6

La rivide il giorno seguente. Meta si trovava nella cupola dell’astronavigatore, e guardava il cielo nero costellato di punti luminosi.

Per la prima volta non indossava la tuta; la stoffa morbida e sericea dell’abito le aderiva al corpo.

Gli sorrise. — Le stelle sono meravigliose. Venite a guardare. — Jason le andò vicino, alzando gli occhi. Le strane figure geometriche delle costellazioni gli erano familiari, ma esercitavano ancora su di lui una specie di attrazione. Tanto più in quel momento. La presenza di Meta non poteva passare inavvertita nel silenzio della cupola. La testa di lei quasi gli poggiava sulla spalla, e i capelli nascondevano in parte il cielo; il loro profumo era dolce.

Quasi senza pensare, l’abbracciò, conscio della morbidezza ferma della sua carne sotto l’abito sottile.

— State sorridendo — disse Meta. — Anche a voi piacciono le stelle.

— Molto — rispose Jason. — Ma non è quello soltanto. Ricordavo quanto mi avete raccontato ieri… Avete intenzione di rompermi un braccio, Meta?

— No, certo — rispose la ragazza con serietà. — Mi piacete, Jason. Anche se non siete di Pyrrus, mi piacete molto. E sono stata tanto sola…

Quando Meta alzò gli occhi, lui la baciò. Gli restituì il bacio senza vergogne né falsi pudori.

— La mia cabina è qui, in principio del corridoio — mormorò.

Da quel momento, non si separarono più. Quando Meta era di servizio, Jason le portava da mangiare sul ponte di comando, e parlavano. Scoperse ben poco sul suo mondo, perché, per un tacito accordo, non ne discutevano. Le raccontava dei numerosi pianeti che aveva visitato, e dei loro popoli. La ragazza sapeva ascoltare, e il tempo trascorreva svelto. Il viaggio fu meraviglioso.

Poi finì.

A bordo dell’astronave, c’erano quattordici uomini, eppure Jason non ne aveva mai visti più di due o tre assieme. Effettuavano dei turni. Gli abitanti di Pyrrus, quando non avevano da fare per servizio, badavano ai fatti propri. Soltanto quando l’astronave entrò in orbita, si riunirono, a un ordine trasmesso per radio.

Kerk dava ordini per l’atterraggio; ma erano faccende tecniche, e Jason non si preoccupò di farvi attenzione. Era il comportamento dell’equipaggio che l’interessava. Parole e gesti si facevano più rapidi. Sembravano soldati che si preparassero al combattimento.

Per la prima volta, Jason si accorse che gli somigliavano. Non che avessero la stessa faccia; o ripetessero identici movimenti. Era il modo con cui agivano e reagivano, che li rendeva uguali. Sembravano enormi felini, pronti allo scatto, con i nervi tesi.

Cercò di parlare con Meta, dopo la riunione, ma gli parve un’estranea.

Rispose a monosillabi, senza guardarlo. In realtà, Jason non aveva niente di importante da dire; e Meta si allontanò. Lui fece un gesto per fermarla, poi si trattenne. Non sarebbero mancate altre occasioni.

L’unico che gli badasse fu Kerk… per ordinargli di stendersi in una cuccetta di accelerazione.

Meta atterrava con uno stile infinitamente peggiore che al decollo.

Spunti improvvisi d’accelerazione squassavano la astronave. Poi, una fase di caduta libera parve interminabile. Tonfi sordi riscossero lo scafo. Fu più una battaglia che un atterraggio. E quando infine l’astronave fu ferma Jason non se ne accorse neanche. I 2 G di gravità, su Pyrrus, producevano un effetto di decelerazione. Soltanto il gemito sempre più debole dei reattori lo convinse che erano arrivati. Dovette fare uno sforzo per slacciare le cinghie di sicurezza e sedersi in cuccetta.

Camminare richiedeva la stessa fatica che trasportare sulle spalle un fratello gemello; quando Jason alzò un braccio, per aprire la porta, fu come alzarne due. Si spostò con lentezza verso il boccaporto principale.

L’avevano preceduto tutti; due uomini trasportavano cilindri di una lega metallica trasparente. Jason non riuscì a immaginare a cosa servissero: avevano un metro di diametro, ed erano più lunghi di un uomo. Una base era fermata da cardini, ed era a chiusura ermetica. Soltanto quando Kerk ne aperse uno, Jason capì.

— Entrate — ordinò Kerk. — Quando vi avremo chiuso qui dentro, vi trasporteranno fuori dall’astronave.

— No, grazie — ribatté Jason. — Non ho alcun desiderio di arrivare sul vostro pianeta come in una scatola.

— Non fate l’idiota — scattò Kerk. — Usciremo tutti, così. Siamo stati lontani per troppo tempo, per rischiare di scendere in superficie senza aggiornarci.

Jason, si sentì un po’ sciocco, quando vide che gli altri entravano senza indugio nei cilindri. Allora scelse il più vicino, entrandovi a piedi in avanti, e chiuse il coperchio, stringendo un volante al centro, che comprimeva una guarnizione flessibile. Dopo qualche attimo, il contenuto di C02 nel cilindro aumentò, e un rigeneratore d’ossigeno cominciò a ronzare sul fondo.

Kerk entrò nel suo cilindro per ultimo. Dopo aver controllato la chiusura di tutti gli altri, premette il comando di apertura della camera stagna.

Mentre il portello cominciava già a scorrere, con gesti rapidi si chiuse nell’ultimo involucro libero. La camera stagna si aperse, e una luce grigiastra filtrò nell’astronave, attraverso scrosci di pioggia.

Minuti interminabili trascorsero, prima che un autocarro con elevatore comparisse. Il guidatore caricò i cilindri come un qualsiasi bagaglio. Jason ebbe la sfortuna di trovarsi sul fondo; così, mentre si allontanavano, non poté vedere niente.

Soltanto quando i cilindri furono scaricati in una stanza con le pareti metalliche, incontrò per la prima volta un esemplare vivente sul pianeta.

L’autista era intento a chiudere una pesante porta, quando qualcosa entrò volando, e urtò la parete di fondo. L’occhio di Jason fu attirato da quel movimento; stava voltandosi per guardare, quando il mostro si lanciò diritto contro di lui.

Dimenticando la parete trasparente che lo proteggeva, Jason si rannicchiò tutto. Il mostro aderì al cilindro. Era quasi troppo orrendo, per essere vero. Un portatore di morte, ridotto all’essenziale. Una bocca, che divideva in due la testa, file e file di denti serrati e appuntiti. Ali cuoiose munite di artigli, e artigli più lunghi sulle zampe.

Jason fu invaso dal terrore, quando vide che gli artigli riuscivano a lacerare il metallo. Dove la saliva del mostro sfiorava il cilindro, l’acciaio ribolliva.

Senza dubbio si trattava soltanto di graffi superficiali. Ma una paura invincibile costrinse Jason a rannicchiarsi ancora di più sul fondo.

Soltanto quando il mostro cominciò a dissolversi, comprese la caratteristica della stanza in cui si trovava. Getti di liquido fumante furono proiettati da ogni lato, sin quando i cilindri ne furono coperti. Dopo un ultimo colpo di zampe, il mostro fu eliminato. Il liquido scomparve attraverso il pavimento, e una seconda, poi una terza doccia seguirono la prima.

Mentre le soluzioni disinfettanti venivano eliminate, Jason si sforzò di dominarsi. Era sorpreso. Per quanto il mostro fosse stato orribile, non riusciva a spiegarsi il terrore che era riuscito a suscitare anche attraverso le pareti del cilindro. La sua reazione era stata sproporzionata alla causa.

Anche adesso che il mostro era stato annientato, gli occorse tutta la sua forza di volontà per calmarsi, per tornare a respirare in modo normale.

Vide che Meta gli passava davanti; e capì che il procedimento di sterilizzazione era terminato. Aperse il cilindro, e ne uscì stancamente.

Anche gli altri, ormai, erano usciti, e nella stanza rimaneva soltanto un estraneo, con il naso a becco d’uccello.

— Sono Brucco, della clinica di aggiornamento — esclamò. — Kerk mi ha spiegato chi siete. Mi spiace che vi troviate qui. Adesso seguitemi. Mi occorre un campione del vostro sangue. — Lo precedette brontolando, dopo aver percorso un corridoio, entrarono in un laboratorio.

La doppia gravità stancava, premendo senza sosta sui muscoli. Mentre Brucco esaminava il campione sanguigno, Jason riposò. S’era quasi addormentato, quando Brucco tornò con un vassoio carico di fiale e di siringhe ipodermiche.

— È sbalorditivo — esclamò. — Non avete nelle vene neanche un anticorpo che vi sarebbe utile, qui. Debbo vaccinarvi… starete male come un cane, almeno per un giorno. Toglietevi la camicia.

— Vi capita spesso…? — domandò Jason, obbedendo.

Brucco gli infilò un ago nel braccio. — Oh, no. L’ultima volta è stato cinque o sei anni fa, con un gruppo di scienziati che volevano studiare le forme vitali di Pyrrus.

— E in quanti se la sono cavata…? — Jason cominciava a sentirsi più leggero, per le iniezioni.

— Uno solo. L’abbiamo fatto partire in tempo.

Per un attimo, credette che Brucco scherzasse; poi pensò che se Meta e Kerk gli avevano raccontato la verità, sei contro uno era in fondo una percentuale da disprezzarsi.

Nella stanza accanto c’era un letto, e Brucco l’aiutò a sdraiar visi. Jason si sentiva stordito. Si addormentò profondamente.

Il suo sonno fu tormentato da un incubo. Quando si svegliò, ricordava soltanto il terrore che gli aveva ispirato. Era fradicio di sudore, e tutti i muscoli gli dolevano. Effetto dei vaccini, forse.

Brucco comparve sulla soglia. — Credevo che foste morto. Avete dormito ventiquattr’ore. Non muovetevi. Vi porterò qualcosa per rimettervi in gamba.

Il «qualcosa» era un’altra iniezione, più un bicchiere di liquido dall’aspetto orribile. Gli fece passare la sete; ma gli fece anche sentire una fame insopportabile.

— Avete fame, eh? — domandò Brucco. — Per forza. Ho accelerato il vostro metabolismo, per farvi aumentare più in fretta la massa muscolare.

È l’unico modo per vincere la gravità.

Mangiarono assieme; e Jason ebbe l’opportunità di rivolgergli qualche domanda. — Quando potrò dare un’occhiata al pianeta? Finora, questo viaggio è stato interessante come un soggiorno in galera.

— Rilassatevi, e pensate a mangiare. Ci vorranno dei mesi prima che possiate uscire. Se pure ve lo permetteremo.

Jason si accorse di esser rimasto a bocca aperta. — E potreste spiegarmi il perché…?

— Certo. Dovrete ricevere lo stesso addestramento dei nostri bambini.

Loro ci impiegano sei anni, i primi sei anni di vita. E hanno il vantaggio dell’ereditarietà. Posso dirvi soltanto che uscirete di qui, quando sarete pronto. — Fissò le braccia nude di Jason con sguardo disgustato. — Innanzitutto, vi procurerò una pistola — annunciò. — Mi fa star male, vedere un tizio disarmato. — Brucco, infatti, non abbandonava mai la propria arma. — Ogni pistola — proseguì — è adattata al suo proprietari e sarebbe inutile a chiunque altro. Ora vi faccio vedere perché. — Accompagnò Jason in un’armeria stipata di arnesi letali. — Mettete il braccio qui dentro.

Era una specie di scatola, con un calcio di pistola su un lato. Jason l’impugnò, appoggiando il gomito su un sostegno metallico. Brucco adattò alcune punte che gli sfioravano il braccio, poi copiò i risultati che alcuni quadranti indicavano. Leggendo le cifre sull’elenco, scelse numerose parti da una scaffalatura carica di scatole, e in breve mise assieme una pistola, con relativo fodero. Quando il fodero gli fu assicurato all’avambraccio, ed ebbe la pistola in pugno, per la prima volta Jason si accorse che erano unite da un cavo flessibile. L’arma gli si adattava alle dita in modo perfetto.

— Questo è il segreto — spiegò Brucco, sfiorando il cavo. — È libero, mentre usate la pistola. Ma quando volete che torni nel fodero… — Fece un gesto, e il cavo si irrigidì, strappando l’arma dal pugno di Jason e tenendola sospesa in aria.

— Poi il ritorno. — Il cavo ronzò e la pistola si infilò di scatto nel fodero.

— Per estrarre, è tutto il contrario.

— Un bell’aggeggio — ammise Jason. — Ma come faccio? Devo fischiare, per far saltar fuori la pistola?

— No, non è a comando sonoro. Ecco qua… piegate la mano sinistra, e fingete di stringere una pistola. Tendete l’indice. Sentite come lavorano i tendini del polso? Degli attivatori molto sensibili nel fodero toccano appunto i tendini del vostro polso destro. Sono sensibilizzati soltanto al movimento di impugnare l’arma. Dopo un po’ il meccanismo diventa automatico.

Jason mosse la destra, piegando l’indice. Provò un dolore improvviso alla palma, e ci fu una detonazione. La pistola si trovava fra le sue dita, e un filo di fumo usciva dalla canna.

— Naturalmente, ci sono soltanto cartucce a salve, lì dentro. L’arma è sempre carica, e non ha sicurezza.

Senza dubbio, si trattava della pistola più terribile che Jason avesse mai usato. Si sforzò di imparare a manovrarla. Sembrava decisa a sfuggirgli dalle dita un attimo prima che lui premesse il grilletto; anche peggiore era la tendenza a scattar fuori del fodero prima del momento adatto. La pistola era proiettata nella posizione ideale; se le dita non erano disposte come dovevano, erano colpite con violenza. Jason smise di esercitarsi soltanto quando ebbe tutta la mano coperta di lividi.

La padronanza assoluta sarebbe venuta col tempo, ma riusciva già a capire perché a Pyrrus nessuno toglieva mai la pistola.

Brucco l’aveva lasciato solo. Quando la mano divenne inservibile, Jason si diresse verso la sua stanza. Svoltando in corridoio, intravide una figura miliare.

— Meta! Aspetta un momento! Voglio parlarti.

La ragazza si voltò con impazienza. Sembrava completamente diversa da quella che aveva conosciuto sull’astronave. Calzava un pesante paio di stivali e indossava una ingombrante tuta metallica.

— Ho sentito la tua mancanza — disse Jason.

— Cosa vuoi? — domandò Meta.

— Cosa voglio…! — ripeté, nascondendo appena la sua collera. — Sono Jason, non ti ricordi?

— Quello che è successo sull’astronave non ha niente a che vedere con Pyrrus. — Meta si avviò. — Ho terminato il riaggiornamento, e debbo tornare al lavoro. Tu resterai qui, e non ci vedremo più.

— Con i bambini, eh? Non andartene, dobbiamo sistemare qualcosa, prima…

Jason commise l’errore di tendere una mano per fermarla. In realtà non comprese quello che accadde subito dopo. Si trovò di colpo steso a terra.

Meta era scomparsa.

Tornando zoppicando verso la sua stanza, imprecò sottovoce.

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