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Il cassiere elettronico, in Banca, appena «vide» una delle banconote gli indicò, accendendo un pannello luminoso, di recarsi dal vicepresidente Wain. Wain, quando guardò il malloppo, impallidì.

— Volete… depositarli qui? — domandò.

— Non oggi — rispose Jason. — Mi sono stati pagati a saldo di un debito.

Vorreste controllare se sono autentici, per favore, e cambiarmeli? Gradirei banconote di piccolo taglio.

Aveva le tasche interne della giacca rigonfie, quando uscì. Il danaro era buono, e gli pareva di essere una Zecca ambulante. Era la prima volta, e avere con sé una grossa somma lo metteva a disagio. Chiamando con un cenno un elicab di passaggio, si recò subito al Casinò, dove per un po’ sarebbe stato al sicuro.

Il Cassylia Casinò era il centro d’attrazione dei giocatori di tutte le costellazioni vicine. Jason vi entrava per la prima volta, benché conoscesse bene il tipo di locale. Aveva trascorso quasi tutta la vita, dall’età della ragione, in luoghi come quello, su altri mondi. Erano tutti identici. Gioco e bel mondo, in apparenza; ma, dietro le quinte, tutti i vizi possibili e immaginabili. In teoria le puntate non avevano limite; ma in pratica, quando la «casa» subiva un forte colpo, i giocatori dovevano stare in guardia. Ma Jason non era preoccupato.

La sala da pranzo era quasi deserta, e il maggiordomo si affrettò ad avvicinarsi. Jason era snello, scuro di capelli, e si muoveva con scioltezza, sicuro di sé, più come possessore di grandi ricchezze di famiglia, che come giocatore. L’apparenza era importante, e lui vi badava molto. Pranzò con comodo, mentre la grande sala si riempiva di clienti. Poi impiegò altro tempo guardando il varietà, mentre fumava un lungo sigaro. Quando infine entrò, le sale da gioco, erano già stipate e in piena attività.

Spostandosi adagio, puntò qualche migliaio di crediti. Quasi non badava al gioco; si guardava attorno con attenzione. A quanto sembrava, non c’erano irregolarità, e le macchine non erano truccate. Di solito, non era necessario la percentuale spettante alla casa bastava ad assicurare un guadagno.

Una volta vide Kerk, con la coda dell’occhio, ma non gli badò.

L’ambasciatore perdeva piccole cifre, e pareva nervoso. Probabilmente, aspettava che Jason cominciasse a fare davvero.

Jason si fermò, come sempre, al tavolino dei dadi. Era il modo più semplice per guadagnare qualcosa. Questa notte, se va bene, sbanco il casinò! Era quello il suo segreto: una specie di premonizione che gli consentiva di vincere, e, di tanto in tanto, permetteva il colpo grosso.

Venne la sua volta di tirare, e lanciando i dadi fece un otto. Le scommesse non erano molte, e lui non spinse a fondo contentandosi di evitare i sette. Fece il punto e la mano passò.

Lì seduto, puntando poco per volta, in modo automatico, mentre i dadi giravano attorno, pensò alle sue facoltà. Strano; dopo tanti anni; non sappiamo ancora molto, delle percezioni extrasensoriali. Oggi, è possibile, con l’addestramento, migliorarle; ma non di più.

Si sentiva forte era certo che il danaro che aveva in tasca gli avrebbe dato la piccola spinta aggiuntiva che talvolta lo aiutava a vincere. Con gli occhi semichiusi, raccolse i dadi; lasciò che la sua mente carezzasse i punti incisi nel cubo. Poi li lanciò; era un sette.

Le sue facoltà funzionavano. Meglio di quanto avessero mai fatto. I milioni di crediti avevano aggiunto il loro peso. Vedeva con chiarezza straordinaria, e sentiva di poter dominare i dadi. A un tratto, seppe con certezza la cifra che gli altri giocatori tenevano nel portafoglio, «vide» le carte che quelli che si trovavano alle sue spalle avevano in mano.

Adagio, con attenzione puntò.

Manovrava i dadi senza sforzo: rotolavano, fermandosi al momento giusto, come cani ben addestrati. Impiegò quasi due ore, per ammucchiare sul tavolo settecentomila crediti. Si concentrava sulla psicologia dei giocatori, e teneva d’occhio il rappresentante del casinò; a un certo punto, vide che quello, con un cenno segnalava che le vincite cominciavano a farsi forti. Aspettò che uno scagnozzo si avvicinasse con indifferenza poi puntò tutto, e lanciò i dadi con aria ispirata, perdendo. Lo scagnozzo sorrise, il croupier si rilassò… e con la coda dell’occhio Jason vide che Kerk diventava scarlatto.

Pallido, madido di sudore, percorso da un tremito leggero, Jason sbottonò la giacca, e ne tolse una busta piena di banconote. Rompendo il sigillo, ne lasciò cadere due sul tavolo.

— Si potrebbe giocare a puntata libera? — domandò. — Mi piacerebbe ricuperare un po’ di soldi.

Il croupier faticava a dominarsi, adesso. Rivolse un’occhiata al sorvegliante che mormorò un rapido sì. Avevano trovato un pollo e intendevano ripulirlo. Per tutta la sera, aveva attinto al portafoglio; adesso apriva una busta nuova, per cercare di ricuperare quello che aveva perduto.

Una busta gonfia, anche, e probabilmente con danaro non suo… Non che alla casa interessasse. Il gioco continuò senza il minimo sospetto.

Proprio quello era il desiderio di Jason. Doveva realizzare forti vincite prima che il casinò si rendesse conto che avrebbe anche potuto perdere.

Poi la situazione si sarebbe fatta delicata, e lui voleva ritardare quel momento il più possibile. Sarebbe stato difficile, da allora, vincere e le facoltà psicosensoriali potevano scomparire com’erano venute. Non sarebbe stata la prima volta.

Giocava contro il banco, ora: i due che lo imitavano erano evidentemente specchietti per allodole e una folla s’era accalcata attorno.

Dopo alcune fasi alterne, Jason imbroccò una serie buona e il mucchio dei gettoni d’oro continuò a crescere. Aveva davanti quasi un miliardo. I dadi non lo tradivano, benché fosse madido di sudore per lo sforzo. Puntando tutto in una volta, tese la mano. Ma il croupier lo precedette, togliendogli i dadi.

— La casa chiede dadi nuovi — esclamò con voce atona.

Jason si asciugò le mani, lieto di quell’attimo di sollievo. Era la terza volta che cambiavano i dadi, nel tentativo di interrompere la serie fortunata. Il funzionario del casinò ne tolse dalla borsa un paio nuovo, a caso. Lacerandone l’involucro di plastica, li lanciò verso Jason. Si fermarono sul sette, e Jason sorrise.

Quando li prese in mano, il sorriso svanì adagio. Il dadi erano levigati lavorati con cura di peso identico su ogni lato… ed erano truccati.

Il pigmento che segnava i punti sulle facce di ogni dado, su cinque facce era un composto metallico qualsiasi, probabilmente a base di piombo.

Sulla sesta faccia, era a base di ossidi ferrosi. I dadi avrebbero rotolato in modo normale, a meno che non incontrassero un campo magnetico… il che significava che tutta la superficie del tavolo poteva essere magnetizzata.

Jason non avrebbe mai potuto notare la differenza, se non avesse osservato mentalmente i dadi. Ma cosa poteva fare?

Agitandoli adagio, si guardò attorno. Vide quello che cercava. Un portacenere, calamitato alla base, per poterlo fermare all’orlo metallico del tavolo. Jason smise di agitare la mano, e guardò i dadi, perplesso, poi tese il braccio e prese il portacenere. Ne appoggiò la base alla mano.

Quando lo rialzò, tutti gli spettatori emisero un’esclamazione di meraviglia. I dadi erano attaccati all’arnese.

— E voi li chiamate dadi onesti? — domandò.

L’uomo che aveva presentato i dadi portò la mano verso la tasca posteriore, con un gesto rapido. Jason fu l’unico a vedere cosa accadde in seguito. Fissava quella mano, con le dita che sfioravano l’impugnatura della pistola. Mentre lo scagnozzo frugava in tasca, un’altra mano si tese, dalla folla che gli stava dietro. Dalle sue dimensioni, poteva appartenere a un individuo soltanto. Il pollice e l’indice, enormi, si strinsero attorno al polso del sicario, poi scomparvero. L’uomo gridò e alzò il braccio con la mano che penzolava come un cencio dalle ossa spezzate del polso.

Protetto così ai fianchi, Jason poteva proseguire. — I dadi vecchi, se non vi spiace — esclamò con calma.

Il croupier, stordito, glieli porse. Jason agitò la mano. Prima che toccassero il tavolo, si accorse che non riusciva a controllarli… la capacità extrasensoriale era svanita.

I due cubi rotolarono, faccia su faccia. E si fermarono sul sette.

Contando i gettoni mentre glieli spingevano davanti, arrivò a un po’

meno di due miliardi di crediti. Non erano ancora i tre miliardi che occorrevano a Kerk. Be’, avrebbe dovuto contentarsi. Mentre tendeva la mano, colse dall’altra parte del tavolo un’occhiata di Kerk che scuoteva la testa. No.

— Un altro colpo — disse Jason in tono stanco.

Alitò sui dadi, li pulì sulla manica e si domandò come avesse potuto arrivare a un punto simile. Miliardi puntati su due dadi! Rappresentavano il bilancio annuale di un pianeta! Soltanto il fatto che il governo incassava un interesse sulle puntate rendeva possibile un gioco tanto alto. Agitò e agitò e agitò il pugno, cercando di ricuperare il controllo extrasensoriale, ma senza riuscirvi… poi mollò di colpo.

Tutto s’era fermato, nel casinò, e una quantità di gente era salita in piedi sui tavoli e sulle sedie, a guardare. Si sarebbe sentita volare una mosca. I dadi rimbalzarono dalla tavola di fondo con un rumore forte, e rotolarono sulla stoffa verde.

Cinque e uno. Sei. Non era finita… Riprendendo i dadi, Jason mormorò gli scongiuri portafortuna, sottovoce, e lanciò ancora.

Occorsero cinque lanci, per ottenere il sei. Ma aveva vinto!

La folla fece eco al suo sospirò, e tutti alzarono la voce. Lui avrebbe voluto fermarsi ancora, ma sapeva che era impossibile. Vincere era stata soltanto una parte dell’impresa… dovevano andarsene con il danaro, adesso. Nessuno doveva avere sospetti. Un cameriere passava con un vassoio carico. Jason lo fermò, infilandogli una banconota da cento crediti in tasca.

— Pago io — gridò, togliendogli di mano il vassoio. I bicchieri furono vuotati in fretta, fra esclamazioni di augurio, e Jason ammucchiò i gettoni sul vassoio. Era stracarico; ma in quel momento comparve Kerk, con un secondo vassoio.

— Sarò lieto di aiutarvi, se me lo permettete, signore — esclamò.

Jason lo fissò e acconsentì ridendo. Era la prima volta che lo guardava con attenzione, al casinò. Indossava una specie di pigiama scarlatto, ampio, su una pinguedine truccata. Le maniche erano lunghe e rigonfie, e lo facevano sembrare grasso, piuttosto che robusto. Un travestimento semplice, ma efficace.

Portando con cautela i vassoi colmi, circondati da una folla eccitata, si diressero alla cassa. Vi si trovava il direttore in persona, e si sforzava di sorridere.

— Non potreste tornare domattina? — domandò. — Temo che non abbiamo tanto liquido, a portata di mano.

— Cosa c’è? — gridò allora Kerk — cercate di non pagare? Vi siete presi subito i miei soldi, quando ho perso…. adesso tocca a voi!

I presenti, sempre lieti di vedere il casinò in perdita, mormorarono, assentendo. Jason chiuse la questione, esclamando: — Sarò ragionevole.

Datemi tutto il liquido che avete, e accetterò un assegno per la rimanenza.

Non c’era via di scampo. Sotto gli occhi della folla, il direttore riempì una grossa busta di banconote, e compilò un assegno. Jason vi diede un’occhiata svelta, poi l’infilò in una tasca interna. Con la busta sotto un braccio seguì Kerk verso l’uscita.

Per via della folla, non ebbero incidenti, in sala; ma appena raggiunsero l’uscita laterale, due individui si fecero avanti, bloccandoli.

— Un momento — disse uno. Non poté terminare la frase; Kerk li urtò, senza rallentare di un passo, e i due furono buttati indietro come birilli. In un attimo, Kerk e Jason si trovarono all’aperto.

— Al parcheggio — disse Kerk. — Ho là la macchina.

Quando svoltarono l’angolo, un’automobile si lanciò contro di loro.

Prima che Jason potesse estrarre l’arma dal fodero, Kerk l’aveva preceduto.

Alzò il braccio e la pistola gli comparve in mano. Il primo colpo uccise il guidatore, e la macchina sbandò, schiantandosi. Altri due sicari che si trovavano all’interno morirono uscendone mentre le loro armi cadevano a terra.

Poi, non ebbero altri guai. Kerk si allontanò velocemente.

— Quando avrete un momento libero — disse Jason — dovrete farmi vedere come funziona quel fodero.

— Già, il primo momento libero — rispose Kerk.

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