PARTE QUINTA Ascensione

38 Tempeste silenziose

(Dal discorso del professor Martin Sessui, vincitore del premio Nobel per la fisica, Stoccolma, 16 dicembre 2154)

"Tra terra e cielo esiste una regione invisibile che gli antichi filosofi non hanno mai immaginato. E, fino all'alba del ventesimo secolo (per essere precisi il 12 dicembre 1901), essa non si era manifestata nelle faccende umane.

" Quel giorno, Guglielmo Marconi trasmise attraverso l'Atlantico i tre punti della lettera 'S' dell'alfabeto Morse. Molti esperti avevano dichiarato che la cosa era impossibile, dal momento che le onde elettromagnetiche possono viaggiare solo in linea retta, e quindi non sarebbero riuscite a seguire la curvatura del globo. La vittoria di Marconi non solo aprì la porta all'epoca delle comunicazioni mondiali, ma dimostrò anche che, nell'alta atmosfera, esiste uno specchio elettrificato, capace di ritrasmettere sulla Terra le onde radio.

"Lo Strato di Kennelly-Heaviside, come venne dapprima chiamato, dimostrò subito di essere una regione di grande complessità, contenente almeno tre stratificazioni principali, tutte soggette ad ampie variazioni in altezza e intensità. Al loro limite estremo si fendono nella Fascia di Van Allen, la cui scoperta è stata il primo trionfo dell'era spaziale.

"Questa vasta regione, che inizia approssimativamente a un'altezza di cinquanta chilometri e si estende verso l'alto per diversi raggi terrestri, è oggi nota come ionosfera. La sua esplorazione tramite missili, satelliti e onde radio è un processo che dura da più di due secoli. Vorrei rendere omaggio ai miei predecessori in quest'impresa: gli americani Tuve e Breit, l'inglese Appleton, il norvegese Størmer; e in particolare, l'uomo che nel 1970 vinse il premio che oggi sono tanto onorato di accettare, il vostro compatriota Hannes Alfvén…

"La ionosfera è la capricciosa figlia del sole."Ancora oggi il suo comportamento è imprevedibile. Nei giorni in cui le comunicazioni a lungo raggio dipendevano solo dalle sue idiosincrasie, ha salvato molte vite; ma più uomini di quanti arriveremo mai a sapere sono stati condannati a morte quando la ionosfera ha ingoiato i loro messaggi disperati senza lasciarne traccia.

"Per più di un secolo, prima che entrassero in funzione i satelliti di comunicazione, è stata la nostra preziosissima ma incostante alleata: un fenomeno naturale mai prima sospettato, per cui le tre generazioni che lo hanno studiato hanno speso innumerevoli miliardi di dollari.

"Solo per un breve momento della storia la ionosfera ha rappresentato un interesse diretto per l'umanità. Eppure, se non fosse esistita, noi non saremmo qui! In un certo senso, quindi, è stata di vitale importanza anche all'umanità delle ere pre-tecnologiche, giù giù fino al primo antropoide; anzi, fino alla prima creatura vivente di questo pianeta. Perché la ionosfera fa parte dello schermo che ci protegge dai mortali raggi X del sole e dalle radiazioni ultraviolette. Se fossero arrivati sino a livello del mare, forse la Terra avrebbe ugualmente generato qualche tipo di vita; ma la sua evoluzione non sarebbe mai giunta a qualcosa che ci assomigli anche solo vagamente…

"Dal momento che la ionosfera, come l'atmosfera che le sta sotto, è controllata dal sole, possiede anch'essa un suo clima. Durante i periodi di perturbazioni solari è traversata da tempeste, grandi quanto un pianeta, di particelle cariche, e il campo magnetico terrestre vi crea turbini e vortici. In simili occasioni non è più invisibile, si rivela nelle splendide cortine dell'aurora boreale, uno dei più stupefacenti spettacoli della natura, che illumina la fredda notte polare coi suoi bagliori incredibili.

"Anche ora non comprendiamo tutti i processi che si verificano nella ionosfera. Uno dei motivi per cui è risultato difficile studiarla è che tutti gli strumenti installati su missili e satelliti l'attraversano a migliaia di chilometri l'ora; non siamo mai riusciti a osservarla da fermi! Ora, per la prima volta, il progetto di costruire la Torre Orbitale ci offre la possibilità di sistemare osservatori 'immobili' nella ionosfera. È inoltre possibile che la Torre stessa modifichi le caratteristiche della ionosfera; anche se indubbiamente non la manderà in corto circuito, come ha ipotizzato il dottor Bickerstaff!

"Perché dovremmo studiare questa regione, adesso che non è più importante ai fini delle comunicazioni? Ebbene, a prescindere dalla sua bellezza, dalla stranezza e dall'interesse scientifico, il suo comportamento è strettamente legato a quello del sole, padrone dei nostri destini. Ora sappiamo che il sole 'non' è la stella immutabile, tranquilla, che credevano i nostri progenitori; attraversa fluttuazioni di lungo e breve periodo. Al momento sta ancora riemergendo dal cosiddetto Minimo 'Maunder' verificatosi tra il 1645 e il 1715; di conseguenza, oggi il clima è più mite di quanto non lo sia mai stato sin dall'inizio del Medio Evo. Ma quanto durerà questa fase? E, ancor più importante, quando inizierà l'inevitabile recessione, e quali effetti avrà sul clima, l'ambiente e ogni altro aspetto della civiltà umana, non solo su questo pianeta, ma anche sugli altri? Poiché anche loro sono figli del sole…

"Alcune teorie molto ingegnose sostengono che il sole stia entrando in un periodo d'instabilità, più generale di quanto sia mai accaduto in passato. Se è vero, abbiamo bisogno di ogni informazione che ci sia possibile raccogliere per prepararci. Persino il preavviso di un secolo potrebbe non essere sufficiente.

La ionosfera ha aiutato la nostra creazione; ha dato il via alla rivoluzione delle comunicazioni; potrebbe ancora essere determinante per buona parte del nostro futuro. È per questo che dobbiamo proseguire lo studio di questa ampia, turbolenta arena di forze solari ed elettriche; di questo misterioso luogo di tempeste silenziose."

39 Il sole ferito

L'ultima volta che Morgan aveva visto Dev, suo nipote era un bambino. Adesso era alle soglie dell'adolescenza; e al loro incontro successivo, di quel passo, sarebbe stato un uomo.

L'ingegnere provava un senso di colpa assai modesto. Negli ultimi due secoli i vincoli familiari si erano allentati; lui e sua sorella avevano poco in comune, a parte l'affinità genetica, Si scambiavano auguri e chiacchiere forse una mezza dozzina di volte l'anno, erano in ottimi rapporti, però lui non era nemmeno sicuro di dove e quando si fossero visti l'ultima volta.

Eppure, quando salutò quel ragazzo disinvolto e intelligente (niente affatto intimidito, a quanto pareva, dalla fama dello zio), Morgan provò una malinconia dolce-amara. Non aveva figli destinati a portare il nome di famiglia. Molto tempo prima, aveva compiuto la sua scelta fra il lavoro e la vita, scelta che ai massimi livelli dell'impegno umano diventa quasi inevitabile. In tre occasioni, senza contare la storia con Ingrid, avrebbe potuto scegliere una strada diversa; ma i casi della vita, o forse l'ambizione, l'avevano fatto desistere.

Conosceva benissimo i termini del contratto che aveva firmato, e li accettava; ormai era troppo tardi per protestare sulle clausole a caratteri minuscoli. Qualsiasi sciocco poteva trasmettere i propri geni, e quasi tutti lo facevano. Però, che la storia gli rendesse credito o meno, pochi uomini avrebbero potuto fare quello che lui aveva fatto e stava per fare.

Nelle ultime tre ore, Dev aveva visto del Capolinea Terrestre più di quanto non vedessero i soliti gruppi di VIP. Era penetrato nella montagna a livello del suolo, seguendo il percorso fino alla Stazione Sud, quasi completa; e gli erano stati mostrati i complessi per lo smistamento passeggeri e bagagli, il centro di controllo, l'enorme piattaforma girevole su cui le capsule in arrivo dai binari est e ovest sarebbero state trasferite ai binari in salita nord e sud. Aveva ammirato la colonna alta cinque chilometri (una gigantesca canna di pistola puntata contro le stelle, come già l'avevano definita sottovoce centinaia di giornalisti) lungo cui si sarebbero alzate e sarebbero discese le capsule. E le sue domande avevano distrutto tre guide, finché l'ultima, felicissima, l'aveva consegnato allo zio.

— Eccolo qui, Van — disse Warren Kingsley quando arrivarono, servendosi dell'ascensore ad alta velocità, alla cima tronca della montagna. — Portatelo via prima che mi rubi il lavoro.

— Non sapevo che fossi così bravo in queste faccende, Dev.

Il ragazzo parve offeso, e un tantino deluso. — Zio, non ti ricordi il Tecnomeccano numero dodici che mi hai regalato quando ho compiuto dieci anni?

— Certo, certo. Scherzavo. — (E, a dire il vero, non è che si fosse proprio scordato la scatola di costruzioni; gli era solo uscita di mente per un attimo.) — Non hai freddo, quassù? — A differenza di tutti gli adulti, il ragazzo aveva rifiutato il consueto termocappotto di stoffa leggera.

— No. Sto benissimo. Che tipo di jet è questo? Quand'è che aprirete la colonna? Posso toccare i nastri?

— Capisci cosa intendevo? — ridacchiò Kingsley.

— Uno: è il jet speciale dello sceicco Abdullah. Abbiamo ospite suo figlio Feisal. Due: non toglieremo la copertura finché la Torre raggiungerà la montagna ed entrerà nella colonna. Ci serve come piattaforma di lavoro e non lascia passare la pioggia. Tre: se vuoi puoi toccare i nastri… Non correre! A quest'altezza ti fa male.

— Ne dubito, a dodici anni — commentò Kingsley, mentre la schiena di Dev spariva in fretta. Loro due se la presero calma. Raggiunsero il ragazzo all'ancora del lato est.

Dev stava fissando, come già avevano fatto tante migliaia di ragazzi, il sottile nastro grigio che si alzava dal suolo e correva incontro al cielo in verticale. Il suo sguardo lo seguì su, su, su, fino a che la sua testa non poté più piegarsi all'indietro. Morgan e Kingsley non lo imitarono, anche se la tentazione, dopo tutti quegli anni, era ancora forte. E non gli dissero che alcuni turisti si sentivano talmente male da svenire e dover essere trascinati via.

Il ragazzo era in gamba: fissò intensamente lo zenit per quasi un minuto, come se sperasse di vedere le migliaia di uomini e i milioni di tonnellate di materiale sospesi oltre il blu profondo del cielo. Poi chiuse gli occhi con una smorfia, scosse la testa, e si guardò un attimo i piedi quasi ad assicurarsi che si trovava ancora sulla solida, incrollabile Terra.

Tese una mano con cautela e carezzò il nastro sottile che univa il pianeta con la sua nuova luna.

— Cosa succederebbe se si spezzasse? — chiese.

Era una vecchia domanda. Molti restavano sorpresi dalla risposta.

— Pochissimo. A questo punto, non si trova praticamente sotto tensione. Se tu tagliassi il nastro resterebbe lì, a dondolare al vento.

Kingsley ebbe un'espressione di disgusto. Tutti e due sapevano che quella semplificazione era eccessiva. In quel momento, ognuno dei quattro nastri era sottoposto a una tensione di circa cento tonnellate; ma era una cifra trascurabile a paragone dei pesi che avrebbero sorretto quando, integrati nella struttura della Torre, avessero cominciato a svolgere il loro lavoro. Comunque era inutile confondere il ragazzo con dettagli del genere.

Dev meditò sulla risposta; poi diede un colpetto sperimentale al nastro, quasi sperasse di cavarne una nota musicale. Ma l'unica reazione fu un "clic" modestissimo che svanì subito.

— Se tu lo colpissi con un martello da fabbro — disse Morgan — e ritornassi dieci ore dopo, faresti in tempo a sentire l'eco dalla Stazione di Mezzo.

— Ma non un minuto più tardi — disse Kingsley. — La struttura produce troppo smorzamento.

— Non rovinare tutto, Warren. Adesso vieni a vedere una cosa davvero interessante.

Arrivarono al centro del disco metallico che adesso incoronava la montagna e chiudeva la colonna come un gigantesco coperchio. Lì, equidistante dai quattro nastri che stavano guidando la Torre verso Terra, si trovava un minuscolo osservatorio geodetico, che sembrava ancor più provvisorio della superficie su cui era stato costruito. Ospitava un telescopio di forma bizzarra, puntato direttamente verso l'alto e apparentemente impossibile da puntare in ogni altra direzione.

— È l'ora migliore per guardare. Manca poco al tramonto, e la base della Torre è perfettamente illuminata.

— A proposito di tramonto — disse Kingsley — da' un po' un'occhiata al sole. È ancora più chiaro di ieri. — Nella sua voce, mentre indicava col dito la brillante ellisse appiattita che scompariva nella foschia a ovest, c'era qualcosa di simile alla sorpresa. Le nebbie all'orizzonte avevano talmente smorzato la luce del sole che si poteva fissarlo senza problemi.

Era più di un secolo che non compariva un gruppo simile di macchie. Ricoprivano quasi metà del disco dorato, e sembrava che il sole fosse stato colpito da una malattia terribile, o bucherellato da frammenti di pianeti. Però nemmeno il colossale Giove poteva creare una ferita del genere nell'atmosfera solare: la macchia più grande aveva un diametro di duecentocinquantamila chilometri, avrebbe potuto ingoiare cento Terre.

— Per stanotte è prevista un'altra grande aurora boreale. Il professor Sessui e i suoi ragazzi hanno scelto il momento migliore.

— Vediamo come se la passano — disse Morgan, aggiustando l'oculare. — Guarda un po', Dev.

Il ragazzo guardò attentamente nel telescopio per un attimo, poi disse: — Vedo i quattro nastri che salgono in dentro, cioè in su, e poi scompaiono.

— Non c'è niente in mezzo?

Un'altra pausa. — No. Non c'è segno della Torre.

— Esatto. Si trova ancora a seicento chilometri d'altezza, e il telescopio è al minimo d'ingrandimento. Adesso lo aumento. Allacciate le cinture di sicurezza.

Dev rise a quell'antica frase, resa familiare da dozzine di drammi storici. Eppure in un primo momento non vide niente di diverso, a parte il fatto che le quattro linee puntate verso il centro del campo visivo erano un po' meno nitide. Gli occorse qualche secondo per capire che non doveva aspettarsi nessun cambiamento, dal momento che il suo punto di vista correva in su in coincidenza con l'asse della struttura; i quattro nastri sarebbero rimasti sempre uguali, a prescindere dal punto che lui fissava.

Poi, improvvisamente, "apparve", e lo prese di sorpresa anche se se l'aspettava. Un puntino luminoso si era materializzato esattamente al centro del campo visivo; si espandeva sotto i suoi occhi e adesso, per la prima volta, ebbe la sensazione di correre sempre più in fretta.

Pochi secondi dopo distinse un cerchio. No, ora sia il cervello che l'occhio gli dicevano che era un quadrato. Stava vedendo direttamente la base della Torre, che si tendeva verso la Terra lungo i nastri alla velocità di un paio di chilometri al giorno. I quattro nastri erano ormai svaniti, troppo piccoli per risultare visibili a quella distanza.

Ma quel quadrato magicamente immobile in cielo continuava a crescere, anche se l'ingrandimento estremo lo rendeva sfuocato.

— Cosa vedi? — chiese Morgan.

— Un quadratino luminoso.

— Ottimo. È la base della Torre, ancora in piena luce. Quando qui fa buio la si può vedere a occhio nudo per un'ora, prima che entri nell'ombra proiettata dalla Terra. Vedi qualcosa d'altro?

— No… — rispose il ragazzo, dopo una lunga pausa.

— Impossibile. C'è un gruppo di scienziati che si è recato all'estremità inferiore per installare strumenti di ricerca. Sono appena scesi dalla Stazione di Mezzo. Se guardi bene vedrai il loro traslatore. È sul binario sud, cioè sulla destra del campo visivo. Cerca un punto luminoso, grande all'incirca un quarto della Torre.

— Mi spiace, zio, non lo trovo. Guarda tu.

— Va bene. Può darsi che sia peggiorata la visuale. A volte la Torre scompare del tutto anche se l'atmosfera sembra…

Ancora prima che Morgan potesse prendere il posto di Dev al telescopio, il suo ricevitore personale inviò due segnali striduli, poi altri due. Un secondo dopo esplose anche l'allarme di Kingsley.

Era la prima volta che la Torre mandava un segnale d'emergenza forza quattro.

40 Capolinea

C'era poco da meravigliarsi che la chiamassero "la Transiberiana". Persino in discesa, il viaggio dalla Stazione di Mezzo alla base della Torre durava cinquanta ore.

Un giorno ne sarebbero bastate cinque, ma a quel giorno mancavano ancora due anni: allora i binari avrebbero ricevuto l'alimentazione, i loro campi magnetici si sarebbero attivati. I veicoli per il controllo e la manutenzione che adesso viaggiavano su e giù per la Torre erano spinti da antiquati cerchioni che si incastravano nelle scanalature di guida. Per quanto la potenza modesta delle batterie lo permettesse, non era sicuro viaggiare a più di cinquecento chilometri l'ora con un sistema del genere.

Eppure tutti ebbero talmente da fare che nessuno si annoiò. Il professor Sessui e i suoi tre allievi avevano compiuto osservazioni, controllato gli strumenti, e avevano predisposto ogni cosa in modo da non perdere tempo appena arrivati alla Torre. L'autista della capsula, l'assistente tecnico e l'unico steward (i tre formavano l'intero equipaggio) ebbero parecchio da fare a loro volta, perché quello non era un viaggio di routine. Le "fondamenta", venticinquemila chilometri più in basso della Stazione di Mezzo, e ormai lontane solo seicento chilometri dalla Terra, non erano mai state raggiunte dopo la costruzione. Sino ad allora era sembrato del tutto inutile andarci, visto che i pochi monitor non avevano mai registrato niente d'irregolare. Non che potesse succedere molto, visto che la base era solo una camera pressurizzata di quindici metri quadrati, uno dei tanti rifugi d'emergenza disposti a intervalli lungo la Torre.

Il professor Sessui aveva sfruttato tutta la sua notevole influenza per avere accesso a quel luogo unico, che si spostava attraverso la ionosfera alla velocità di due chilometri al giorno, in attesa del rendez-vous con la Terra. Era essenziale, aveva impetuosamente sostenuto, che i suoi strumenti venissero installati prima che l'ondata di macchie solari raggiungessero il culmine.

L'attività solare era già giunta a livelli senza precedenti, e i giovani assistenti di Sessui trovavano spesso difficile concentrarsi sugli strumenti: le magnifiche aurore boreali all'esterno erano una distrazione troppo forte. Per ore, sia l'emisfero nord che quello sud si riempivano di cortine e fiamme di un verde pallido in lento movimento, belle e stupefacenti; eppure erano solo pallidi spettri del grandioso, celestiale spettacolo che si svolgeva attorno ai poli. Era estremamente raro che l'aurora boreale si spostasse così tanto; solo una volta ogni molte generazioni invadeva i cieli dell'equatore.

Sessui aveva ricondotto al lavoro gli allievi, ricordando loro che avrebbero avuto tutto il tempo di guardare durante il lungo viaggio di ritorno alla Stazione di Mezzo. Eppure, cosa notevole, persino il professore restò di tanto in tanto incollato al finestrino d'osservazione per interi minuti, soggiogato dallo spettacolo dei cieli in fiamme.

Qualcuno aveva battezzato l'impresa "Spedizione alla Terra", termine che, dal punto di vista della distanza, era esatto al novantotto per cento. Mentre la capsula scendeva lungo la facciata della Torre alla penosa velocità di cinquecento chilometri l'ora, si manifestava la vicinanza sempre maggiore del pianeta. La gravità cresceva poco per volta, passando dalla deliziosa leggerezza (un po' inferiore a quella della Luna) della Stazione di Mezzo a una forza simile a quella terrestre. Per chi avesse pratica di voli spaziali era un fatto davvero bizzarro: avvertire anche un minimo di gravità prima del momento del rientro nell'atmosfera sembrava un capovolgimento dell'ordine naturale delle cose.

A parte le lamentele per il cibo, stoicamente sopportate dall'occupatissimo steward, il viaggio si era svolto senza incidenti. A cento chilometri dalle fondamenta erano entrati dolcemente in funzione i freni, e la velocità era diminuita. Poi fu abbassata fino a cinquanta chilometri orari; perché, come aveva commentato uno degli assistenti di Sessui: — Non sarebbe un po' imbarazzante se volassimo sui binari?

L'autista (che insisteva a farsi chiamare pilota) ribatté che la cosa era impossibile, dal momento che le scanalature di guida seguite dalla capsula terminavano diversi metri prima della base; inoltre esisteva un complesso sistema di respingenti, nel caso che tutti e quattro i sistemi frenanti, indipendenti l'uno dall'altro, non funzionassero. E tutti ammisero che la battuta dell'assistente, oltre a essere perfettamente ridicola, era di pessimo gusto.

41 La meteora

Il grande lago artificiale, noto da duemila anni col nome di Mare di Paravana, era calmo e tranquillo sotto lo sguardo di pietra del suo costruttore. Pochi ormai visitavano la statua solitaria del padre di Kalidas, ma la sua opera, se non la fama, era sopravvissuta a quella del figlio; e aveva reso al paese servigi infinitamente superiori, donando cibo e acqua a cento generazioni di uomini. E a molte generazioni di uccelli, cervi, bufali, scimmie, e ai loro predatori, come il leopardo lustro e ben paciuto che in quel momento beveva sulla riva del lago. Quegli enormi felini stavano diventando troppo comuni e spesso erano fonte di guai, adesso che non avevano più niente da temere da parte dei cacciatori. Ma non attaccavano mai l'uomo, a meno che non venissero molestati.

Sicuro di sé, il leopardo beveva tranquillamente l'acqua, mentre le ombre si addensavano attorno al lago e l'oscurità avanzava da est. D'improvviso rizzò le orecchie e si mise all'erta; ma i semplici sensi umani non avrebbero notato nessun cambiamento sulla terra, in acqua o in cielo. La sera era tranquilla come sempre.

E poi, direttamente dallo zenit, giunse un fischio sommesso che divenne rapidamente un colossale ruggito, con sottotoni acuti, laceranti, del tutto diverso dal rumore prodotto da una nave spaziale in rientro. Su nel cielo qualcosa di metallico splendeva agli ultimi raggi del sole, diventava sempre più grande e si lasciava dietro una scia di fumo. Mentre cresceva di dimensioni, si disintegrò: i pezzi volarono in ogni direzione, alcuni s'incendiarono. Per pochi secondi un occhio acuto come quello del leopardo avrebbe potuto distinguere un oggetto quasi cilindrico, che esplose in una miriade di frammenti. Ma il leopardo non attese la catastrofe finale: era già scomparso nella giungla.

Il Mare di Paravana scoppiò in una tempesta improvvisa. Un geyser di fango e schiuma si alzò nell'aria a un'altezza di cento metri: una fontana che superava abbondantemente quelle di Yakkagala, che anzi era quasi alta come la Montagna stessa. Rimase sospesa un attimo in cielo, in un'inutile sfida alla gravità, poi ricadde nel lago sconvolto.

Il cielo era già pieno di uccelli acquatici levatisi in un volo caotico. Altrettanto numerosi, mischiati agli uccelli, come pterodattili coriacei sopravvissuti fino all'epoca moderna, c'erano gli enormi pipistrelli che normalmente si alzavano in cielo solo dopo il tramonto. Ora, ugualmente terrorizzati, uccelli e pipistrelli volavano assieme.

Gli ultimi echi dell'impatto si spensero nella giungla circostante; il silenzio ricoprì veloce il lago. Ma passarono lunghi minuti prima che la sua superficie tornasse liscia come uno specchio, e che le onde smettessero di correre avanti e indietro sotto gli occhi di Paravana il Grande.

42 Morte in orbita

Si dice che ogni costruzione di grandi dimensioni reclami una vita: sui pilastri del Ponte di Gibilterra erano scolpiti quattordici nomi. Ma, grazie a una campagna per la sicurezza quasi frenetica, gli incidenti con la Torre erano stati pochissimi. Anzi, era passato un anno intero senza morti.

E c'era stato un anno con quattro vittime, due delle quali avevano fatto una fine particolarmente raccapricciante. Un supervisore all'assemblaggio di stazioni spaziali, abituato a lavorare a gravità zero, si era scordato che pur trovandosi nello spazio non era in orbita, e l'esperienza di un'intera vita lo aveva tradito. Era precipitato per più di quindicimila chilometri, ed entrando nell'atmosfera era bruciato come una meteora. Sfortunatamente, la radio della sua tuta era rimasta accesa in quegli ultimi minuti.

Quello fu un brutto anno per la Torre. La seconda tragedia si era protratta anche più a lungo, e sotto gli occhi di tutti. Un'esperta che lavorava al contrappeso, molto oltre l'orbita sincrona, non aveva allacciato bene la sua cintura di sicurezza, ed era stata scagliata nello spazio come una pietra lanciata da una fionda. A quella quota non correva il rischio di cadere sulla Terra o di essere scaraventata in traiettoria d'allontanamento; ma disgraziatamente la sua tuta aveva una riserva d'aria di meno di due ore. Con un preavviso tanto breve era impossibile salvarla; e, nonostante le proteste generali, non si tentò niente. La vittima cooperò nobilmente. Trasmise i suoi messaggi d'addio, e poi, con trenta minuti di ossigeno ancora disponibili, aprì la tuta al vuoto. Il corpo venne recuperato pochi giorni dopo, quando le inesorabili leggi della meccanica celeste lo riportarono al perigeo della sua lunga ellisse.

Quelle tragedie rivivevano nel cervello di Morgan mentre scendeva, con l'ascensore ad alta velocità, in sala operativa, seguito da un Warren Kingsley tetro e dal quasi dimenticato Dev. Ma "quella" catastrofe era di un tipo del tutto diverso; c'era di mezzo un'esplosione alla base della Torre, o molto vicino. Era ovvio che il traslatore era precipitato sulla Terra, ancor prima che giungesse notizia dell'impatto di una "gigantesca meteora" nella zona centrale di Taprobane.

Inutile fare ipotesi prima di conoscere altri fatti; e in quel caso, visto che probabilmente tutte le prove erano andate distrutte, forse i fatti non si sarebbero mai conosciuti. Morgan sapeva che raramente gli incidenti nello spazio avevano una causa sola; in genere erano il risultato di una catena di avvenimenti, spesso del tutto innocui in se stessi. Tutte le misure dei tecnici addetti alla sicurezza non potevano garantire un successo assoluto, e a volte erano proprio le loro precauzioni, terribilmente complesse, a contribuire al disastro. L'ingegnere non si vergognava di ammettere che in quel momento la sicurezza del suo progetto lo preoccupava molto più dell'eventuale perdita di vite umane. Per i morti non si poteva fare niente, se non approntare tutto in modo che l'incidente non dovesse mai più ripetersi. Ma l'idea che la Torre, quasi completata, potesse essere in pericolo era insopportabile.

L'ascensore si fermò e lui entrò in sala operativa, giusto in tempo per la seconda sorpresa.

43 A prova d'errore

A cinque chilometri dal punto d'arrivo, l'autista-pilota Rupert Chang aveva ridotto di nuovo la velocità. Ora, per la prima volta, la facciata della Torre non appariva più, agli occhi dei passeggeri, come una superficie indistinta che si protendeva all'infinito in entrambe le direzioni. Sì, verso l'alto le scanalature gemelle lungo cui stavano scendendo correvano all'infinito, o almeno per venticinquemila chilometri, il che, rapportato alla scala umana, era più o meno lo stesso. Ma verso il basso se ne vedeva già la fine. La base tronca della Torre si stagliava chiaramente sullo sfondo verde di Taprobane, che avrebbe raggiunto e a cui si sarebbe unita in poco più d'un anno.

Sul pannello di controllo lampeggiarono di nuovo i segnali di ALLARME. Chang li studiò con una smorfia annoiata, poi schiacciò un pulsante. Ebbero un guizzo luminoso e svanirono.

La prima volta che era successo, duecento chilometri più in alto, si era messo in comunicazione col controllo della Stazione di Mezzo. Un veloce esame di tutti gli impianti non aveva rivelato niente d'irregolare; e comunque, se i segnali d'allarme erano veri, i passeggeri erano già morti. Ormai avevano oltrepassato ogni limite di tolleranza.

Ovviamente si trattava di un guasto ai circuiti d'allarme, e la spiegazione del professor Sessui venne accolta da tutti con sollievo. Il veicolo non si trovava più nell'ambiente di vuoto assoluto per il quale era stato progettato; i disturbi ionosferici in cui era entrato facevano scattare i sensibili rivelatori del sistema d'allarme.

— Qualcuno doveva pensarci — aveva brontolato Chang. Ma restava meno di un'ora di viaggio, per cui non si preoccupava sul serio. Avrebbe condotto continui controlli manuali dei parametri critici. La Stazione di Mezzo si dichiarò d'accordo, e in ogni caso non esistevano alternative.

Forse era lo stato delle batterie la cosa che lo preoccupava di più. Il punto di ricarica più vicino era a duemila chilometri sopra di loro, e se non riuscivano a raggiungerlo si sarebbero trovati nei guai. Ma Chang era fiducioso: durante la fase di frenaggio i motori della capsula avevano funzionato come dinamo, e il novanta per cento dell'energia gravitazionale del veicolo era stata ritrasmessa alle batterie. Adesso che le batterie erano perfettamente cariche, le centinaia di kilowatt in più che continuavano a essere generate dovevano essere scaricate nello spazio attraverso le grandi alette di raffreddamento sul retro. Quelle alette, gli avevano fatto spesso notare i colleghi, davano al suo veicolo bizzarro l'aspetto di un'antica bomba aerea. Adesso, giunti alla fine del frenaggio, dovevano essere di un rosso acceso. Chang si sarebbe preoccupato moltissimo se avesse saputo che le alette erano ancora fredde. Perché l'energia non si può distruggere; deve andare "da qualche parte". E molto spesso va dalla parte sbagliata.

Quando si accese per la terza volta il segnale di INCENDIO-CABINA BATTERIE, Chang non esitò a spegnerlo. Sapeva che un vero incendio avrebbe messo in azione gli estintori; anzi, una delle preoccupazioni maggiori era che si mettessero a funzionare senza necessità. Adesso il pannello registrava diverse anomalie, specialmente nei circuiti di carica delle batterie. Appena finiva il viaggio e la capsula si metteva a riposo, Chang sarebbe salito in sala motori per un'antiquata, ma sempre utile, ispezione coi propri occhi.

Il suo naso fu il primo ad avvertirlo, quando mancava appena un chilometro all'arrivo. Mentre fissava incredulo il sottile filo di fumo che usciva dal pannello di controllo, la parte freddamente analitica del suo cervello gli disse: "Che coincidenza fortunata che sia successo solo alla fine del viaggio!".

Poi si ricordò di tutta l'energia prodotta durante l'ultimo frenaggio, e si fece un'idea abbastanza esatta della successione di eventi. Doveva essere successo che i circuiti di protezione non avevano funzionato, e le batterie si erano sovraccaricate. I sistemi a prova d'errore, uno dopo l'altro, li avevano traditi; aiutata dalla tempesta ionosferica, la perversità allo stato puro degli oggetti inanimati aveva colpito ancora una volta.

Chang premette il pulsante che azionava gli estintori della cabina batterie. Almeno quelli funzionavano: sentiva il tonfo smorzato degli spruzzi d'azoto dall'altro lato della paratia. Dieci secondi dopo schiacciò il comando di SCARICO NEL VUOTO, che avrebbe scagliato nello spazio l'ozono e, sperava, buona parte del calore assorbito dall'incendio. Anche quel comando funzionava. Era la prima volta che Chang era sollevato nell'udire l'inconfondibile sibilo dell'atmosfera che usciva da un veicolo spaziale; e sperava che fosse anche l'ultima.

Non osò affidarsi alle operazioni di frenaggio automatico, quando finalmente il veicolo raggiunse il punto d'arrivo. Per fortuna lo avevano istruito alla perfezione e riconobbe tutti i segnali visivi, per cui riuscì a fermarsi a pochi centimetri dal dispositivo d'agganciamento. Le due camere di equilibrio vennero collegate a velocità frenetica, e nel tubo di connessione vennero lanciate le provviste e gli equipaggiamenti…

…e vi venne lanciato anche il professor Sessui, grazie agli sforzi combinati del pilota, dell'assistente tecnico e dello steward, quando tentò di tornare indietro a salvare i suoi preziosi strumenti. I portelli della camera di equilibrio si richiusero pochi secondi prima che la paratia della sala motori della capsula cedesse.

Dopo di che, i superstiti non potevano fare altro che attendere in quella stanza nuda di quindici metri quadrati, non dotata nemmeno delle attrezzature di una normale cella di prigione, e sperare che il fuoco si spegnesse. Forse, per la tranquillità dei passeggeri, era bene che solo Chang e l'assistente tecnico fossero in grado di valutare una statistica d'importanza vitale: le batterie a piena carica contenevano la stessa energia di una grande bomba chimica, che in quel momento ticchettava all'estremità inferiore della Torre.

Dieci minuti dopo la frettolosa evacuazione, la bomba scoppiò. Ci fu un'esplosione in sordina, che fece vibrare solo leggermente la Torre, seguita dal rumore del metallo che si lacerava. Quei suoni non erano troppo impressionanti, ma raggelarono i cuori delle persone che li udirono: l'unico mezzo di trasporto di cui disponevano stava andando in pezzi, e loro si trovavano prigionieri a venticinquemila chilometri dalla salvezza. Ci fu un'altra esplosione, più lunga, poi silenzio. Immaginarono che il veicolo fosse precipitato già dalla Torre. Ancora scossi, cominciarono tutti a controllare di quali risorse disponessero; e, poco per volta, cominciarono a capire che la loro miracolosa fuga poteva essere assolutamente inutile.

44 Grotta nel cielo

Nel cuore della montagna, fra gli strumenti di rilevazione e comunicazione del centro operativo terrestre, Morgan e il suo staff di tecnici erano radunati attorno all'ologramma della sezione inferiore della Torre, in scala uno a dieci. Era perfetto in ogni dettaglio, persino nei quattro sottilissimi nastri di guida che si stendevano lungo ogni facciata. Svanivano nel nulla appena sopra il pavimento, ed era difficile credere che, anche su quella scala minuscola, dovevano allungarsi ancora di seicento chilometri, sino a forare la crosta della superficie terrestre.

— Dacci la visuale in sezione — disse Morgan — e porta le fondamenta a livello d'occhio.

La Torre perse la sua apparente solidità e divenne un fantasma luminoso: una scatola quadrata, lunga, dalle pareti sottili, vuota, a parte i cavi a superconduttività dell'alimentazione elettrica. La parte inferiore ("fondamenta" era un nome più che adatto, anche se sorgeva cento volte più in alto dell'altezza della Montagna) ora formava un'unica stanza quadrata di quindici metri per lato.

— Punti d'ingresso? — chiese Morgan.

Due parti dell'immagine si accesero d'un colore più vivo. Chiaramente stagliati sulla facciata nord e sud, tra le scanalature di guida, si trovavano i portelli esterni delle due coppie di camere di equilibrio, separate fra loro da tutta la distanza possibile, secondo i canoni di sicurezza comuni a ogni costruzione spaziale.

— Sono entrati dal portello sud, ovviamente — spiegò l'ufficiale di servizio. — Non sappiamo se l'esplosione lo abbia danneggiato.

"Comunque ci sono altri tre punti d'accesso" pensò Morgan, ed erano i due più in basso che gli interessavano. Si era trattato di un ripensamento, aggiunto al progetto originario già in fase di lavori avanzati. Anzi, l'intera base era un ripensamento: all'inizio non si giudicava indispensabile costruire un rifugio lì, nella sezione della Torre che avrebbe finito coll'entrare a far parte del Capolinea Terrestre.

— Avvicinami la parte inferiore — ordinò Morgan.

La Torre si mosse in un grande arco di luce e si fermò a mezz'aria, con l'estremità inferiore rivolta verso Morgan. Adesso l'ingegnere vedeva tutti i particolari di quel pavimento di venti metri quadrati; o forse era un soffitto, considerandolo dal punto di vista di chi stava costruendo in orbita.

Vicino agli orli nord e sud si trovavano i portelli che immettevano nelle due camere d'equilibrio indipendenti e che permettevano di entrarvi dal basso. L'unico problema era arrivarci, visto che si trovavano sospesi in cielo a seicento chilometri.

— Sistemi di sopravvivenza?

Gli sportelli vennero riassorbiti nella struttura. L'ologramma mise in rilievo un armadietto al centro della stanza.

— È questo il problema, dottore — rispose cupamente l'ufficiale di servizio. — C'è solo l'impianto per mantenere costante la pressione. Niente purificatori, e ovviamente niente fonti d'energia. Adesso che hanno perso la capsula non vedo come possano sopravvivere alla notte. La temperatura sta già scendendo. È a dieci gradi fin dal tramonto.

A Morgan parve che il gelo dello spazio gli avesse invaso l'anima. L'euforia di scoprire che i passeggeri del veicolo esploso erano ancora vivi svanì in fretta. Se anche le fondamenta avessero contenuto ossigeno a sufficienza per diversi giorni, non sarebbe servito a niente se loro congelavano prima dell'alba.

— Vorrei parlare col professor Sessui.

— Non possiamo chiamarlo direttamente. Il telefono d'emergenza delle fondamenta passa solo attraverso la Stazione di Mezzo. Comunque non c'è problema.

Il che non era del tutto vero. Quando fu stabilita la linea, si presentò a rispondere l'autista-pilota Chang.

— Chiedo scusa — disse. — Il professore è occupato.

Dopo un attimo di silenzio incredulo, Morgan rispose, facendo una pausa tra ogni parola e sottolineando il proprio nome con enfasi: — Ditegli che il dottor Vannevar Morgan vuole parlargli.

— Certo, dottore, ma non farà la minima differenza. Sta lavorando su uno strumento coi suoi assistenti. È l'unica cosa che sono riusciti a salvare, una specie di spettrometro. Lo stanno puntando attraverso uno dei finestrini d'osservazione…

Morgan si controllò a stento. Stava per ribattere: "Sono matti?" ma Chang lo prevenne.

— Voi non conoscete il prof… Io ho passato l'ultima settimana con lui. È un po'… be', immagino voi direste che è fissato. Ci siamo dovuti mettere in tre per impedirgli di tornare sulla capsula a riprendersi i suoi strumenti. E mi ha appena detto che se dobbiamo morire comunque, vuole essere maledettamente certo che almeno "uno" dei suoi apparecchi funzioni a dovere.

La voce di Chang gli lasciava capire che, nonostante l'apparente irritazione, il pilota provava un'ammirazione profonda per quel passeggero famoso e difficile. E, a dire il vero, la logica era dalla parte del professore. Era più che sensato salvare il salvabile, dopo tutti gli anni di sforzi che gli era costata quella spedizione sfortunata.

— Molto bene — rispose lentamente Morgan, accettando l'inevitabile. — Visto che non posso procurarmi un appuntamento col professore, vorrei il vostro riepilogo della situazione. Finora ho sentito solo racconti di seconda mano.

Gli venne in mente che, in ogni caso, Chang gli sarebbe stato probabilmente più utile del professore. Anche se l'insistenza dell'autista-pilota sulla seconda metà del proprio titolo causava spesso l'ilarità dei vari piloti spaziali, Chang era un tecnico capacissimo, con un'ottima conoscenza della meccanica e dell'elettricità.

— Non c'è molto da dire. È successo tutto così in fretta che non abbiamo avuto il tempo di salvare niente, a parte quel maledetto spettrometro. Francamente, non avrei mai creduto che ce l'avremmo fatta. Abbiamo i vestiti che indossiamo, ed è più o meno tutto. Una delle studentesse è riuscita a portarsi qui la sua borsa da viaggio. Immaginate un po': conteneva la prima stesura della sua tesi, scritta su "carta", buon Dio! E nemmeno su carta infiammabile, nonostante i regolamenti. Se potessimo sprecare ossigeno, la bruceremmo per scaldarci un po'.

Ascoltando quella voce che giungeva dallo spazio, guardando l'ologramma trasparente (eppure sembrava così solido) della Torre, Morgan sperimentò un'illusione molto curiosa. Immaginò che piccoli esseri umani, in scala uno a dieci, si muovessero nella parte inferiore della costruzione; bastava tendere la mano e portarli in salvo…

— Dopo il freddo, l'altro grande problema è l'aria. Non so quanto ci vorrà prima che l'anidride carbonica ci faccia fuori; forse qualcuno può eseguire i calcoli. Ma qualunque sia la risposta, temo che sarà sempre troppo ottimistica. — La voce di Chang si abbassò di parecchi decibel. L'autista-pilota prese a parlare in un tono quasi da cospiratore, evidentemente per non farsi sentire dagli altri. — Il prof e i suoi studenti non lo sanno, ma il portello sud è rimasto danneggiato dall'esplosione. C'è una perdita. Si sente un sibilo continuo alle guarnizioni. Non saprei stabilirne l'entità. — La voce di Chang tornò a livelli normali. — Ecco, questa è la situazione. Restiamo in attesa di vostre notizie.

"E che diavolo possiamo dirvi" pensò Morgan "a parte un addio?"

Il controllo d'una crisi era una dote che Morgan ammirava ma non invidiava. Adesso la situazione era passata sotto il controllo di Janos Bartok, l'ufficiale addetto alla sicurezza della Torre su alla Stazione di Mezzo. Le persone rinchiuse dentro la Montagna, venticinquemila chilometri più in basso (e solo a seicento chilometri dalla scena dell'incidente), non potevano fare altro che ascoltare i rapporti sulla situazione, offrire consigli che speravano utili, e soddisfare per quanto era possibile la curiosità dei giornalisti.

Inutile dire che Maxine Duval si era fatta viva pochi minuti dopo il disastro, e come al solito le sue domande erano molto pertinenti.

— Dalla Stazione di Mezzo non posso raggiungerli in tempo?

Morgan esitò. Senza dubbio, la risposta a quella domanda era "no". Eppure non era saggio, ed estremamente crudele, abbandonare ogni speranza così presto. E si era già verificato un colpo di fortuna…

— Non voglio alimentare false speranze, ma forse non avremo bisogno della Stazione di Mezzo. C'è un gruppo di persone che lavorano alla Stazione Dieci C, cioè alla Stazione situata a diecimila chilometri d'altezza, molto più vicina alle fondamenta. Possono arrivarci in venti ore.

— Allora perché non sono partiti?

— Il nostro ufficiale per la sicurezza, Bartok, deciderà al più presto; ma potrebbe essere uno sforzo inutile. Riteniamo che abbiano aria solo per metà del tempo previsto. E il problema della temperatura è ancora più serio.

— Che significa?

— Lassù è notte, e non hanno mezzi di riscaldamento. Non divulgare la notizia, Maxine, ma forse assisteremo a una gara tra il gelo e l'asfissia.

Ci furono diversi secondi di pausa. Poi Maxine Duval, su un tono di diffidenza insolita, disse: — Forse faccio la figura della stupida, ma credo che le stazioni meteorologiche coi loro laser infrarossi…

— Grazie, Maxine. Sono "io" lo stupido. Attendi un attimo che parlo con la Stazione di Mezzo…

Bartok rispose a Morgan con molta cortesia, ma il suo tono secco chiarì oltre ogni dubbio l'opinione che aveva dei dilettanti impiccioni.

— Scusatemi di avervi disturbato — mormorò Morgan, e si rimise in comunicazione con Maxine. — A volte gli esperti conoscono il proprio lavoro — le disse con legittimo orgoglio. — Il nostro uomo lo conosce. Ha chiamato il Controllo Monsoni dieci minuti fa. Stanno già calibrando la potenza del laser: non vogliono che sia troppo forte, se no arrostiscono tutti.

— Allora avevo ragione — notò dolcemente Maxine. — Che ti succede? Avresti dovuto pensarci tu, Van. Che altro hai dimenticato?

Non era possibile nessuna risposta, e Morgan non ne azzardò. Poteva quasi sentire la mente da computer di Maxine che lavorava a piena velocità, e indovinare la sua prossima domanda. Come previsto.

— Non potete usare i Ragni?

— Anche gli ultimi modelli arrivano a un'altezza limitata. Le batterie possono portarli solo a trecento chilometri. Sono stati progettati per ispezionare la Torre quando sarà entrata nell'atmosfera.

— Allora mettete le batterie più potenti.

— In un paio d'ore? Ma non è questo il problema. L'unico Ragno disponibile al momento non può trasportare passeggeri.

— Mandatelo su vuoto.

— Spiacente, ci abbiamo già pensato. A bordo dev'esserci qualcuno per controllarne l'agganciamento, quando il Ragno raggiungerà le fondamenta. E poi ci vorrebbero giorni interi per riportare giù sette persone, una alla volta.

— Ma avrete qualche piano!

— Diversi, ma sono tutti pazzeschi. Se ne troviamo uno sensato te lo faccio sapere. Nel frattempo, potresti fare qualcosa per noi.

— Di che si tratta? — chiese Maxine, sospettosa.

— Spiegare ai tuoi spettatori come mai due astronavi possono agganciarsi fra loro a seicento chilometri d'altezza, ma "non" con la Torre. Quando avrai finito forse avremo qualche novità per te.

L'immagine leggermente indignata di Maxine scomparve dallo schermo, e Morgan tornò al caos ben orchestrato della sala operativa. Cercò di lasciar correre la propria mente con tutta la libertà possibile su ogni aspetto del problema. Nonostante il cortese rimprovero dell'ufficiale addetto alla sicurezza, che alla Stazione di Mezzo compiva il proprio dovere con efficienza estrema, poteva darsi che gli venisse in mente qualche idea utile. Certo non credeva che esistessero soluzioni magiche, però capiva la Torre meglio di ogni altro uomo, forse con l'unica eccezione di Warren Kingsley. Probabilmente Warren conosceva meglio i singoli dettagli, ma Morgan aveva un quadro generale limpidissimo.

Sette fra uomini e donne si trovavano prigionieri in cielo, in una situazione che era unica nell'intera storia della tecnologia spaziale. "Doveva" esistere un modo di salvarli prima che fossero avvelenati dal CO2 o che la pressione diminuisse al punto di trasformare la stanza, in senso letterale, in una tomba simile a quella di Maometto, sospesa fra cielo e terra.

45 L'uomo adatto

— Possiamo farcela — disse Warren Kingsley con un sorriso ampio, — Il Ragno può arrivare alle fondamenta.

— Siete riusciti ad aumentare la potenza d'alimentazione?

— Sì, ma è un'idea semplicissima. Sarà un'operazione a due stadi, come per i primi razzi. Non appena la batteria esterna si esaurisce, deve essere sganciata per alleggerire il Ragno del peso extra. Il che accadrà all'incirca a un'altezza di quattrocento chilometri. La batteria interna porterà su il Ragno per gli altri chilometri.

— E così che capacità di carico abbiamo?

Il sorriso di Kingsley svanì.

— Minima. Circa cinquanta chili, con le migliori batterie che possediamo.

— Cinquanta chili! E a cosa serviranno?

— Dovrebbero essere sufficienti. Un paio di quei nuovi serbatoi a mille atmosfere, contenenti ciascuno cinque chili di ossigeno. Maschere molecolari filtranti per non lasciar passare l'anidride carbonica. Un po' di acqua e cibo compresso. Qualche medicinale. Basteranno meno di quarantacinque chili per tutta questa roba.

— Puà! E basteranno?

— Sì. Li terremo in vita finché non arriva la capsula dalla Stazione Dieci C. Se sarà necessario, il Ragno potrà fare un secondo viaggio.

— Bartok che ne pensa?

— È d'accordo. Dopo tutto, nessuno ha idee migliori.

Morgan si sentì come se gli avessero tolto un peso enorme dalle spalle. Molte cose ancora potevano andare male, ma almeno c'era un raggio di speranza; la sensazione di disperazione totale era scomparsa.

— Quando saremo pronti? — chiese.

— Se non si verificano contrattempi, fra due ore. Tre al massimo. Per fortuna si tratta di pezzi standard. In questo momento stanno già mettendo a punto il Ragno. Resta una sola cosa da decidere…

Vannevar Morgan scosse la testa. — No, Warren — rispose lentamente, con una voce calma, implacabile, decisa, che il suo amico non aveva mai udito. — Non c'è più niente da decidere.

— Non sto ancora cercando di esercitare pressioni su di voi, Bartok — disse Morgan. — È una questione di pura logica. È vero, chiunque può guidare un Ragno; però solo una mezza dozzina di uomini conoscono "tutti" i particolari tecnici indispensabili. Può darsi che si crei qualche problema operativo quando raggiungiamo la Torre, e io sono nella posizione migliore per risolverli.

— Posso ricordarvi, dottor Morgan — disse l'ufficiale addetto alla sicurezza — che avete sessantacinque anni? Sarebbe più saggio mandare qualcuno più giovane di voi.

— Non ho sessantacinque anni; ne ho sessantaquattro. E l'età non c'entra proprio per niente. Non esistono pericoli, e non occorre nessuna forza fisica.

E poi, avrebbe potuto aggiungere, i fattori psicologici sono molto più importanti di quelli fisiologici. Praticamente tutti erano in grado di correre in su e in giù, passivamente, in una capsula, come aveva fatto Maxine Duval e come milioni di altre persone avrebbero fatto in futuro. Però era tutta un'altra faccenda padroneggiare le situazioni impreviste che potevano venirsi a creare a seicento chilometri d'altezza, nel cielo deserto.

— Continuo a pensare — disse l'ufficiale alla sicurezza Bartok, con gentile insistenza — che sarebbe meglio mandare un uomo più giovane. Il dottor Kingsley, ad esempio.

Alle sue spalle, Morgan udì (o se l'era immaginato?) l'improvvisa pausa nel respiro del collega. Per anni avevano scherzato sul fatto che Waren soffriva talmente di vertigini che non ispezionava mai le strutture da lui progettate. La sua paura non era un'acrofobia vera e propria, e se era assolutamente necessario riusciva a vincersi; dopo tutto, era passato con Morgan sul Ponte che univa l'Africa all'Europa. Ma era stata la prima volta che qualcuno lo vedeva ubriaco in pubblico, e per le ventiquattr'ore successive aveva fatto perdere ogni traccia di sé.

Warren era fuori discussione, anche se Morgan sapeva che sarebbe stato pronto ad andare. In certe occasioni, l'abilità personale e il coraggio allo stato puro non erano sufficienti; nessun uomo poteva combattere le paure che gli erano state imposte sin dalla nascita, o durante la prima infanzia.

Per fortuna non era necessario spiegarlo all'ufficiale addetto alla sicurezza. Esisteva un motivo più semplice, e altrettanto valido, per cui Warren non poteva andare. In vita sua, solo poche volte Morgan si era sentito felice di essere piccolo; e quella era una delle rare volte.

— Peso quindici chili in meno di Warren — disse Bartok. — In un'operazione su margini ristrettissimi come questa, la cosa dovrebbe essere decisiva. Per cui non perdiamo altro tempo a discutere.

Sentì un lieve rimorso, perché sapeva che la cosa era ingiusta. Bartok stava solo facendo il suo dovere, con estrema capacità, e mancava ancora un'ora prima che il Ragno fosse pronto. Nessuno stava perdendo tempo.

Per alcuni secondi i due uomini si fissarono negli occhi, come se i venticinquemila chilometri che li separavano non esistessero. Se si arrivava a una prova di forza in piena regola, la situazione sarebbe precipitata. Bartok aveva il comando di tutte le operazioni relative alla sicurezza, e in teoria poteva imporsi anche al capo ingegnere e direttore del progetto. Ma forse gli sarebbe stato difficile esercitare la propria autorità: sia Morgan che il Ragno si trovavano ben lontani da lui, su Sri Kanda, e questo dava all'ingegnere un vantaggio decisivo.

Bartok si strinse nelle spalle.

— Non avete tutti i torti. Non mi sento troppo felice, ma vi lascio mano libera. Buona fortuna.

— Grazie — rispose tranquillamente Morgan, e l'immagine dell'altro svanì dallo schermo. Poi l'ingegnere si girò verso Kingsley, ancora silenzioso, e disse: — Andiamo.

Solo quando furono usciti dalla sala operativa, mentre risalivano verso la cima, Morgan toccò automaticamente il minuscolo ciondolo nascosto sotto la sua camicia. CORA non gli aveva dato fastidio per mesi, e nemmeno Warren Kingsley sapeva della sua esistenza. Stava giocando con altre vite, oltre che con la propria, solo per obbedire all'orgoglio personale? Se lo avesse saputo Bartok…

Ormai era troppo tardi. A prescindere dai motivi che lo spingevano, era in ballo.

46 Il Ragno

Com'era cambiata la Montagna, pensò Morgan, dalla prima volta che l'aveva vista! La sommità era stata completamente tagliata via, per lasciare posto a un altipiano perfettamente piatto; nel centro si trovava il gigantesco "coperchio" che sigillava la colonna che presto avrebbe ospitato il traffico di molti mondi. Era strano pensare che il maggiore spazioporto del sistema solare si trovasse sepolto nel cuore d'una montagna…

Nessuno avrebbe mai immaginato che un tempo lì sorgeva un antico monastero, su cui si erano concentrate le speranze e i timori di miliardi di persone per almeno tremila anni. L'unica traccia che ne restava era l'ambiguo lascito del Maha Thero, già imballato e in attesa di essere spedito. Ma, fino a quel momento, né le autorità preposte a Yakkagala né il direttore del museo di Ranapur avevano dimostrato troppo entusiasmo nei confronti della campana maledetta di Kalidas. L'ultima volta che aveva suonato, la cima della montagna era stata investita da quella tempesta innocua ma piena di significati; una vera ventata di novità. Adesso l'aria era quasi immobile. Morgan e i suoi assistenti camminavano lentamente verso la capsula immobile chiara sotto le luci di controllo. Qualcuno aveva dipinto, sulla parte inferiore dell'abitacolo, la scritta RAGNO II; e ancora più sotto era tracciata la promessa: VI PORTIAMO LA SALVEZZA. "Speriamo" pensò Morgan…

Ogni volta che veniva lì gli risultava sempre più difficile respirare, e attendeva con ansia il flusso d'ossigeno che presto si sarebbe riversato nei suoi polmoni affaticati. Ma CORA, per suo sollievo e sorpresa, non si era mai fatta sentire quando lui si recava alla cima. La cura prescritta dal dottor Sen sembrava funzionare alla perfezione.

Il Ragno era già a pieno carico, sollevato in alto da un argano in modo da poter sistemare al disotto la batteria in più. I meccanici stavano ancora procedendo agli ultimi ritocchi, disinserivano cavi isolanti. L'intreccio di fili stesi a terra poteva rappresentare un pericolo per chi non fosse abituato a camminare in tuta spaziale.

La flexituta di Morgan era arrivata da Gagarin solo trenta minuti prima, e per un po' lui aveva seriamente preso in considerazione l'idea di partire senza. Il Ragno II era un veicolo molto più sofisticato del semplice prototipo su cui aveva viaggiato Maxine Duval; praticamente era come una minuscola nave spaziale, dotata d'un suo sistema di sopravvivenza. Se tutto procedeva bene, Morgan sarebbe riuscito ad agganciarsi col portello alla base della Torre, progettato anni addietro proprio a quello scopo. Ma la tuta non era solo una garanzia di sicurezza in caso di problemi d'ancoraggio; gli permetteva anche una libertà d'azione enormemente maggiore. Quasi aderente, la flexituta assomigliava pochissimo alle goffe tute dei primi astronauti; e, anche pressurizzata, non avrebbe affatto limitato i suoi movimenti. Una volta aveva assistito a una dimostrazione di acrobazie in flexituta, organizzata dalla ditta che le produceva e culminata in un duello e in un balletto aerei. Il balletto era un po' ridicolo, ma dava pienamente ragione ai vanti di chi l'aveva progettata.

Morgan salì i pochi scalini, si fermò un attimo sulla sottile piattaforma metallica della capsula, poi entrò con cautela. Sedette, allacciò la cintura di sicurezza, e restò piacevolmente sorpreso del molto spazio disponibile. Il Ragno II era indubbiamente un veicolo per un solo uomo, ma non dava il senso di claustrofobia che lui temeva, nemmeno con tutto il carico extra che conteneva.

I due cilindri d'ossigeno erano stati riposti sotto il sedile, e le maschere anti-CO2 si trovavano in una scatola dietro la scaletta che conduceva al portello superiore. Era sorprendente che quelle poche cose potessero significare la vita per così tante persone.

Morgan s'era portato un oggetto personale, un ricordo di quel giorno a Yakkagala, tanto tempo prima, quando in un certo senso era cominciato tutto. La filiera occupava pochissimo spazio, e pesava solo un chilo. Col passare degli anni, per lui era diventata una specie di talismano: era ancora uno dei metodi migliori per illustrare le proprietà dell'iperfilamento, e ogni volta che se la dimenticava finiva con lo scoprire che gli sarebbe servita. E in quell'occasione, fra tutte le occasioni possibili, poteva dimostrarsi utile.

Allacciò il cordone ombelicale, a sganciamento rapido, della tuta e controllò il flusso dell'aria sia all'esterno che all'interno. Fuori, i cavi di alimentazione erano stati scollegati. Il Ragno era abbandonato a se stesso.

È raro che in momenti del genere si riesca a pronunciare discorsi brillanti; e, dopo tutto, quella era un'operazione semplicissima. Morgan sorrise piuttosto affettatamente a Kingsley e disse: — Tieni d'occhio i magazzini, Warren, finché non torno. — Poi notò la piccola, solitaria figura persa nella folla che circondava la capsula. "Mio Dio" pensò "mi ero quasi scordato del ragazzo…" — Dev — disse — scusa se non ho potuto occuparmi di te. Ti ripagherò di tutto quando torno indietro.

"E sarà proprio così" si disse. Appena finita la Torre, avrebbe trovato il tempo per tutto, anche per i rapporti umani che aveva tanto trascurato. Valeva la pena di tenere d'occhio Dev: un ragazzo che sapeva quando non essere d'impiccio era eccezionalmente promettente.

Il portello curvo della capsula, che nella metà superiore era di plastica trasparente, si chiuse piano. Morgan schiacciò il pulsante di CONTROLLO, e ad una ad una apparvero sullo schermo le cifre vitali relative al Ragno. Erano tutte verdi; non era necessario studiarle. Se un qualsiasi fattore fosse andato oltre il valore nominale, la cifra avrebbe lampeggiato in rosso due volte al secondo. Comunque, usando la cautela a lui consueta, Morgan osservò che l'ossigeno era al 102 per cento, la batteria principale al 101 per cento di carica, la batteria secondaria al 105 per cento…

La voce calma, tranquilla del controllore di volo (lo stesso esperto imbattibile che aveva presieduto a tutte le operazioni sin dal primo tentativo fallito di qualche anno prima) gli risuonò all'orecchio. — Tutti i sistemi nominali. Comando vostro.

— Comando mio. Aspetto il prossimo minuto.

Era difficile immaginare qualcosa di più diverso dal lancio di un missile primitivo: allora c'era un elaborato conto alla rovescia, un calcolo preciso dei secondi, rumori e agitazione. Morgan si limitò ad aspettare che gli ultimi due digitali del cronometro si azzerassero, poi diede il minimo di spinta.

Dolcemente, silenziosamente, la cima della montagna illuminata dai riflettori scivolò sotto di lui. Nemmeno un decollo in pallone poteva essere più calmo. Se ascoltava attentamente riusciva a sentire il ronzio dei due motori che muovevano le grandi ruote a frizione lungo il nastro, sia al di sopra che al di sotto della capsula.

Il tachimetro diceva che la velocità di salita era di cinque metri al secondo. Gradualmente, senza sbalzi improvvisi, Morgan aumentò la spinta fino ad arrivare a cinquanta metri al secondo, poco meno di duecento chilometri l'ora. Quella velocità consentiva il massimo d'efficienza al Ragno a pieno carico. Una volta scaricata la batteria ausiliaria, poteva aumentarla del venticinque per cento, arrivando fino a duecentocinquanta chilometri orari.

— Di' qualcosa, Van! — esclamò la voce divertita di Warren Kingsley dal mondo sotto di lui.

— Lasciami in pace — rispose Morgan. — Nelle prossime due ore voglio rilassarmi e godermi il panorama. Se volevate un bel commento parlato dovevate far partire Maxine Duval.

— È un'ora che ti sta chiamando.

— Porgile il mio affetto e dille che ho da fare. Magari, quando arrivo alla Torre… Quali sono le ultime novità da lassù?

— La temperatura si è stabilizzata a venti gradi. Il Controllo Monsoni invia una modesta quantità di megawatt ogni dieci minuti. Però il professor Sessui è furioso. Dice che il laser sconvolge i suoi strumenti.

— E l'aria?

— Lì non andiamo troppo bene. La pressione si è abbassata, e il CO2 si sta accumulando. Però non dovrebbe succedere niente se tu arrivi nel tempo previsto. Stanno attenti a non compiere movimenti inutili, per risparmiare ossigeno.

"Tranne il professor Sessui, ci scommetto" pensò Morgan. Sarebbe stato interessante conoscere l'uomo al quale stava tentando di salvare la vita. Aveva letto parecchi dei suoi trattati di divulgazione scientifica, celeberrimi, e li considerava fioriti e ridondanti. Aveva il sospetto che il professore presentasse le stesse caratteristiche.

— E la situazione alla Dieci C?

— Mancano ancora due ore alla partenza della capsula. Stanno installando dei circuiti speciali per assicurarsi che niente prenda fuoco in questo viaggio.

— Un'ottima idea. È di Bartok, immagino.

— Probabilmente. E scenderanno sul binario nord, nel caso che quello sud sia rimasto danneggiato dall'esplosione. Se va tutto bene, arriveranno alle fondamenta entro… oh… ventun ore. Tempo perfetto. Non credo che avremo bisogno di rimandare su il Ragno con un altro carico.

Nonostante la frase semischerzosa indirizzata prima a Kingsley, Morgan sapeva che era troppo presto per cominciare a rilassarsi. Eppure sembrava che tutto andasse al meglio possibile; e, di certo, nelle tre ore successive non poteva fare altro che ammirare il paesaggio in continua espansione.

Era già a un'altezza di trenta chilometri, saliva veloce e silenzioso nella notte tropicale. Non c'era luna, ma il paesaggio sotto di lui era svelato dalle costellazioni chiare di città e villaggi. Se guardava le stelle in alto e le stelle in basso, Morgan riusciva facilmente a immaginare di trovarsi lontano da qualsiasi mondo, perso nelle profondità dello spazio. Presto riuscì a scorgere l'intera isola di Taprobane, debolmente delimitata dalle luci degli insediamenti costieri. Molto a nord, una macchia di luminosità debole avanzava lungo l'orizzonte come ad annunciare un'alba prematura. Lo lasciò perplesso per un attimo, poi capì che stava vedendo una delle grandi città dell'Indostan del sud.

Adesso aveva superato l'altezza massima a cui potesse giungere qualunque tipo di aereo, e quello che aveva compiuto era già un fatto unico nella storia dei trasporti. Il Ragno e i suoi prototipi avevano compiuto innumerevoli viaggi fino a venti chilometri, ma nessuno si era mai spinto più in alto perché un salvataggio diventava impossibile. Finché la base della Torre non fosse giunta molto più vicino a Terra non sarebbero iniziate operazioni su vasta scala, e il Ragno aveva almeno due altri compagni che potevano spingersi in su e in giù lungo gli altri nastri. Morgan respinse il pensiero di quel che sarebbe successo se il meccanismo di guida si fosse inceppato: le persone rifugiate nelle fondamenta sarebbero state condannate, e anche lui.

Cinquanta chilometri. Si trovava in quello che, in tempi normali, sarebbe stato lo strato più basso della ionosfera. Non si aspettava di vedere qualcosa, ma si sbagliava.

Il primo segno fu un debole scricchiolìo dell'altoparlante della capsula; poi, con la coda dell'occhio, vide un guizzo di luce. Si trovava direttamente sotto di lui, riflesso nello specchio rivolto in basso che si trovava all'esterno del piccolo finestrino del Ragno. Spostò lo specchio al massimo, fino a puntarlo su una zona di cielo due metri sotto la capsula. Per un attimo fissò lo spettacolo con sorpresa, e con un po' più d'un briciolo di paura; quindi chiamò la Montagna.

— Ho compagnia — disse. — Credo che sia roba di competenza del professor Sessui. C'è una sfera di luce, di una ventina di centimetri di diametro, che corre su per il nastro appena sotto di me. Si tiene a una distanza sempre uguale, e spero che ci resti. Però debbo dire che è bellissima: un blu delizioso, che si accende a intervalli di pochi secondi. E la sento sul circuito radio.

Ci volle un minuto prima che Kingsley gli rispondesse con tono rassicurante.

— Non preoccuparti. È solo un fuoco di Sant'Elmo. Si sono già verificati fenomeni del genere sul nastro, durante i temporali. Sul prototipo del Ragno potevano anche essere pericolosi, ma a te non succederà niente. Sei schermato troppo bene.

— Non avevo idea che potessero formarsi a quest'altezza.

— Nemmeno noi. Sarà meglio parlarne al professore.

— Oh… Scompare… Diventa più grande e meno luminoso… Adesso è svanito… Immagino che l'atmosfera sia troppo rarefatta. Mi spiace che sia svanito.

— Quello era solo un anticipo — disse Kingsley. — Guarda un po' al di sopra di te.

Una parte rettangolare del cielo stellato si riflesse nello specchio, mentre Morgan lo puntava verso lo zenit. Dapprima non riuscì a vedere niente d'insolito, per cui spense tutte le luci del pannello di controllo e attese nell'oscurità totale.

I suoi occhi si abituarono al buio, e nelle profondità dello specchio un debole chiarore rosso cominciò a bruciare, ed estendersi, e divorare le stelle. Si fece sempre più forte, uscì dai limiti dello specchio: adesso lo vedeva direttamente, perché si estendeva lungo tutta la metà inferiore del cielo. Una gabbia di luce, dalle sbarre scintillanti e irrequiete, stava scendendo sulla Terra; e ora Morgan riusciva a capire come mai un uomo del calibro del professor Sessui potesse dedicare l'esistenza a svelare quei misteri.

In una delle sue rare visite all'equatore, l'aurora boreale si era spinta fin lì dai poli.

47 Oltre l'aurora boreale

Morgan dubitava che persino il professor Sessui, cinquecento chilometri più in alto, avesse una visuale così spettacolare. La tempesta si stava sviluppando in fretta; le onde corte radio, ancora usate per molti servizi non essenziali, dovevano già essere inutilizzabili nel mondo intero. Morgan non era certo se udiva con le orecchie o con altri sensi un rumore debole, simile al sospiro della sabbia che cade o allo scricchiolìo di ramoscelli secchi. Di certo non proveniva dall'altoparlante, come era successo con l'interferenza della sfera di fuoco, perché quando interruppe il circuito audio il rumore non cessò.

Sipari di un fuoco verde pallido, scarlatti agli orli, venivano distesi lungo il cielo e poi scossi lentamente avanti e indietro, come da una mano invisibile. Tremavano sotto il soffio del vento solare, la corrente che a un milione di chilometri l'ora soffiava dal Sole alla Terra, e molto oltre. Persino al di sopra di Marte s'era acceso un debole spettro colorato; e, controsole, i cieli micidiali di Venere erano in fiamme. Sopra i sipari, lunghi raggi simili alle stecche di un ventaglio semiaperto spazzavano l'orizzonte. A volte colpivano Morgan direttamente negli occhi, come le luci di riflettori giganteschi, lasciandolo abbagliato per interi minuti. Non era più necessario tener accesa l'illuminazione della capsula per respingere il buio: quei fuochi celesti erano talmente forti che alla loro luce si sarebbe potuto leggere.

Duecento chilometri. Il Ragno continuava a salire in silenzio, senza sforzi. Era difficile credere di essersi staccato dalla Terra solo un'ora prima. E anche difficile credere che la Terra esistesse ancora perché adesso lui viaggiava fra le pareti di un canyon di fuoco.

L'illusione durò pochi secondi; poi si spezzò l'equilibrio momentaneo, instabile, tra campi magnetici e nubi elettriche. Ma in quel breve istante Morgan poté davvero credere di risalire un abisso straordinariamente più grande anche di Valles Marineris, il Grand Canyon di Marte. Poi quei picchi scintillanti, alti almeno cento chilometri, divennero trasparenti e dietro apparvero le stelle. Li vide per quello che erano realmente: semplici fantasmi di fluorescenza.

E adesso, come un aereo che uscisse da un banco di nubi basse, il Ragno si arrampicava al di sopra di quello spettacolo. Morgan stava riemergendo da una nebbia di luce che si agitava e ruotava sotto di lui. Molti anni prima aveva compiuto una crociera sui mari tropicali, e ricordava che una notte si era unito agli altri passeggeri della nave a poppa, incantato dalla bellezza e dalla singolarità della scia bioluminescente. Alcuni dei verdi e dei blu che adesso fluttuavano sotto di lui erano identici ai colori prodotti dal plancton che aveva ammirato allora, e non gli era difficile immaginare che anche adesso si trattasse di sottoprodotti di esseri viventi: bestie gigantesche, invisibili, che vivevano negli strati alti dell'atmosfera…

Aveva quasi dimenticato la propria missione, e fu per lui un vero colpo sentirsi richiamare al dovere.

— Com'è la situazione dell'energia elettrica? — chiese Kingsley. — Quella batteria deve durarti solo altri venti minuti.

Morgan guardò il pannello.

— È scesa al novantacinque per cento, ma la mia velocità di salita è aumentata del cinque per cento. Sto andando a duecentodieci chilometri all'ora.

— Più o meno è giusto. Il Ragno risente della gravità inferiore. Al tuo livello è già scesa del dieci per cento.

Troppo poco per accorgersene, in particolare se si era legati a un sedile con diversi chili di tuta spaziale addosso. Eppure Morgan si sentiva leggero. Si chiese se gli arrivava troppo ossigeno.

No, il flusso era normale. Doveva trattarsi del piacere prodotto dal meraviglioso spettacolo che aveva sotto, che però adesso andava scomparendo, si ritirava a nord e a sud, come per riprendere possesso dei poli. E poi c'era anche la soddisfazione di una missione iniziata perfettamente, servendosi di una tecnologia che nessuno aveva sperimentato a quei limiti.

La spiegazione era perfettamente ragionevole, però non lo soddisfaceva. Non bastava a spiegare il suo senso di felicità, addirittura di gioia. Warren Kingsley, subacqueo appassionato, gli aveva raccontato spesso che provava sensazioni del genere nell'ambiente privo di peso del mare. Morgan non lo aveva mai capito sino in fondo, ma adesso intuiva di cosa dovesse trattarsi. Gli sembrava di aver lasciato tutte le preoccupazioni sul pianeta nascosto sotto i sipari e i raggi sempre più deboli dell'aurora boreale.

Le stelle stavano riprendendo il loro posto, non più nascoste da quello strano intruso giunto dai poli. Morgan cominciò a scrutare lo zenit senza troppe speranze, chiedendosi se la Torre fosse già visibile. Ma riusciva a vedere solo pochi metri, ancora illuminati dal debole splendore aurorale, del nastro sottile che il Ragno risaliva speditamente. Quel nastro minuscolo da cui dipendeva la sua vita, e la vita di altre sette persone, era così uniforme e monotono che non lasciava affatto intuire la velocità della capsula. Morgan trovava difficile credere che stava sfrecciando a più di duecento chilometri l'ora. E quel pensiero lo riportò d'improvviso all'infanzia, e lui seppe perché si sentiva così felice.

Si era ripreso in fretta dalla perdita di quel primo aquilone, era passato a modelli più grandi e più complessi. Poi, appena prima di scoprire il Tecnomeccano e di abbandonare per sempre gli aquiloni, aveva condotto qualche esperimento coi paracadute. A Morgan piaceva pensare di aver escogitato l'idea da solo, anche se forse qualche lettura o qualche spettacolo gliel'avevano suggerita. La tecnica era talmente semplice che intere generazioni di ragazzi dovevano averla riscoperta.

Per prima cosa preparava una sottile striscia di legno lunga circa cinque centimetri e vi agganciava due fermagli per carta. Poi faceva passare il filo dell'aquilone tra i fermagli, preparava un paracadute di carta sottile, grande quanto un fazzoletto, con nastri di seta; un quadratino di cartone serviva da contrappeso. Quando aveva attaccato il quadratino alla striscia di legno con un elastico, ma non troppo stretto, il gioco era fatto.

Spinto dal vento, il piccolo paracadute risaliva lungo il filo, arrivando fino all'aquilone lungo quella graziosa catenaria. Poi Morgan dava un colpo deciso e il contrappeso di cartone si sganciava dall'elastico. Il paracadute si allontanava in cielo, mentre l'intelaiatura di legno e filo gli tornava subito in mano, pronta per il lancio successivo.

Con quanta invidia aveva guardato le sue creature di carta che volavano leggere verso il mare! Quasi tutte cadevano sull'acqua prima di aver percorso un solo chilometro, ma a volte un paracadute se ne stava ancora coraggiosamente in alto quando scompariva ai suoi occhi. Gli piaceva immaginare che quei giocattoli fortunati raggiungessero le isole incantate del Pacifico; aveva anche scritto il suo nome e indirizzo sui quadratini di cartone, senza però ricevere mai risposta.

Morgan non poté impedirsi di sorridere a quei ricordi dimenticati da tempo; eppure spiegavano molte cose. I sogni dell'infanzia erano stati sorpassati, di gran lunga, dalla realtà della vita adulta; si era guadagnato il diritto di essere felice.

— Sei quasi a trecentottanta chilometri — disse Kingsley. — Come va l'elettricità?

— Sta cominciando a diminuire. È all'ottantacinque per cento. La batteria si sta scaricando

— Se tiene per altri venti chilometri ha fatto il suo lavoro. Come ti senti?

Morgan fu tentato di rispondere con superlativi, ma la sua cautela naturale lo dissuase. — Sto bene — disse. — Se potessimo assicurare uno spettacolo del genere a tutti i passeggeri, saremmo sommersi dalle folle.

— Forse si può fare — rise Kingsley. — Potremmo chiedere al Controllo Monsoni di inviare qualche elettrone nei punti giusti. Non è il loro lavoro normale, ma con le improvvisazioni se la cavano bene, no?

Morgan ridacchiò, ma non rispose.

I suoi occhi erano puntati sul pannello di controllo, da cui risultava che il flusso d'elettricità e la velocità di salita stavano diminuendo in maniera sensibile. Ma non c'era motivo d'allarmarsi: su 400 chilometri previsti il Ragno ne aveva già divorati 385, e la batteria esterna aveva ancora un po' di carica.

Al trecentonovantanovesimo chilometro Morgan prese a ridure la velocità di salita, finché il Ragno rallentò sempre di più. Dopo un po' la capsula si muoveva appena, e alla fine si fermò poco dopo il quattrocentocinquesimo chilometro.

— Sgancio la batteria — annunciò Morgan. — Attenzione alla testa.

Si era pensato a lungo al modo di recuperare quella batteria pesante e costosa, ma non c'era stato il tempo d'improvvisare un sistema di freni che la riportasse indietro, come una delle intelaiature per paracadute di Morgan.

In effetti un paracadute sarebbe stato disponibile, ma si era temuto che potesse impigliarsi nel nastro. Fortunatamente la zona dell'impatto, dieci chilometri a est del Capolinea Terrestre, si trovava nel fitto della giungla.

Gli animali selvatici di Taprobane avrebbero corso un bel rischio, e Morgan era già pronto a discutere col Dipartimento per l'Ecologia.

Tolse la sicura e poi schiacciò il pulsante che azionava le cariche esplosive. Il Ragno ebbe un veloce scossone alla detonazione. Poi mise in funzione la batteria interna, allentò dolcemente i freni, e diede nuovamente energia ai motori.

La capsula ripartì per l'ultima parte del viaggio. Ma un'occhiata al pannello rivelò a Morgan la presenza di un serio inconveniente. Il Ragno avrebbe dovuto salire a più di duecento chilometri orari; invece andava al di sotto dei cento, anche a pieno regime. Non erano necessari calcoli o prove. La diagnosi di Morgan fu istantanea, e le cifre parlavano da sole. Scosso e deluso, si rimise in contatto con la Terra.

— Siamo nei guai — disse. — Le cariche sono esplose, ma la batteria non si è sganciata. Qualcosa la tiene fissa al suo posto.

Naturalmente era inutile aggiungere che la missione era fallita. Tutti sapevano perfettamente che il Ragno non sarebbe riuscito a raggiungere la base della Torre con diverse centinaia di chili di peso morto.

48 Notte alla villa

Ormai l'ambasciatore Rajasinghe aveva bisogno di poco sonno. Era come se la Natura, benevolmente, gli stesse concedendo di sfruttare al massimo gli anni che gli rimanevano. E in nottate come quella, quando i cieli di Taprobane erano illuminati dallo spettacolo più straordinario che si vedesse da secoli, chi restava a letto?

Quanto avrebbe desiderato che Paul Sarath fosse lì con lui a vederlo! Il suo vecchio amico gli mancava più di quanto avrebbe ritenuto possibile; non c'era nessuno che potesse infastidirlo e stimolarlo come Paul, nessuno con cui avesse diviso, sin dalla fanciullezza, tante esperienze. Rajasinghe non aveva creduto di poter sopravvivere a Paul, o di riuscire a vedere la fantastica stalattite della Torre (un miliardo di tonnellate!) colmare quasi per intero l'abisso tra l'orbita sincrona e Taprobane, trentaseimila chilometri più in basso. Negli ultimi tempi Paul era diventato un nemico accanito del progetto; aveva detto che era una spada di Damocle, e non aveva mai smesso di predire che tutto sarebbe ricaduto sulla Terra. Eppure persino Paul aveva ammesso che la Torre aveva già prodotto alcuni vantaggi.

Forse per la prima volta nella storia, il resto del mondo era al corrente dell'esistenza di Taprobane, e stava scoprendo la sua antica cultura. Yakkagala, con la sua mole enorme e le sue leggende sinistre, aveva suscitato un'attenzione particolare; per cui Paul era riuscito a ottenere i flnanziamenti per alcuni dei suoi progetti più amati. L'enigmatica personalità del creatore di Yakkagala aveva già fornito spunto a numerosi libri e videodrammi, e lo spettacolo "son-et-lumière" ai piedi della Montagna registrava regolarmente il tutto esaurito. Poco prima di morire, Paul aveva detto seccamente che Kalidas stava diventando un buon affare, e che era sempre più difficile distinguere tra leggenda e realtà.

Subito dopo la mezzanotte, quando fu evidente che l'aurora boreale era giunta al culmine, Rajasinghe venne trasportato in camera da letto. Come faceva sempre dopo aver dato la buonanotte al personale della villa, si concesse un momento di relax con un bicchierino di ponce caldo e diede un'occhiata alle ultime notizie. L'unica cosa che lo interessava sul serio era l'impresa di Morgan: ormai doveva essere vicino alla base della Torre.

Il giornalista di turno aveva già commentato gli ultimi sviluppi della situazione. Una scritta che correva di continuo in basso sullo schermo diceva: MORGAN IMMOBILIZZATO A 200 CHILOMETRI DALLA META.

Le dita di Rajasinghe chiesero ulteriori dettagli, e lui fu lieto di scoprire che le sue paure iniziali erano prive di fondamento. Morgan "non" era immobilizzato; semplicemente non era in grado di terminare il viaggio. Poteva tornare sulla Terra quando voleva; ma se tornava, il professor Sessui e i suoi colleghi erano condannati a una morte certa.

In quel momento, direttamente sopra la sua testa, si stava svolgendo il dramma. Rajasinghe passò dai titoli elettronici al video, ma non c'era niente di nuovo; anzi, adesso stavano trasmettendo la registrazione del viaggio di Maxine Duval, avvenuto anni prima, su un prototipo del Ragno.

— Io posso fare di meglio — mormorò Rajasinghe, e mise in funzione il suo adorato cannocchiale.

I primi mesi dopo essersi trovato confinato a letto, gli era stato impossibile usarlo. Poi Morgan aveva fatto una delle sue brevi visite di cortesia, aveva analizzato la situazione e prescritto la cura. Una settimana più tardi, tra la sorpresa e il piacere di Rajasinghe, un gruppetto di tecnici si era presentato a Villa Yakkagala, e aveva adattato lo strumento al controllo a distanza. Adesso, standosene comodamente coricato a letto, lui poteva esplorare i cieli lontani e la superficie immensa della Montagna. Era profondamente grato a Morgan per quel gesto, che gli aveva mostrato un lato della personalità dell'ingegnere di cui non sospettava l'esistenza.

Non era ben sicuro di cosa potesse vedere nel buio della notte; ma sapeva esattamente dove puntare l'obiettivo, perché da molto seguiva la lenta discesa della Torre. Quando il sole si trovava all'angolo giusto, riusciva persino a vedere i quattro nastri di guida che convergevano verso lo zenit, quattro linee di luce tracciate in cielo.

Inserì il comando del cannocchiale sull'angolo azimutale e lo puntò in alto, esattamente al di sopra di Sri Kanda. Mentre cominciava a seguire piano i nastri, cercando i segni che indicassero la presenza della capsula, si chiese cosa pensasse il Maha Thero di quegli ultimi avvenimenti. Rajasinghe non aveva più parlato al monaco, che ormai aveva passato i novant'anni, da che l'Ordine si era trasferito a Lhasa; ma immaginava che il Potala non avesse fornito tutto quello che i monaci si aspettavano. Il grande palazzo stava cadendo a pezzi poco per volta, mentre gli esecutori testamentari del Dalai Lama litigavano col Governo Federale Cinese per le spese di manutenzione. Secondo le ultime informazioni in possesso di Rajasinghe, il Maha Thero era in trattative col Vaticano, a sua volta sommerso da difficoltà finanziarie croniche, ma che perlomeno possedeva un proprio territorio.

Vero, nessuna cosa è eterna, ma non era facile scorgere uno schema ciclico. Forse ci sarebbe riuscito il genio matematico di Parakarma-Goldberg. L'ultima volta che Rajasinghe lo aveva visto, stava ricevendo un importante premio scientifico per il suo contributo alla meteorologia. Rajasinghe non lo avrebbe mai riconosciuto: aveva i capelli tagliati a spazzola, e indossava un vestito all'ultima moda neo-napoleonica. Però sembrava che adesso fosse stato ripreso da impulsi religiosi… Le stelle scivolavano lentamente sul grande monitor a capo del letto, e il cannocchiale si alzava verso la Terra. Ma non c'era segno della capsula, anche se Rajasinghe era sicuro che ormai dovesse trovarsi nel campo della sua visuale.

Stava per riaccendere il normale canale televisivo quando, come una nova in eruzione, una stella si accese nella parte inferiore del monitor. Per un attimo Rajasinghe si chiese se la capsula fosse esplosa; poi notò che la stella risplendeva di una luce perfettamente omogenea. Centrò l'immagine e mise l'ingrandimento al massimo.

Molto tempo prima aveva visto un documentario, vecchio di due secoli, che mostrava le prime guerre aeree: ricordò improvvisamente uno spezzone incentrato su un attacco notturno a Londra. Un bombardiere nemico era stato individuato dal cono di luce dei proiettori, ed era rimasto immobile, come una pagliuzza incandescente, in cielo. Adesso stava osservando lo stesso fenomeno, su una scala centinaia di volte più grande; però questa volta tutte le risorse di chi si trovava al suolo erano tese ad aiutare, non a distruggere, quell'invasore notturno.

49 Un viaggio scomodo

La voce di Warren Kingsley si era ricomposta. Adesso sembrava semplicemente monocorde e disperata.

— Stiamo cercando di impedire a quel tecnico di spararsi — disse. — Però non bisogna prendersela con lui. Lo hanno interrotto per un altro lavoro d'urgenza sulla capsula, e si è semplicemente dimenticato di togliere le cinghie di sicurezza.

Per cui, come al solito, si trattava di un errore umano. Mentre gli esplosivi venivano collegati, la batteria era tenuta ferma da due cinghie di metallo. E soltanto una era stata tolta… Cose del genere succedevano con monotona regolarità; a volte creavano un semplice impiccio, a volte un vero disastro, e l'uomo che ne era responsabile doveva sopportare il senso di colpa per il resto dei suoi giorni. In ogni caso, era inutile recriminare. Adesso importava solo capire cosa fare.

Morgan regolò lo specchio esterno alla massima inclinazione possibile, ma non riuscì a vedere la causa del disastro. Adesso che l'aurora boreale era svanita la parte inferiore della capsula era immersa nell'oscurità totale, e lui non aveva modo d'illuminarla. Però quel problema, almeno, era di facile soluzione. Se il Controllo Monsoni riusciva a inviare qualche kilowatt di infrarossi alle fondamenta della Torre, non gli sarebbe stato difficile proiettare lì una minima quantità di fotoni per la visibilità.

— Possiamo usare i nostri riflettori — disse Kingsley, quando Morgan gli trasmise la richiesta.

— No. Mi arriverebbero direttamente negli occhi e non riuscirei a vedere niente. Voglio un'illuminazione sopra e sotto. Ci sarà pure qualcuno nella posizione esatta.

— Controllerò — rispose Kingsley, lieto di fare qualcosa di utile. A Morgan sembrò che passasse un tempo infinito prima della sua chiamata; però, controllando il cronometro, fu sorpreso di vedere che erano trascorsi solo tre minuti.

— Il Controllo Monsoni potrebbe farcela, però dovrebbero regolare di nuovo e defocalizzare gli strumenti. Credo che abbiano paura di arrostirti. Però Kinte può fornirti subito l'illuminazione: hanno un laser allo pseudobianco, e si trovano nella posizione giusta. Devo farli partire?

Morgan controllò la propria posizione: Kinte era a ovest, molto più in alto… Andava benissimo.

— Sono pronto — rispose, e chiuse gli occhi.

La capsula fu inondata di luce quasi all'istante. Con cautela estrema Morgan riaprì gli occhi. Il raggio giungeva da una posizione più alta della sua, a ovest, ed era ancora accecante nonostante avesse percorso quarantamila chilometri. Sembrava d'un bianco immacolato, ma, come lui sapeva, in realtà si trattava del risultato comune di tre linee perfettamente nella zona rossa, verde e blu dello spettro.

Manovrò per qualche secondo lo specchio e riuscì a vedere chiaramente la cinghia colpevole di tutto, a mezzo metro sotto i suoi piedi. L'estremità della cinghia che poteva vedere era fissata alla base del Ragno da un grande dado ad alette; non doveva fare altro che svitarlo, e la batteria si sarebbe staccata…

Morgan restò ad analizzare in silenzio la situazione per così tanti minuti che Kingsley lo richiamò. Per la prima volta, nella sua voce disperata comparve un filo di speranza.

— Abbiamo fatto qualche calcolo, Van… Che ne pensi di questa idea?

Morgan lo ascoltò, poi emise un fischio. — Siete certi del margine di sicurezza? — chiese.

— Naturalmente — rispose Kingsley, un po' offeso: era raro che Morgan lo riprendesse, ma non era "lui" che avrebbe rischiato l'osso del collo.

— D'accordo, tenterò. Ma solo per un secondo, la prima volta.

— Temo che non basterà, comunque è una buona idea. Ti abituerai.

Morgan allentò dolcemente i freni ad attrito che tenevano il Ragno immobile sul nastro. D'improvviso gli sembrò di alzarsi dal sedile, e il peso svanì. Contò: — Uno, due! — e di colpo rimise in funzione i freni.

Il Ragno ebbe un sobbalzo, e per una frazione di secondo Morgan si trovò schiacciato sul sedile. I freni intonarono un'orribile litania, poi la capsula fu di nuovo immobile, a parte una lieve vibrazione di torsione che scomparve in fretta.

— È stato un colpo terribile — disse Morgan. — Comunque sono ancora qui, e c'è anche quella maledetta batteria.

— Ti avevo avvertito. Dovrai mettercela tutta. Due secondi come minimo.

Morgan sapeva che era impossibile stare a discutere con Kingsley, visto che l'altro aveva a disposizione tutte le calcolatrici e i computer possibili; però un briciolo di aritmetica in proprio gli avrebbe dato una certa sicurezza. Due secondi di caduta libera… Diciamo mezzo secondo per azionare i freni… Calcoliamo una tonnellata per la massa del Ragno… Il problema era: chi sarebbe saltato per primo? La cintura metallica che bloccava la batteria, o il nastro che lo teneva sospeso a quattrocento chilometri in cielo? In condizioni normali, l'acciaio comune non avrebbe certo potuto mettersi a gareggiare con l'iperfilamento. Ma se frenava troppo in fretta, oppure se i freni cedevano sotto le sue sevizie, potevano cedere sia l'acciaio che l'iperfilamento. Nel qual caso, lui e la batteria sarebbero precipitati a terra più o meno nello stesso momento.

— Vada per i due secondi — disse a Kingsley. — Parto.

Questa volta lo strappo fu tanto violento da scuotere i nervi, e le oscillazioni di torsione impiegarono molto più tempo a scomparire. Morgan era certo che avrebbe sentito, o comunque provato, lo strappo della cintura di acciaio. Per cui non restò sorpreso quando un'occhiata allo specchio gli disse che la batteria non s'era mossa.

Kingsley non pareva troppo preoccupato. — Forse bisogna provare tre o quattro volte — disse.

Morgan fu tentato di rispondergli: "Vuoi prendere il mio posto?" poi ci ripensò. Warren poteva anche godersi la battuta; altri ascoltatori ignoti, forse no.

Dopo la terza frenata (gli sembrava di essere sceso di chilometri, eppure si trattava solo d'un centinaio di metri) persino l'ottimismo di Kingsley cominciò a diminuire. Era chiaro che quel trucchetto non funzionava.

— Vorrei fare le mie congratulazioni a chi ha costruito quella cintura di sicurezza — disse amaramente Morgan. — E adesso cosa mi proponete? Una caduta di tre secondi prima di azionare i freni?

Poteva quasi vedere Warren che scuoteva la testa. — È un rischio troppo grosso. Non è tanto il nastro che mi preoccupa, quanto i freni. Non sono stati progettati per operazioni del genere.

— Comunque abbiamo tentato — risponde Morgan. — E io non voglio arrendermi proprio adesso. Mi venga un colpo che mi lascio fermare da un maledetto dado ad aletta che si trova a cinquanta centimetri dal mio naso. Esco a svitarlo.

50 Lucciole bizzarre

01 15 24 "Qui è la 'Friendship Seven'. Cercherò di descrivere il mio ambiente. Mi trovo dentro una grande massa di particelle piccolissime ed estremamente luminose, quasi fossero luminescenti… Seguono la capsula, e sembrano stelle. Ce n'è un mucchio in arrivo…

01 16 10 "Sono lentissime. Non si allontanano da me a più di cinque o sei chilometri all'ora…

01 19 38 "I raggi del sole sono appena spuntati dietro il telescopio… Mentre guardavo fuori dall'oblò, ho visto letteralmente migliaia di piccole particelle luminose che danzavano attorno alla capsula…"

(Comandante John Glenn, "Friendship Seven" del progetto Mercury, 20 febbraio 1962).

Con le tute spaziali di vecchio tipo, sarebbe stato del tutto impossibile raggiungere il dado ad aletta. Era difficile persino con la flexituta che indossava Morgan, però se non altro poteva tentare.

Con estrema cura, visto che tante vite dipendevano da quello che avrebbe fatto, studiò la sequenza di eventi. Doveva controllare la tuta, depressurizzare la capsula, e aprire il portello che, per fortuna, era a portata di mano. Poi doveva slacciare la cintura di sicurezza, mettersi in ginocchio (se ci riusciva!) e afferrare quel dado. Tutto dipendeva da quanto era stretto. Sul Ragno non c'erano utensili di nessun tipo, ma Morgan era pronto a misurare le proprie dita, anche chiuse dai guanti, contro la resistenza del dado.

Stava per trasmettere a Terra i suoi piani, nel caso che qualcuno individuasse un errore fatale, quando si accorse di una sensazione sgradevole al basso ventre. Poteva facilmente sopportarla ancora per molto tempo, se fosse stato necessario, ma era inutile correre rischi. Se usava le tubature igieniche della capsula, non doveva ricorrere allo scomodo meccanismo incorporato nella tuta…

Quando si fu liberato schiacciò il pulsante di SCARICO URINE, e rimase sorpreso da una piccola esplosione alla base della capsula. Stupefatto, vide spuntare quasi subito una nube di stelle scintillanti, come se fosse stata creata una galassia in miniatura. Morgan ebbe l'impressione che, per una frazione di secondo, rimanesse immobile all'esterno della capsula; poi cominciò a cadere verso il basso, con la stessa velocità di una pietra scagliata sulla Terra. Dopo pochi secondi quella galassia microscopica si trasformò in un punto minuscolo, e scomparve.

Niente avrebbe potuto ricordargli con maggior efficacia che era ancora prigioniero del campo gravitazionale terrestre. Ricordò che, nei primi giorni del volo orbitale, gli astronauti si sentivano stupefatti e poi divertiti dall'alone di cristalli ghiacciati che li accompagnava attorno al pianeta. Qualcuno aveva anche inventato, per scherzo, la "Costellazione Urina". Ma lì le cose erano diverse: tutto quello che usciva dal Ragno, per quanto fragile, sarebbe andato a cozzare con l'atmosfera. Non doveva mai dimenticare che, nonostante l'altezza raggiunta, non era un astronauta, libero da ogni peso e costrizione. Era solo un uomo che si trovava in un edificio alto quattrocento chilometri, e che si preparava ad aprire la finestra.

51 Sulla veranda

Per quanto sulla cima facesse freddo, e le condizioni atmosferiche fossero tutt'altro che confortevoli, la folla continuava ad aumentare. C'era qualcosa di ipnotico in quella stella minuscola, brillante, immobile allo zenit, su cui in quel momento erano puntati i pensieri del mondo intero, nonché il raggio laser della Stazione Kinte. Arrivando, tutti gli spettatori si dirigevano al nastro nord e lo toccavano con qualcosa a mezza strada fra la vergogna e l'impudenza, come per dire: "Lo so che è stupido, ma mi sembra di essere più vicino a Morgan". Poi si raccoglievano attorno alla macchinetta del caffè e ascoltavano i comunicati diramati dagli altoparlanti. Niente di nuovo alla Torre: i sette naufraghi dormivano, o tentavano di dormire, per risparmiare ossigeno. Per il momento Morgan non era ancora in ritardo, per cui nessuno li aveva informati dell'incidente; ma entro un'ora avrebbero chiamato la Stazione di Mezzo per sapere cos'era successo.

Maxine Duval era giunta a Sri Kanda appena dieci minuti dopo che Morgan era partito. Un tempo, uno sbaglio del genere l'avrebbe mandata su tutte le furie; ora si limitò a scrollare le spalle e a tranquillizzarsi con l'idea che sarebbe stata la prima a impadronirsi dell'ingegnere, non appena tornava. Kingsley non le aveva permesso di parlare con Morgan, e lei aveva accettato persino quell'ordine. Sì, stava proprio invecchiando…

Durante gli ultimi minuti, le sole parole uscite dalla capsula erano una serie di "A posto": Morgan stava eseguendo il controllo della tuta con l'aiuto di un esperto della Stazione di Mezzo. Ora il controllo era terminato; tutti attendevano, pieni di tensione, la cruciale mossa successiva.

— Faccio uscire l'aria — disse Morgan. La sua voce, adesso che aveva chiuso il visore dell'elmetto, aveva qualche eco. — Pressione nella capsula zero. Nessun problema di respirazione. — Una pausa di trenta secondi; poi: — Apro il portello frontale. Ci siamo. Adesso slaccio la cintura del sedile.

Gli spettatori, inconsciamente, si agitarono e mormorarono. Con l'immaginazione ognuno di loro si trovava lassù, sulla capsula, davanti al vuoto che si era improvvisamente spalancato.

— Fibbia a sganciamento veloce slacciata. Mi stiro le gambe. Non c'è molto spazio per stare in piedi…

"Sto provando la tuta. È flessibilissima. Adesso esco sulla veranda… Non preoccupatevi!… Ho arrotolato al braccio sinistro la cintura del sedile…

"Puà! Un lavoraccio, così chino. Comunque riesco a vedere quel dado ad aletta, sotto la griglia. Adesso sto cercando di arrivarci…

"Sono in ginocchio… Non è molto comodo… L'ho preso! Ora vediamo se gira…"

Le persone in ascolto si fecero tese, silenziose; poi, all'unisono, si rilassarono con sospiri di sollievo praticamente simultanei.

— Non c'è problema! Riesco a girarlo con la massima facilità. Ha già fatto due giri… Si staccherà da un momento all'altro… Ancora un attimo… Lo sento che cede… ATTENZIONE LAGGIÙ IN BASSO!

Ci fu uno scoppio d'applausi e urla di gioia. Qualcuno, scimmiottando il terrore, si portò le mani alla testa fingendo di coprirsela. Una o due persone, che non avevano capito che il dado avrebbe impiegato cinque minuti a cadere e sarebbe precipitato dieci chilometri a est, erano allarmate sul serio.

Solo Warren Kingsley non si unì alla gioia generale. — Non cantiamo vittoria troppo presto — disse a Maxine. — Non è ancora finita.

Passarono i secondi… Un minuto… Due minuti…

— Inutile — disse finalmente Morgan, con una voce piena di rabbia e frustrazione. — Non riesco a muovere la cinghia. Il peso della batteria la tiene schiacciata sulle filettature. Quei colpi di freno devono averla impigliata nel bullone.

— Torna indietro alla massima velocità — disse Kingsley. — È quasi pronto un nuovo accumulatore, e in meno di un'ora riusciamo a farti ripartire. Per cui riusciremo a raggiungere la Torre in… oh, diciamo sei ore. Salvo altri incidenti, naturalmente.

Appunto, pensò Morgan; e non avrebbe accettato di ripartire col Ragno senza un controllo millimetrico dei freni, sottoposti a sforzi eccessivi. Non si sarebbe fidato neppure della propria resistenza a un secondo viaggio: sentiva già il peso delle ultime ore, e presto la fatica avrebbe rallentato i ritmi del suo corpo e della mente, proprio quando avrebbero dovuto trovarsi al massimo dell'efficienza.

Adesso era di nuovo sul sedile, però la capsula era ancora aperta sullo spazio, e non aveva riallacciato la cintura di sicurezza. Quel gesto avrebbe significato ammettere la sconfitta; il che per Morgan non era mai stato facile.

Il bagliore immobile del laser della Stazione Kinte, che giungeva da un punto quasi direttamente sopra di lui, lo trafiggeva col suo candore implacabile. Cercò di concentrare la mente sul problema con la stessa precisione con cui quel raggio era concentrato su di lui.

Gli serviva solo un utensile di metallo, un'accetta o una cesoia, per tagliare la cinghia che bloccava la batteria. Maledisse ancora una volta il fatto che sul Ragno non ci fosse una cassetta di attrezzi; comunque sarebbe stato difficile che contenesse quello che gli serviva.

Nella batteria del Ragno erano imprigionati megawattore di energia; non poteva proprio sfruttarli? Immaginò per un attimo di riuscire a creare un arco e tagliare in due, bruciandola, la cinghia; ma anche se avesse avuto a disposizione i conduttori necessari, e naturalmente non li aveva, era impossibile raggiungere la batteria dalla cabina di controllo.

Warren, e tutti i brillanti cervelli radunati attorno a lui, non erano riusciti a trovare una soluzione. Morgan era abbandonato a se stesso, fisicamente e intellettualmente. Dopo tutto, era il tipo di situazioni che aveva sempre preferito.

E poi, proprio mentre stava per richiudere il portello della capsula, seppe cosa doveva fare. La soluzione era sempre stata lì.

52 L'altro passeggero

A Morgan parve che gli avessero tolto dalle spalle un peso enorme. Si sentiva completamente, irrazionalmente fiducioso. Questa volta "doveva" funzionare. Però non si mosse dal sedile prima di aver studiato le azioni che doveva compiere nei minimi dettagli. E quando Kingsley, leggermente ansioso, lo spronò di nuovo a tornare indietro, gli diede una risposta evasiva. Non voleva accendere false speranze, né sulla Terra né sulla Torre.

— Tenterò un esperimento — disse. — Lasciatemi in pace per qualche minuto.

Prese il distributore di iperfilamento che aveva usato per tante dimostrazioni, la filiera che, anni prima, gli aveva permesso di scendere lungo la parete di Yakkagala. Per motivi di sicurezza era stata apportata una modifica: il primo metro di filamento era stato ricoperto d'uno strato di plastica, per cui adesso non era più invisibile, e con cautela estrema lo si poteva maneggiare anche a mani nude.

Osservando la scatoletta che teneva in mano, Morgan capì che ormai la considerava un talismano, un vero e proprio portafortuna. Naturalmente, non credeva sul serio in cose del genere; aveva sempre un motivo perfettamente logico di portarsi dietro la filiera. In quel viaggio aveva pensato che potesse essergli utile per la sua robustezza e l'eccezionale forza di sollevamento. Si era quasi scordato che aveva anche altre qualità.

Si alzò ancora una volta dal sedile e s'inginocchiò sulla griglia metallica all'esterno del Ragno, per esaminare la causa di tanti guai. Il bullone maledetto si trovava a soli dieci centimetri da lui, dall'altra parte della griglia. Le sbarre erano troppo fitte per riuscire a infilar dentro la mano, però aveva già visto che poteva aggirarla senza troppe difficoltà.

Fece uscire il primo metro di iperfilamento rivestito di plastica, e usando l'anello all'estremità come piombino fece passare il filamento attraverso la griglia. Appoggiò la filiera in un angolo formato dalle pareti della capsula, in modo che se anche l'urtava non volasse giù; poi fece girare la mano attorno alla griglia e afferrò l'anello che dondolava. La cosa non fu facile come credeva: anche quella tuta flessibilissima non consentiva al braccio di piegarsi del tutto liberamente, e l'anello, oscillando avanti e indietro, sfuggiva alla presa.

Dopo una mezza dozzina di tentativi (più faticosi che irritanti, perché sapeva che prima o poi ce l'avrebbe fatta) aveva arrotolato la fibra attorno allo stelo del bullone, appena sotto la cinghia impigliata. Adesso veniva il difficile…

Fece uscire ancora un po' di filamento, quel tanto che bastava perché la fibra nuda raggiungesse il bullone e vi passasse attorno; poi tirò un colpo forte, finché sentì che il nodo aveva agganciato la filettatura del bullone. Morgan non aveva mai condotto un esperimento del genere su sbarre di acciaio rinvenuto più spesse di un centimetro, e non aveva idea di quanto tempo occorresse. Si appoggiò alla parete del Ragno e cominciò a manovrare la sua sega invisibile.

Dopo cinque minuti era tutto sudato, e non capiva se aveva fatto il minimo progresso. Aveva paura di diminuire la tensione, perché la fibra poteva sciogliersi dal cappio altrettanto invisibile che, sperava, stava segando il bullone. Warren lo aveva chiamato diverse volte, sempre più allarmato, e lui lo aveva tranquillizzato sbrigativamente. Tra un po' si sarebbe riposato, avrebbe ripreso fiato e spiegato cosa stava cercando di fare. Era il minimo che doveva al suo amico in ansia.

— Van — disse Kingsley — cosa stai facendo? La gente chiusa nella Torre ci ha chiamati… Cosa devo rispondere?

— Dammi ancora qualche minuto… Sto cercando di segare il bullone…

La voce femminile, calma ma autoritaria, che lo interruppe diede a Morgan un colpo tale che quasi lasciò andare la preziosa fibra. La voce era un po' soffocata dalla tuta, ma non importava. Conosceva sin troppo bene quelle parole, anche se erano passati mesi dall'ultima volta che le aveva udite.

— Dottor Morgan — disse CORA — per favore sedetevi a riposare per dieci minuti.

— Ti accontenti di cinque? — la pregò. — In questo momento ho parecchio da fare.

CORA non si degnò di rispondere. Esistevano apparecchi in grado di sostenere una conversazione semplice, ma il suo non era di quel tipo.

Morgan tenne fede alla promessa: respirò a fondo, con regolarità, per cinque minuti pieni. Poi si rimise a segare. Tirava il filo avanti e indietro, avanti e indietro, accucciato sopra la griglia e sopra la Terra lontana quattrocento chilometri. Sentiva una resistenza considerevole, per cui doveva per forza fare qualche progresso con quell'acciaio durissimo. Ma era impossibile capire l'entità del progresso.

— Dottor Morgan — disse CORA — dovete proprio coricarvi per mezz'ora.

Morgan bestemmiò fra sé.

— Ti sbagli, dolce signora — ribatté. — Mi sento benissimo. — Ma mentiva: CORA sapeva del dolore al suo petto…

— Con chi diavolo stai parlando, Van? — chiese Kingsley.

— È solo un angelo di passaggio — rispose Morgan. — Scusa se non ho spento il microfono. Mi riposo ancora un po'.

— Che progressi stai facendo?

— Non so. Però sono certo che ormai il taglio è piuttosto profondo. "Deve" esserlo…

Avrebbe voluto poter spegnere CORA, ma la cosa era impossibile, anche se non fosse stata incastrata tra lo sterno e il tessuto della tuta. Un monitor cardiaco che si potesse spegnere era peggio che inutile; era pericoloso.

— Dottor Morgan — disse CORA, ormai decisamente irritata — "devo" proprio insistere. Almeno mezz'ora di riposo "completo".

Questa volta Morgan non se la sentì di rispondere. Sapeva che CORA aveva ragione; ma ovviamente non si poteva pretendere che capisse quante vite erano in gioco. E poi lui era sicuro che, come tutti i suoi punti, anche quell'apparecchio possedesse un ampio margine di sicurezza. La sua diagnosi doveva per forza tendere a essere pessimistica; le sue condizioni non potevano essere così gravi. O almeno lo sperava ardentemente.

Sembrava che il dolore al petto non peggiorasse; decise di ignorare sia quello sia CORA, e ricominciò a segare, piano ma a ritmo costante, col cappio di iperfilamento. Avrebbe continuato, si disse decisamente, finché era necessario.

Non ci furono i segni premonitori su cui contava. Il Ragno sobbalzò violentemente quando duecentocinquanta chili di peso morto si staccarono, e Morgan venne quasi scagliato nell'abisso. Lasciò cadere la filiera, cercò di afferrare la cintura di sicurezza.

Tutto accadde con la lentezza di un sogno. Non provava paura, era solo assolutamente deciso a non arrendersi alla gravità senza combattere. Ma non riusciva a trovare la cintura di sicurezza; doveva essere rientrata in cabina…

Non si accorse nemmeno di usare la sinistra, ma d'improvviso capì che era serrata sulle cerniere del portello spalancato. Eppure non rientrò subito in cabina; era ipnotizzato dallo spettacolo della batteria che precipitava e scompariva in basso, roteando lentamente come uno strano corpo celeste. Ci volle molto tempo prima che svanisse del tutto; e solo allora Morgan si mise al sicuro, sprofondando nel sedile.

Restò immobile per molto tempo, col cuore che batteva forte, in attesa di un'altra indignata protesta di CORA. Invece scoprì, sorpreso, che restava in silenzio, come se anche lei fosse sorpresa quanto lui. Ad ogni modo non le avrebbe più dato motivo di lamentarsi: da quel momento in poi sarebbe rimasto seduto tranquillo davanti ai comandi, cercando di calmare i suoi nervi sconvolti.

Quando fu di nuovo padrone di sé chiamò la montagna.

— Ho liberato la batteria — disse, e da Terra udì salire esclamazioni di gioia. — Chiudo il portello e riparto. Dite a Sessui e soci di aspettarmi entro un'ora circa. E ringraziate Kinte per l'illuminazione. Non mi serve più.

Ripressurizzò la cabina, aprì l'elmetto della tuta, e si concesse una lunga, fresca sorsata di succo d'arancia vitaminizzato. Poi accese il motore e disinserì i freni, e un senso di profondo sollievo lo sommerse quando il Ragno riprese a salire a velocità piena.

Stava viaggiando da diversi minuti prima di rendersi conto cosa mancava. Gettò un'occhiata di ansiosa speranza alla griglia: no, non c'era. Be', poteva sempre procurarsi un'altra filiera, per sostituire quella che adesso stava piombando sulla Terra con la batteria esaurita; era un sacrificio modesto per un risultato così grande. Strano, quindi, che si sentisse tanto sconvolto, incapace di gustare a fondo il trionfo… Gli sembrava d'aver perso un vecchio amico fedele.

53 Perdita d'energia

Il fatto che il ritardo fosse di soli trenta minuti sembrava troppo bello per essere vero. Morgan era pronto a giurare che la capsula si era fermata almeno per un'ora. Su nella Torre, ormai lontana molto meno di duecento chilometri, il comitato di festeggiamenti si stava senz'altro preparando a riceverlo. E lui rifiutava la sola idea di prendere in considerazione problemi ulteriori. Quando oltrepassò il segnale posto al cinquecentesimo chilometro, continuando a viaggiare a tutta birra, da Terra gli giunse un messaggio di congratulazioni. — Fra l'altro — aggiunse Kingsley — il guardiano del santuario di Ruhana ha segnalato la caduta d'un aereo. Lo abbiamo rassicurato. Se troviamo la buca, potremo offrirti un ricordino. — Morgan non ebbe difficoltà a frenare l'entusiasmo: non voleva rivedere mai più quella batteria. Certo, se riuscivano a trovare la filiera… Ma quello era un compito impossibile.

Il primo segno di guai arrivò al chilometro cinquecentocinquanta. Ormai la velocità di salita avrebbe dovuto essere superiore ai duecento chilometri orari, invece raggiungeva appena i centonovantotto. Era una differenza minima, che non avrebbe influito in maniera apprezzabile sul tempo d'arrivo; però lo preoccupava.

A soli trenta chilometri dalla Torre aveva diagnosticato il problema, e sapeva che questa volta non poteva farci assolutamente niente. La riserva d'energia avrebbe dovuto essere piuttosto ampia, ma la batteria cominciava a scaricarsi; forse i delicati elementi che la componevano avevano subito qualche danno. Qualunque fosse la spiegazione, il flusso di corrente e la velocità della capsula diminuivano gradualmente.

Quando Morgan riferì a Terra le cifre che apparivano sul pannello, scoppiò la costernazione.

— Temo che tu abbia ragione — rispose Kingsley, che sembrava sul punto di piangere. — Ti suggeriamo di abbassare la velocità fino a cento chilometri orari. Cercheremo di calcolare il tempo di vita della batteria, anche se si tratterà solo di una valutazione approssimativa.

Ancora venticinque chilometri; solo quindici minuti, anche a quella velocità minima! Se Morgan fosse stato capace di pregare, avrebbe pregato.

— Riteniamo che tu abbia ancora a disposizione fra i dieci e i venti minuti, a giudicare dal tasso di diminuzione dell'energia. Ci mancherà un pelo, temo.

— Devo ridurre ancora la velocità?

— Per ora no. Stiamo cercando di sfruttare al massimo l'energia, e meglio di così non ci sembra possibile.

— Be', adesso potete accendere il proiettore. Se non posso raggiungere la Torre, almeno voglio vederla.

Né Kinte né le altre stazioni potevano essergli d'aiuto, adesso che voleva ammirare la base della Torre. Quello era un lavoro per il proiettore di Sri Kanda, puntato in verticale verso lo zenit.

Un attimo dopo, la capsula fu trafitta da un raggio di luce luminosissimo che giungeva dal cuore di Taprobane. A soli pochi metri di distanza, così vicini che gli pareva di poterli toccare, gli altri tre nastri erano fasci di luce che convergevano verso la Torre. Seguì il loro percorso, e vide le fondamenta…

Lontane appena venti chilometri! Poteva arrivarci in una dozzina di minuti, attraversare il pavimento di quel piccolo edificio quadrato che vedeva splendere in cielo, portare doni come un Babbo Natale troglodita. Era deciso a rilassarsi, a seguire gli ordini di CORA, ma gli era impossibile. Sentì che i suoi muscoli si tendevano, come se i suoi sforzi fisici potessero servire a spingere il Ragno lungo l'ultimo tratto di percorso.

A dieci chilometri dall'obiettivo il rumore del motore variò sensibilmente. Morgan se l'era aspettato, e reagì immediatamente. Senza attendere ordini da Terra ridusse la velocità a cinquanta chilometri orari. A quella velocità gli restavano "ancora" dodici minuti di viaggio, e cominciò a chiedersi, disperato, se non si trattasse di un avvicinamento asintotico. Era una variante della corsa fra Achille e la tartaruga: se dimezzava la velocità ogni volta che si dimezzava la distanza, avrebbe raggiunto la Torre in un tempo finito? Una volta avrebbe saputo subito la risposta; adesso si sentiva troppo stanco per elaborarla.

A cinque chilometri vide i particolari della Torre: il ponte d'impalcatura e le ringhiere di protezione, l'inutile rete di sicurezza messa come contentino per l'opinione pubblica. Per quanto si sforzasse, non riusciva a scorgere il portello verso cui stava strisciando con lentezza esasperante.

E poi la cosa non importò più. Due chilometri sotto le fondamenta, i motori del Ragno si fermarono completamente. La capsula scivolò indietro di qualche metro prima che Morgan riuscisse a frenare.

Eppure adesso, sorprendendo Morgan, Kingsley non sembrò disperato.

— Puoi ancora farcela — disse. — Da' dieci minuti alla batteria per ricaricarsi. C'è ancora energia a sufficienza per gli ultimi due chilometri.

Furono tra i dieci minuti più lunghi che Morgan avesse mai vissuto. Avrebbe potuto abbreviarli rispondendo agli appelli sempre più disperati di Maxine Duval, ma si sentiva troppo esausto emotivamente per parlare. Gli dispiaceva sinceramente, e sperava che Maxine capisse e lo scusasse.

Scambiò poche frasi con l'autista-pilota Chang, il quale gli disse che i prigionieri della Torre erano ancora in ottima forma, e molto incoraggiati dalla sua vicinanza. A turno lo osservavano attraverso l'unico oblò del portello esterno della camera d'equilibrio, e non riuscivano semplicemente a credere che non fosse in grado di superare i pochi chilometri che lo dividevano da loro.

Morgan, per scaramanzia, concesse un minuto in più alla batteria. Fu sollevato nel vedere che il motore ruggiva con forza, avanzando a buona velocità. Il Ragno arrivò a mezzo chilometro dalla Torre prima di fermarsi di nuovo.

— La prossima volta ce la fai — disse Kingsley, anche se a Morgan sembrava che l'ottimismo del suo amico suonasse un po' forzato. — Mi spiace per tutte queste soste…

— Altri dieci minuti?

— Temo di sì. E questa volta da' impulsi di trenta secondi, con un intervallo di un minuto fra l'uno e l'altro. Così sfrutterai gli ultimi erg della batteria.

"E i miei" pensò Morgan. Strano che CORA se ne stesse tranquilla da tanto tempo. Eppure, questa volta non si era stancato fisicamente; era soltanto una sensazione.

Preoccupato com'era per il Ragno, aveva trascurato se stesso. Nell'ultima ora aveva dimenticato le tavolette energetiche a residuo zero di glucosio e il tubicino di plastica del succo d'arancia. Dopo le tavolette e il succo si sentì molto meglio. Gli sarebbe piaciuto poter trasmettere alla batteria agonizzante un po' del suo surplus di calorie.

Era un salto nel buio, certo. Quanti aerei non si erano schiantati sull'orlo della pista, dopo aver attraversato un oceano? Quante volte le macchine o i muscoli non avevano ceduto a pochi millimetri dal punto d'arrivo? Fortuna e sfortuna accadevano a tutti, in un modo o nell'altro. Non aveva diritto di aspettarsi un trattamento speciale.

La capsula avanzò a colpi e strattoni, come un animale moribondo in cerca dell'ultimo rifugio. Quando finalmente la batteria si spense, la base della Torre sembrava riempire il cielo.

Ma era ancora a venti metri sopra di lui.

54 Teoria della relatività

Va a merito di Morgan l'aver provato la sensazione che il "suo" destino fosse segnato, nel terribile momento in cui le ultime riserve d'energia si esaurirono e le luci sul pannello di controllo del Ragno si spensero. E per diversi secondi non ricordò nemmeno che doveva solo allentare i freni per ritornare sulla Terra. Entro tre ore poteva mettersi tranquillamente a letto. Nessuno poteva rimproverarlo se la missione era fallita; aveva fatto tutto quello che era umanamente possibile.

Per un po' fissò, con furia repressa, quell'inaccessibile quadrato su cui si proiettava l'ombra del Ragno. La sua mente elaborò una quantità di progetti pazzeschi, e li respinse tutti. Se avesse avuto ancora la sua fedele filiera… Ma sarebbe stato impossibile agganciare l'iperfilamento alla Torre. "Se" i sette superstiti avessero avuto una tuta spaziale, qualcuno avrebbe potuto tendergli una corda; ma non c'era stato il tempo di salvare nessuna tuta sul traslatore in fiamme.

Ovviamente, se si fosse trattato di un videodramma e non di un problema reale, qualcuno avrebbe potuto sacrificarsi (meglio ancora se era una donna): bastava che s'infilasse nel portello e gli lanciasse una corda, sfruttando i quindici secondi di coscienza per salvare gli altri. La disperazione di Morgan era tale che, per un brevissimo momento, prese in considerazione l'idea; poi tornò il buonsenso.

Da quando il Ragno aveva smesso di combattere contro la gravità al momento in cui Morgan accettò l'idea che non poteva fare più niente, era passato probabilmente meno di un minuto. Poi Warren Kingsley gli fece una domanda che, in una circostanza del genere, gli parve fastidiosa e inutile.

— Ridacci la tua distanza, Van. Quanto manca esattamente alla Torre?

— E che diavolo importa? Potrei anche essere a un anno luce.

Da Terra ci fu un silenzio breve; poi Kingsley si fece sentire di nuovo, col tono di chi si rivolgesse a un bambino piccolo o a un invalido intrattabile. — Fa un sacco di differenza. Hai detto "venti" metri?

— Sì, più o meno.

Incredibilmente, chiaramente, Warren uscì in un sospiro di sollievo fortissimo. Quando rispose, la sua voce era persino gioiosa. — E per tutti questi anni, Van, ho creduto che fossi "tu" l'ingegnere capo del progetto. Supponi che si tratti esattamente di venti metri…

Il grido esplosivo di Morgan gli impedì di terminare la frase. — Che idiota! Di' a Sessui che attraccherò fra… oh, quindici minuti.

— Quattordici virgola cinque, se la distanza è esatta. E non c'è niente che ti possa fermare.

Quella era una frase rischiosa, e Morgan desiderò che Kingsley non l'avesse detta. A volte i dispositivi d'aggancio non si univano perfettamente, a causa di imperfezioni minime di costruzione. E non c'era mai stata nessuna possibilità di sperimentare quei dispositivi.

Si sentiva solo leggermente imbarazzato del suo vuoto mentale. Dopo tutto, in situazioni di tensione estrema si poteva scordare anche il proprio numero di telefono, persino la data di nascita. E, fino a quel momento, il fattore che adesso era il più importante della situazione era stato di così scarso rilievo che lo si poteva tranquillamente dimenticare. Era tutta una faccenda di relatività. Lui non poteva raggiungere la Torre, ma la Torre avrebbe raggiunto lui.

55 Attracco

Il record di costruzione giornaliera era trenta chilometri, ottenuto quando si stava montando la sezione più sottile e leggera della Torre. Adesso che in orbita si stava completando la parte più massiccia della costruzione, il suo nucleo finale, la velocità era scesa a due chilometri al giorno. Era un ritmo più che rispettabile; Morgan avrebbe avuto il tempo di controllare l'allineamento dei portelli e di studiare mentalmente i secondi, piuttosto pericolosi, che passavano tra la conferma dell'attracco e l'allentamento dei freni del Ragno. Se avesse frenato per troppo tempo, si sarebbe scatenata una gara di resistenza, tutt'altro che leale, fra la capsula e le megatonnellate in movimento della Torre.

Quindici minuti, lunghi ma tranquilli ; abbastanza, sperava Morgan, per calmare CORA. Verso la fine sembrò succedere tutto in fretta, e negli ultimi istanti, mentre quella fetta di cielo solidificato scendeva su di lui, gli parve di essere una formica sul punto di venir schiacciata da una pressa. Un secondo prima la base della Torre era ancora lontana metri; un secondo dopo udì e visse l'impatto del meccanismo d'attracco.

Ora molte vite dipendevano dall'abilità e precisione con cui ingegneri e operai, anni prima, avevano compiuto il proprio lavoro. "Se" i manicotti non si univano entro i limiti massimi di tolleranza; "se" il meccanismo di attracco non funzionava perfettamente; "se" la guarnizione non era a tenuta d'aria… Morgan cercò d'interpretare l'insieme di suoni che gli arrivarono alle orecchie, ma non possedeva la capacità necessaria a decifrarne i messaggi.

Poi, come un segnale di vittoria, sul pannello indicatore apparve la scritta ATTRACCO COMPLETATO. Per dieci secondi gli elementi telescopici sarebbero riusciti ad assorbire ancora il movimento in avanti della Torre. Morgan ne lasciò trascorrere cinque prima di togliere con cautela estrema i freni. Era pronto a rimetterli immediatamente in azione se il Ragno avesse preso a cadere in basso, ma i sensori dicevano la verità. Ormai la Torre e la capsula erano saldate assieme. Morgan doveva solo salire qualche piolo della scaletta e sarebbe giunto a destinazione.

Dopo aver comunicato coi giubilanti ascoltatori sulla Terra e sulla Stazione di Mezzo, restò seduto un attimo a riprendere fiato. Strano pensare che era la seconda visita lì, ma della prima, dodici anni addietro e trentaseimila chilometri più in alto, ricordava pochissimo. Quando si erano gettate le fondamenta (nessuno aveva trovato un termine più adatto), c'era stata una festicciola lì, e si erano fatti molti brindisi a gravità zero. Perché quella non era solo la prima parte della Torre a venir costruita; era anche quella che per prima sarebbe giunta in contatto con la Terra, al termine della sua lunga discesa dall'orbita. Di conseguenza era parsa necessaria almeno una piccola cerimonia; e adesso Morgan ricordava che persino il senatore Collins, suo vecchio nemico, era stato tanto gentile da partecipare e augurargli buona fortuna con un discorso pungente ma pieno di spirito. Ora sarebbe stato ancor più opportuno celebrare.

Morgan udiva già un debole risuonare di colpetti di benvenuto dall'altra parte del portello. Slacciò la cintura di sicurezza, si mise goffamente in piedi sul sedile, e cominciò a salire la scaletta. Il portello oppose una debole resistenza, come se le forze coalizzate contro di lui tentassero un ultimo, debole gesto, e ci fu il sibilo dell'aria mentre la pressione si normalizzava. Poi il portello circolare si aprì verso l'alto, e mani ansiose lo aiutarono a salire nella Torre. Morgan respirò la prima boccata di quell'aria fetida e si chiese come avessero fatto a sopravvivere lì dentro. Se la sua missione fosse fallita, era assolutamente certo che un secondo tentativo sarebbe giunto troppo tardi.

La stanza nuda, spoglia, era illuminata solo dai pannelli solari fluorescenti che da più di dieci anni, pazientemente, catturavano e poi liberavano l'energia solare, in previsione dell'emergenza che adesso si era verificata. L'illuminazione metteva a nudo una scena che poteva appartenere a una antica guerra: pochi superstiti scarmigliati, ormai senza casa, erano fuggiti da una città devastata per trovare asilo in un rifugio antiaereo, con le poche cose che erano riusciti a salvare. Però, a quell'epoca non molti superstiti avrebbero avuto sulle borse etichette come PROIEZIONE, COMPAGNIA DELL'HOTEL LUNARE, PROPRIETÀ DELLA REPUBBLICA FEDERALE DI MARTE, o l'onnipresente NON LASCIARE NEL VUOTO. E non sarebbero stati così contenti: persino quelli che erano sdraiati a terra per risparmiare ossigeno gli rivolsero un sorriso e un saluto languido. Morgan aveva appena risposto al saluto quando le sue gambe cedettero e tutto svanì. Non era mai svenuto in vita sua, e quando il soffio d'ossigeno fresco gli fece riprendere conoscenza provò subito un senso d'imbarazzo. Vide forme con la maschera chine tutt'attorno. Per un attimo si chiese se si trovava in ospedale; poi la mente e gli occhi ripresero a funzionare normalmente. Mentre lui era svenuto gli altri dovevano aver scaricato il suo prezioso carico.

Quelle maschere erano i filtri molecolari che aveva portato alla Torre: sistemati sul naso e sulla bocca bloccavano il CO2 ma permettevano il passaggio dell'ossigeno. Semplici, eppure tecnologicamente sofisticati, permettevano di sopravvivere in una atmosfera che avrebbe causato l'asfissia istantanea. Per respirare attraverso i filtri occorreva uno sforzo leggermente maggiore del normale, ma la natura non dà mai niente per niente, ed era un prezzo modestissimo da pagare.

Morgan, per quanto debole, rifiutò ogni aiuto per rimettersi in piedi; poi gli vennero presentati gli uomini e le donne che aveva salvato. C'era una cosa che lo preoccupava: mentre era svenuto, CORA era uscita in uno dei suoi monologhi? Non voleva sollevare l'argomento, ma si chiedeva…

— A nome di tutti noi — disse il professor Sessui, con sincerità e con la goffaggine di chi non era troppo abituato a essere tanto cortese — voglio ringraziarvi per quello che avete fatto. Vi dobbiamo tutti la vita.

Una risposta logica o coerente avrebbe puzzato di falsa modestia, per cui Morgan sfruttò la scusa di aggiustarsi la maschera per mormorare qualcosa d'incomprensibile. Stava per controllare che tutto il materiale del Ragno fosse stato scaricato quando il professor Sessui aggiunse, piuttosto ansioso: — Mi spiace di non potervi offrire una sedia. Questo è il meglio possibile. — Indicò due scatole per strumenti, una sopra l'altra. — Dovreste proprio riposare.

Quella frase gli era familiare: allora CORA "aveva" parlato. Ci fu una pausa leggermente imbarazzata. Morgan digerì il fatto, e gli altri ammisero di sapere, e lui fece capire che sapeva che sapevano; il tutto senza dire una sola parola, secondo il tipo di regresso psicologico all'infinito che si verifica quando un gruppo di persone divide in maniera totale un segreto che nessuno menzionerà mai più.

Respirò qualche boccata d'aria (era sorprendente come si facesse in fretta ad abituarsi alle maschere) e si accomodò sul sedile che gli avevano offerto. "Non voglio svenire di nuovo" si disse con decisione estrema. "Devo consegnare la roba e andarmene il più in fretta possibile. Speriamo che CORA non si faccia più sentire."

— Quel barattolo di materiale di tenuta — disse, indicando la più piccola delle scatole che aveva portato — dovrebbe sistemare la perdita. Spruzzatelo attorno alla guarnizione del portello; solidifica in pochi secondi. Usate l'ossigeno solo se è assolutamente necessario. Probabilmente vi servirà quando dormite. C'è una maschera anti-CO2 per tutti, e un paio di scorta. E lì avete cibo e acqua per tre giorni. Dovrebbero essere più che sufficienti. La capsula della Dieci C dovrebbe arrivare qui domani. Per quanto riguarda i medicinali, spero che non avrete bisogno di tutta quella roba.

S'interruppe per respirare. Non era facile parlare indossando uno di quei filtri, e lui sentiva il bisogno sempre maggiore di conservare le proprie forze. Ormai Sessui e gli altri potevano badare a se stessi, ma lui doveva fare un'altra cosa, e prima la faceva meglio era.

Morgan si girò verso Chang e disse tranquillamente: — Per favore, aiutatemi a rimettermi la tuta. Voglio ispezionare il binario.

— La vostra tuta può resistere solo trenta minuti!

— Avrò bisogno di dieci minuti, quindici al massimo.

— Dottor Morgan, io sono un operatore spaziale specializzato, voi no. Nessuno può uscire nello spazio con una tuta che ha ossigeno per trenta minuti senza una bombola di riserva, o senza il cordone ombelicale. Tranne che per emergenza ovviamente.

Morgan gli rivolse un sorriso stanco. Chang aveva ragione, e la scusa del pericolo immediato non reggeva più. Ma un'emergenza era tale quando lo decideva l'ingegnere capo.

— Voglio vedere i danni — rispose — ed esaminare i binari. Sarebbe terribile se quelli della Stazione Dieci C non potessero raggiungervi perché non sono al corrente di qualche ostacolo.

Chiaramente Chang non era troppo felice della situazione (cosa diavolo aveva raccontato quella chiacchierona di CORA mentre lui era svenuto?), ma non sollevò altre obiezioni. Accompagnò Morgan al portello nord.

Appena prima di abbassare il visore, Morgan chiese: — Altre noie col professore?

Chang scosse la testa. — Credo che il CO2 abbia rallentato i suoi ritmi. E se ricomincia… Be', siamo sei contro uno, anche se non sono sicuro di poter contare sui suoi studenti. Alcuni sono matti come lui. Prendete quella ragazza che continua a scarabocchiare su un foglio. È convinta che il sole stia per spegnersi o per scoppiare, non ho capito bene, e vuole avvertire il mondo prima di morire. Sai a cosa servirebbe! Io preferirei non sapere niente.

Morgan non poté impedirsi di sorridere, ma era certo che nessuno degli studenti del professore fosse pazzo. Eccentrici, forse, ma anche molto intelligenti; se no non avrebbero lavorato con Sessui. Un giorno doveva scoprire di più sugli uomini e le donne a cui aveva salvato la vita; però prima dovevano ritornare tutti sulla Terra, seguendo percorsi divergenti.

— Farò un giro veloce attorno alla Torre — disse Morgan — e vi descriverò tutti i danni in modo che possiate comunicarli alla Stazione di Mezzo. Non ci metterò più di dieci minuti. Ma se dovessi metterci di più… Be', non cercate di venire a riprendermi.

Chang chiuse il portello interno della camera d'equilibrio e gli indirizzò una risposta molto pratica. — Come diavolo potrei venirvi a prendere? — gli chiese.

56 Uno sguardo dal ponte

Il portello esterno della camera d'equilibrio nord si spalancò senza difficoltà, incorniciando un rettangolo di oscurità completa. In quel buio correva, in senso orizzontale, una linea di fuoco: il corrimano di sicurezza del ponte di impalcatura, illuminato dal raggio del proiettore che saliva fin lì dalla montagna in basso. Morgan respirò a fondo e fletté la tuta. Si sentiva perfettamente a proprio agio. Fece un cenno di saluto a Chang che lo guardava dall'oblò del portello interno. Poi uscì dalla Torre.

Il ponte di impalcatura che circondava le fondamenta era una griglia di metallo larga circa due metri. Poi c'era la rete di sicurezza, che sporgeva nello spazio di altri trenta metri. La parte di rete che Morgan riusciva a vedere non aveva imprigionato niente, in tanti anni di attesa paziente.

Iniziò la circumnavigazione della Torre, riparandosi gli occhi dal bagliore che giungeva dal basso. L'illuminazione obliqua mostrava ogni ammaccatura e imperfezione della superficie che, sopra la sua testa, si tendeva come una passerella verso la stelle; e in un certo senso lo era.

Come sperava e prevedeva, la esplosione sull'altro lato della Torre non aveva prodotto nessun danno lì: ci sarebbe voluta una bomba atomica, non una semplice bomba elettro-chimica. Le scanalature parallele dei binari, in attesa dell'arrivo della prima capsula, si protendevano verso l'alto all'infinito, perfette come quando erano state costruite. E cinquanta metri più sotto, anche se il proiettore rendeva difficile guardare in quella direzione, riusciva a scorgere i respingenti, pronti per un compito che non avrebbero mai dovuto eseguire.

Prendendosela calma, restando ben vicino alla superficie liscia della Torre, Morgan s'incamminò lentamente verso ovest, raggiunse il primo angolo. Prima di superarlo si voltò a guardare il portello spalancato della camera d'equilibrio, che rappresentava una sicurezza, per quanto relativa. Poi proseguì arditamente lungo la spoglia facciata ovest.

Provava un curioso miscuglio di ebbrezza e paura, come ormai non sentiva più da quando aveva imparato a nuotare e si era trovato, per la prima volta, in acque dove non toccava. Era certo che non ci fosse pericolo, però "poteva" essercene. La presenza di CORA, per il momento tranquilla, era viva dentro di lui; ma Morgan non aveva mai sopportato di lasciare un lavoro a metà, e la sua missione non era ancora completa.

La facciata ovest era esattamente identica alla nord, solo che non c'erano portelli. Nemmeno lì riscontrò tracce di danni, per quanto si trovasse più vicino al punto dell'esplosione.

Represse l'impulso di affrettarsi (dopo tutto era lì fuori da tre minuti appena) e avanzò lentamente verso l'angolo successivo. Ancora prima di averlo superato si accorse che non avrebbe potuto compiere l'intero giro della Torre. Il ponte di impalcatura era lacerato, penzolava nello spazio come una lingua di metallo contorto. La rete di sicurezza era scomparsa del tutto, senz'altro travolta dalla capsula che precipitava.

"Non devo sfidare la sorte" si disse Morgan. Ma non poté resistere alla tentazione di dare una occhiata dietro l'angolo, aggrappandosi alla parte di ringhiera che ancora restava.

Sui binari c'erano parecchi detriti, e l'esplosione aveva scolorito la superficie della Torre. Ma, da quanto riusciva a vedere, anche lì sarebbero bastati pochi uomini col cannello da taglio, e il lavoro d'un paio d'ore, per aggiustare tutto. Trasmise un'accurata descrizione dei danni a Chang, che si dimostrò sollevato e incitò Morgan a rientrare nella Torre il più in fretta possibile. — Non preoccupatevi — disse Morgan. — Mi restano ancora dieci minuti e devo percorrere solo trenta metri. Ormai potrei farcela anche solo con l'aria che ho nei polmoni.

Ma non aveva intenzione di provare l'esattezza della teoria. Quella notte era già stata abbastanza movimentata. Più che abbastanza, a sentire CORA. D'ora in poi avrebbe sempre obbedito ai suoi ordini.

Tornato davanti al portello aperto, si fermò a fianco della ringhiera per qualche momento, incantato dalla fontana di luce che saliva dalla cima di Sri Kanda, tanto più in basso. L'ombra prodotta dalla luce, immensamente oblunga, si proiettava sulla Torre e saliva in verticale verso le stelle. Quell'ombra doveva proseguire per migliaia di chilometri; Morgan pensò che forse arrivava fino alla capsula che stava scendendo dalla Dieci C. Se agitava le braccia, forse gli uomini a bordo avrebbero visto i suoi segnali; forse poteva parlare con loro nell'alfabeto Morse.

Quell'ironica fantasia gli ispirò un pensiero molto più serio. Era meglio aspettare lì con gli altri, ed evitare il rischio del viaggio di ritorno alla Terra sul Ragno? Ma il viaggio fino alla Stazione di Mezzo, dove avrebbe potuto affidarsi alle cure dei medici, richiedeva una settimana. Non era un'alternativa intelligente, visto che in meno di tre ore poteva essere di ritorno a Sri Kanda.

Era tempo di rientrare. L'ossigeno era quasi finito, e non c'era nient'altro da vedere. Ironia terribile, considerata la visuale spettacolare che in condizioni normali si sarebbe goduta da lì, fosse giorno o notte. Però in quel momento il pianeta che aveva sotto e il cielo che aveva sopra erano nascosti dal fascio di luce accecante di Sri Kanda. Morgan fluttuava in un esile universo di luce, circondato su ogni lato dall'oscurità più totale. Era quasi impossibile credere di trovarsi nello spazio, se non altro perché avvertiva il proprio peso. Si sentiva sicuro come se fosse stato sulla cima della montagna, e non seicento chilometri più in alto. Quello era un pensiero da assaporare e da riportare sulla Terra.

Diede un colpetto alla superficie liscia, rigida della Torre, che a paragone con lui era più enorme di quanto non lo fosse un elefante rispetto a un'ameba. Però nessuna ameba poteva immaginare un elefante, e tanto meno crearlo.

— Ci vediamo sulla Terra fra un anno — mormorò Morgan, e si chiuse lentamente alle spalle il portello.

57 L'ultima alba

Morgan restò alle fondamenta solo cinque minuti. Non era il momento di convenevoli sociali, e non voleva consumare il prezioso ossigeno che aveva portato sin lì fra tante difficoltà. Strinse la mano a tutti e tornò sul Ragno.

Era bello respirare di nuovo senza maschera, e ancora più bello sapere che la sua missione aveva ottenuto successo completo, e che in meno di tre ore sarebbe stato sano e salvo sulla Terra. Eppure, dopo tutti gli sforzi che gli era costato raggiungere la Torre, si sentiva un po' riluttante ad abbandonarla, ad arrendersi alla spinta della gravità, anche se ora lo riportava a casa. Poi si sganciò dal portello e cominciò a cadere, senza peso, verso il basso.

Quando la velocità raggiunse i trecento chilometri orari entrò in funzione il sistema di frenaggio automatico, e il peso tornò. Adesso la batteria sottoposta a quegli sforzi brutali si stava ricaricando, ma doveva essere danneggiata irrimediabilmente. Non sarebbe servita più a niente.

Gli venne in mente un paragone orribile: non poté impedirsi di pensare che anche il suo corpo era giunto ai limiti estremi, ma l'orgoglio testardo gli proibiva di chiedere che lo mettessero in comunicazione con un medico. Aveva fatto una scommessa con se stesso: si sarebbe fatto passare un medico solo se CORA diceva ancora qualcosa.

Adesso, mentre lui volava nella notte, CORA era silenziosa. Morgan si sentiva completamente rilassato. Si mise ad ammirare il cielo e abbandonò il Ragno a se stesso. Poche astronavi potevano offrire una visuale così panoramica, e non molti uomini avevano mai visto le stelle in condizioni tanto ideali. L'aurora boreale era svanita completamente, il proiettore s'era spento, e ormai niente incrinava lo splendore delle stelle.

A parte, ovviamente, le stelle che l'uomo aveva costruito. Quasi in verticale sopra di lui nasceva lo scintillio sorprendente di Ashoka, per sempre ferma sopra l'Indostan, lontana solo poche centinaia di chilometri dalla Torre. A est, a metà del cielo, c'era Confucio, molto più in basso Kamehameha, mentre in alto a ovest si levavano Kinte e Imhotep. Ed erano solo i punti più brillanti disposti lungo l'equatore; se ne potevano scorgere ancora a frotte, tutti molto più brillanti di Sirio. Quanto si sarebbe stupito un antico astronomo nel vedere quella collana di stelle allacciata in cielo; e quale turbamento avrebbe provato nel constatare, dopo un'ora o poco più d'osservazione, che erano immobili, che non sorgevano e non tramontavano mai, mentre le stelle familiari continuavano a seguire i loro antichissimi percorsi.

Mentre fissava quella collana di diamanti disposta in cielo, la mente assopita di Morgan la trasformò lentamente in qualcosa di molto più grandioso. Bastava un modesto sforzo di immaginazione, e quelle stelle create dall'uomo diventavano le luci di un ponte gigantesco… Si tuffò in fantasie ancora più sfrenate. Come si chiamava il ponte che portava al Walhalla, che gli eroi del le leggende nordiche usavano per trasferirsi da questo mondo all'altro? Non riusciva a ricordarlo, ma era un sogno glorioso. E forse altre creature, molto prima dell'uomo, avevano tentato invano di colmare i cieli dei loro mondi? Pensò agli splendidi anelli che circondavano Saturno, alle arcate spettrali di Urano e Nettuno. Sapeva perfettamente che quei pianeti non erano mai stati sfiorati dalla vita, ma lo divertiva pensare che si trattasse dei frammenti corrosi di ponti non riusciti.

Voleva dormire, ma, contro la sua stessa volontà, l'immaginazione s'era attaccata all'idea. Era come un cane che avesse appena trovato un osso, non mollava. L'idea non era assurda, e nemmeno originale. Molte delle stazioni sincrone si estendevano per chilometri, oppure possedevano all'esterno cavi che coprivano una parte non indifferente della loro orbita. Unirle assieme, formare un anello attorno al mondo, sarebbe stato molto più semplice che costruire la Torre, e sarebbe occorso molto meno materiale.

No, non un anello, "una ruota". La sua Torre era solo il primo raggio. Ne sarebbero sorte altre (quattro? sei? venti?) disposte lungo l'equatore. Una volta che fossero tutte collegate fra loro, rigidamente, in orbita, i problemi di stabilità che condizionavano una Torre sola sarebbero svaniti. L'Africa, il Sudamerica, le isole Gilbert, l'Indonesia: "tutti" quei posti potevano ospitare il capolinea terrestre, se necessario. Perché un giorno, col migliorare dei materiali e con l'avanzare della scienza, le Torri potevano diventare invulnerabili anche agli uragani più forti, e non sarebbe stato più necessario partire da una montagna. Se avesse aspettato altri cento anni, forse non avrebbe dovuto disturbare il Maha Thero…

Mentre lui sognava, la falce sottile della luna calante si era alzata timidamente sull'orizzonte orientale che splendeva già delle primissime luci dell'alba. Il chiarore della Terra illuminava con tanta forza il disco della luna che Morgan riusciva a vedere molti particolari del lato oscuro. Sperò di riuscire a scorgere quello spettacolo meraviglioso che in altri tempi non s'era mai visto: una stella persa fra le braccia della luna calante. Ma quella notte non era visibile nessuna delle città costruite sulla seconda patria dell'uomo.

Ancora duecento chilometri, meno di un'ora. Era inutile cercare di restare sveglio: Spider era programmato per un rientro morbido, si sarebbe fermato dolcemente, senza disturbare il suo sonno…

Il dolore lo svegliò per primo. Una frazione di secondo dopo, si fece viva CORA. — Non tentate di muovervi — gli disse dolcemente. — Ho chiamato aiuto via radio. L'ambulanza sta arrivando.

Questa è buona! Ma non ridere, si impose Morgan, sta facendo del suo meglio. Non provava paura. Il dolore sotto il petto era forte, ma non lo paralizzava. Cercò di concentrare la mente sul male, e la cosa bastò ad alleviare i sintomi. Molto tempo prima aveva scoperto che il modo migliore per affrontare il dolore è studiarlo con obiettività.

Warren lo stava chiamando, ma le parole erano così lontane e avevano poco significato. Avvertiva l'ansietà nella voce del suo amico, e avrebbe voluto poter far qualcosa per diminuirla; ma non aveva più la forza di affrontare quel problema, o qualsiasi altro problema. Adesso non riusciva nemmeno più a udire le parole: un ronzio debole ma continuo soffocava tutti gli altri suoni. Sapeva che esisteva solo nella sua mente, oppure nel labirinto delle sue orecchie, eppure sembrava del tutto reale. Gli sembrava proprio di trovarsi ai piedi di una cascata gigantesca…

Il suono diventava più dolce, più lieve, "più musicale". E d'improvviso lo riconobbe. Che meraviglia udire ancora, nelle silenziose frontiere dello spazio, il suono che ricordava dalla sua prima visita a Yakkagala!

La gravità lo stava riportando a casa, ed era come se attraverso i secoli la sua mano invisibile avesse tracciato la traiettoria delle Fontane del Paradiso. Ma lui aveva creato qualcosa di cui la gravità non si sarebbe mai impossessata, finché gli uomini possedevano la scienza e la volontà per restarne padroni.

Com'erano fredde le gambe! Cos'era successo al sistema di sopravvivenza del Ragno? Ma presto sarebbe giunta l'alba; il calore non sarebbe mancato.

Le stelle stavano scomparendo, molto più in fretta di quanto non fosse naturale. Quello era strano: il giorno era quasi spuntato, eppure attorno a lui tutto diventava scuro. E le fontane ricadevano verso terra, la loro voce si faceva più debole… più debole… più debole…

E adesso c'era un'altra voce, ma Vannevar Morgan non l'udì. Tra i fischi brevi, penetranti, CORA gridò all'alba che si avvicinava:

— Aiuto! Chiunque mi senta mi raggiunga subito! Questo è un allarme CORA! Aiuto! Chiunque mi senta mi raggiunga subito!

CORA gridava ancora quando nacque il giorno, e i suoi primi raggi carezzarono la cima della montagna un tempo sacra. Molto più sotto, il cono d'ombra di Sri Kanda spuntò fra le nubi, ancora perfettamente intatto nonostante tutto quello che l'uomo aveva compiuto.

Adesso non c'erano più pellegrini ad ammirare quel simbolo di eternità che si stendeva sulla terra al risveglio. Ma milioni di uomini lo avrebbero visto, nei secoli futuri, mentre correvano comodamente e tranquillamente verso le stelle.

58 Epilogo: il trionfo di Kalidas

Negli ultimi giorni di quell'ultima, breve estate, prima che la morsa di ghiaccio si chiudesse attorno all'equatore, uno degli inviati di Stellisola giunse a Yakkagala.

Era un Signore degli Sciami, e ultimamente si era coniugato sotto forma umana. A parte un minimo particolare, la somiglianza era eccellente; ma la dozzina di bambini che avevano accompagnato l'Isolano sull'autoelicottero erano rimasti in uno stato d'isterismo continuo. I più piccoli scoppiavano spesso a ridere.

— Cosa c'è di così buffo? — aveva chiesto nel Suo solare perfetto. — O si tratta di uno scherzo segreto?

Ma i bambini non avevano spiegato allo Stellisolano, la cui normale visione dei colori comprendeva solo gli infrarossi, che la pelle umana non era un accostamento casuale di verdi e rossi e blu. Persino quando Lui aveva minacciato di trasformarsi in un "Tyrannosaurus Rex" e di mangiarli tutti si erano rifiutati di soddisfare la Sua curiosità. Anzi, Gli fecero subito notare (e Lui era una creatura che aveva percorso centinaia di anni luce e raccolto conoscenza per trenta secoli) che una massa di cento chilogrammi soltanto avrebbe dato vita a un dinosauro poco impressionante.

L'Isolano non si turbò. Era paziente, e i bambini della Terra erano infinitamente affascinanti, sia come biologia che come psicologia. Come lo erano i piccoli di ogni creatura; ovviamente, delle creature che "avevano" piccoli. Dopo aver studiato nove specie del genere, Lui poteva quasi immaginare cosa significasse crescere, maturare e morire… Quasi, ma non del tutto.

Davanti ai dodici umani e al non-umano si stendeva la terra deserta, un tempo ricca di campi e foreste che i freddi provenienti da nord e da sud avevano distrutto. Le graziose palme da cocco erano scomparse da tempo, e anche i pini che le avevano sostituite ormai erano solo nudi scheletri, con le radici avvizzite dal gelo che avanzava. Sulla superficie della Terra non restava più vita; solo negli abissi degli oceani, dove il calore interno del pianeta teneva lontani i ghiacci, poche creature cieche, destinate all'estinzione, si muovevano e nuotavano e si divoravano a vicenda.

Eppure, a un essere il cui pianeta gravitava attorno a una debole stella rossa, il sole che risplendeva nel cielo senza nubi sembrava insopportabilmente luminoso. Tutto il suo calore era scomparso, risucchiato dalla malattia che ne aveva colpito il nucleo mille anni prima; ma la sua! luce potente, fredda, svelava ogni particolare della terra desolata e si rifletteva splendida sui ghiacciai vicini.

Per i bambini, pieni di gioia al risveglio delle loro forze intellettuali, le temperature sotto zero erano una sfida eccitante. Danzavano nudi nel turbinio di neve, e i loro piedi traevano scricchiolii da quei cristalli di ghiaccio secchi, scintillanti. I loro simbioti furono costretti a ripetere spesso: — Non spegnete gli allarmi di congelamento! — Non erano ancora abbastanza cresciuti da poter creare nuovi organi senza l'aiuto dei loro simili più anziani.

Il più vecchio dei bambini si stava mettendo in mostra. Aveva lanciato una sfida al freddo, dichiarando, tutto fiero, di essere un elementale del fuoco (lo Stellisolano registrò il vocabolo per indagarne l'origine in futuro, il che Gli avrebbe causato molta perplessità). Di quel piccolo esibizionista si vedeva solo una colonna di fuoco e vapore che danzava su e giù lungo l'antica pavimentazione. Gli altri bambini ignorarono completamente quella rozza esibizione.

Per lo Stellisolano, però, la cosa rappresentava un paradosso interessante. "Perché mai" quelle creature si erano ritirate sui pianeti interni, quando avrebbero potuto sconfiggere il freddo grazie alla scienza che possedevano, come stavano facendo i loro cugini di Marte? A quella domanda Lui non aveva ancora ottenuto una risposta soddisfacente. Meditò di nuovo sull'enigmatica spiegazione che aveva ricevuto da ARISTOTELE, l'entità con cui Lui trovava più facile comunicare.

"C'è una stagione per tutto" gli aveva detto il cervello globale. "Viene il tempo di combattere la natura, e viene il tempo di assecondarla. La vera saggezza sta nell'operare la scelta esatta. Quando il lungo inverno sarà terminato, l'uomo tornerà a una Terra rinnovata e ringiovanita."

E così, negli ultimi secoli, l'intera popolazione terrestre si era recata alle Torri equatoriali ed era partita verso il Sole, raggiungendo i giovani oceani di Venere, le fertili pianure della zona temperata di Mercurio. Fra cinquecento anni, quando il sole fosse guarito, gli esuli sarebbero tornati. Mercurio sarebbe stato abbandonato, tranne che nelle regioni polari; ma Venere sarebbe diventato una seconda patria stabile. L'indebolirsi del Sole aveva offerto l'incentivo, e l'opportunità, di domare quel mondo infernale.

Per quanto fossero importanti, quelle cose interessavano l'Isolano solo indirettamente. Il Suo interesse si puntava su aspetti più sottili della cultura e della società umana. Ogni specie era unica, offriva le proprie sorprese, le proprie idiosincrasie. I terrestri avevano donato agli Stellisolani il concetto stupefacente dell'informazione negativa, che, secondo la terminologia locale, rispondeva ai nomi di "humour", "fantasia", "mito".

Alle prese con quegli strani fenomeni, talvolta disperato, lo Stellisolano aveva mormorato fra sé: — Non capiremo "mai" gli esseri umani. — Certe volte Si era sentito talmente frustrato da temere una coniugazione involontaria, con tutti i rischi che comportava. Ma adesso aveva fatto molti progressi. Ricordava ancora la Propria soddisfazione la prima volta che aveva inventato una battuta di spirito, e tutti i bambini avevano riso.

Stare a fianco dei bambini era la chiave di tutto, ancora una volta suggerita da ARISTOTELE. "Esisteva un vecchio proverbio: 'Il bambino è il padre dell'uomo'. Per quanto il concetto biologico di 'padre' sia estraneo a tutti e due, in questo contesto la frase assume un doppio significato…"

Per cui Lui era lì, sperando che i bambini Lo aiutassero a comprendere gli adulti in cui finivano col trasformarsi. A volte dicevano la verità; ma anche quando giocavano (un altro concetto difficile) e Gli offrivano informazioni negative, ormai Lui riusciva a riconoscere i segni.

Eppure, in certi momenti né i bambini, né gli adulti, e nemmeno ARISTOTELE, conoscevano la verità. Sembrava che esistesse una continuità perfetta tra la fantasia totale e i fatti storici documentati, con tutte le possibili gradazioni intermedie. A un lato dello spettro c'erano figure come Colombo e Leonardo e Einstein e Lenin e Newton e Washington, di cui spesso si conservavano ancora le voci e l'immagine. All'estremo opposto si trovavano Zeus e Alice e King Kong e Gulliver e Sigfrido e Merlino, che "senz'altro" non potevano essere esistiti nel mondo reale. Ma che dire di Robin Hood o Tarzan o Cristo o Sherlock Holmes o Ulisse o Frankenstein? Data per scontata una certa dose d'esagerazione, potevano anche essere stati veri personaggi della storia umana.

Il Trono a Elefante era cambiato ben poco in tremila anni, ma non aveva mai retto il peso di un visitatore così "alieno". Lui fissò lo sguardo a sud e paragonò la colonna di mezzo chilometro di diametro che si alzava dalla cima della montagna con i massimi risultati d'ingegneria che aveva visto su altri mondi. Per una razza così giovane, era un risultato davvero impressionante. Sembrava sempre sul punto di cadere giù dal cielo, ma si trovava lì da quindici secoli. Naturalmente, non nella forma originaria. Adesso i primi cento chilometri costituivano una città verticale (ancora abitata in alcuni dei suoi spaziosi livelli); e, attraverso la città, le sedici paia di binari avevano trasportato spesso un milione di passeggeri al giorno.

Adesso soltanto due di quei binari erano ancora in funzione. Tra poche ore lo Stellisolano e la Sua scorta avrebbero risalito quell'enorme colonna piena di scanalature, per tornare alla Città ad Anello che circondava il globo.

Lo Stellisolano rovesciò gli occhi per ottenere la visione telescopica, e scrutò lentamente lo zenit. Sì, eccola lì, difficile da vedere di giorno, ma tutto diventava più semplice di notte, quando il chiarore solare che si alzava dietro l'ombra della Terra la illuminava ancora. Il nastro sottile che tagliava il cielo in due emisferi era un piccolo mondo, dove mezzo miliardo di esseri umani avevano scelto di restare e di vivere a gravità zero.

E più in alto, poco sopra la Città ad Anello, c'era l'astronave che aveva trasportato lo Stellisolano e gli altri Compagni dell'Alveare oltre gli abissi interstellari. Già ora la stavano preparando a ripartire, senza nessuna fretta, con diversi anni d'anticipo, in previsione del suo viaggio di seicento anni. Il che, naturalmente, non avrebbe significato niente per lo Stellisolano, poiché Lui Si sarebbe riconiugato solo verso la fine del viaggio; ma forse poi Si sarebbe trovato di fronte al compito più gravoso della Sua lunga carriera. Per la prima volta, una Stellasonda era stata distrutta, o per lo meno messa a tacere, subito dopo essere entrata in un sistema solare. Forse la sonda era finalmente giunta in contatto coi misteriosi Cacciatori dell'Alba che avevano lasciato tracce su tanti mondi, e che sembravano così inesplicabilmente vicini all'Inizio. Se lo Stellisolano fosse stato capace di provare sorpresa, o paura, le avrebbe provate entrambe, mentre contemplava il futuro che Lo attendeva fra seicento anni.

Ma adesso Lui si trovava sulla cima nevosa di Yakkagala, e scrutava il ponte per le stelle creato dall'Uomo. Chiamò i bambini al Suo fianco (capivano sempre quando Lui voleva che ubbidissero "sul serio") e indicò la montagna a sud.

— Sapete perfettamente bene — disse, con un'esagerazione solo in parte simulata — che il primo Capolinea Terrestre è stato costruito duemila anni "dopo" le rovine di quel palazzo. — I bambini annuirono in un solenne cenno d'assenso. — Allora perché — Lui chiese, tracciando la linea che dallo zenit scendeva alla cima della montagna — "perché" chiamate quella colonna la Torre di Kalidas?

FINE
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