mio Creatore. Aveva assistito con gioia a come l’avessi sfidato cercando di togliergli la vita, e come avessi odiato i Creatori per averlo protetto contro la mia furia.

E aveva scovato la furia cieca che bruciava acida nel mio animo ogni volta che ripensavo ad Anya. L’amore mutato in odio. No, qualcosa di ancora più tremendo, perché continuavo ad amarla anche nel mio odio per lei. Mi aveva legato a una ruota della tortura che straziava la mia mente più efficacemente di quanto Set potesse straziare il mio corpo.

Ma il demonio sapeva come usare il tormento della mia anima, come piegare quell’odio a suo vantaggio.

— Ti stai rivelando davvero utile, Orion — udii la sua voce nella mia mente, mentre mi contorcevo in quella cella immersa nelle tenebre.

Sapevo che aveva ragione. Mi maledicevo per ciò, ma sapevo che dentro di me vi erano odio e furore sufficienti a fungere da arma micidiale al servizio della malignità di Set.

Gli incubi facevano ritorno ogni volta che mi addormentavo. Per quanto cercassi di resistere, inevitabilmente gli occhi mi si chiudevano; il mio corpo, esausto, scivolava nel sonno e l’incubo tornava a tormentarmi.

Ogni volta più realistico. Ogni volta più ricco di dettagli. Ogni volta udivo le mie parole e quelle dei Creatori con maggior chiarezza, percepivo sempre più reale la solidità dei loro corpi nelle mie mani assassine, percepivo sempre più reale l’odore dolciastro del sangue che usciva a fiotti dalle loro ferite.

E un giorno, inesorabile, sarebbe arrivato il sogno finale. Sapevo che una volta o l’altra il grado di realtà sarebbe stato assoluto, che mi sarei effettivamente trovato fra i miei Creatori, che li avrei uccisi nel nome del mio nuovo padrone. Allora tutti i sogni sarebbero cessati. Il mio dolore e il mio furore sarebbero giunti al loro termine. Lo schiacciante senso di abbandono che mi riempiva il cuore sarebbe infine volato via.

Tutto ciò che dovevo fare era cedere alla volontà di Set. In quel momento compresi che solo la mia folle, caparbia resistenza si frapponeva ormai tra me e la pace eterna. Alcuni momenti di sangue e di dolore, e tutto sarebbe finito. Per sempre.

Dovevo smettere di combattere Set e ammettere che era il mio padrone. Dovevo permettergli di inviare Orion il Cacciatore verso la sua missione finale, e lui mi avrebbe permesso di trovare la pace. Nell’oscurità di quella cella rovente abbozzai un sorriso. Che ironia: l’ultima caccia di Orion consisteva nello scovare e uccidere i suoi stessi Creatori.

— Sono pronto — gridai. La mia voce era rotta, stridula. La gola e i polmoni erano in fiamme.

Per tutta risposta udii un lungo sibilo che sembrò echeggiare attraverso le stanze sotterranee del magnifico palazzo di Set.

Sembrò passare un’eternità prima che accadesse qualcosa. Ero disteso sul pavimento di pietra della mia cella nell’oscurità più totale e nel silenzio assoluto, a eccezione del mio respiro incostante. Il suolo sembrò diventare un poco più fresco. L’aria sembrò farsi un poco più umida. O forse era solo la mia immaginazione.

Ero troppo debole per mettermi in piedi, e mi chiesi come avrei potuto eseguire il volere del mio padrone in tali condizioni di sfinimento.

— Non temere, Orion — la voce di Set echeggiò nella mia mente. — Sarai sufficientemente forte quando verrà il momento. La mia forza pervaderà il tuo corpo. Sarò con te in ogni istante. Non ti lascerò solo.

Così la sua magnanimità nel permettere ai Creatori di abbandonare la Terra era stata soltanto uno stratagemma. In realtà, aveva intenzione di attaccarli e distruggerli, in un momento in cui fossero del tutto impreparati ad affrontare il suo attacco. E io sarei stato la sua arma.

Con la fine dei Creatori, l’intero continuum sarebbe stato suo. Avrebbe potuto colonizzare la Terra e distruggere la razza umana a suo piacimento. O ridurla in schiavitù, com’era stato nell’era neolitica.

Vi erano elementi che non potevo neanche immaginare. Ricordai come mi avessero detto più di una volta che lo spaziotempo non è lineare.

— Patetica creatura — udii la voce del Radioso sprezzante nei miei ricordi — tu pensi al tempo come a un fiume che scorre in un solo senso, dal passato al futuro. Il tempo è un oceano, Orion, un immenso mare sconfinato sul quale è possibile dirigersi in qualsiasi direzione.

— Non capisco — avevo risposto.

— E come potresti? — il Creatore mi aveva schernito. — Non ho mai impresso una tale comprensione dentro di te. Tu sei il mio cacciatore, non un mio pari. Tu esisti per servire ai miei scopi, non per discutere con me l’essenza degli universi.

Sono menomato nel corpo e nello spirito, dissi a me stesso. Ero stato creato così. Set aveva detto il vero.

E adesso stavo per essere rispedito al cospetto dei miei Creatori, per mettere fine alla loro esistenza. E alla mia.

27

Disteso nell’oscurità della mia cella, in attesa che Set mi inviasse verso la mia missione assassina, sentii il terreno sotto di me farsi sempre meno rovente. La stessa aria che respiravo non sembrava così calda com’era stata qualche momento prima, come se il mio tormento fisico fosse stato attenuato per ricompensarmi della mia capitolazione al volere di Set.

Non riuscivo a percepirlo nella mia mente, eppure sapevo che era lì, in attesa, pronto a prendere il controllo del mio corpo.

Avvertii una sensazione di vuoto allo stomaco. Il pavimento sembrò abbassarsi, dapprima piuttosto lentamente poi sempre più veloce, come un ascensore fuori controllo. Mi sentii affondare nell’oscurità, il pavimento sotto i piedi sempre più freddo a mano a mano che discendevo.

Allora vi fu un istante di freddo assoluto, di vuoto, in cui le dimensioni del tempo e dello spazio sembrarono scomparire. Ero sospeso nel nulla, privo di forma o di sensazioni, in un limbo in cui il tempo stesso non esisteva. Poteva essere passato un miliardo di anni come un miliardesimo di secondo.

Lucenti raggi dorati mi colpirono come saette di metallo fuso. Serrai gli occhi e mi portai una mano sul volto. Le lacrime mi scorsero giù per le guance.

Ancora non riuscivo a vedere nulla; prima per la mancanza di luce, adesso per il suo eccesso.

Ero raggomitolato in posizione fetale, la testa china sul petto, le braccia piegate sul volto. Nulla sembrava muoversi. Non un filo d’aria, non il canto di un uccello o di un grillo, né lo stormire delle foglie. Ascoltavo il cuore pulsare debole nelle mie orecchie. Cominciai a contare. Cinquanta battiti. Cento. Centocinquanta…

— Orion? Sei proprio tu?

Sollevai il capo con fatica. La luce dorata era ancora accecante. Stagliata contro quell’incredibile radiosità vidi la figura di un uomo in piedi di fronte a me.

— Aiutami — implorai in un sospiro rauco. — Ti prego.

L’uomo si chinò su di me. Allora i miei occhi si fecero più avvezzi alla luce, oppure essa diminuì d’intensità. Le lacrime cessarono di scendere sul mio volto. Il mondo cominciò a mettersi a fuoco.

— Come sei arrivato fin qui? E in simili condizioni!

“Attento!” avrei voluto dirgli. Ogni istinto dentro di me avrebbe voluto urlargli di restare in guardia, lui e tutti gli altri Creatori. Ma la voce mi si era raggelata in gola.

— Aiutami — fu tutto ciò che riuscii a gracchiare.

L’uomo chino al mio fianco era quello che conoscevo col nome di Ermes. Il corpo e gli arti erano snelli come quelli di un segugio, il volto un insieme di strette “V” il mento aguzzo, l’attaccatura dei capelli puntuta sopra una fronte liscia.

— Resta lì — mi disse.

Scomparve. Svanì alla mia vista come se fosse stata soltanto un’immagine proiettata su uno schermo.

Debolmente, mi tirai su a sedere. Ricordavo quel posto con la memoria di altre esistenze. Una distesa d’incommensurabile grandezza, il suolo coperto da una nebbia vagamente ondeggiante, sopra di me il cielo di un azzurro intenso che si faceva più scuro allo zenit, dov’era possibile scorgere alcune stelle. Ma erano veramente stelle? In quel mondo immobile e silenzioso non sfavillavano affatto.

In quel luogo avevo incontrato il Radioso parecchie volte. E Anya. Per quel motivo Set mi aveva inviato proprio in quel punto. Guardandomi intorno lo trovai artificioso, come uno scenario teatrale o un tempio costruito con sfarzo per incutere timore nei visitatori ignoranti. La simulazione di un paradiso cristiano o di un Valhalla imborghesito. Il tipo di scenario che gli Assassini dell’antica Persia avrebbero usato per convincere i loro scagnozzi imbottiti di droga che il paradiso era lì ad attenderli… a eccezione del fatto che gli antichi Assassini avrebbero riempito il posto di graziose danzatrici e splendide uri.

Compresi di osservare la dimora dei Creatori attraverso la mente cinica di Set. Era dentro di me, come il mio sangue e la mia mente. Era stato lui a impedirmi di mettere in guardia Ermes.

L’aria sembrò riempirsi nuovamente di luce, e io chiusi gli occhi.

— Orion.

Quando li riaprii vidi Ermes insieme ad altri due Creatori: quello che chiamavo Zeus e una snella ragazza bionda, così bella da togliere il fiato, che poteva solo essere Afrodite. Tutti e tre erano fisicamente perfetti, ognuno a suo modo. Gli uomini indossavano uno scintillante abito di tessuto metallico che aderiva alle loro figure come una seconda pelle, dalla punta degli stivali perfettamente lucidi al girocollo privo della benché minima piega. Afrodite indossava un abito leggermente pieghettato color rosa albicocca, legato alla vita da una cinta dorata. Aveva braccia e gambe scoperte, e la loro pelle era perfetta, quasi radiosa.

— Anya dovrebbe essere già qui — disse.

— Sta arrivando — rispose Zeus.

No! avrei voluto gridare. Ma non potevo farlo.

— Anche il Radioso sta venendo qui — disse Ermes.

Zeus annuì solennemente.

— È ridotto molto male — disse Afrodite. — Guardate com’è emaciato! E la sua pelle sembra bruciata.

Rimasero a guardarmi con aria pensosa. Nessuno di loro mi toccò. Non mi aiutarono a mettermi in piedi, né mi offrirono del cibo, o una brocca d’acqua.

Una sfera di luce dorata apparve di fianco a essi, così luminosa che persino gli stessi Creatori fecero un leggero sobbalzo e si coprirono gli occhi con le mani. La sfera fluttuò al di sopra del terreno nebbioso per un momento, scintillò, pulsò, quindi si contrasse e assunse forma umana.

Il Radioso. Lo avevo servito sotto il nome di Ormazd, il dio della luce, durante la lotta contro Ahriman e i neanderthaliani. Lo avevo combattuto sotto il nome di Apollo, il campione dell’antica Troia.

Era il mio Creatore. Lui mi aveva generato e, attraverso me, aveva generato l’intera razza umana. E il genere umano, evolvendosi durante i millenni, aveva infine prodotto quei semidei che si facevano chiamare i Creatori. Loro ci avevano creato; noi avevamo creato loro. Il ciclo era completo.

Tranne il fatto che adesso ero un’arma puntata contro di loro. Presto avrei ucciso i Creatori, dando inizio con quel gesto alla distruzione dell’intera razza umana, attraverso lo spaziotempo, attraverso tutti gli universi, cancellando la mia stessa genìa dal continuum per l’eternità.

Il mio creatore era in piedi davanti a me, altero e arrogante come sempre. Dal suo corpo sembrava irradiare una luminescenza dorata. Aveva spalle ampie, era alto e vestito con abiti di luci intermittenti, come se fosse coperto di lucciole. Il suo viso imberbe era ampio e severo, con occhi simili a quelli di un leone, e una fluente criniera di capelli dorati cadeva folta sulle sue spalle.

Lo odiavo. Lo adoravo. Lo avevo servito attraverso i secoli. Già una volta avevo cercato di ucciderlo.

— Non sei stato chiamato qui, Orion — disse con la bella voce tenorile che ricordavo, una voce che avrebbe potuto entusiasmare il pubblico di un concerto o una folla di fanatici religiosi, una voce venata di disprezzo.

— Ho bisogno… d’aiuto.

— Ovviamente. — Il tono delle sue parole era derisorio, ma nei suoi occhi lessi un’espressione ben più grave.

— Sembra ferito — disse Afrodite.

— Come ha potuto arrivare qui se non l’hai chiamato? — domandò Ermes.

Gli occhi di Zeus si chiusero a fessura. — Non gli avrai dato il potere di muoversi attraverso il continuum a suo piacimento, voglio sperare.

— Certo che no — rispose il Radioso, irritato. Voltatosi verso di me domandò, a sua volta: — Come sei giunto fin qui, Orion? Da dove vieni?

In quell’istante mi sentii ardere dal desiderio di obbedirgli. Grazie a istinti che lui stesso aveva posto dentro di me, non desideravo far altro che dirgli tutto ciò che sapevo. Set. La sua gente nel Cretaceo. Pronunciai le parole nella mia mente, ma la lingua si rifiutava di formularle. Il potere mentale che Set esercitava su di me era troppo forte. Rimasi a fissare i Creatori come un bue istupidito, come un cane che implorava il suo padrone di mostrargli un po’ d’affetto anche se non era riuscito a eseguire i suoi ordini.

— Decisamente c’è qualcosa che non va — disse Zeus.

Il Radioso annuì. — Vieni con me, Orion.

Cercai di obbedirgli, ma non riuscivo a mettermi in piedi. Mi dibattevo su quel ridicolo pavimento coperto di nubi come un bimbo troppo debole per reggersi in piedi.

— Be’, aiutatelo, no? — disse Afrodite, senza muovere un solo passo verso di me.

Il Radioso sbuffò con disprezzo. — Sei proprio malconcio, mio Cacciatore. Pensavo di averti creato un po’ più resistente.

Fece un leggero movimento con la mano, e mi sentii sollevare da mani invisibili che mi ressero a mezz’aria in posizione leggermente inclinata.

— Seguimi — disse il Radioso, voltandomi le spalle. Gli altri tre Creatori scomparvero come candele spente da un improvviso soffio di vento.

Rimasi a fluttuare nell’aria, indifeso come un bambino, di fronte al mantello scintillante di luci del Radioso. Il Creatore cominciò a camminare, anche se a me sembrava che non si fosse mosso; tutto intorno a noi sembrò sfocarsi, mutare. Non avvertii alcuna sensazione di movimento.

Discendemmo l’area coperta dalle nuvole come se scendessimo il versante di una montagna. Ma ancora non mi sembrava di muovermi veramente. Ero semplicemente seduto su un divano invisibile, osservando il mondo che scorreva davanti a me. Percorremmo un lungo sentiero e procedemmo sul tappeto erboso di un’ampia vallata. Una fila di alberi rigogliosi fiancheggiava il tortuoso corso di un fiume. Le sue acque brillavano sotto la luce del sole, alto nel cielo azzurro. Alcuni ammassi di cumuli fluttuavano serenamente nell’aria, proiettando ombre che screziavano di scuro la tranquilla vallata accesa di verde.

Cercai in quel pacifico cielo azzurro un punto di luce rosso come il colore del sangue rappreso. Sheol. Non riuscivo a trovarlo. Forse in quell’epoca non esisteva? O si trovava semplicemente sotto l’orizzonte?

Vidi una cupola dorata in lontananza, e nell’avvicinarmi a essa notai che era diafana, trasparente come un sottile velo d’oro. Sotto la sua magnifica, elegante curvatura si stendeva una città quale non avevo mai visto prima. Una serie di guglie alte e snelle che si protendevano verso il cielo; magnifici templi formati da colonne; erti ziggurat con stanze scavate nei fianchi di pietra, enormi piazze fiancheggiate da arcate eleganti, ampi viali abbelliti da archi di trionfo.

Il respiro mi si strozzò in gola quando riconobbi uno di quei magnifici edifici: il Taj Mahal, immerso nel suo splendido giardino. E una statua gigantesca che doveva essere il Colosso di Rodi. Di fronte a esso la Statua della Libertà, patinata di verde. E più avanti ancora il tempio principale di Angkor Wat, che brillava sotto il sole come se fosse appena stato eretto.

Tutto vuoto. Spopolato. Disteso sul mio divano d’energia, guidato dal Radioso attraverso le strade di quella città impossibile, non riuscii a scorgere anima viva. Non un uccello, né un gatto; nemmeno un brandello di carta o una foglia alla deriva per le vie, sulle ali della brezza che spirava dolcemente.

Sul lato opposto della città si ergevano torri di vetro e metallo cromato, così alte da incombere imponenti su tutti gli altri edifici.

Il Radioso mi guidò all’interno di una di esse, attraverso un vasto atrio di marmo levigato, fino a un disco d’acciaio scintillante che cominciò a salire non appena vi fummo sopra. Salì sempre più velocemente, sibilando in direzione del tetto coperto di vetro. L’atrio era inanellato da balconate che saettavano di fronte a noi a velocità vertiginosa, finché ci fermammo quasi d’improvviso, senza un sussulto o uno scossone, senza avvertire quello sgradevole senso di decelerazione che mi ero aspettato.

Il disco scivolò verso una nicchia semicircolare del balcone. Il Radioso scese da quella specie di ascensore senza dire una sola parola, e io lo seguii come trasportato da schiavi invisibili.

Si diresse verso una porta, la aprì ed entrò in una stanza. Mentre lo seguivo attraverso la soglia, un barlume di ricordo guizzò nella mia mente. La stanza sembrava un laboratorio. Era ingombra di macchinari a me vagamente familiari, ingombranti sagome di plastica e metallo che mi sembrava di avere già visto prima. Nel centro della stanza giaceva un tavolo chirurgico. Le mani invisibili che mi reggevano mi posarono su di esso.

Ero troppo debole per riuscire a muovermi, o forse mani invisibili mi trattenevano con fermezza.

— Dormi, Orion — ordinò il Radioso con tono seccato.

I miei occhi si chiusero immediatamente. Il mio respiro rallentò fino ad assumere il ritmo regolare del sonno. Ma non mi addormentai. Resistetti a quell’ordine e rimasi sveglio, domandandomi se ciò accadesse per mia stessa volontà o se fosse Set a controllarmi.

Sembrarono passare molte ore, e io ero sempre disteso su quel tavolo, immobile, con gli occhi chiusi. Di tanto in tanto udivo un debole ronzio di apparecchiature elettriche, ma niente più. Nessun passo. Nessun respiro a eccezione del mio. Il Radioso vestiva ancora le sue spoglie umane? O forse aveva riassunto la sua vera forma mentre le macchine mi esaminavano?

Per tutto il tempo non percepii nient’altro che la solidità del tavolo sotto di me. Quali che fossero le sonde che studiavano il mio corpo, non avevano alcuna consistenza fisica. Il Radioso mi stava analizzando atomo per atomo come un’astronave in orbita esamina il pianeta che ruota sotto di essa.

Per quanto fui in grado di capire, non si occupò della mia mente. Non avvertii la presenza di sonde mentali. Ero sempre ben sveglio e cosciente. I miei ricordi non venivano sollecitati. Il Radioso non si occupava della mia mente.

Perché?

— È qui!

La voce di Anya! Preoccupata, quasi furiosa.

— Non puoi disturbarlo adesso — disse il Radioso.

— È tornato di sua spontanea volontà, e tu vuoi impedirmi di vederlo — disse Anya con tono accusatorio.

— Non capisci? — ribatté il Radioso. — Non è in grado di tornare da solo. Qualcun altro deve averlo mandato qui.

— Lasciamelo vedere… oh! Guardalo! Sta morendo!

La voce di Anya tremava dall’emozione. Le importava di me! Immediatamente una voce nella mia mente insinuò: così come potrebbe importarle del proprio gatto, o di un cerbiatto ferito.

— È molto debole — disse il Radioso. — Ma non morirà.

— In che diavolo di faccende l’hai immischiato? — domandò lei.

A tutta prima il Radioso non volle rispondere. Infine, però, fu costretto ad ammettere: — Non lo so. Non so da dove sia arrivato e perché sia giunto qui.

— Gliel’hai chiesto?

— Sì, ma non mi ha dato risposta.

— L’hanno torturato. Guarda cos’hanno fatto al suo povero corpo.

— Lascia perdere! Abbiamo un bel problema. Quando ho cercato di sondargli la mente non ho trovato altro che il vuoto.

— La sua memoria è stata cancellata?

— Non credo. È più come se mi fossi scontrato contro una barriera. In qualche modo la sua mente è stata schermata.

— Schermata? Da chi?

Esasperato, il Radioso disse, con voce brusca: — Non lo so! E non posso scoprirlo fino a quando non avrò infranto la barriera.

— Pensi di riuscirci?

Potei sentirlo annuire. — Con un’adeguata riserva d’energia sono in grado di fare qualsiasi cosa. Il problema è che se fossi costretto a usare troppa energia potrei correre il rischio di distruggere del tutto la sua mente.

— Non devi farlo!

— Non ne ho intenzione. Qualsiasi cosa si nasconda nella sua mente, devo riuscire a tirargliela fuori.

— Non t’importa nulla di lui — disse Anya. — Non è che uno strumento nelle tue mani.

— Esattamente. Ma adesso potrebbe essere uno strumento nelle mani di qualcun altro. Devo scoprire di chi si tratta. E perché l’ha fatto.

Nel profondo del mio essere ero straziato da una marea di emozioni in conflitto fra loro. Anya desiderava proteggermi, mentre il Radioso voleva soltanto ciò che era racchiuso nella mia mente. Volevo ucciderlo. Volevo amare lei, e fare in modo che lei amasse me. Eppure, quelle emozioni erano soffocate dall’inflessibile controllo di Set sulla mia mente. Di nuovo ebbi una visione da incubo. In preda all’orrore, compresi che li avrei uccisi tutti.

28

— Lascialo a me — disse Anya.

Vi fu una lunga pausa, quindi il Radioso rispose: — Sei emotivamente coinvolta con questa creatura. Non sarebbe saggio se…

— Come puoi lasciare che la gelosia ottenebri il tuo giudizio in un momento simile?

— Gelosia! — Il Radioso sembrava stupefatto. — Forse che l’aquila può essere gelosa di una farfalla? O il sole geloso dei suoi pianeti?

Anya scoppiò in una risata simile al freddo tintinnio di una campana argentina. — Lascia che sia io a occuparmi di lui; reintegra le sue forze. Allora, forse potrà dirci lui stesso cosa gli è accaduto.

— No. Ho qui gli strumenti adatti…

— Per danneggiargli la mente con i tuoi metodi brutali. Io lo rimetterò in sesto. Allora potremo fargli tutte le domande che vorremo.

— Non c’è abbastanza tempo.

Il tono della voce di lei si fece derisorio. — Non c’è abbastanza tempo? Per il Radioso, che si vanta di poter viaggiare attraverso il continuum come su un oceano? Non c’è abbastanza tempo per colui che dice di comprendere le correnti degli universi più di quanto un marinaio comprenda quelle marine?

Udii il Creatore emettere un pesante sospiro, quasi uno sbuffo. — Voglio giungere a un compromesso con te. Posso reintegrare la sua forma fisica molto più alla svelta di quanto tu non possa fare imboccandolo di cibo. Quando sarà abbastanza forte da poter camminare e parlare, allora procederai col tuo interrogatorio.

— D’accordo.

— Ma se nel giro di qualche giorno non sarai riuscita a tirargli fuori ciò che vogliamo sapere — avvertì il Radioso — allora torneremo ai miei metodi.

Con maggior riluttanza, Anya ripeté: — D’accordo.

La udii allontanarsi, quindi mi sentii sollevare di nuovo da cuscini d’energia e trasportare via dal tavolo operatorio. Cercai di sollevare leggermente le palpebre, per sbirciare dove mi stessero portando, ma scoprii di non avere nessun controllo su di esse. Né potevo muovere le dita, o le punte dei piedi. Set, o forse il Radioso, controllava alla perfezione il mio sistema muscolare volontario. O forse erano entrambi, che inavvertitamente lavoravano di comune accordo.

Sentii il mio corpo scivolare in una specie di vasca orizzontale, un tubo cilindrico gelido sotto la mia pelle nuda e bruciacchiata. Poi il ronzio dell’energia. E il debole gorgogliare di un liquido. Infine caddi addormentato, e la mia mente cominciò a fluttuare in una fitta tenebra, più tranquilla di quanto non fosse mai stata per anni. Era come fare ritorno nel ventre materno, e il mio ultimo pensiero cosciente fu che forse quel cilindro di plastica e metallo era stato veramente il mio ventre materno. Sapevo di non essere nato da una donna, così come i seguaci di Set non erano nati da uova fecondate naturalmente.

Dormii, immensamente grato che il mio sonno non fosse turbato da sogni.

Fui risvegliato dal lieve rumore di un’onda che s’infrangeva su una spiaggia. Aprii gli occhi. Ero seduto su una poltrona reclinabile, soffice ma robusta, su un’alta balconata che dominava un immenso mare turchese. Uno stormo di uccelli bianchi e aggraziati attraversava in formazione il cielo azzurro e limpido. Le snelle figure grigie di un branco di delfini scivolavano senza sforzo attraverso le onde, fendendo l’acqua per un momento con le loro pinne ricurve, scomparendo per poi riemergere qualche istante più tardi.

Inspirai profondamente quell’aria fresca e pulita. I raggi del sole erano caldi e corroboranti, e la brezza che spirava dal mare era deliziosamente fresca. Mi sentivo nuovamente in forze. Abbassato lo sguardo, vidi che indossavo un abito bianco privo di maniche e un paio di pantaloni.

Per alcuni istanti rimasi disteso sulla sedia a sdraio, godendomi quella sensazione di benessere. La mia pelle era abbronzata, e tutte le vecchie bruciature e cicatrici erano scomparse da essa. I miei arti erano nuovamente in carne.

Mi alzai lentamente in piedi e scoprii che le mie gambe erano salde, quindi mi portai verso la balaustra della balconata. Abbassato lo sguardo, esaminai l’immensa distesa di sabbia sotto di me. Nessuno. Non un’anima viva. La spiaggia, leggermente incurvata, era cinta da palme maestose. L’edificio in cui mi trovavo sembrava ergersi alto fra esse.

Le onde s’infrangevano lente contro la sabbia. I delfini si aprivano la via attraverso quelle onde, tuffandosi e riemergendo da esse con un pesce stretto tra le fauci.

— Ciao.

Mi voltai. Anya era in piedi sull’uscio che portava alla balconata. Indossava abiti di seta bianca intessuti con fili d’argento scintillanti alla luce del sole. Aveva i lucenti capelli neri raccolti dietro la testa. Lineamenti classici che avevano ispirato agli scultori dell’antica Grecia l’immagine della bellezza più pura. La statua della dea Atena si animava di fronte a me.

Improvvisamente sentii la morsa crudele di Set chiudersi intorno alla mia mente, controllare le mie emozioni. Amore e odio, paura e desiderio, tutte imprigionate nella sua stretta glaciale.

— Anya — fu tutto ciò che riuscii a dire.

— Come ti senti? — chiese lei, avanzando verso di me.

— Bene. Molto meglio di… prima.

Anya fissò intensamente i miei occhi, e vidi il suo sguardo preoccupato.

— In che tempo ci troviamo? — domandai.

Con un leggero sorriso, ella rispose: — È mattina.

— No. Voglio dire… in che anno? In che era ci troviamo?

— L’era in cui sei stato creato, Orion.

— Dal Radioso.

— Il suo vero nome è Aten.

— Il nome del dio-sole egiziano.

Anya inarcò un sopracciglio. — Non difetta di presunzione, questo lo sai bene.

— Sono stato creato — dissi lentamente — per uccidere Ahriman.

— Sì. All’inizio. Poi Aten ti ha utilizzato anche per altri scopi.

— È folle, sai? Il Radioso, intendo.

Il sorriso scomparve dal viso di Anya. — Non esiste una cosa come la follia fra noi, Orion. Ci siamo evoluti ben oltre tali imperfezioni.

— Non sei veramente umana, non è così?

— Siamo ciò in cui gli umani si sono evoluti. I discendenti del genere umano.

— Ma questo corpo con cui ti mostri a me… non è che un’illusione.

Anya fece l’ultimo passo che la separava da me e sporse una mano per carezzarmi il volto. Sembrava palpitare di vita.

— Questo corpo è composto di atomi e molecole proprio come il tuo, Orion. Nelle mie vene scorre sangue. E ormoni. Proprio come nel corpo di qualsiasi donna umana.

— Ci sono esseri umani, quaggiù? Esistono ancora veri e propri uomini?

— Uomini e donne, certo. E qualcuno vive ancora qui, sulla Terra.

— Parlamene! — rantolai, con pressante insistenza esercitata dal volere di Set che si muoveva nella mia mente. Attraverso la mia voce, ma con parole sue, incalzai: — Voglio sapere tutto ciò che riguarda questo mondo.

Nel corso delle settimane successive, Anya continuò a spiegare tutto ciò che volevo sapere.

Fluttuammo su quel mare immenso in una bolla d’energia che rasentava la superficie dell’acqua. Vidi centinaia di delfini tuffarsi fra le onde, udii le enormi balene intonare i loro magnifici, strani canti nelle profondità marine. Come spettri, scivolammo sulle ali della brezza attraverso foreste secolari. I cervi che percorrevano quei boschi erano così miti da lasciarsi accarezzare. Ci librammo al di sopra delle montagne e su fertili praterie, avvolti in una sfera d’energia invisibile ma estremamente protettiva. Quando avevamo fame, dal nulla apparivano cibarie calde e succulente.

Vidi piccoli villaggi i cui tetti coperti di tegole brillavano alla luce riflessa sui loro pannelli solari e dove esseri umani simili a me accudivano i campi e le greggi. Non c’erano strade fra i villaggi, e non riuscii a scorgere nessun veicolo. Gran parte della Terra era disabitata, verde e rigogliosa, il cielo azzurro e incontaminato.

Vidi anche paludi brulicanti di alligatori, rane e tartarughe. Vidi l’enorme, terribile mole di un tirannosauro profilarsi alta al di sopra dei cipressi, e Anya dovette acquietare la mia paura istintiva.

— Tutta l’area è circondata da uno schermo d’energia. Non potrebbe uscire neanche una mosca.

Vivevo di nuovo insieme alla donna che amavo. Ma non ci toccammo né ci baciammo mai. Non eravamo soli. Sapevo che Set era dentro di me, e avevo l’impressione che anche lei lo sapesse.

Eppure Anya continuava a mostrarmi il mondo dei Creatori. Il pianeta Terra, più bello di quanto avessi mai immaginato, dimora di ogni forma di vita, un rifugio di pace e abbondanza, con un’ecologia che si manteneva bilanciata mediante l’energia del sole e grazie al controllo dei discendenti del genere umano, i Creatori. Era un mondo perfetto; troppo perfetto per me. Nulla sembrava essere mai fuori posto. Il clima era sempre mite e assolato. Pioveva soltanto di notte, e anche allora eravamo riparati dal nostro schermo d’energia. Neanche gli insetti ci molestavano mai. Ebbi l’impressione di vivere in un immenso parco con alberi artificiali, in cui gli animali erano in realtà macchine controllate dai Creatori.

— No, qui tutto è vero e naturale — disse Anya, una sera in cui eravamo distesi l’uno di fianco all’altra a contemplare le stelle nel cielo. Orione brillava nel suo giusto posto come tutte le altre costellazioni; anche l’Orsa appariva familiare. Quel futuro non era poi tanto remoto da farle apparire eccessivamente distorte.

La rossa Sheol, però, non esisteva affatto. Avvertii l’inquietudine di Set dentro di me e ne gioii.

L’evento cruciale per l’umanità, mi aveva spiegato Anya, era avvenuto circa cinquantamila anni prima. Gli scienziati avevano scoperto come manipolare il materiale genetico racchiuso nelle cellule di tutti gli esseri viventi. Dopo miliardi di anni di selezione naturale, il genere umano era riuscito a prendere il controllo non solo del proprio retaggio genetico, ma di qualsiasi specie vegetale o animale sulla Terra.

Aspre e amare erano state le opposizioni a tale impiego dell’ingegneria genetica. Furono commessi diversi errori, naturalmente, e talvolta si verificarono veri e propri disastri. Per quasi un secolo il pianeta venne impegnato in una serie di bioguerre.

— Ma il passo ormai era stato compiuto, per bene o male che fosse — Anya proseguì. — Una volta scoperto il segreto del controllo genetico, quella conoscenza non poteva essere cancellata.

La cieca evoluzione naturale fu rimpiazzata da un’evoluzione calcolata e controllata. Laddove la natura impiegava anni per creare un cambiamento, gli uomini adesso erano in grado di effettuarlo nel giro di una sola generazione.

La durata della vita aumentò con balzi da gigante. Due secoli. Cinque secoli. Migliaia di anni. La quasi immortalità.

La razza umana si disperse nello spazio, espandendosi dapprima entro i confini del sistema solare interno; quindi, superando d’un balzo i giganteschi pianeti gassosi orbitanti ai suoi confini, si diresse verso le stelle in enormi nicchie ambientali in grado di ospitare intere comunità di migliaia di uomini, donne e bambini che avrebbero impiegato molte generazioni alla ricerca di altri pianeti simili alla Terra.

— Alcuni decisero di alterare la propria struttura corporea in modo da poter vivere su mondi altrimenti letali per gli esseri umani — disse Anya. — Altri scelsero di rimanere a bordo delle proprie nicchie ambientali e farne le proprie nuove dimore permanenti.

Ma qualsiasi fosse stata la loro scelta, ognuno di questi gruppi di viaggiatori stellari aveva dovuto affrontare la stessa domanda finale: siamo ancora umani? Vogliamo rimanere tali? Le potenti radiazioni dello spazio profondo e le strane condizioni ambientali dei mondi alieni erano fonte di mutazione controllata.

Era necessaria una base d’approvvigionamento, un “modello-base” di genotipi umani originali coi quali confrontarsi per poter valutare qualsiasi decisione a riguardo. Era necessario mantenere un solido legame con la Terra.

Sulla quale, nel frattempo, generazioni dopo generazioni di ricercatori stavano scavando nel profondo della più pura essenza della vita. Alla ricerca nientemeno che dell’immortalità, tenevano strette le redini della loro stessa evoluzione dando inizio a una serie di mutazioni che, alla fine, avevano portato alla nascita di esseri in grado di intercambiare materia ed energia secondo il proprio volere, trasformando i propri corpi in globi di pura energia di modo da poter sopravvivere alle radiazioni solari.

— I Creatori — sussurrai.

Anya annuì con aria solenne, ma disse: — Non proprio Creatori, Orion, perché non avevamo ancora creato nulla. Eravamo soltanto il risultato finale di una ricerca iniziata, presumo, quando i primi ominidi sulla Terra scoprirono di non poter evitare la morte.

Non raggiunsero mai la vera e propria immortalità. Potevano sempre essere uccisi. Penso che abbiano persino commesso omicidi fra loro, in epoche passate. Ma si erano avvicinati di molto all’immortalità. Potevano vivere indefinitamente, finché disponevano di una fonte d’energia. Per creature simili il tempo non aveva più lo stesso significato che aveva avuto per i loro progenitori. Ma per una razza di creature immortali discendenti da scimmie particolarmente curiose, con tutta l’eternità a loro disposizione, il tempo era comunque una sfida.

— Impararono a manipolare il tempo, a viaggiare attraverso quella dimensione quasi con la stessa facilità con cui è possibile passeggiare in un prato.

E scoprirono con orrore che il loro non era l’unico universo nel continuum spaziotemporale.

— Gli universi sembrano ramificarsi all’infinito, in continuo contatto fra di loro — Anya proseguì. — Aten, il Radioso, scoprì un universo in cui i neanderthaliani si erano evoluti al punto di diventare la specie dominante sulla Terra, e il nostro tipo di essere umano non era mai sorto.

— I neanderthaliani avevano attuato un meraviglioso adattamento col loro ambiente — rammentai. — Non avevano bisogno di scienza o di alta tecnologia.

— Quell’universo invase il nostro — disse Anya, rivivendo quei tempi nei suoi occhi grigi. — La sovrapposizione fu così violenta da far temere ad Aten che il nostro universo potesse essere annientato.

Fra creature che da poco avevano raggiunto l’immortalità, quella scoperta aveva sollevato il panico. Che vantaggio c’è a essere immortali, se il proprio universo può esser spazzato via dalle vicissitudini cosmiche dello spaziotempo quantizzato?

— E fu allora che diventammo Creatori — disse Anya.

— E che il Radioso mi creò.

— Lui, insieme a cinquecento altri individui.

— Per sterminare i neanderthaliani — ricordai.

— Per salvare l’universo della nostra razza — corresse Anya con dolcezza.

Il Radioso, inorgoglito dal (mio) successo contro i neanderthaliani, aveva preso a esaminare altri nessi nello spaziotempo in cui sperava di alterare l’ordine naturale del continuum a beneficio del suo stesso ego vanaglorioso. Usandomi come strumento, aveva cercato più volte di alterare il continuum.

Scoprì allora, con suo grande stupore e generando la rabbia degli altri Creatori, che a ogni interferenza nella struttura dello spaziotempo si snodano miriadi di nuovi universi possibili. E più si cercava di risaldarli insieme, più il continuum veniva distorto e alterato. Allora non esisteva altra possibilità di scelta se non quella di continuare a manipolare il continuum; non era più possibile permettere allo spaziotempo di snodarsi lungo le sue linee naturali.

Già, sentii Set sibilare dentro di me, una scimmia vanagloriosa che saltella qua e là, disperdendo le proprie energie, distraendosi con la facilità di uno scimpanzè parlante. Io metterò fine a tutta questa confusione. Per sempre.

Cercai di avvertire Anya del fatto che vi erano altri esseri in grado di manipolare lo spaziotempo. Ma nemmeno quella semplice informazione riuscì a sfuggire al controllo di Set. Sentii il sudore imperlarmi la fronte per lo sforzo. Ma Anya non sembrò accorgersene.

— Così adesso siamo qui — disse, mentre sedevamo in una bolla d’energia che si muoveva alta sopra un oceano blu intenso, striato da lunghe onde bianche che viaggiavano da una parte all’altra della Terra quasi in perfetta uniformità.

— E insistete a manipolare il continuum — commentai.

— Siamo costretti a farlo — ammise. — Non possiamo smettere, se vogliamo evitare che l’intera struttura spaziotemporale si abbatta su di noi.

— Il che significherebbe…

— L’oblio. L’estinzione. Saremmo spazzati via dall’universo insieme all’intera razza umana.

— Ma l’umanità si è propagata nello spazio interstellare.

— Già, ma la sua origine risiede su questo mondo. La sua storia ha inizio sulla Terra, e solo in seguito si snoda attraverso la galassia. È sempre la stessa musica. Una volta alterata una parte degli eventi, l’intera loro catena è in pericolo.

Il nostro veicolo invisibile scivolò verso la parte in ombra del pianeta. Eravamo distesi in una posizione rilassante, ma avanzavamo nell’aria più alti e più veloci di qualsiasi uccello.

— Siete sempre in contatto con gli altri umani, quelli che si sono diretti verso le stelle?

— Sì — Anya rispose. — Continuano a inviare i loro rappresentanti sulla Terra per confrontare il flusso genetico delle loro colonie. Abbiamo stabilito una base nel Neolitico, qualche tempo prima dello sviluppo dell’agricoltura. È quella l’epoca che meglio rappresenta il nostro genotipo umano medio, in base al quale misuriamo tutti gli altri.

Pensai agli schiavi che avevo incontrato nel giardino di Set, al povero Pirk, alla scaltra Reeva e all’arrendevole, vigliacco Kraal. E udii nella mia mente la risata sibilante di Set. Davvero un modello di esseri umani molto fedele.

Cadde il silenzio. Eravamo diretti nuovamente verso la città, l’unica ancora popolata sulla faccia della Terra. Avevamo sorvolato le silenziose rovine abbandonate di molte antiche città, protette contro le ingiurie del tempo da bolle d’energia. Alcune di esse erano state interamente distrutte dalle guerre. Altre erano semplicemente deserte, come se l’intera popolazione avesse deciso di punto in bianco di abbandonarle.

Alcune di esse erano scomparse sotto l’avanzata delle acque del pianeta. La nostra sfera d’energia ci aveva portati lungo viali sommersi e ampie piazze in cui pesci e calamari saettavano nella poca luce solare che riusciva a filtrare dalla superficie.

Alla fine del nostro viaggio, mentre ci avvicinavamo all’unica città abitata della Terra, il vasto museo-laboratorio in cui il Radioso e gli altri Creatori erano intenti a tenere insieme il proprio universo, cercai di trovare il coraggio di porre ad Anya la domanda che più mi stava a cuore.

— Tu… cioè, noi… — balbettai.

Anya portò su di me i suoi splendidi occhi grigi e sorrise. — So cosa vuoi dire, Orion. Ci siamo amati.

— E… mi ami ancora?

— Certo. Non lo avevi capito?

— E allora perché mi hai tradito?

Le parole fuoriuscirono dalla mia bocca prima che Set potesse fermarle, prima ancora che io stesso fossi conscio di avere intenzione di pronunciarle.

— Come? — Anya era scossa. — Tradito? Quando? Come?

L’intero mio corpo fu percorso da spasmi di dolore lancinante. Era come se ogni mia terminazione nervosa venisse arrostita fra le fiamme. Non potevo parlare, non riuscivo nemmeno a muovermi.

— Orion! — Anya rantolò. — Cosa ti succede?

Tutto in me suggeriva che fossi caduto in stato catatonico, rigido e muto come una statua di granito. Interiormente, invece, ero consumato dall’agonia, incapace di gridare o di piangere.

Anya mi carezzò il viso e trasalì, come se potesse avvertire il fuoco che ardeva dentro di me. Poi, con cautela, portò nuovamente le dita sul mio volto. La sua mano era fresca, e il suo tocco portava sollievo come se fosse in grado di assorbire l’agonia dal mio corpo.

— Ti amo davvero, Orion — disse, con voce così bassa da essere quasi un sussurro. — Ho assunto aspetto umano per restare con te, perché ti amo. Amo la tua forza, il tuo coraggio e la tua resistenza. Sei stato creato per essere un cacciatore, un assassino, ma ti sei elevato ben oltre i limiti che Aten aveva posto alla tua mente.

La rabbia corrosiva di Set correva senza freno dentro di me, ma il dolore che mi suscitava andava attenuandosi a mano a mano che cercava di nascondere la sua presenza agli occhi indagatori di Anya.

— Abbiamo vissuto molte vite insieme, amore mio — disse Anya. — Ho rischiato la distruzione totale per amor tuo, così come tu hai affrontato la morte per me. Non ti ho mai tradito, e mai lo farò.

“Ma è proprio quello che hai fatto” urlai in silenzio. “È ciò che farai! Così come io tradirò te, uccidendo voi tutti”.

29

— È in crisi catatonica — sogghignò il Radioso.

— È soggetto al controllo da parte di qualche essere ostile — rispose Anya. Non mi aveva portato al laboratorio del Radioso, bensì nell’appartamento di un grattacielo in cui ero stato alloggiato prima che iniziassimo il nostro viaggio intorno al mondo.

Potevo camminare. Ero in grado di reggermi in piedi. Suppongo che avrei potuto persino bere o mangiare, ma non riuscivo a parlare. Il mio corpo sembrava di legno, completamente insensibile mentre mi muovevo come un automa nel mezzo dell’ampio soggiorno del mio appartamento, le braccia distese lungo i fianchi, gli occhi fissi su una parete di specchi che riflettevano il mio volto assente.

Il Radioso indossava una tunica che gli arrivava alle ginocchia, composta di uno strano tessuto scintillante e aderente sul suo corpo dall’aggraziata muscolatura. Portò i pugni sui fianchi e sbuffò con disgusto.

— Volevi trattarlo con dolcezza, circondarlo di tenere attenzioni, e me lo riporti in stato catatonico.

Anya aveva cambiato abito; indossava una camicia bianca e senza maniche legata alla vita da una cinta color argento.

— La sua mente è sotto il controllo dell’entità che ne sta torturando il corpo — disse, con voce tesa e preoccupata.

— Come sarà giunto fin qui? — domandò il Radioso, camminandomi intorno come se stesse esaminando un animale da mostra. — È riuscito a fuggire ai suoi torturatori o è stato inviato da loro?

— Si direbbe che l’abbiano inviato loro — disse Anya.

— Già, lo penso anch’io. Ma perché?

— Chiamate gli altri — udii formulare dalla mia voce in una specie di lamento soffocato.

Il Radioso mi guardò con aria severa.

— Chiamate gli altri. — La mia voce si era fatta più decisa, più forte. Ma era la voce di Set, sfuggita al mio controllo.

— Gli altri Creatori? — domandò Anya. — Tutti quanti?

Sentii la mia testa piegarsi e sollevarsi per due volte. — Radunateli qui. Tutti. — Quindi aggiunsi: — Vi prego.

— Perché? — domandò il Radioso.

— Ciò che sto per dirvi — Set rispose attraverso le mie labbra — dev’essere rivelato a tutti i Creatori.

Il Radioso mi guardò con circospezione.

— Devono vestire forma umana — Set mi fece dire. — Non posso parlare a dei globi d’energia. Devo vedere volti e corpi umani.

Gli occhi scuri del Radioso si ridussero a due fessure. Ma Anya si limitò ad annuire. Rimasi in silenzio, immobile sotto il ferreo controllo di Set, incapace di muovermi e di parlare.

— Sarà piuttosto scomodo pressarci tutti in questa stanza — disse, assumendo un tono di scherno.

— La piazza principale — suggerì Anya. — C’è posto a sufficienza per tutti, laggiù.

Il Radioso annuì. — Va bene.

Erano soltanto in venti. Venti gli uomini e le donne che si erano assunti l’onere di manipolare lo spaziotempo. Venti immortali impegnati a lavorare per l’eternità con lo scopo di evitare un’implosione del continuum.

Erano splendidi. Le forme umane nelle quali si presentarono erano veramente divine. Gli uomini erano belli e forti, alcuni con la barba ma per lo più ben rasati, con occhi chiari e muscolatura possente ma ben proporzionata. Le donne possedevano la grazia di una pantera o di un ghepardo. La loro pelle era candida e perfetta, i loro capelli fluenti, gli occhi più lucenti delle gemme più pure.

Indossavano i vestiti più svariati: scintillanti uniformi di fibra metallica, lunghi mantelli, persino abiti di maglia di ferro. Mi sentii piuttosto sciatto nella mia semplice tunica dalle maniche corte.

La piazza nella quale ci raccogliemmo era un rettangolo perfetto che si stendeva secondo dimensioni pitagoriche. Colonne di marmo e stele d’oro massiccio si ergevano a ogni angolo della piazza. Uno dei suoi lati maggiori era occupato da un tempio greco così simile al Partenone da farmi chiedere se i Creatori l’avessero semplicemente copiato o piuttosto non l’avessero trasferito lì attraverso lo spaziotempo, direttamente dall’Acropoli. Sul lato opposto c’era un tempio buddista splendidamente decorato, con un Buddha seduto d’oro massiccio che osservava sereno una dea Atena armata di scudo e lancia. Sui due lati minori della piazza c’erano uno ziggurat sumero e una piramide maya, così simili fra loro da sembrare generati dalla mente della stessa persona.

Sopra di noi il cielo era azzurro, e leggermente scintillante a causa della cupola d’energia che copriva l’intera città.

Nel mezzo della piazza, sul liscio pavimento di marmo, si ergeva una sfinge scolpita nel basalto, poco più alta di me; il suo volto femminile mi era fastidiosamente familiare, anche se non mi riusciva di ricordare dove avessi già potuto ammirarlo. Non somigliava al volto di nessuno dei venti Creatori che si erano riuniti intorno a me.

Ero in piedi con la schiena rivolta verso la sfinge, circondato da un cilindro di energia scintillante d’azzurro. Il Radioso non voleva correre rischi. Sospettava che fossi stato inviato lì da un nemico. Lo schermo d’energia serviva a tenermi a bada.

Set si divertì di fronte a quella precauzione. — Stupida scimmia — disse, dentro di me. — Quanto sopravvaluta i propri poteri.

I Creatori erano curiosi di conoscere il motivo per cui fossi giunto lì. Si strinsero in gruppetti di due o tre individui, parlandosi l’un l’altro a voce bassa, come in attesa della comparsa di qualcun altro. “Sono proprio simili a scimmie”, pensai. “Chiacchierano di continuo, in costante ricerca di appoggio reciproco. Persino nella forma più alta della loro esistenza mantengono tale aspetto della loro origine scimmiesca”.

Poi, un globo lucente del bianco più puro fluttuò sopra il tetto del Partenone, scivolando lentamente verso terra mentre i Creatori aprivano un varco per lasciarlo scendere fra loro. Non appena raggiunto il pavimento di marmo, la sfera sembrò contrarsi su se stessa per mutarsi nella solenne figura barbuta dell’uomo che conoscevo come Zeus.

Gli altri Creatori si raggrupparono intorno a lui mentre si portava di fronte al Radioso e ad Anya. Se non il loro capo, Zeus doveva essere almeno il loro portavoce.

— Perché hai voluto riunirci qui, Aten?

— E in forma umana, per giunta? — brontolò il rosso Ares.

Aten il Radioso rispose. — Molti di voi già conoscono Orion, la mia creatura. Si direbbe che qualcuno l’abbia inviato qui per recapitare un messaggio di estrema importanza per tutti noi.

Zeus si voltò verso di me. — Qual è il tuo messaggio, Orion?

Ogni mio istinto gridava di metterli in guardia, di esortarli a fuggire, perché ero stato mandato fra loro per ucciderli tutti. E allo stesso tempo volevo infrangere il campo di forza che mi circondava e colpirli in viso, straziarne le carni, smembrarli tutti uno dopo l’altro. Agonizzante, la mente colma d’orrore, rimasi lì in silenzio mentre dentro di me infuriava la battaglia fra l’istinto di servire i Creatori e l’odio corrosivo nei loro confronti, tanto mio quanto di Set.

— Orion! — ordinò il Radioso con voce tagliente. — Riferisci il tuo messaggio, adesso!

Lui stesso aveva instillato nella mia mente un categorico istinto di obbedienza nei suoi confronti, e il suo ordine bruciava imperativo in tutte le mie sinapsi. Tuttavia, sentivo l’opprimente presenza di Set controbilanciare quell’istinto, esortarmi allo sterminio. Il mio corpo era il campo di battaglia sul quale essi combattevano per il controllo, togliendomi ogni possibilità di scelta, rendendomi impossibilitato a muovermi o a parlare.

Zeus fece un sorrisetto sardonico. — Il tuo giocattolo è semplicemente guasto, Aten. Ci hai chiamati qui per niente.

Tutti scoppiarono a ridere. Gli alteri, presuntuosi, insensibili, spietati, insopportabili sedicenti dèi e dee si misero a ridere, del tutto ignari che la morte fosse a pochi centimetri da loro; del tutto indifferenti all’agonia che stavo provando. Soffrivo le pene dell’inferno, e per cosa? Per loro!

Infastidito, il Radioso brontolò: — C’è sempre stato qualcosa che non andava in questa creatura. Presumo che dovrò sbarazzarmene e generarne una migliore.

Anya sembrava costernata, ma non disse nulla. I Creatori cominciarono a voltare le spalle e ad allontanarsi, molti di loro fra le risa. Li odiavo tutti.

— Vi porto un messaggio — dissi, nella voce tonante di Set.

I Creatori si arrestarono, voltandosi a fissarmi.

— Un messaggio di morte.

Il cielo cominciò a farsi più scuro. Non a causa delle nuvole: il cielo stesso mutò rapidamente da un azzurro estivo a un viola profondo, fino a farsi nero. Compresi che Set aveva convogliato i generatori della cupola intorno alla città per impiegarne l’energia allo scopo di renderla più resistente. Con un colpo solo aveva imprigionato i Creatori nella loro stessa città, togliendo loro l’energia necessaria a riassumere la loro forma originale di sfere di pura energia.

La piazza venne inondata da una sinistra luce rossastra, mentre l’oscurità della cupola sembrava addensarsi, avvicinarsi sempre di più, come una rete o il nodo scorsoio di un boia.

— Siete in trappola — la voce di Set proruppe dalle mie labbra. — E qui incontrerete la vostra morte!

Il campo di forza azzurro intorno a me cominciò ad attenuarsi, mentre l’energia che lo alimentava veniva assorbita dal mio corpo. Per un istante fu come se migliaia di lame affilate fossero penetrate nelle mie carni, ma poi mi sentii più forte di quanto non fossi mai stato. Ed ero libero… libero di massacrarli tutti.

Mi mossi dal punto in cui ero stato imprigionato, dirigendomi verso il Radioso, le mani contorte in una morsa, simili agli artigli di qualche rettile predatore. Il Creatore non sembrava temermi, e aveva inarcato un sopracciglio nella sua solita espressione di disprezzo.

— Fermo, Orion. Ti ordino di fermarti.

Come se avessi mosso un passo verso le sabbie mobili, rallentai il passo e presi a vacillare. Era come cercare di muoversi nel cemento fresco. Poi avvertii un nuovo impeto di forza ribollire dentro di me come il vento caldo dell’inferno, proveniente dalle profondità della terra. Superai la barriera invisibile, sogghignando mentre il volto del Radioso mutava da un’espressione di boriosa superiorità a un’altra di improvviso terrore sbigottito.

Tutto rallentò intorno a me mentre i miei sensi scivolavano in ipervelocità. Vidi gocce di sudore imperlare l’ampia fronte del Radioso, vidi gli occhi di Zeus spalancarsi per la paura, vidi il potente Ares vacillare all’indietro, Afrodite ed Era voltarsi per fuggire e gli altri Creatori rimanere a bocca aperta, disperati, incapaci di mutare forma e sfuggirmi.

Allungai le mani, piegate come artigli, verso la gola del Radioso.

— Orion, no! — gridò Anya. Nel mondo al rallentatore della mia condizione d’ipervelocità la sua voce giunse come il lento tintinnio riverberato di una campana lontana.

Mi voltai verso di lei mentre il Radioso cominciava a indietreggiare.

— Ti prego, Orion! — Anya implorò. — Ti prego!

Mi fermai a fissare il suo bel viso contorto dall’angoscia. Nei suoi occhi grigi e impenetrabili non lessi alcun timore nei miei confronti. Sapevo che li avrei uccisi, tutti quanti. La amavo ancora, ma il ricordo del suo tradimento bruciava nella mia anima come una lama infuocata. Anche quell’amore era stato impiantato nella mia mente insieme agli altri istinti? Era un suo modo per controllarmi?

Mi trovavo nel centro di un triangolo, spinto con pari forza verso tre obiettivi diversi. Prima di tutto il Radioso: morte al mio creatore, a colui che mi aveva generato per sopportare il dolore e le pene che non voleva affrontare di persona. Le mie mani si distesero nuovamente verso la sua gola, mentre lui indietreggiava con la lentezza di un sogno. Gli altri Creatori cercarono di fuggire, ma la piazza ormai era completamente circondata dallo schermo d’energia che Set aveva reso una barriera impenetrabile.

Anya si fece avanti, con parole che mi fecero quasi arrestare. Ma dentro di me. Set usò tutte le armi di persuasione in suo potere per farmi avanzare.

Amore. Odio. Obbedienza. Vendetta. Ero dilaniato dalle forze che tutti loro esercitavano su di me. Il tempo era in stasi. Il Radioso, il cui volto era una maschera di furore e paura, aveva focalizzato la propria mente su di me come un potente raggio laser, esercitando ogni grammo di energia per piegarmi al suo volere. E più il suo potere penetrava dentro di me, più Set scatenava la sua spietata potenza per contrastarlo, traendo forza dai generatori che fornivano energia alla città, forzandomi a non cedere al condizionamento del Radioso, spingendomi a stringere le mani intorno alla sua gola e togliergli la vita.

Mi stavano riducendo in pezzi. Era come trovarsi in mezzo a due eserciti impegnati in un fuoco incrociato, come essere straziato nella ruota della tortura di un boia sadico e impietoso.

Anya si portò al mio fianco con occhi imploranti, le labbra aperte in un grido che non riuscivo più a udire.

Obbediscimi! comandava il Radioso nella mia mente.

Obbediscimi! tuonava Set in silenzio.

Entrambi continuavano a riversare sempre più energia dentro di me, come un paio di enormi laser puntati contro un bersaglio indifeso.

— Usa la loro energia! — riuscii infine a udire dalla voce rallentata di Anya. — Assorbi la loro energia e usala per te stesso!

Nei più remoti recessi del mio essere si levò una voce tormentata e agonizzante. “E io?” gridava. “E il povero Orion? Io, me stesso. Sono destinato a diventare lo strumento di un genocidio? Sono destinato a rimanere per sempre un giocattolo nelle mani del mio creatore o del mio spietato nemico? Quand’è che Orion sarà finalmente libero, completamente e totalmente umano?

— MAI PIÙ! — ruggii.

Avvertii la sorpresa di Set e del Radioso. Anya mi guardava col fiato sospeso, in attesa della mia mossa successiva.

Tutta l’energia si riversò dentro di me: il potere travolgente del Radioso e la terribile furia di Set. Tutta nel mio essere, sotto gli occhi lucenti di Anya.

— Mai più! — urlai di nuovo. — Non obbedirò mai più a nessuno di voi! Sono libero dal vostro controllo!

Distesi le braccia come per spezzare le catene che mi legavano.

— Non obbedirò mai più a nessuno di voi! — ringhiai contro di loro: al Radioso che mi stava di fronte sbigottito e a Set, furente nel mio cranio. — Potete andare entrambi all’inferno!

La bocca del Radioso era spalancata. L’espressione d’attesa di Anya cominciò a trasformarsi in un sorriso mentre mi si faceva vicina.

Ma la furiosa voce di Set gridò nella mia mente: — No, scimmia traditrice. Tu solo andrai all’inferno.

30

Di colpo mi trovai nello spazio mentre le stelle mi ruotavano intorno, vorticosamente. La piazza, la città, la Terra stessa erano tutte scomparse. Ero solo nel gelo intenso del vuoto fra i pianeti.

Non completamente. Potevo sentire l’odio di Set infuriare dentro di me anche adesso che non controllava più la mia volontà.

Nell’oscurità dello spazio lanciai una silenziosa risata. — Puoi punire il mio corpo — dissi mentalmente a Set — ma non puoi più controllarlo. Puoi scaraventarmi nel tuo inferno, ma non obbligarmi a servirti.

Lo sentii ululare di rabbia. Le stelle stesse sembrarono tremare sotto la violenza della sua ira.

— Orion! — udii la mente di Anya chiamarmi come una campana argentina nel deserto, come le acque di un ruscello fresco in un’afosa giornata d’estate.

Aprii la mia mente a lei. Tutto ciò che avevo vissuto, tutto ciò che sapevo di Set e dei suoi piani raggiunse la sua mente nello spazio di un microsecondo. La sentii analizzare le nuove informazioni, e visualizzai col mio occhio interiore l’espressione di stupore sul suo volto quando comprese con quale lieve margine lei stessa e gli altri Creatori fossero riusciti a sfuggire alla morte.

— Ci hai salvati!

— Ho salvato te — la corressi. — Non m’importa nulla degli altri.

— Ma io… hai detto che ti ho tradito.

— È vero.

— E mi hai salvata lo stesso.

— Ti amo — mi limitai a rispondere. Era la verità. La amavo con tutto me stesso, per l’eternità. Adesso ero certo che quel sentimento proveniva da una libera scelta del mio cuore, e non da qualche istinto riversato dentro di me dal Radioso o da qualsivoglia tipo di controllo esercitato da Anya sulla mia mente. Ero libero dal controllo di chiunque ed ero certo di amarla, qualsiasi cosa avesse fatto.

— Orion, stiamo cercando di raggiungerti per riportarti indietro.

— State cercando di salvarmi?

— Sì.

Fui sul punto di mettermi a ridere nel gelo assoluto dello spazio profondo. Le stelle continuavano a roteare intorno a me, come all’interno di un immenso caleidoscopio. Ma presto mi accorsi che una determinata stella era immobile nel vuoto, centro assoluto del mio turbinoso universo. La stella rosso sangue di nome Sheol.

Naturalmente. L’inferno di Set. Mi aveva scaraventato verso il centro della sua stella morente, per distruggermi in modo così definitivo che nemmeno gli atomi del mio corpo sarebbero rimasti intatti.

Anya comprese nello stesso momento le sue intenzioni.

— Stiamo per riportarti quassù — disse, con voce angosciata.

— No! — ordinai. — Spingetemi verso la stella. Convogliate dentro di me tutta l’energia possibile e lasciatemi affondare nel cuore morente di Sheol.

In quel terribile momento senza fine, sospeso nel vuoto infinito e senza tempo tra i mondi, compresi cos’avrei dovuto fare. Presi una scelta, liberamente, di mia spontanea volontà.

Perché il mio legame mentale con Anya era a doppio senso. Ciò che sapeva lei, lo sapevo anch’io. Vidi che anche lei mi amava con tutta la forza con cui una dea può amare un mortale. E vidi altre cose ancora. Compresi come avrei potuto distruggere il mondo di Set, la sua stessa stella, mettendo fine alla minaccia che quel nemico costituiva contro di lei e tutti i Creatori. Non che mi importasse molto di loro; anzi continuavo a odiare il Radioso. Ma volevo mettere fine alla minaccia di Set nei confronti di Anya una volta per tutte, a prescindere da quanto dovesse costarmi.

Anya comprese ciò che avevo intenzione di fare. — No! Resterai distrutto! Non potremo riportarti indietro!

— Cosa importa? Fatelo!

Amore e odio. Le due forze contrapposte che regolano la nostra specie passionale e dal sangue caldo. Amavo Anya. Nonostante il suo tradimento, la amavo. Sapevo che era un amore impossibile, che nonostante i brevi momenti di felicità rubati per noi non avremmo mai potuto vivere insieme. Meglio metter fine a tutto ciò, farla finita con quella vita di dolore e sofferenza, per donarle la vita al prezzo della mia morte definitiva.

E odiavo Set. Mi aveva umiliato, torturandomi il corpo e la mente, riducendomi a un automa. Come uomo, come essere umano, lo odiavo con tutta la furia di cui la mia natura fosse capace. Attraverso gli eoni, attraverso gli abissi che separavano i nostri mondi e le nostre specie, per tutto lo spaziotempo. La mia morte avrebbe distrutto per sempre le sue speranze, e nella mia rabbia straziante sapevo che la morte era un prezzo modesto da pagare, se con ciò potevo causare la fine di Set e di tutta la sua gente.

Con uno sforzo estremo di volontà arrestai il vorticare del mio corpo e puntai direttamente verso la rossa, lucente Sheol. “Non morirò da solo”, pensai. “Non moriranno soltanto Set e la sua orribile razza. Sarà anche la fine del loro mondo. E della stella intorno alla quale esso gravita. Porterò con me la distruzione totale”.

Troppo tardi Set si accorse di aver perso ogni controllo sul mio corpo. Avvertii il suo sbalordimento, la sua immensa disperazione.

— Tutto ciò che hai detto è sempre stata una menzogna — gli urlai mentalmente. — Adesso imparerai una verità cosmica. Il tuo mondo è giunto alla fine. Adesso.

Tutta l’energia che i Creatori potevano generare da migliaia di stelle in tutte le epoche del continuum fu convogliata dentro di me. Il mio stesso corpo divenne il punto focale di una potenza tale da poter distruggere mondi interi, da spegnere le stelle, da squarciare il tessuto stesso dello spaziotempo.

Correvo verso quella massa di sangue in ebollizione che era Sheol, non più un uomo ma un dardo di energia bianca e accecante attraverso il continuum, diretta verso il cuore della stella morente. Spire di plasma infuocato si protendevano verso di me; archi accecanti di gas ionizzati si formavano sulla superficie della stella come fiumi di anime infuocate. Disincarnato, potevo ugualmente vedere la superficie della stella ribollire e spumeggiare come un immenso calderone magico. Campi magnetici di tale intensità da poter ridurre l’acciaio in frantumi s’impadronirono del mio corpo. Potenti fiammate emanarono fiotti di radiazione letale, come se la stessa Sheol cercasse di proteggersi dalla mia avanzata.

Ma senza successo.

Mi immersi in quel maelstrom di plasma straziato affondando verso il suo centro, dove i nuclei degli atomi si fondevano per generare la titanica energia di quella stella. Con sadico piacere compresi che Sheol stava già morendo, che il suo fuoco nucleare aveva cominciato a vacillare, a farla tremare come indecisa fra la stabilità e la disintegrazione.

— Ti aiuterò a morire — dissi alla stella. — Metterò fine alla tua agonia.

Affondai attraverso innumerevoli strati di plasma, dritto verso il cuore di Sheol, nel quale le particelle subatomiche erano raggruppate con maggior densità del più compatto dei metalli. Sempre più in fondo, nelle profondità di un inferno nel quale nemmeno gli atomi esistevano come tali, superando onde su onde di raggi gamma e pulsazioni di neutrini; giù verso il cuore della stella, in cui i nuclei più pesanti generavano temperature e pressioni tali da non riuscire più a sopportarle neanche loro stessi.

Lì scatenai tutta l’energia che era stata convogliata in me, come un coltello affondato nel cuore di un nemico antico e temibile. Come per mettere fine alle sofferenze di un’anima tormentata da un cancro terribile.

Sheol esplose. E io persi la vita.

31

Fu nell’istante della devastazione finale, mentre la stella esplodeva a causa dell’energia che avevo diretto contro il suo cuore, che compresi quanto in effetti il sapere dei Creatori fosse vasto.

Morii. In quel maelstrom d’inimmaginabile violenza venni straziato; ogni atomo di quello che era stato il mio corpo andò in frantumi, i nuclei si divisero in strane particelle effimere che fiammeggiarono per una frazione di secondo.

Eppure la mia coscienza sopravvisse. Provai le pene dell’inferno mentre Sheol esplodeva ripetutamente.

Il tempo collassò intorno a me. Rimasi sospeso in stasi spaziotemporale, privo di corpo ma ancora cosciente mentre i pianeti giravano intorno al Sole con tale velocità da apparire come semplici strisce di luce colorata.

Vidi milioni di anni snodarsi veloci davanti a me. Privo di un corpo materiale, privo di occhi, semplice nucleo della mia stessa essenza, schema minimo essenziale di quell’intelligenza che ero io, ispezionai attentamente le conseguenze della devastazione di Sheol.

Con grande sorpresa mi accorsi di non aver causato la distruzione definitiva della stella. Era troppo piccola per esplodere in una supernova, causando un cataclisma di dimensioni così titaniche da non lasciare nulla intorno a sé a eccezione di una minuscola pulsar, una sfera di neutroni ampia soltanto una settantina di chilometri. No, l’esplosione di Sheol era un disastro di proporzioni minori, quella che un tempo gli astronomi della Terra avrebbero chiamato una nova.

Ma pur sempre un cataclisma.

La prima esplosione spazzò via gli strati esterni della stella. Sheol brillò con tale intensità da essere visibile a migliaia di anni-luce di distanza. L’involucro gassoso esterno del corpo celeste venne scaraventato nello spazio, soffocando in un abbraccio mortale il suo unico pianeta.

Su quel mondo arido e polveroso, il cielo si fece così luminoso da bruciare tutto ciò che di combustibile esisteva sulla sua superficie. Piante, cespugli, erba, animali, tutto prese fuoco. Ma le fiamme si spensero velocemente mentre l’atmosfera di Shaydan veniva scaraventata nello spazio dall’intenso calore. Quel poco d’acqua presente sulla superficie del pianeta evaporò nel giro di un istante.

Il calore vivo raggiunse i corridoi sotterranei in cui gli shaydiani avevano scavato le loro città. Milioni di rettili morirono fra indicibili tormenti, i loro polmoni bruciati e avvizziti. Nel giro di pochi secondi tutta l’aria venne risucchiata via, e quei pochi che erano riusciti a sfuggire al calore morirono soffocati, i polmoni accartocciati su se stessi, gli occhi esplosi fuori dalle orbite. I patriarchi perirono in sibilante agonia, e così i giovani rettili clonati a loro immagine.

Le rocce sulla superficie di Shaydan cominciarono a liquefare. Le montagne si sciolsero in lava fusa per poi raffreddarsi in vasti mari di vetro. Il pianeta stesso gemette sotto la tremenda energia prodotta dall’esplosione di Sheol. La vita venne spazzata via dalla sua superficie polverosa. Le città sotterranee di Shaydan rimasero disseminate di cadaveri carbonizzati, perfettamente conservati per le epoche a venire dal vuoto che aveva ucciso persino i più minuscoli microbi sul pianeta.

Ed era stata soltanto la prima esplosione.

Migliaia di anni passarono in un batter d’occhio. Milioni di anni nel giro di un battito cardiaco. Non che possedessi occhi o cuore, ma gli eoni sembrarono passare come in un film di animazione mentre osservavo la scena dal mio punto privilegiato nello spaziotempo.

Sheol esplose di nuovo. E di nuovo. I Creatori non volevano lasciare traccia alcuna di quell’astro. Fulmini d’energia sciamarono dalle profondità dello spazio interstellare per concentrarsi nel cuore di Sheol e straziarlo come un avvoltoio depreda le viscere della sua vittima.

Ogni esplosione sprigionò una pulsione di energia gravitazionale tale da schiacciare il pianeta Shaydan come un maglio frantuma una pietra. Vidi enormi fessure aprirsi da un polo all’altro di quel mondo morto e privo d’atmosfera.

Infine Shaydan si spaccò. A un’ulteriore esplosione della stella, il pianeta andò in frantumi nel silenzio assoluto dello spazio profondo… nello stesso silenzio in cui avevano vissuto i suoi abitanti, mi scoprii a pensare.

Improvvisamente il sistema solare si riempì di frammenti sibilanti come proiettili. Alcuni di essi erano grandi come pianeti, altri soltanto come una montagna. Guardai affascinato e in preda all’orrore quei frammenti scontrarsi l’un l’altro, esplodere, andare in pezzi, rimbalzare e urtarsi di nuovo. E si scontrarono anche con gli altri pianeti, il rosso Marte, l’azzurra Terra e la sua pallida luna butterata.

Una massa di roccia rettangolare s’infranse sulla sottile crosta di Marte, e quell’impatto titanico fece liquefare il mantello sottostante, sollevando oceani di lava bollente che fluirono attraverso l’intero pianeta, sollecitando enormi vulcani che vomitarono polvere, fuoco e rocce su buona metà della sua superficie. Fiumi di lava fusa scavarono profondi canali lunghi migliaia di chilometri.

Rivolsi la mia attenzione verso la Terra.

Le esplosioni di Sheol di per se stesse non avevano provocato molti danni. A ogni pulsione della stella morente i cieli notturni della Terra s’illuminavano d’aurora dal polo all’equatore, mentre particelle subatomiche provenienti dall’esplosione di plasma di Sheol colpivano il campo magnetico del pianeta surriscaldandone la ionosfera. Le pulsioni gravitazionali che avevano distrutto Shaydan non causarono effetti visibili sulla Terra; i circa seicento milioni di chilometri di distanza fra i due pianeti avevano indebolito le onde gravitazionali fino a ridurle a proporzioni irrilevanti.

Ma i frammenti di Shaydan, i resti di quel mondo distrutto, minacciarono di spazzare via la vita sulla faccia della Terra.

Per un milione di anni le piogge infuocate continuarono a scagliare migliaia di frammenti di pietra e metallo sulla Terra. Per lo più si trattava di piccoli massi che si disintegravano al loro ingresso nell’atmosfera, o di meteore che raggiungevano la superficie del pianeta mutate in granelli di polvere quasi invisibili. Ma di tanto in tanto, frammenti più grossi del pianeta esploso venivano imprigionati dalla gravità terrestre, scendendo verso la superficie della Terra come masse infuocate che illuminavano interi continenti al loro passaggio.

Pezzi di roccia e metallo di tanto in tanto penetrarono nell’atmosfera torturata del pianeta, urlando come tutti i demoni dell’inferno, percuotendone la superficie con terribili esplosioni. Come miliardi di bombe all’idrogeno che esplodano contemporaneamente, ognuna di queste gigantesche meteore colpì il pianeta con tale violenza da farlo tremare sul proprio asse.

Si sollevarono così nuvole di polvere estese come interi continenti, che si ersero oltre la stratosfera per portare le tenebre su mezzo mondo, schermando per settimane la luce del sole.

Laddove colpirono i mari, le meteoriti affondarono nella crosta di roccia delle profondità oceaniche, raggiungendo il mantello liquido al di sotto di essa. Tali impatti generarono alti geyser di vapore, producendo nubi in grado di schermare la luce del sole ancor più delle nuvole di fumo provocate dagli impatti con la terra.

La temperatura precipitò in tutto il mondo. In prossimità dei poli l’acqua salata solidificò in ghiaccio. I livelli marini scesero in tutto il pianeta, ed estesi mari interni si prosciugarono nel giro di un istante. Le creature che avevano vissuto di quelle acque perirono; le delicate alghe così come gli enormi becchi-d’anatra, privati del loro habitat naturale.

I frammenti generati dall’esplosione di Shaydan continuarono a cadere sulla Terra, penetrando nella crosta terrestre e generando catastrofici terremoti. Il terreno si aprì in enormi fessure lunghe mezzo pianeta. Esplosero nuove catene vulcaniche; interi continenti si divisero. Assistetti alla nascita dell’Oceano Atlantico e lo vidi estendersi sempre più, dividendo l’Africa e l’Eurasia dalle Americhe.

Catene montuose si ersero da terre che erano state pianeggianti; blocchi di roccia grandi come continenti interi si spostarono sul proprio asse, e il loro clima mutò radicalmente. Laddove erano state le paludi si ersero altipiani, e altre specie di piante e animali vennero spazzate via per sempre, cancellate dall’incessante mutazione del pianeta.

Il clima si fece ancora più rigido, mentre nuove catene montuose bloccavano le antiche correnti d’aria e nuova terra emergeva dal prosciugamento dei mari interni e delle paludi. Le correnti oceaniche mutarono corso, mentre nuove placche tettoniche si formavano dalle crepe che circondavano mezzo pianeta e le vecchie zolle si rinsaldavano nell’abbraccio rovente del manto planetario, generando immensi terremoti che devastarono ancora altri habitat.

Avrei voluto avere occhi per piangere. Le specie morivano a migliaia, spietatamente cancellate dalla faccia della Terra per causa mia, per ciò che avevo fatto. Distruggendo Sheol, facendo esplodere Shaydan, avevo condannato a morte piante e animali, predatori e prede, creature grandi e piccole.

Intere famiglie di plancton microscopico vennero sterminate da un polo all’altro, intere specie di piante finirono con l’estinguersi. Le graziose ammoniti chiuse nelle loro conchiglie, che avevano assistito alla distruzione portata da Set sulla Terra più di cento milioni d’anni prima, scomparvero per sempre dal ciclo della vita.

E i dinosauri. I giganteschi tirannosauri e gli innocui becchi-d’anatra, gli enormi triceratopi e i minuscoli stenonicosauri… tutti scomparsi, per l’eternità.

Non avevo certo agito con l’intenzione di annientare tutte quelle specie, ma ugualmente mi sentii schiacciare dal peso della mia colpevolezza cosmica. Il mio odio nei confronti di Set e della sua specie aveva generato tutta quella sofferenza, tutta quella morte. Avevo raggiunto la mia vendetta personale al prezzo dell’estinzione di intere forme di vita.

Riportai la mia attenzione sulla nuova Terra. Calotte di ghiaccio scintillavano ai suoi poli. Le rozze sagome dei continenti avevano assunto forme a me più familiari, sebbene non fossero ancora distanziate sul globo come le ricordavo. L’Atlantico si stava ancora estendendo, mentre vulcani punteggiati di rosso avvampavano per l’intera lunghezza della fessura che si estendeva dall’Islanda all’Antartico. L’America settentrionale e quella meridionale non erano ancora unite, e il bacino che un tempo sarebbe stato il Mediterraneo era una distesa di terra coperta d’erba.

Vidi una foresta stendersi alta contro il sole del mattino. Il cielo era limpido. Il bombardamento dei frammenti di Shaydan era finalmente cessato.

Un ruscello scorreva tra quei boschi. L’erba cresceva verde lungo le sue rive, i fiori si muovevano al vento rossi, gialli e arancio mentre le api ronzavano operose fra essi. Una tartaruga scivolò giù per un tronco e s’immerse nelle acque del ruscello, spaventando un rospo lì vicino che saltò fra le canne lungo la riva.

Gli uccelli si librarono in volo su splendide ali multicolori. Un piccolo animale provvisto di pelliccia era seduto su uno dei rami più alti di un albero, gli occhi neri e lucenti, il naso contratto in una smorfia d’inquietudine.

Questo è quanto rimane della vita sulla Terra, pensai tra me e me. Dopo la catastrofe che avevo causato, il pianeta era costretto a intraprendere un nuovo inizio.

Pensai allora che, come Set aveva ripulito la Terra per far posto alla propria razza di rettili, anch’io avevo involontariamente scagliato il pianeta verso il nuovo olocausto che un giorno avrebbe portato all’avvento della mia specie. Quel piccolo essere provvisto di pelliccia era un mammifero, un mio antenato, progenitore di tutta l’umanità e degli stessi Creatori.

Di nuovo compresi di essere stato uno strumento nelle loro mani. Avevo sacrificato il mio corpo, la mia stessa vita, non solo per distruggere Shaydan, ma per fare tabula rasa sulla Terra e prepararla così all’avvento dei mammiferi e della razza umana.

— Proprio come avevo intenzione di fare io per salvare la mia gente.

Era la voce di Set nella mia mente.

— Non sono morto, Orion. Sono vivo, qui sulla Terra insieme ai miei schiavi e ai miei servitori… grazie a te.

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