La corona diventava ogni anno più pesante. La prima volta che il Venerabile Bodhidharma Mahanayake Thero gliel'aveva deposta sul capo con tanta riluttanza, il Principe Kalidas era rimasto sorpreso al sentirla così leggera. Ora, vent'anni dopo, Re Kalidas era ben lieto di togliersi quella fascia d'oro tempestata di gioielli ogni volta che l'etichetta di corte lo permetteva.
E lì, sulla cima della fortezza battuta dai venti, c'era ben poca etichetta. Erano rari i convogli di postulanti che si spingevano a quell'altezza terribile per chiedere udienza. Molti di coloro che compivano il viaggio fino a Yakkagala si fermavano davanti all'ultima salita, non osavano passare tra le fauci del leone acquattato, che sembrava sempre sul punto di spiccare il balzo dalla parete della montagna. A un re vecchio sarebbe stato impossibile sedere su quel trono che toccava i cieli. Un giorno, forse, Kalidas sarebbe diventato troppo debole per riuscire a raggiungere il suo palazzo. Ma dubitava che quel giorno sarebbe mai venuto: i suoi molti nemici gli avrebbero risparmiato le umiliazioni della vecchiaia.
Adesso quei nemici si stavano avvicinando. Lanciò un'occhiata verso nord, quasi riuscisse già a vedere l'esercito del suo fratellastro che tornava a reclamare il trono insanguinato di Taprobane. Ma la minaccia era ancora lontana, oltre i mari battuti dai monsoni; e se anche Kalidas riponeva più fiducia nelle sue spie che nei suoi astrologi, era confortante sapere che su quel punto le loro opinioni coincidevano.
Malgara aveva atteso quasi vent'anni. Aveva preparato i suoi piani e raccolto l'aiuto di re stranieri. Molto più vicino c'era un nemico ancora più paziente e sottile, che lo osservava in continuazione dall'arco di cielo a sud. Quel giorno il cono perfetto di Sri Kanda, la Montagna Sacra che dominava la pianura centrale, sembrava vicinissimo. Sin dall'inizio della storia, aveva ispirato un timore reverenziale a tutti coloro che lo vedevano. E Kalidas era sempre cosciente della sua presenza minacciosa, del potere che simboleggiava.
Eppure il Mahanayake Thero non possedeva eserciti, non possedeva elefanti da guerra che si lanciavano in battaglia barrendo, con le zanne protese in avanti. L'Alto Sacerdote era solo un vecchio vestito d'una tunica arancione, e le sue sole ricchezze materiali erano una ciotola per l'elemosina e una foglia di palma per proteggersi dal sole. Mentre i monaci e i prelati di rango inferiore intonavano le scritture attorno a lui, lui sedeva in silenzio, a gambe incrociate, e in chissà quale modo mutava i destini dei re. Era molto strano…
Quel giorno l'aria era così tersa che Kalidas riusciva a vedere il tempio, rimpicciolito dalla distanza alle dimensioni di una punta di freccia sottile, bianca, sulla cima di Sri Kanda. Non sembrava opera dell'uomo, e al re ricordava le montagne ancora più alte che aveva visto da giovane, quando era stato per metà ospite e per metà ostaggio alla corte di Mahinda il Grande. Tutti i giganti che stavano a guardia dell'impero di Mahinda possedevano cime simili, composte di una sostanza cristallina, abbagliante, per cui non esisteva un nome nella lingua di Taprobane. Gli indù credevano che si trattasse di una specie d'acqua cristallizzata per magia, ma Kalidas aveva riso di quelle superstizioni.
Quello splendore latteo distava solo tre giorni di marcia: uno lungo la strada reale, tra foreste e risaie; altri due lungo la tortuosa scalinata che lui non avrebbe mai più risalito, perché al suo termine si trovava l'unico nemico che temeva, e che non poteva conquistare. A volte invidiava i pellegrini, quando vedeva le loro torce tracciare una sottile linea di fuoco sulla parete della montagna. Al più umile dei mendicanti era concesso salutare quell'alba sacra e ricevere la benedizione degli dèi; al signore di quell'intera terra era proibito.
Ma lui aveva altre consolazioni, anche se destinate a durare poco. Lì, protetti da fossati e bastioni, c'erano gli specchi d'acqua e le fontane e i Giardini del Piacere in cui aveva profuso le ricchezze del suo regno. E quando si stancava di tutto quello, c'erano le signore della montagna: quelle in carne e ossa, della cui compagnia godeva sempre meno spesso; e le duecento immortali, immutabili, con cui sovente divideva i suoi pensieri, perché non poteva fidarsi di nessun altro.
A occidente risuonò il tuono. Kalidas distolse gli occhi dalla minaccia incombente della montagna, si volse verso quella lontana speranza di pioggia. I monsoni erano in ritardo. I laghi artificiali che alimentavano il complesso sistema d'irrigazione dell'isola erano quasi asciutti. A quell'epoca, avrebbe già dovuto vedere l'acqua scintillare nel più grande dei laghi, quello che, come sapeva benissimo, i suoi sudditi osavano ancora chiamare col nome di suo padre: Paravana Samudra, il Mare di Paravana. Era stato completato solo trent'anni prima, dopo generazioni e generazioni di lavoro. Allora, in giorni più felici, il giovane Principe Kalidas teneva fieramente il fianco del padre, e le grandi paratoie si erano aperte e l'acqua che dà la vita si era rovesciata sulla terra assetata. Nel regno intero non esisteva spettacolo più meraviglioso del dolce incresparsi di quel lago immenso, costruito dall'uomo, che rifletteva le cupole e le spirali di Ranapur, la Città d'Oro, l'antica capitale che lui aveva abbandonato per inseguire il suo sogno.
Il tuono rombò di nuovo, ma Kalidas sapeva che la sua promessa era falsa. Anche lì, sulla cima della Montagna del Maligno, l'aria era immota, stagnante. Non c'era traccia delle raffiche improvvise, imprevedibili, che annunciavano l'arrivo del monsone. Prima che giungessero le piògge, forse alle sue preoccupazioni si sarebbe aggiunta anche la carestia.
— Vostra Maestà — disse la voce paziente dell'Adigar di corte — i messi stanno per ripartire. Vorrebbero rendervi omaggio.
Ah, sì, quei due pallidi ambasciatori giunti dall'altra parte dell'oceano occidentale! Gli dispiaceva vederli partire, perché, nel loro abominevole taprobani, gli avevano portato notizie di molte meraviglie; anche se nessuna di queste, lo ammettevano loro per primi, poteva competere con quella fortezza-palazzo in cielo.
Kalidas voltò la schiena alla montagna coronata di bianco, alla terra secca e bruciata, e prese a scendere gli scalini di granito che portavano alla sala delle udienze. Dietro di lui, il ciambellano e i suoi aiutanti portavano doni d'avorio e di pietre preziose per gli uomini alti, fieri, che attendevano di salutarlo. Presto i doni di Taprobane avrebbero solcato il mare, sarebbero giunti a una città di molti secoli più giovane di Ranapur; e forse, per un po', avrebbero distolto dai suoi pensieri l'Imperatore Adriano.
Il Mahanayake Thero s'incamminò lentamente verso il parapetto nord. La sua tonaca arancione spiccava, vivacissima, contro l'intonaco bianco delle pareti del tempio. Molto più in basso si stendeva la scacchiera delle risaie che correvano da un orizzonte all'altro, le forme scure dei canali d'irrigazione, lo splendore blu del Paravana Samudra; e, oltre quel mare interno, le sacre cupole di Ranapur si ergevano in cielo come spettri, smisurate fino all'incredibile quando ci si rendeva conto della loro distanza. Aveva osservato quel panorama sempre diverso per trent'anni, ma sapeva che non sarebbe mai riuscito ad afferrare ogni dettaglio della sua sfuggente complessità. Colori e linee di confine mutavano ad ognf stagione, anzi, al passare di ogni nube. "E quando anch'io sarò passato" pensò il Bodhidharma "vedrò qualcosa di nuovo".
C'era un solo elemento fuori posto in quel paesaggio dalle linee squisite. Per quanto minuscola apparisse da quell'altitudine, la massa grigia della Montagna del Maligno sembrava precipitata da un altro mondo. E infatti la leggenda raccontava che Yakkagala era un frammento di una montagna dell'Himalaya, ricca di erbe medicinali, caduta dalle mani del dio scimmia Hanuman che correva in soccorso dei suoi compagni feriti, al termine delle battaglie del "Ramayana".
Da quella distanza, ovviamente, era impossibile scorgere il minimo particolare della follia di Kalidas, tranne una linea sottile che indicava i bastioni esterni dei Giardini del Piacere. Eppure, bastava sperimentare una volta sola l'impatto della Montagna del Maligno, ed era impossibile dimenticarla. Con gli occhi dell'immaginazione, come se davvero si trovasse lì, il Mahanayake Thero vedeva le immense fauci del leone che sporgevano oltre l'orlo a strapiombo del dirupo; e più in alto incombevano i bastioni su cui (non era difficile crederlo) passeggiava ancora il Re maledetto…
Sopra di lui scoppiò il tuono, arrivò subito a un'intensità tale che l'intera montagna ne parve scossa. Riempì d'un rombo continuo, altissimo, il cielo, e poi svanì in direzione est. Per molti secondi gli echi si rincorsero ai limiti dell'orizzonte. Nessuno poteva pensare che "quello" fosse l'annuncio di piogge imminenti: le piogge non erano previste per altre tre settimane, e il Controllo Monsoni sbagliava al massimo di ventiquattro ore. Quando si spensero anche gli ultimi echi, il Mahanayake rivolse la parola al suo compagno.
— Ecco a cosa servono i nostri cari corridoi di rientro — disse. La sua voce era leggermente irritata, più di quanto non sia concesso a un profeta del Dharma. — Abbiamo dei rilevamenti?
Il monaco più giovane parlò un attimo nel microfono da polso, attese risposta.
— Sì. È arrivato a centoventi. Siamo di cinque decibel al di sopra dei massimi precedenti.
— Inviate la solita protesta alla stazione Kennedy o Gagarin, secondo il caso. Ora che ci ripenso, mandatela a tutte e due. In ogni modo, non farà nessuna differenza.
Mentre il suo occhio seguiva, lungo il cielo, la scia di vapori che si dissolveva lentamente, il Bodhidharma Mahanayake Thero (ottantacinquesimo della dinastia) fu travolto da una fantasia improvvisa, tutt'altro che monacale. Kalidas, senza dubbio, avrebbe saputo come trattare i tecnici delle linee spaziali che ragionavano solo in termini di dollari e di chilogrammi di materiale in orbita… Forse sarebbe ricorso all'impalamento, oppure a elefanti di metallo, oppure all'olio bollente.
Ma la vita era molto più semplice duemila anni addietro.
I suoi amici, il cui numero purtroppo diminuiva di anno in anno, lo chiamavano Johan. Il mondo, quando si ricordava di lui, lo chiamava Raja. Il suo nome, per intero, concentrava in sé cinquecento anni di storia: Johan Oliver de Alwis Sri Rajasinghe. Un tempo, i turisti che si recavano alla Montagna gli davano la caccia con cineprese e registratori; ma adesso un'intera generazione non sapeva niente dei giorni in cui lui era il volto più popolare del sistema solare. Non rimpiangeva le glorie del passato, perché gli avevano regalato la gratitudine di tutta l'umanità. Ma gli avevano portato anche rimpianti inutili per gli sbagli commessi e dolore per le vite che aveva sprecato, quando un po' più d'intelligenza, o di pazienza, le avrebbe forse salvate. Ovviamente, adesso era molto facile, in prospettiva storica, capire cosa "si sarebbe dovuto" fare per evitare la Crisi di Auckland, o per riunire i firmatari recalcitranti del Trattato di Samarcanda. Era assurdo rimproverarsi per gli inevitabili errori del passato; eppure, in certi momenti la sua coscienza lo faceva soffrire più delle fitte, ormai debolissime, che gli procurava la vecchia ferita ricevuta in Patagonia.
Nessuno aveva creduto che sarebbe rimasto lontano dalla scena per tanto tempo. — Tornerai fra sei mesi — gli aveva detto il Presidente mondiale Chu. — Il potere dà assuefazione.
— Non a me — aveva risposto lui, sincero.
Perché era stato il potere a cercarlo; lui non l'aveva mai inseguito. E si era sempre trattato di un tipo di potere molto speciale, molto limitato, consultivo e non esecutivo. La sua carica era quella di assistente speciale (facente funzione d'ambasciatore) per gli Affari Politici, responsabile direttamente al Presidente e al Consiglio, e il suo gruppo non era mai stato composto di più di dieci elementi; undici al massimo, contando ARISTOTELE (il suo terminale era ancora collegato ai centri della memoria e dell'elaborazione di Ari, e si parlavano diverse volte l'anno). Ma negli ultimi tempi il Consiglio aveva sempre accettato i suoi suggerimenti, e il mondo aveva regalato a lui quasi tutti gli onori che invece dovevano andare agli sconosciuti, oscuri burocrati della Divisione Pace.
E così, la fama ricadeva solo sull'ambasciatore a disposizione Rajasinghe che correva da un punto caldo all'altro, e qui rinforzava un ego, là evitava una crisi, manipolando la verità con abilità consumata. Naturalmente non mentiva mai; sarebbe stato fatale. Senza l'infallibile memoria di Ari, non sarebbe mai riuscito a tenere sotto controllo le ragnatele intricate che a volte era costretto a tessere perché l'umanità potesse vivere in pace. E quando quel gioco cominciò a piacergli per quello che era, giunse il momento di ritirarsi.
Era successo vent'anni prima, e lui non aveva mai rimpianto quella decisione. Quelli che avevano predetto che la noia sarebbe riuscita dove le tentazioni del potere avevano fallito non lo conoscevano, oppure non capivano le sue origini. Era tornato ai campi e alle foreste della sua gioventù, e viveva a un solo chilometro dalla grande, immensa montagna che aveva dominato la sua infanzia. La sua villa sorgeva proprio all'interno del grande fossato che circondava i Giardini del Piacere, e le fontane progettate dall'architetto di Kalidas gettavano acqua nel cortile di Johan, dopo un silenzio di duemila anni. L'acqua passava ancora nei canali di pietra originari; non era stato cambiato niente. L'unica differenza era che le cisterne alte sulla montagna venivano alimentate da pompe elettriche, non da squadre di schiavi madidi di sudore.
Poter trascorrere gli ultimi anni in quel luogo ricco di memorie storiche aveva dato a Johan più soddisfazione di tutta la sua carriera. Era la realizzazione di un sogno che non aveva mai sperato si avverasse. Per arrivare a tanto c'era voluta tutta la sua abilità diplomatica, e qualche delicato ricatto all'interno del Dipartimento d'Archeologia. In seguito erano state sollevate interrogazioni davanti al Consiglio di Stato, ma per fortuna nessuno aveva risposto.
Ad eccezione dei turisti e degli studiosi più decisi, il fossato lo isolava dalla curiosità di chiunque, e una fitta muraglia di alberi Ashoka mutati, in fiore tutto l'anno, lo riparava da sguardi indiscreti. Sugli alberi vivevano diverse famiglie di scimmie. Osservarle era divertente, ma di tanto in tanto invadevano la villa e rubavano gli oggetti portatili che colpivano la loro fantasia. Allora si scatenava una veloce guerra inter-specie, a base di petardi e di grida di pericolo registrate che turbavano tanto gli uomini quanto le scimmie; e le scimmie tornavano in fretta, perché da molto tempo avevano imparato che nessuno avrebbe fatto loro del male sul serio.
Uno dei più sfacciati tramonti di Taprobane stava insanguinando il cielo quando il piccolo elettrotriciclo spuntò silenziosamente da dietro gli alberi e si fermò a fianco delle colonne di granito del portico (vere Chola, dell'ultimo periodo di Ranapur; un anacronismo completo in quell'ambiente. Ma solo il professor Sarath le aveva degnate d'un commento, e lui, naturalmente, commentava sempre tutto).
Grazie a lunghe e amare esperienze, Rajasinghe aveva imparato a non fidarsi mai delle prime impressioni, ma anche a non ignorarle mai. In un certo senso si aspettava che Vannevar Morgan, per essere all'altezza di quello che aveva compiuto, fosse un uomo di dimensioni notevoli, imponente. Invece l'ingegnere era di statura inferiore alla media, e a una prima occhiata lo si sarebbe giudicato di corporatura fragile. Però quel corpo magro era tutto nervi, e i capelli neri, corvini, incorniciavano una faccia che sembrava molto più giovane dei suoi cinquantun anni. La foto trasmessa dall'archivio biografico di Ari non gli rendeva giustizia: quell'uomo avrebbe dovuto essere un poeta romantico, o un pianista, oppure, forse, un grande attore, capace di tenere migliaia di persone col fiato sospeso. Rajasinghe riconosceva subito il potere, perché il potere era stato il suo lavoro; e in quel momento si trovava di fronte al potere. Attento agli uomini piccoli, si era detto spesso, perché sono loro che muovono e scuotono il mondo.
E, assieme a quel pensiero, giunse la prima ondata d'apprensione. Quasi ogni settimana, vecchi amici e vecchi nemici giungevano in quell'angolo remoto, per raccontargli le novità e per ricordare assieme il passato. Quelle visite gli facevano piacere, perché davano un senso di continuità alla sua esistenza. Però lui conosceva sempre, con un grado d'accuratezza estremo, lo scopo dell'incontro e il terreno su cui ci si sarebbe mossi. E invece, a quanto gli risultava, lui e Morgan non possedevano interessi in comune, al di là delle affinità che legano gli uomini di una certa epoca. Non si erano mai incontrati, non erano mai entrati in contatto; anzi, quasi non aveva riconosciuto il nome di Morgan. E fatto ancora più insolito, l'ingegnere gli aveva chiesto di non divulgare la notizia del loro incontro.
Rajasinghe lo aveva accontentato, ma con una punta di risentimento. La sua vita pacifica non richiedeva più alcuna segretezza. L'ultima cosa che desiderava era proprio un mistero importante che venisse a sconvolgere la sua esistenza così ordinata. Con la Sicurezza l'aveva fatta finita per sempre; dieci anni prima (o ancora di più?), dietro sua richiesta, le sue guardie personali erano state allontanate. Ma la cosa che lo sconvolgeva di più non era quell'aria di mistero; era la sua assoluta sorpresa. L'ingegnere capo (Divisione Terra) della Terran Construction Corporation non avrebbe percorso migliaia di chilometri solo per chiedergli l'autografo, o per fare le solite osservazioni insignificanti dei turisti. Doveva essere giunto lì con uno scopo preciso; e per quanto si sforzasse, Rajasinghe non riusciva a immaginarlo.
Anche nel periodo di servizio attivo Rajasinghe non aveva mai avuto occasione di entrare in contatto con la TCC. Le tre divisioni di cui era composta, Terra, Mare e Spazio, per quanto enormi, passavano quasi inosservate nel fiume di notizie che scorrevano attraverso la Federazione Mondiale. La TCC emergeva dall'ombra solo quando si verificava un fallimento tecnico di grandi proporzioni, o quando andava a cozzare contro qualche gruppo per la difesa dell'ambiente o del patrimonio storico. L'ultimo di questi scontri si era verificato a causa del Carbondotto Antartico, un miracolo della tecnologia del ventunesimo secolo, costruito per trasportare il carbone fluidificato dai grandi depositi polari alle centrali elettriche e alle fabbriche del mondo intero. Presa da un raptus di euforia ecologica, la TCC aveva proposto di demolire l'ultima parte del carbondotto, l'unica rimasta, e di restituire quel territorio ai pinguini. Subito si erano levate le grida di protesta degli archeologi industriali, oltraggiati da tanto vandalismo, e dei naturalisti, i quali fecero notare che i pinguini "adoravano" il carbondotto abbandonato. Lì dentro vivevano splendidamente, come mai in passato, tanto che si era verificato un'esplosione demografica di pinguini che nemmeno le balene assassine riuscivano a contenere. La TCC si era arresa senza opporre resistenza.
Rajasinghe non sapeva se Morgan avesse avuto una parte in quella piccola débàcle. Comunque la cosa importava ben poco, visto che adesso il suo nome era legato al trionfo più recente della TCC…
Lo avevano battezzato il Ponte dei Ponti, e forse non a torto. Rajasinghe, come metà della popolazione mondiale, aveva ammirato lo spettacolo dell'ultimo tratto di ponte che veniva dolcemente sollevato in cielo dal "Graf Zeppelin", un'altra meraviglia del secolo. I lussuosi arredi dell'aeronave erano stati tolti per alleggerirla; la famosa piscina era stata svuotata e i reattori pompavano il calore in eccesso nei palloni, aumentando la spinta ascensionale. Era la prima volta che un peso di oltre mille tonnellate veniva sollevato a tre chilometri d'altezza, e tutto (fra la rabbia di milioni di spettatori, senza dubbio) era andato alla perfezione.
Nessuna nave avrebbe mai più oltrepassato le Colonne d'Ercole senza rendere omaggio al ponte più colossale che l'uomo avesse mai costruito; o che, con ogni probabilità, avrebbe mai costruito. I due pilastri al punto d'incontro fra il Mediterraneo e l'Atlantico erano le strutture più alte del pianeta, e stavano l'una di fronte all'altra, separate da quindici chilometri di spazio vuoto su cui si tendeva l'incredibile, delicato arco del Ponte di Gibilterra. Era un onore conoscere l'uomo che lo aveva concepito, anche se arrivava con un'ora di ritardo.
— Le mie scuse, ambasciatore — disse Morgan, scendendo dal triciclo. — Spero che il ritardo non vi abbia recato disturbo.
— Niente affatto. Il mio tempo è solo mio. Spero che abbiate già mangiato.
— Sì. Hanno annullato la coincidenza per Roma, però mi hanno offerto un ottimo pranzo.
— Sarà stato senz'altro meglio di quello che potrebbero servirvi all'hotel Yakkagala. Vi ho prenotato una camera per stanotte. È solo a un chilometro da qui. Temo che dovremo rimandare la nostra discussione a domattina.
Morgan sembrava deluso, ma si strinse nelle spalle con aria di rassegnazione. — Ho un sacco di lavoro per tenermi occupato. Presumo che l'hotel sia attrezzato a dovere, per lo meno che ci sia un terminale standard.
Rajasinghe rise. — Non posso garantirvi niente di più sofisticato d'un telefono. Però ho un'idea migliore. Tra mezz'ora devo accompagnare alcuni amici alla Montagna. C'è uno spettacolo "son-et-lumière" che vi raccomando caldamente, e sarò ben lieto se vorrete unirvi a noi.
Era chiaro che Morgan esitava, che stava cercando una scusa che non lo offendesse.
— Siete molto gentile, ma ho assoluto bisogno di mettermi in contatto col mio ufficio…
— Potete usare il mio terminale. Vi prometto che troverete affascinante lo spettacolo, e dura solo un'ora. Oh, me ne scordavo. Non volete che nessuno sappia che siete qui. Non importa, vi presenterò come il dottor Smith dell'università di Tasmania. Sono certo che i miei amici non vi riconosceranno.
Rajasinghe non voleva offendere il suo ospite, ma il breve scatto d'irritazione di Morgan era fin troppo esplicito. I suoi istinti da ex diplomatico entrarono immediatamente in azione: registrò quella reazione e l'archiviò nel cervello.
— Ne sono certo anch'io — disse Morgan, e Rajasinghe notò l'inconfondibile tono d'asprezza della sua voce. — L'idea del dottor Smith è perfetta. E ora… Posso usare il vostro terminale?
Interessante, pensava Rajasinghe mentre guidava l'ospite nella villa, ma probabilmente poco importante. Ipotesi provvisoria: Morgan era un uomo frustrato, forse addirittura deluso. Difficile capire perché, considerato che era uno dei leader nel suo campo. "Cos'altro" potrebbe volere? Esisteva una risposta ovvia. Rajasinghe conosceva benissimo i sintomi, se non altro perché nel suo caso la malattia si era spenta da tempo.
"La fama è lo sprone" recitò nel silenzio dei propri pensieri. Com'era dopo? "Quell'ultimo morbo della nobile mente… Disdegnare i piaceri, e vivere giorni laboriosi."
Sì. Quello poteva spiegare l'insoddisfazione che le sue antenne, ancora sensibili, avevano captato. E d'improvviso ricordò che l'immenso arcobaleno che univa l'Europa all'Africa veniva quasi sempre chiamato Il Ponte… A volte il Ponte di Gibilterra… Ma mai il Ponte di Morgan.
"Ad ogni modo" si disse Rajasinghe, se siete in cerca di fama, dottor Morgan, qui non la troverete. E allora perché mai, in nome di mille 'yakkas', siete venuto nella mia piccola, tranquilla Taprobane?"
Per giorni, elefanti e schiavi si erano torturati sotto il sole impietoso, trasportando l'interminabile catena di secchi lungo la faccia del dirupo. — Siete pronti? — aveva chiesto il Re, di tanto in tanto. — No, Maestà — aveva risposto il sovrintendente ai lavori — il serbatoio non è ancora pieno. Ma domani, forse…
Finalmente era giunto domani, e ora l'intera corte era radunata nei Giardini del Piacere, sotto tende di stoffa dai colori vivaci. Al Re facevano fresco grandi ventagli, agitati da supplicanti che avevano pagato il ciambellano per quel privilegio rischioso. Era un onore che poteva condurre alla ricchezza, o alla morte.
Tutti gli occhi erano puntati sulla Montagna, e sulle minuscole figure che si muovevano sulla sua cima. Venne agitato uno stendardo; molto più in basso, un corno risuonò brevemente. Alla base del dirupo, gli operai mossero freneticamente le leve, tirarono le corde. Eppure, per lungo tempo non successe niente.
Sulla faccia del Re cominciò ad apparire una ruga, e L'intera corte tremò. Per qualche secondo persino i ventagli si agitarono più piano, ma ripresero subito velocità, non appena chi li reggeva ricordò i pericoli di quel compito. Poi gli uomini ai piedi di Yakkagala uscirono in un grande urlo, un grido di gioia e di trionfo che si fece sempre più vicino, correndo lungo i sentieri circondati di fiori. E col grido arrivò anche un altro suono, non troppo forte, che però dava l'impressione di forze irresistibili, domate, protese verso lo scopo che dovevano raggiungere.
L'una dopo l'altra, nascendo dal terreno come per magia, le snelle colonne d'acqua si lanciarono verso il cielo senza nubi. Alte quattro volte un uomo, fiorirono in una rugiada di spruzzi. Il sole che si rifrangeva su di loro creava una nebbiolina d'arcobaleni che rendeva ancora più strana e più bella la scena. Mai, nell'intera storia di Taprobane, occhi umani avevano visto una meraviglia simile.
Il Re sorrise, e i cortigiani trovarono il coraggio di tirare di nuovo il respiro. Questa volta le tubature interrate non erano esplose sotto la pressione dell'acqua. A differenza dei loro sfortunati predecessori, i muratori che le avevano deposte avevano discrete possibilità di arrivare alla vecchiaia, come tutti quelli che lavoravano per Kalidas.
Con la stessa lentezza del sole al tramonto, le colonne d'acqua stavano diventando più piccole. Adesso non erano più alte d'un uomo: i serbatoi riempiti con tanta fatica erano quasi vuoti. Ma il Re era estremamente soddisfatto. Alzò la mano, e le fontane guizzarono e si levarono di nuovo come per rendere un ultimo omaggio al trono, poi si esaurirono in silenzio. Per un po' le acque si agitarono avanti e indietro sulla superficie delle vasche; poi tornarono di nuovo a essere specchi immobili, che riflettevano l'immagine della Montagna eterna.
— Gli uomini hanno lavorato bene — disse Kalidas. — Ridate loro la libertà.
"Quanto" bene, ovviamente, non lo avrebbero mai capito, perché nessuno poteva condividere le visioni solitarie di un artista-re. E Kalidas, mentre scrutava i meravigliosi giardini che circondavano Yakkagala, provò il massimo della felicità che gli era concessa.
Lì, ai piedi della Montagna, aveva concepito e creato il paradiso terrestre. Ora, in alto sulla cima, gli restava solo da costruire il Paradiso vero.
Quello spettacolo intelligente, basato su luci e suoni, riusciva ancora a toccare Rajasinghe, anche se lo aveva visto una dozzina di volte e ne conosceva ogni particolare. Si trattava di una tappa obbligata per tutti coloro che si recavano in visita alla Montagna, anche se gli spiriti critici come il professor Sarath dicevano che era solo storia in pillole per turisti. Ad ogni modo la storia in pillole era sempre meglio di niente, e assolveva ancora la sua funzione mentre Sarath e i suoi colleghi litigavano aspramente sulla successione esatta degli avvenimenti che si erano verificati lì duemila anni prima.
Il piccolo anfiteatro era dirimpetto alla parete ovest di Yakkagala. Le duecento poltroncine erano orientate in modo che ogni spettatore vedesse le proiezioni laser dall'angolo esatto. Lo spettacolo, per tutto l'anno, iniziava sempre alla stessa ora precisa: le 19, quando gli ultimi bagliori dell'immutabile tramonto equatoriale morivano in cielo.
Era già così buio che la Montagna era invisibile. La sua presenza era solo un'enorme ombra scura che eclissava le prime stelle. Poi da quel buio nacque il battito lento di un tamburo smorzato; e una voce calma, spassionata, cominciò a dire:
— Questa è la storia di un re che uccise suo padre e fu assassinato da suo fratello. Non è certo niente di nuovo nelle vicende del genere umano, che grondano sangue. Ma "questo" re ha lasciato un monumento eterno; e una leggenda che sopravvive da secoli…
Rajasinghe lanciò un'occhiata a Vannevar Morgan, seduto nell'oscurità alla sua destra. Vedeva solo di profilo la faccia del suo ospite, ma non gli era difficile capire che era già stato catturato dalla magia del racconto. Sulla sinistra, gli altri due ospiti (vecchi amici del tempo delle manovre diplomatiche) erano altrettanto presi. Aveva assicurato Morgan che non avevano riconosciuto il "dottor Smith"; oppure, se lo avevano riconosciuto, si erano gentilmente prestati alla commedia.
— Il suo nome era Kalidas, e nacque cento anni dopo Cristo a Ranapur, la Città d'Oro, capitale per secoli dei re di Taprobane. Ma sulla sua nascita gravava un'ombra…
La musica divenne più alta. Al battito del tamburo si unirono flauti e violini, che intrecciarono nell'aria notturna una melodia incalzante, regale. Sulla superficie della Montagna cominciò a bruciare un punto di luce; poi, d'improvviso, s'ingrandì, e parve d'un tratto che una finestra magica si fosse spalancata sul passato, per rivelare un mondo più vivido e ricco di colori della vita stessa.
La rappresentazione, pensò Morgan, è eccellente. Era contento che, per una volta, la cortesia avesse avuto il sopravvento sul desiderio di lavorare. Vide la gioia del Re Paravana quando la concubina preferita gli presentò il suo primogenito; e capì come quella gioia potesse aumentare e diminuire al tempo stesso quando, solo ventiquattr'ore dopo, la Regina diede alla luce un erede più legittimo al trono. Kalidas era nato per primo, ma non era il primo in linea di diritto; e così la scena era pronta per il dramma.
— Eppure, nei primi anni della fanciullezza, Kalidas e il fratellastro Malgara furono amici perfetti. Crebbero assieme, ignari delle rivalità riservate dal destino e degli intrighi che si tessevano intorno a loro. Il primo motivo di discordia non aveva niente a che vedere con le circostanze della loro nascita. Si trattò di un dono innocente, fatto in buona fede.
"Alla corte di Re Paravana giungevano convogli che recavano tributi da molte terre: seta dal Catai, oro dall'Indostan, armature lucenti dalla Roma imperiale. E un giorno un semplice cacciatore della giungla si avventurò nella grande città, recando un dono che sperava gradito alla famiglia reale…"
Tutt'attorno, Morgan udì un coro di "Ohh" e "Ahh" involontari emessi dagli spettatori. Gli animali non gli erano mai piaciuti troppo, però doveva ammettere che la scimmietta bianca come la neve che riposava, serena e fiduciosa, tra le braccia del giovane Principe Kalidas era davvero tenerissima. Da quella sua piccola faccia rugosa, due occhi si protendevano sui secoli trascorsi e sul misterioso, anche se non del tutto invalicabile, abisso che divide l'uomo dalle bestie.
— Secondo le Cronache, non si era mai visto niente del genere: il suo pelo era bianco come latte, i suoi occhi rossi come rubini. Qualcuno la ritenne un buon segno; altri un cattivo segno, perché il bianco è il colore della morte e del lutto. E i loro timori, purtroppo, erano ben fondati.
"Il Principe Kalidas adorava la scimmietta. La chiamò Hanuman, in onore del nobile dio-scimmia del 'Ramayana'. Il gioielliere reale costruì un piccolo carro d'oro su cui Hanuman, con aria solenne, sedeva mentre sfilava davanti alla corte, fra il divertimento e la delizia di tutti i presenti.
"Da parte sua, Hanuman amava Kalidas, e non si lasciava toccare da nessun altro. In particolare era acerrima nemica del Principe Malgara, quasi presentisse la futura rivalità. E poi, in un giorno luttuoso, la scimmia morse l'erede al trono.
"Quel morso fu una sciocchezza, ma ebbe conseguenze immense. Pochi giorni dopo Hanuman fu avvelenata, senza dubbio per ordine della Regina. Questo evento segnò la fine dell'infanzia di Kalidas; e si dice che in seguito lui non amò più nessun essere umano, e che a nessuno concesse la sua fiducia. E l'amicizia per Malgara si trasformò in una spietata rivalità.
"E questa non fu l'unica disgrazia generata dalla morte di una scimmietta. Per ordine del Re, venne costruita per Hanuman una tomba speciale che aveva la tradizionale forma a campana del reliquiario o "dagoba". Era una decisione del tutto straordinaria, che suscitò immediatamente l'ostilità dei monaci. I 'dagoba' erano riservati alle reliquie del Buddha, e quell'atto parve un sacrilegio deliberato.
"È possibile che l'intenzione fosse proprio quella, poiché Re Paravana si trovava allora sotto l'influenza di una Swami indù e si stava allontanando dalla fede buddista. Il principe Kalidas era ancora troppo giovane per essere coinvolto in quella questione, ma l'odio dei monaci si diresse soprattutto contro di lui. Così ebbe inizio un'ostilità che negli anni successivi avrebbe dilaniato il regno.
"Come molti degli altri racconti che ci vengono narrati dalle antiche cronache di Taprobane, per quasi duemila anni non è esistita prova che la storia di Hanuman e del giovane Principe Kalidas fosse qualcosa di più d'una deliziosa leggenda. Poi, nel duemilaquindici, un gruppo di archeologi di Harvard ha scoperto le fondamenta di un piccolo reliquiario situato all'interno dell'antico palazzo di Ranapur. Il reliquiario doveva essere stato distrutto deliberatamente, perché l'intera muratura della parte superiore non esisteva più.
"La consueta sala delle reliquie, a livello delle fondamenta, era vuota, spogliata d'ogni contenuto già da secoli. Ma quegli studiosi possedevano strumenti che i ladri di tombe di un tempo non potevano nemmeno sognare. I rilevamenti al neutrino hanno svelato la presenza di 'un'altra' sala delle reliquie, a profondità molto maggiore. La sala superiore serviva solo a mascherare la seconda, e aveva assolto egregiamente il suo compito. La sala inferiore conteneva ancora il fardello di amore e d'odio che aveva preservato nel corso dei secoli, e che oggi riposa nel museo di Ranapur."
Morgan si era sempre ritenuto, a buon diritto, ragionevolmente freddo e poco sentimentale, non incline a scoppi improvvisi d'emozione. Eppure adesso, terribilmente imbarazzato, sperando che gli altri non se ne accorgessero, sentì che i suoi occhi si riempivano di lacrime impreviste. "Com'è ridicolo" si disse rabbiosamente "che una musica dolciastra e un racconto sdolcinato possano avere un effetto del genere su un uomo intelligente!" Non avrebbe mai creduto che la vista di un gioco per bambini potesse farlo piangere.
E d'improvviso seppe, in un accecante lampo di ricordi che lo riportò a un momento lontano più di quarant'anni nel tempo, perché si era sentito tanto commosso. Rivide il suo adorato aquilone, che si tuffava e veleggiava al di sopra del parco di Sydney, dove aveva trascorso gran parte dell'infanzia. Sentiva ancora il calore del sole, il vento dolce che gli carezzava la schiena nuda, quel vento traditore che all'improvviso era caduto, facendo precipitare l'aquilone verso terra. Il giocattolo si era impigliato fra i rami della quercia gigante che doveva essere più antica della terra stessa, e lui, ingenuamente, aveva dato uno strattone allo spago, nel tentativo di liberarlo. Era la prima lezione che riceveva sulla resistenza della materia, e non l'avrebbe mai dimenticata.
Lo spago si era spezzato proprio quando lui stava per riprendere l'aquilone, e l'aquilone si era allontanato pigramente nel cielo estivo, perdendo quota poco per volta. Lui era corso alla sponda dell'acqua, sperando che il giocattolo cadesse sulla terraferma; ma il vento non ascolta le preghiere di un ragazzo.
Era rimasto a piangere per molto tempo, guardando i frammenti dell'aquilone che, come resti di una nave smantellata, galleggiavano sul grande porto e poi scomparivano verso il mare aperto, fino a essere invisibili. Quella era stata la prima delle tragedie così banali che forgiano l'infanzia di un uomo, le si ricordi o meno.
Eppure Morgan aveva perso solo un giocattolo inanimato; le sue erano state lacrime di frustrazione, non di vero dolore. Il Principe Kalidas aveva motivi d'angoscia ben più profondi. Sul piccolo carro d'oro, che pareva appena uscito dalla bottega dell'artigiano, riposava un mucchietto di piccole ossa bianche.
Morgan perse una parte della vicenda successiva. Quando si fu asciugato gli occhi erano trascorsi una dozzina d'anni, era in corso una complicata disputa familiare, e lui non capiva bene chi erano gli assassini e chi le vittime. Dopo che gli eserciti ebbero cessato di combattere e l'ultimo pugnale si fu abbattuto, il Principe Malgara e la Regina Madre fuggirono in India. Kalidas s'impossessò del trono e imprigionò il padre.
Il fatto che l'usurpatore si fosse astenuto dall'assassinare Paravana non dipendeva dalla devozione filiale, bensì dalla certezza che il vecchio Re possedesse ancora un tesoro segreto, tenuto da parte per Malgara. Paravana sapeva di essere al sicuro finché Kalidas continuava a crederlo; ma alla fine si stancò dell'inganno.
— Ti mostrerò le mie vere ricchezze — disse al figlio. — Preparami un cocchio e ti ci condurrò.
Ma quell'ultimo viaggio, a differenza di Hanuman, Paravana lo fece su un decrepito carro da buoi. Le Cronache dicevano che possedeva una ruota mezzo rotta, che cigolò per l'intero percorso: un particolare che doveva essere vero, perché nessuno storico si sarebbe preso il disturbo d'inventarlo.
Con sorpresa di Kalidas, suo padre ordinò di essere condotto al grande lago artificiale che irrigava la parte centrale del regno. Per portarlo a compimento aveva speso quasi tutti gli anni di regno. S'incamminò lungo la riva dell'enorme specchio d'acqua e fissò la statua che lo rappresentava, a grandezza doppia di quella naturale.
— Addio, vecchio amico — disse, rivolto alla grande figura di pietra che simboleggiava la gloria e il potere perduti, e che stringeva fra le mani, per l'eternità, la mappa in pietra di quel mare artificiale. — Proteggi quello che lascio.
Poi, sotto la sorveglianza di Kalidas e delle guardie, discese gli scalini che portavano in basso, senza fermarsi dove iniziava l'acqua. Quando fu immerso sino alla cintura raccolse l'acqua con le mani e se la versò in testa, poi si girò verso Kalidas, pieno d'orgoglio e di trionfo.
— Qui, figlio mio — gridò, indicando la distesa d'acqua pura, portatrice di vita — qui, qui sono tutte le mie ricchezze!
— Uccidetelo! — urlò Kalidas, folle di rabbia e delusione.
E i soldati ubbidirono.
Fu così che Kalidas divenne padrone di Taprobane, ma a un prezzo che pochi uomini avrebbero accettato di pagare. Perché, come narravano le Cronache, visse sempre "nel timore dell'altro mondo, e di suo fratello". Presto o tardi, Malgara sarebbe tornato a reclamare il trono che gli spettava.
Per qualche anno, come la lunga serie di re che lo aveva preceduto, Kalidas tenne corte a Ranapur. Poi, per motivi su cui la storia non dice niente, abbandonò la capitale reale in favore dell'isolato monolito di roccia di Yakkagala, lontano quaranta chilometri e in mezzo alla giungla. Qualcuno sostenne che stesse cercando una fortezza inespugnabile, al sicuro dalla vendetta di suo fratello. Eppure, alla resa dei conti, ne disdegnò la protezione; e poi, se si trattava solo di una roccaforte, perché mai Yakkagala era circondata da quegli immensi giardini la cui costruzione doveva aver richiesto lo stesso lavoro dei bastioni e del fossato? Soprattutto: "perché gli affreschi?".
Quando il narratore pose questa domanda, dalle tenebre si materializzò l'intera facciata ovest della montagna, non com'era ridotta adesso, ma come doveva essere duemila anni addietro. Una fascia che partiva a un centinaio di metri dal suolo, e che correva per l'intera altezza della montagna, era stata levigata e ricoperta di gesso. Sopra vi era dipinta una gran quantità di donne bellissime, a grandezza naturale, ritratte dalla cintura in su. Alcune erano di profilo, altre no, e tutte seguivano lo stesso modello di base.
La pelle color ocra, il seno rigoglioso, erano vestite di soli gioielli oppure di abiti trasparentissimi. Alcune portavano i capelli acconciati secondo fogge alte e complicate; altre indossavano quelle che sembravano corone. Molte reggevano vasi di fiori, oppure tenevano fra il pollice e l'indice, con delicatezza estrema, un solo bocciolo. Circa metà delle donne erano di pelle più scura delle altre e sembravano schiave, ma non per questo le loro pettinature e i gioielli erano meno eleganti.
— Un tempo esistevano più di duecento figure. Ma le piogge e i venti dei secoli le hanno distrutte tutte tranne venti, protette da una sporgenza di roccia…
L'immagine balzò avanti in primo piano. Ad una ad una, le ultime superstiti del sogno di Kalidas emersero dalle tenebre, accompagnate dalla musica un po' troppo sfruttata, eppure singolarmente adatta, della "Danza di Anitra". Per quanto sfigurate dal tempo, dal decadimento naturale e dai vandali, non avevano perso niente della loro bellezza dopo tanti secoli. I colori erano ancora vivaci, non smorzati dalla luce di più di mezzo milione di tramonti. Fossero dee o donne, avevano tenuto in vita la leggenda della Montagna.
— Nessuno sa chi fossero, cosa rappresentassero, e perché siano state create con tanta fatica, in un luogo così inaccessibile. La teoria più in voga sostiene che si trattasse di creature celestiali e che tutti gli sforzi di Kalidas siano stati rivolti alla creazione di un paradiso sulla terra, popolato da dee. Forse si riteneva un Re-Dio, come già avevano pensato i faraoni d'Egitto; forse è per questo che da loro ha ripreso l'immagine della sfinge, messa a guardia dell'entrata del palazzo.
Adesso la proiezione laser mostrava la Montagna vista da lontano, riflessa nel laghetto alla sua base. L'acqua tremò, il profilo di Yakkagala tremolò e si dissolse. Quando l'immagine si riformò, la Montagna era coronata di mura e bastioni e spirali che ne occupavano l'intera superficie. Era impossibile vedere tutto chiaramente: le cose erano atrocemente sfumate, come le immagini di un sogno. Nessuno avrebbe mai saputo quale fosse il "vero" aspetto del palazzo di Kalidas prima di essere distrutto da coloro che volevano cancellare il nome stesso del re.
— E lui visse qui per quasi vent'anni, in attesa della tragedia che sapeva inevitabile. Le sue spie devono averlo informato che, con l'aiuto dei re dell'Indostan del sud, Malgara stava pazientemente raccogliendo un esercito.
"E finalmente Malgara giunse. Dall'alto della Montagna Kalidas vide gli invasori che marciavano da nord. Forse si riteneva inespugnabile, ma non volle mettere alla prova la fortezza. Lasciò il sicuro rifugio della grande cittadella e corse incontro al fratello, sul terreno neutro fra i due eserciti. Molti pagherebbero una fortuna per sapere quali parole si dissero in quell'ultimo incontro. Alcuni dicono che prima di dividersi si siano abbracciati. Potrebbe essere vero.
"Poi gli eserciti, come onde del mare, si scontrarono. Kalidas combatteva sul proprio territorio, con uomini che conoscevano il terreno, e in un primo tempo parve certo che la vittoria dovesse andare a lui. Ma poi si verificò un altro di quegli incidenti che determinano il destino delle nazioni.
"Il grande elefante da guerre di Kalidas, bardato delle insegne reali, girò su se stesso per evitare un acquitrino. I difensori di Yakkagala pensarono che il re battesse in ritirata. Il loro morale andò a pezzi. Fuggirono, raccontano le Cronache, come fuscelli di paglia davanti al decuscutatore.
"Kalidas venne ritrovato sul campo di battaglia, morto di propria mano. Malgara diventò re. E Yakkagala fu abbandonata alla giungla, per essere riscoperta solo dopo millesettecento anni."
"Il mio vizio segreto" lo chiamava Rajasinghe, con un certo divertimento ma anche con una punta di rimpianto. Erano anni che non saliva a piedi fino alla cima di Yakkagala; poteva arrivarvi in volo quando voleva, ma non provava lo stesso senso di soddisfazione. Arrivare sulla montagna a quel modo significava rinunciare ai dettagli architettonici più affascinanti della scalata. Nessuno poteva sperare di comprendere la personalità di Kalidas senza seguire esattamente i suoi passi, dai Giardini del Piacere al palazzo aereo.
Però esisteva un surrogato che poteva riservare soddisfazioni considerevoli a un uomo non più giovane. Anni prima aveva acquistato un cannocchiale da venti centimetri, robusto e potente, grazie al quale riusciva a scrutare l'intera parete ovest della Montagna, seguendo la strada che tante volte aveva percorso per arrivare alla cima. Quando guardava attraverso i due oculari gli era facile immaginare di trovarsi a mezz'aria, tanto vicino al granito da potersi protendere a toccarlo.
Nel tardo pomeriggio, quando i raggi del sole al tramonto scendevano al di sotto della sporgenza rocciosa che proteggeva gli affreschi, Rajasinghe rendeva loro visita e porgeva i suoi omaggi alle signore della corte. Le amava tutte, ma aveva le sue favorite. A volte conversava in silenzio con loro, usando le parole e le frasi più arcaiche che conosceva, ben consapevole che il suo taprobani più antico era nato a mille anni nel "loro" futuro.
Lo divertiva anche osservare gli esseri umani, studiare le loro reazioni mentre si arrampicavano sulla Montagna, si fotografavano a vicenda sulla cima, o ammiravano gli affreschi. Non potevano nemmeno sospettare di essere accompagnati da uno spettatore invisibile (e invidioso), che senza sforzi si muoveva al loro fianco come uno spettro silenzioso, così vicino da riuscire a scorgere ogni espressione, ogni particolare dei vestiti. Il cannocchiale era talmente potente che se Rajasinghe fosse stato capace di leggere sulle labbra, avrebbe potuto origliare le conversazioni dei turisti.
Se quello era voyeurismo, era piuttosto innocuo; e il suo "vizietto" era tutt'altro che un segreto, perché gli faceva un immenso piacere dividerlo con gli ospiti. Il cannocchiale costituiva uno degli approcci migliori a Yakkagala, e spesso era servito a compiti molto utili. Rajasinghe aveva spesso avvertito i guardiani quando un cacciatore di souvenir si metteva all'opera, e parecchi turisti, stupefatti, erano stati sorpresi a tracciare le proprie iniziali sulla Montagna.
Era raro che usasse il cannocchiale di mattina, perché il sole si trovava sull'altro lato della montagna e la parete ovest, in ombra, era quasi invisibile. E, almeno per quanto ricordava, non lo aveva mai usato così presto, mentre ancora si godeva la deliziosa abitudine locale del "tè a letto", introdotta tre secoli prima dai coloni europei. Però in quel momento, guardando fuori dalla porta-finestra che gli offriva una visuale quasi completa di Yakkagala, fu sorpreso di notare una figura che si muoveva lungo la cresta della Montagna, parzialmente stagliata sullo sfondo del cielo. A quell'ora, poco dopo l'alba, i turisti non salivano mai in cima. Mancava ancora un'ora prima che i guardiani facessero partire l'ascensore per gli affreschi. Rajasinghe si chiese pigramente chi potesse essere quel tipo così mattiniero.
Saltò giù dal letto, infilò il "sarong" dai colori vivaci, raggiunse a piedi nudi la veranda e si avvicinò alla robusta colonna di cemento su cui era montato il cannocchiale. Si disse, forse per la cinquantesima volta, che il cannocchiale aveva proprio bisogno di un parapolvere nuovo, poi puntò lo strumento sulla Montagna.
— Dovevo immaginarmelo! — disse fra sé, con un piacere non indifferente, e aumentò l'ingrandimento. E così lo spettacolo della sera prima aveva colpito Morgan, come previsto. L'ingegnere voleva vedere da sé, nel poco tempo disponibile, come avessero fatto gli architetti di Kalidas a vincere la sfida della natura.
Poi Rajasinghe si accorse di un fatto allarmante. Morgan passeggiava tranquillamente lungo il ciglio della spianata, appena a qualche centimetro di distanza dal precipizio cui pochi turisti osavano avvicinarsi. Non molti avevano il coraggio di sedere sul Trono a Elefante, coi piedi sospesi sull'abisso; ma ora l'ingegnere si era inginocchiato al suo fianco, si appoggiava alla scultura con un braccio solo, con estrema noncuranza, e scrutava la parete di roccia più in basso sporgendosi sul vuoto. Rajasinghe, che non si era mai trovato a suo agio nemmeno su un precipizio familiare come quello di Yakkagala, quasi non reggeva lo spettacolo.
Dopo qualche minuto d'incredula osservazione, decise che Morgan doveva essere una di quelle rare persone che non soffrono per niente di vertigini. La memoria di Rajasinghe (che era ancora eccellente, ma si divertiva a giocargli scherzi) cercava di fargli tornare in mente qualcosa. Non c'era stato, una volta, un francese che aveva camminato su una corda tesa al di sopra delle Cascate del Niagara, e che addirittura si era fermato a metà strada per gustarsi il pranzo? Se le prove concrete non fossero state così incredibili, Rajasinghe non avrebbe mai creduto a una storia del genere.
E poi c'era qualcos'altro d'importante, un episodio che riguardava Morgan. Di cosa poteva trattarsi? Morgan… Morgan… Praticamente non sapeva niente di lui fino a una settimana prima…
Sì, era "quello". Si era verificata una breve controversia in cui i mass-media avevano sguazzato per un giorno o poco più, e doveva essere stato in quell'occasione che lui aveva udito per la prima volta il nome di Morgan.
Il disegnatore capo del Ponte di Gibilterra, ancora allo stadio di progetto, aveva annunciato un'innovazione sorprendente. Dal momento che tutti i veicoli avrebbero usufruito della guida automatica, era assolutamente inutile costruire ai margini della superstrada parapetti o guardrail. Eliminandoli, si sarebbero risparmiate migliaia di tonnellate di materiale. Ovviamente tutti pensarono che si trattasse di un'idea atroce: cosa sarebbe successo, chiese la gente, se la guida automatica di una macchina s'inceppava e il veicolo usciva di strada? Il disegnatore capo aveva pronte le risposte; sfortunatamente, ne aveva pronte troppe.
"Se" la guida automatica s'inceppava, come tutti sapevano, i freni sarebbero entrati in azione automaticamente, e il veicolo si sarebbe fermato dopo meno di cento metri. Solo sulle corsie più esterne esisteva la possibilità che una macchina volasse fuori; ma perché questo accadesse era necessario un guasto totale alla guida automatica, ai sensori e ai freni, il che poteva succedere una volta ogni vent'anni.
Fin qui tutto bene. Ma poi l'ingegnere capo aveva aggiunto un "caveat". Forse non pensava che la stampa lo divulgasse; forse stava solo scherzando. Ma saltò fuori a dire che, se si fosse verificato un incidente del genere, prima la macchina volava in mare senza danneggiare il suo bel ponte, più felice sarebbe stato.
Inutile aggiungere che il Ponte venne costruito con tanto di cavi deflettori sistemati lungo le corsie esterne; e, per quanto ne sapeva Rajasinghe, nessuno era ancora finito nel Mediterraneo. Però Morgan sembrava pronto a offrirsi in sacrificio rituale alle leggi della gravità lì a Yakkagala; altrimenti le sue azioni diventavano incomprensibili.
E adesso cosa stava facendo? Si era inginocchiato a fianco del Trono a Elefante e stringeva in mano una scatoletta rettangolare, all'incirca della forma e delle dimensioni di un vecchio libro. Rajasinghe riusciva solo a intravederla, e il modo in cui l'ingegnere la stava usando non aveva senso. Forse si trattava di uno strumento per analisi chimiche, per quanto lui non riuscisse a capire perché Morgan dovesse interessarsi alla composizione di Yakkagala.
Aveva in mente di costruire qualcosa lì? Non glielo avrebbero permesso, ovviamente, e Rajasinghe non riusciva a immaginare quale meraviglia potesse sorgere in un posto del genere: per fortuna, i re megalomani erano una razza in via d'estinzione. Ad ogni buon conto, considerate le reazioni dell'ingegnere la sera prima, era assolutamente certo che Morgan non avesse mai sentito parlare di Yakkagala prima di recarsi a Taprobane.
E poi Rajasinghe, che aveva sempre tenuto in gran conto il proprio autocontrollo anche nelle situazioni più drammatiche e inattese, uscì in un involontario grido d'orrore. Vannevar Morgan, distrattamente, era indietreggiato e precipitato, nel vuoto.
— Portatemi il persiano — disse Kalidas appena ebbe ripreso fiato. La salita dagli affreschi al Trono a Elefante non era difficile, ed era perfettamente sicura ora che la scalinata che scendeva lungo la roccia era delimitata da pareti. Però era faticosa. Kalidas si chiedeva per quanti anni ancora sarebbe riuscito a superare quella distanza senza farsi aiutare da qualcuno. Certo, potevano sorreggerlo gli schiavi, ma non si addiceva alla dignità d'un re. Ed era intollerabile che altri occhi, oltre ai suoi, potessero ammirare le cento dee e le cento schiave altrettanto belle che formavano il seguito della sua corte celeste.
Da quel momento in poi, notte e giorno, ci sarebbe sempre stata una guardia all'ingresso della scalinata, l'unica via che portava dal palazzo al paradiso personale creato da Kalidas. Dopo dieci anni di fatiche, il suo sogno era finalmente realizzato. Anche se quei monaci gelosi chiusi in cima alla montagna sostenevano il contrario, lui era ormai un dio.
Nonostante gli anni trascorsi sotto il sole di Taprobane, la pelle di Firdaz era ancora bianca come quella di un romano; e quel giorno, quando s'inchinò davanti al re, pareva ancor più pallido, e irrequieto. Kalidas lo studiò attentamente, poi uscì in uno dei suoi rari sorrisi d'approvazione.
— Hai lavorato bene, persiano — gli disse. — Esiste al mondo un altro artista che poteva fare meglio?
L'orgoglio combatté con la cautela, prima che Firdaz gli desse una risposta esitante.
— Nessuno che io conosca, Maestà.
— E ti ho pagato bene?
— Sono perfettamente soddisfatto.
Quella risposta, pensò Kalidas, era tutt'altro che esatta: il persiano aveva continuato a chiedergli altro denaro, altri aiutanti, materiali costosi che si potevano trovare solo in terre lontane. Ma non si poteva pretendere che un artista s'intendesse d'economia, o che sapesse che il tesoro reale era stato prosciugato dal costo spaventoso del palazzo e di quello che gli stava attorno.
— E ora che il tuo lavoro qui è finito, cosa desideri?
— Vorrei che vostra Maestà mi concedesse il permesso di tornare a Isfahan, per rivedere la mia gente.
Era la risposta che Kalidas si aspettava, e rimpiangeva sinceramente la decisione che doveva prendere. Ma lungo l'interminabile percorso che conduceva in Persia si trovavano troppi potenti, e alle loro mani avide non sarebbe sfuggito il sublime artista di Yakkagala. E le dee dipinte sulla parete occidentale dovevano restare per sempre senza rivali.
— C'è un problema — disse con decisione, e Firdaz si fece ancora più pallido, la sua schiena si piegò a quelle parole. Un re non era tenuto a spiegare niente, ma in quel momento erano due artisti che si stavano parlando. — Tu mi hai aiutato a diventare dio. La notizia è già giunta in molte terre. Se tu abbandoni la mia protezione, altri ti chiederanno di fare la stessa cosa.
Per un attimo l'artista restò in silenzio. L'unico rumore era il ruggito del vento, che smetteva di rado di lamentarsi quando incontrava quell'ostacolo imprevisto lungo il cammino. Poi Firdaz disse, così piano che Kalidas lo udì appena: — Allora mi proibite di andarmene?
— Puoi andartene, e con una ricchezza sufficiente per il resto della tua vita. Ma solamente alla condizione che tu non faccia alcun lavoro per un altro principe.
— Sono pronto a fare questa promessa — rispose Firdaz con una fretta quasi sconveniente.
Kalidas scosse amaramente la testa. — Ho imparato a non fidarmi della parola degli artisti — disse — specialmente quando non si trovano più in mio potere. Per cui dovrò costringerti a rispettare la promessa.
Con stupore di Kalidas, Firdaz non sembrava più così incerto. Era come se avesse preso una grande decisione e si sentisse finalmente a suo agio.
— Capisco — disse, levandosi in tutta la sua statura. Poi, deliberatamente, girò la schiena al re, come se il suo signore non esistesse più, e si mise a fissare il sole accecante.
Kalidas sapeva che il sole era il dio dei persiani, e le parole che Firdaz stava mormorando dovevano essere una preghiera nella sua lingua. Esistevano anche dèi peggiori da venerare, e l'artista continuava a fissare il disco abbagliante, quasi sapesse che era l'ultima cosa che avrebbe mai visto…
— Prendetelo! — urlò il re.
Le guardie scattarono subito in avanti, ma giunsero troppo tardi. Per quanto accecato dalla luce del sole, Firdaz si mosse con precisione. In tre passi raggiunse il parapetto e si lanciò fuori. Non disse niente mentre precipitava, in un lungo arco, verso i giardini che per tanti anni aveva progettato, e non ci fu nessuna eco quando l'architetto di Yakkagala raggiunse le fondamenta del suo capolavoro.
Kalidas restò addolorato per molti giorni, ma il suo dolore si mutò in collera quando venne intercettata l'ultima lettera del persiano a Isfahan. Qualcuno aveva avvertito Firdaz che a lavoro compiuto lo avrebbero accecato; e si trattava di una menzogna sciagura. Il re non scoprì mai la fonte di quella voce, anche se non pochi uomini morirono lentamente prima di provare la loro innocenza. Lo rattristava pensare che il persiano avesse creduto a una tale bugia; avrebbe dovuto capire che un altro artista non lo avrebbe mai privato del dono della vista.
Perché Kalidas non era un uomo crudele, e nemmeno ingrato. Avrebbe ricoperto Firdaz d'oro, o almeno d'argento, e lo avrebbe fatto partire con molti servi che si sarebbero presi cura di lui per il resto dei suoi giorni. Non gli sarebbe successo mai più di usare le mani; e dopo un po' non ne avrebbe più sentito la mancanza.
Vannevar Morgan non aveva dormito bene, il che era terribilmente insolito. Era molto orgoglioso del suo grado d'autocoscienza, della capacità di comprendere i propri impulsi ed emozioni. Se non riusciva a dormire, voleva scoprire perché.
Gradualmente, mentre osservava le primissime luci dell'alba riflettersi sul soffitto della camera e udiva le voci scampanellanti di uccelli sconosciuti, cominciò a riordinare i pensieri. Non sarebbe mai diventato ingegnere capo alla Terran Construction se non avesse pianificato la propria vita in maniera da evitare sorprese. Nessuno può essere immune ai colpi della fortuna e del fato, ma lui aveva compiuto tutti i passi necessari per salvaguardare la sua carriera e, soprattutto, la sua reputazione. Il suo futuro era a prova di bomba nei limiti delle sue possibilità. Se anche fosse morto all'improvviso, i programmi inseriti nella memoria del suo computer avrebbero protetto oltre la tomba il sogno che amava tanto.
Fino a ieri non aveva mai sentito parlare di Yakkagala; anzi, fino a poche settimane prima era solo vagamente conscio dell'esistenza di Taprobane, e poi la logica della sua ricerca lo aveva inesorabilmente indirizzato a quell'isola. A quell'ora avrebbe già dovuto essere ripartito, e invece la sua missione non era ancora iniziata. Quel lieve spostamento di programmi non lo preoccupava; quello che lo tormentava sul serio era la sensazione di essere mosso da forze al di là della sua comprensione. Eppure quel senso di meraviglia aveva echi familiari. Lo aveva già sperimentato quando, da bambino, aveva fatto volare l'aquilone nel parco Kiribilli, a fianco dei monoliti di granito che un tempo erano i piloni del ponte del porto di Sydney, demolito da anni.
Quelle torri gemelle avevano dominato la sua infanzia e controllato il suo destino. Forse sarebbe diventato comunque ingegnere; ma il fatto di essere nato lì lo aveva spinto a costruire ponti. E così lui era stato il primo uomo a passare dal Marocco alla Spagna, sospeso a tre chilometri sulle acque agitate del Mediterraneo; senza nemmeno sognare, in quel momento di trionfo, la sua sfida ancora più stupenda che lo attendeva.
Se riusciva nel compito che stava per affrontare, sarebbe rimasto famoso nei secoli. Già il suo cervello, la sua forza e la sua volontà erano tesi al massimo; non aveva tempo per distrazioni sciocche. Eppure era rimasto affascinato dal lavoro di un ingegnere-architetto morto da duemila anni, figlio di una cultura del tutto estranea. E poi c'era il mistero di Kalidas: che scopo aveva la costruzione di Yakkagala? Forse quel re era un mostro, ma nella sua personalità c'era qualcosa che entrava in sintonia coi recessi segreti del cuore di Morgan.
Il sole si sarebbe levato entro venti minuti. Mancavano ancora due ore alla colazione con l'ambasciatore Rajasinghe. Il tempo era sufficiente, e poteva darsi che non gli si presentassero altre possibilità.
Morgan non era tipo da perdere tempo. In meno di un minuto infilò calzoni e maglione, ma ci volle parecchio di più per il minuzioso controllo delle calzature. Anche se da anni non compiva più scalate impegnative, portava sempre con sé un paio di scarponi robusti e leggeri. Con la sua professione, li aveva spesso trovati indispensabili. Aveva già chiuso la porta della stanza quando fu colpito da un pensiero improvviso. Per un attimo rimase, esitante, in corridoio; poi sorrise e scrollò le spalle. Male non poteva farne, e non si sapeva mai…
Tornato nella stanza, Morgan aprì la valigia e tirò fuori una scatoletta piatta, della forma e delle dimensioni di un calcolatore tascabile. Controllò che le batterie fossero cariche, provò il meccanismo di comando manuale, poi l'allacciò alla fibbia in acciaio della sua robusta cintura sintetica. Adesso era davvero pronto a entrare nel regno maledetto di Kalidas e ad affrontare i demoni che vi abitavano.
Il sole si alzò, scaldandogli dolcemente la schiena. Morgan superò l'apertura del bastione massiccio che formava la difesa più esterna della fortezza. Davanti a lui, solcate da uno stretto ponte di pietra, si stendevano le acque immobili del grande fossato che correva, perfettamente rettilineo, per mezzo chilometro su ogni lato. Un gruppetto di cigni si avvicinò speranzoso nuotando tra le ninfee, e si disperse arruffando le penne quando fu chiaro che lui non aveva cibo da offrire. Dall'altro lato del ponte arrivò a un secondo muro, più basso, e salì la stretta scalinata che lo attraversava. Si trovò dinanzi ai Giardini del Piacere, sopra i quali si stendeva la parete liscia della Montagna.
Le fontane disposte lungo l'asse dei giardini lasciavano ricadere e salire l'acqua all'unisono, in un ritmo languido, come se stessero respirando tutte assieme. In giro non c'erano altri esseri umani; Yakkagala era tutta sua. La città-fortezza non doveva essere stata più deserta nemmeno nei millesettecento anni in cui la foresta l'aveva invasa, fra la morte di Kalidas e la sua riscoperta a opera degli archeologi del diciannovesimo secolo.
Morgan oltrepassò la linea di fontane, e qualche spruzzo gli arrivò addosso. Si fermò ad ammirare il condotto di pietra riccamente scolpito, senza dubbio d'epoca, in cui defluiva l'acqua in eccesso. Si chiese come avessero fatto gli esperti d'idraulica di un tempo così lontano a sollevare l'acqua che alimentava le fontane, e quali differenze di pressione fossero in grado di creare. Quei getti potenti, verticali, dovevano essere parsi terribilmente stupefacenti ai primi spettatori.
E ora aveva davanti una scalinata di granito, dagli scalini così stretti che i suoi scarponi vi entravano a stento. Morgan si chiese se gli uomini che avevano costruito quel posto straordinario avessero piedi così piccoli. Oppure si trattava di un'astuzia dell'architetto per scoraggiare i visitatori animati da cattive intenzioni? Certo non sarebbe stato molto facile, per dei soldati, caricare su quella salita inclinata a sessanta gradi, su scalini che parevano costruiti a misura di nano.
Una piccola piattaforma, poi un'altra scalinata identica alla precedente, e Morgan si trovò in una galleria lunga, in leggera salita, scavata nella parte più bassa della Montagna. Adesso era a più di cinquanta metri al di sopra della pianura sottostante, ma la visuale era completamente bloccata da un muro ricoperto di gesso giallo e liscio. La Montagna sopra di lui sporgeva talmente in fuori che gli sembrava quasi di camminare in un tunnel. Era visibile solo una minuscola fetta di cielo.
Il gesso sulla parete sembrava nuovissimo e intatto. Era quasi impossibile credere che i muratori avessero abbandonato il lavoro duemila anni prima. Qui e là, però, la superficie tersa e liscia come uno specchio era sfregiata da messaggi incisi da visitatori che avevano cercato, come al solito, di ottenere l'immortalità. Pochissime iscrizioni appartenevano ad alfabeti che Morgan era in grado di riconoscere, e la data più recente che vide era il 1931; in seguito, presumibilmente, il Dipartimento di Archeologia era intervenuto a prevenire simili vandalismi. La maggior parte dei graffiti erano in taprobani, tracciati a lettere rotonde e fiorite. Morgan ricordava, dallo spettacolo della sera prima, che molte iscrizioni erano poemi, risalenti al secondo e terzo secolo. Dopo la morte di Kalidas, per un breve periodo Yakkagala era diventata un'attrazione turistica, grazie alla leggenda ancora viva del re maledetto.
A metà della galleria Morgan raggiunse la parte chiusa dell'ascensore che portava ai celebri affreschi, venti metri sopra di lui. Piegò la testa per vederli, ma erano nascosti dalla piattaforma panoramica per turisti che pendeva, come un nido d'uccelli, dalla sporgenza della Montagna. Alcuni turisti, gli aveva raccontato Rajasinghe, davano un'occhiata alla pazzesca posizione degli affreschi e decidevano che era meglio accontentarsi delle fotografie.
Adesso, per la prima volta, Morgan poteva apprezzare uno dei misteri maggiori di Yakkagala. Non si trattava di capire "come" fossero stati dipinti gli affreschi (per risolvere il problema era sufficiente un'impalcatura di bambù), ma "perché". Una volta finiti, nessuno avrebbe potuto ammirarli nella loro completezza: dalla galleria che correva sotto se ne vedeva solo una minima parte; e dalla base della Montagna sarebbero stati solo leggere macchie di colore, irriconoscibili. Forse, come aveva suggerito qualcuno, avevano solo un significato religioso o magico, come quei dipinti dell'età della pietra scoperti nelle profondità di caverne quasi inaccessibili.
Per gli affreschi bisognava attendere che arrivasse il guardiano ad aprire l'ascensore. C'erano moltissime altre cose da vedere: si trovava appena a un terzo del cammino che portava alla cima, e la galleria scavata nella parete della Montagna continuava a salire.
Il muro alto, coperto di gesso giallo, fu sostituito da un parapetto basso, e Morgan riuscì di nuovo a scorgere la campagna attorno. Sotto di lui si stendevano i Giardini del Piacere, e per la prima volta poté apprezzarne non solo le dimensioni notevolissime (Versailles era più grande?) ma anche l'ingegnosa topografia, e capire con quanta intelligenza fossero stati studiati il fossato e i bastioni che li proteggevano dalla foresta.
Nessuno sapeva quali alberi e arbusti e fiori crescessero lì ai tempi di Kalidas, ma la disposizione dei laghi artificiali, dei canali, dei sentieri e delle fontane era esattamente la stessa. Ammirando i getti d'acqua che danzavano sotto di lui, Morgan ricordò all'improvviso una frase udita durante lo spettacolo della sera precedente:
"Da Taprobane al Paradiso corrono quaranta leghe. Lì si può udire il suono delle fontane del paradiso."
Assaporò quella frase dentro di sé: le "fontane del paradiso". Kalidas aveva cercato di costruire, qui sulla terra, un giardino degno degli dèi, per poter sostenere la propria divinità? Se le cose stavano così, non c'era da meravigliarsi che i monaci lo avessero accusato di empietà e avessero maledetto la sua opera.
La lunga galleria, che occupava l'intera facciata ovest della Montagna, terminava in un'altra scalinata che saliva ripida, però questa volta gli scalini erano di dimensioni molto più generose. Il palazzo, comunque, era ancora irraggiungibile: la scalinata finiva su un'ampia spianata senza dubbio artificiale. Lì si trovava tutto quello che rimaneva del gigantesco mostro leonino che un tempo dominava l'intero paesaggio, e ispirava terrore ai cuori di tutti quelli che lo guardavano. Perché dalla faccia della montagna si protendevano le zampe di un animale gigantesco, acquattato; solo gli artigli erano alti la metà d'un uomo.
Non ne restava nient'altro, tranne una scalinata di granito che si alzava dal cumulo di pietrisco che un tempo doveva formare la testa della creatura. Bastavano quelle rovine a ispirare un senso di timore reverenziale: chiunque avesse osato raggiungere il palazzo del re doveva passare tra le mascelle spalancate.
L'ultima salita lungo la facciata perpendicolare (anzi, leggermente inclinata in avanti) della Montagna si compiva lungo una serie di scalini di ferro, protetti da un parapetto per rassicurare i turisti più nervosi. Ma Morgan era stato avvertito che il vero pericolo, lì, erano le vertigini. Sciami di vespe normalmente tranquille occupavano piccole cavità nella roccia, e a volte visitatori troppo rumorosi le avevano disturbate, con conseguenze fatali.
Duemila anni prima, quella parete di Yakkagala, la parete nord, era ricoperta di fortificazioni e bastioni che creavano l'ambiente adatto per la sfinge, e dietro quei muri dovevano trovarsi scale che conducevano senza problemi alla cima. Ora i secoli, le intemperie e la mano vendicatrice dell'uomo avevano cancellato tutto. C'era solo la nuda roccia, solcata da miriadi di scanalature orrizzontali e di strette prominenze che un tempo costituivano la base delle costruzioni scomparse.
La salita terminò all'improvviso. Morgan si trovò su un'isoletta sospesa a duecento metri d'altezza su un paesaggio di alberi e campi, pianeggiante in ogni direzione tranne che a sud, dove la catena centrale di montagne tagliava l'orizzonte. Era completamente isolato dal resto del mondo, eppure si sentiva padrone di tutto quello che vedeva. Era da quando veleggiava fra le nubi sospese tra l'Europa e l'Africa che non provava un'estasi aerea così intensa. Sì, quella doveva essere la residenza di un Dio-Re, e le rovine del palazzo gli stavano attorno.
Uno strano labirinto di mura infrante, non più alte di un metro, mucchi di mattoni scoloriti e sentieri pavimentati in granito coprivano l'intera superficie della spianata, fino al precipizio che la chiudeva. Morgan vide anche una grande cisterna incassata a fondo nella roccia, probabilmente un serbatoio per l'acqua. Dando per scontata la disponibilità di approvvigionamenti, un pugno di uomini coraggiosi poteva difendere quel posto all'infinito; ma se Kalidas aveva davvero voluto costruire una fortezza, non l'aveva mai messa alla prova. Il suo ultimo incontro col fratello si era svolto ben oltre i bastioni esterni.
Quasi dimentico dello scorrere del tempo, Morgan passeggiò tra le fondamenta del palazzo che anticamente dominava la Montagna. Cercò, da quello che sopravviveva del suo lavoro, di entrare nella mente dell'architetto: perché c'era una sentiero lì? Quella scalinata interrotta conduceva a un altro piano? Se quella nicchia a forma di bara nella roccia era una vasca da bagno, come faceva l'acqua a entrare e a uscire? La ricerca era talmente affascinante che non si accorgeva nemmeno del sole sempre più caldo, sospeso in un cielo senza nubi.
Sotto di lui, il paesaggio verde smeraldo tornava in vita. Come scarabei dai colori sgargianti, uno sciame di piccoli robotrattori si dirigeva verso le risaie. Per quanto potesse sembrare incredibile, un elefante stava riportando sulla strada un autobus che doveva essersi rovesciato affrontando una curva a velocità troppo alta. Morgan udiva la voce squillante del suo portatore, piegato sopra le orecchie enormi. E un rivolo di turisti, che parevano formiche guerriere, stava scorrendo attraverso i Giardini del Piacere; provenivano tutti dalla direzione dell'hotel Yakkagala. Tra un po' non avrebbe potuto più godersi quella solitudine.
Comunque, grosso modo aveva finito di esplorare le rovine; anche se si poteva passare un'intera vita a studiarle nei dettagli. Non gli dispiaceva affatto riposarsi un poco, su una panchina di granito riccamente istoriata che sorgeva proprio sull'orlo del precipizio di duecento metri. Da lì poteva scrutare tutta la parte sud dell'orizzonte.
Morgan lasciò vagare gli occhi lungo le montagne lontane, nascoste, in parte, da una foschia bluastra che il sole non aveva ancora disperso. Osservandola pigramente, si accorse all'improvviso che non si trattava affatto di formazioni nuvolose. Quel cono di foschia non era il risultato effimero di venti e vapori. La sua simmetria perfetta, alta sopra le montagne più basse, era inconfondibile.
Per un attimo, scosso e sorpreso, si sentì invadere dalla meraviglia più assoluta, da uno stupore quasi superstizioso. Non si era reso conto che da Yakkagala si potesse vedere così perfettamente la Montagna Sacra. Eppure eccola lì che riemergeva lentamente dall'ombra della notte, preparandosi ad affrontare un nuovo giorno; e, se lui riusciva nei suoi intenti, un nuovo futuro.
Ne conosceva perfettamente le dimensioni, la geologia; ne aveva tracciato una mappa basata su stereo-fotografie e l'aveva studiata attraverso i satelliti. Ma vederla, per la prima volta, coi propri occhi, la rendeva d'improvviso reale. Fino a quel momento si era trattato solo di teoria. E a volte nemmeno di teoria. Più di una volta, nelle ore grigie prima dell'alba, Morgan si era risvegliato da incubi in cui l'intero progetto diventava una fantasia folle, che oltre a non dargli la gloria l'avrebbe reso lo zimbello del mondo. Una volta un suo collega aveva soprannominato il Ponte "La follia di Morgan": come avrebbero chiamato quel suo nuovo sogno?
Ma gli ostacoli costruiti dall'uomo non l'avevano mai fermato. La natura era il suo vero antagonista, il nemico cordiale che non barava mai e stava sempre alle regole, eppure non mancava mai di approfittare del minimo sbaglio o della minima dimenticanza. E adesso, per lui tutte le forze della natura si concentravano nel lontano cono blu che conosceva tanto bene ma su cui non aveva ancora posato i piedi.
Come Kalidas, in quello stesso punto, aveva fatto tante volte, Morgan scrutò la fertile pianura verdeggiante, soppesando la sfida e valutando la propria strategia. Per Kalidas, Sri Kanda rappresentava sia il potere della casta sacerdotale che il potere degli dèi, che assieme cospiravano contro di lui. Ora gli dèi erano scomparsi, ma i monaci restavano. Rappresentavano qualcosa che Morgan non comprendeva, e che quindi avrebbe trattato con ogni rispetto.
Era ora di scendere. Non doveva fare tardi, specie dal momento che i suoi programmi erano già saltati. Alzandosi dalla lastra di pietra su cui era seduto, un pensiero che lo tormentava da diversi minuti si affacciò finalmente alla sua coscienza. Era strano che avessero sistemato un sedile così ben decorato, con quegli elefanti magnificamente scolpiti, proprio sull'orlo d'un precipizio…
Morgan non poteva resistere a una simile sfida intellettuale. Sporgendosi oltre l'orlo dell'abisso, tentò ancora una volta di far entrare in sintonia la propria mente con quella di un collega morto da duemila anni.
Nemmeno gli amici più intimi riuscirono a decifrare l'espressione della faccia del Principe Malgara quando, per l'ultima volta, guardò il fratello con cui aveva diviso l'infanzia. Ora il campo di battaglia era tranquillo. Anche i lamenti dei feriti erano stati messi a tacere dalle erbe medicinali, o da spade brandite con forza. Dopo molto tempo il Principe si rivolse alla figura vestita di giallo che gli stava a fianco. — Voi l'avete incoronato, Venerabile Bodhidharma. Ora potete concedergli un altro favore. Preparate tutto per rendergli gli onori dovuti a un re.
Per un attimo il monaco non rispose. Poi disse dolcemente: — Ha distrutto i nostri templi e disperso i sacerdoti. Se venerava qualche dio, era certo Shiva.
Malgara scoprì i denti in quel sorriso crudele che il Mahanayake avrebbe imparato a conoscere fin troppo bene, negli anni che gli restavano.
— Reverendo padre — disse il Principe, in un tono di voce che grondava veleno — era il primogenito di Paravana il Grande, sedeva sul trono di Taprobane, e il male che ha fatto muore con lui. Quando il suo corpo sarà bruciato provvedete a depositarne i resti in un reliquiario, prima che osiate rimettere piede a Sri Kanda.
Il Mahanayake Thero s'inchinò, appena percettibilmente. — Sarà fatto secondo la vostra volontà.
— E c'è un'altra cosa — disse Malgara, rivolgendosi ora ai suoi aiutanti di campo. — La fama delle fontane di Kalidas ci ha raggiunti fino in Indostan. Vorremmo vederle almeno una volta, prima di marciare su Ranapur…
Dal centro dei Giardini del Piacere, che in vita gli avevano dato tanta gioia, il fumo della pira funeraria di Kalidas si alzava nel cielo senza nubi, disturbando gli uccelli da preda giunti dalle regioni più lontane. Amaramente soddisfatto, anche se a volte turbato da ricordi improvvisi, Malgara osservava il simbolo del suo trionfo che saliva verso l'alto, ad annunciare alla terra intera che il nuovo regno era iniziato.
Come per continuare l'antica rivalità, l'acqua delle fontane insidiava il fuoco, schizzando in alto prima di ricadere sulla superficie del lago che rifletteva la scena. Ma poi, molto prima che le fiamme avessero terminato il loro lavoro, i serbatoi presero a svuotarsi e i getti d'acqua si esaurirono rovinosamente. Prima che si alzassero di nuovo nei giardini di Kalidas, la Roma imperiale sarebbe scomparsa, i soldati dell'Islam si sarebbero spinti oltre l'Africa, Copernico avrebbe tolto la terra dal centro dell'universo, la Dichiarazione d'Indipendenza sarebbe stata firmata, e gli uomini avrebbero camminato sulla Luna…
Malgara aspettò che la pira si spegnesse in un ultimo, breve guizzo di luce. Mentre le ultime spire di fumo si alzavano contro la mole incombente di Yakkagala, levò gli occhi verso il palazzo sulla sommità della montagna e lo scrutò a lungo, soppesandolo in silenzio.
— Nessun uomo deve sfidare gli dèi — disse alla fine. — Che sia distrutto.
— Mi avete quasi fatto venire l'infarto — disse Rajasinghe in tono d'accusa, versando il caffè del mattino. — Sul momento ho pensato che aveste un congegno antigravità, ma anch'io so che è impossibile. Come avete fatto?
— Chiedo scusa — rispose Morgan con un sorriso. — Se avessi saputo che mi stavate osservando vi avrei avvertito, anche se è successo tutto senza premeditazione. Volevo solo farmi una passeggiata sulla Montagna, ma poi quel sedile di pietra mi ha lasciato perplesso. Mi sono chiesto perché si trovi proprio sull'orlo dell'abisso e ho cominciato l'esplorazione.
— Nessun mistero. Un tempo lì esisteva una piattaforma, probabilmente di legno, che si protendeva in fuori, e una scalinata che dalla cima portava agli affreschi. Si vedono ancora le scanalature nei punti in cui era inserita nella roccia.
— È quello che ho scoperto — disse Morgan, piuttosto deluso. — Dovevo immaginare che qualcuno se ne fosse già accorto.
Duecentocinquanta anni fa, pensò Rajasinghe. Quell'inglese pazzo e vivacissimo, Arnold Lethbridge, il primo direttore degli scavi archeologici di Taprobane. Si fece calare giù per la parete, esattamente come Morgan. Be', non "esattamente"…
Adesso Morgan aveva tirato fuori la scatoletta di metallo che gli aveva permesso di compiere il miracolo. La superficie esterna presentava solo qualche bottone e un piccolo quadro di lettura. Aveva tutta l'aria di essere un semplice strumento di comunicazione.
— Ecco qui — disse Morgan, con orgoglio. — Dal momento che mi avete visto camminare in verticale per un centinaio di metri, dovete avere un'idea piuttosto esatta di come funziona.
— Il buonsenso mi ha suggerito una risposta, ma nemmeno il mio eccellente cannocchiale l'ha confermata. Avrei giurato che non c'era niente a sostenervi.
— Non era questa la dimostrazione che avevo in mente, ma deve aver fatto effetto. E adesso passiamo ai soliti trucchetti. Infilate il dito in quest'anello, per favore.
Rajasinghe esitò. Morgan teneva il piccolo anello di metallo, grande circa il doppio di una vera matrimoniale, come se fosse percorso dalla corrente elettrica.
— Riceverò una scossa? — chiese.
— Non una scossa, ma forse una sorpresa. Provate ad allontanarlo da me.
Rajasinghe afferrò l'anello con cautela, e poi quasi lo lasciò cadere. Perché sembrava vivo; si tendeva verso Morgan, o per meglio dire verso la scatola che l'ingegnere stringeva in mano. Poi dalla scatola uscì un ronzio smorzato, e Rajasinghe sentì che il suo dito veniva spinto in avanti da una forza misteriosa. Magnetismo?, si chiese. Ovviamente no; nessun magnete poteva agire a quel modo. La sua prima teoria, per quanto improbabile, era esatta; non esistevano proprio altre spiegazioni. Fra loro due si stava svolgendo un tiro alla fune in piena regola, "ma con una corda invisibile".
Per quanto si sforzasse, Rajasinghe non vedeva traccia di fili o altro che collegassero l'anello a cui aveva agganciato il dito alla scatola che Morgan stava manovrando come un pescatore alle prese col mulinello. Tese l'altra mano per esplorare lo spazio intermedio che sembrava vuoto, ma l'ingegnere l'allontanò bruscamente.
— Scusate — disse. — Ci provano tutti, quando capiscono cosa succede. Potreste ferirvi molto seriamente.
— Allora avete un filo invisibile. Bello… Ma a che serve, a parte per questi giochi?
Morgan gli rivolse un sorriso enorme. — Non posso biasimarvi per essere saltato a questa conclusione. È la reazione più normale. Ma siete in errore. Se non vedete il filo è perché ha un diametro di soli pochi micron. È molto più sottile di una ragnatela.
Per una volta, pensò Rajasinghe, quella frase logora era più che giustificata. — È… incredibile. Che cos'è?
— Il risultato di circa duecento anni di ricerche sui materiali a stato solido. Se vogliamo essere più precisi, si tratta di un cristallo di diamante continuo pseudo-mono-dimensionale, però non è carbonio puro. Ci sono diversi oligoelementi in quantità accuratamente controllata. Può essere prodotto in serie solo sulle stazioni orbitanti, dove la gravità non interferisce col processo di crescita.
— Affascinante — mormorò Rajasinghe, quasi fra sé. Diede qualche colpetto all'anello attorno al suo dito, per assicurarsi che la tensione fosse ancora presente, che non si trattasse di un'allucinazione. — Capisco che potrebbe avere un'infinità di applicazioni pratiche. Sarebbe uno strumento splendido per tagliare il formaggio…
Morgan rise. — Con questo si può abbattere da soli un albero, in un paio di minuti. Ma non è facile maneggiarlo, ed è pericoloso. Abbiamo dovuto costruire apparecchi speciali per arrotolarlo e srotolarlo. Li chiamiamo "filiere". Questa va a batteria ed è stata costruita per le dimostrazioni. Il motore può sollevare fino a duecento chili, e io ne scopro sempre nuovi usi. La modesta esibizione di oggi non era la prima, fra l'altro.
Quasi riluttante, Rajasinghe tolse il dito dall'anello. L'anello cominciò a cadere, poi si mise a penzolare avanti e indietro come sospeso nel vuoto. Morgan schiacciò un bottone, e con un ronzio delicato il filo rientrò nella filiera.
— Non sarete venuto fin qui, dottor Morgan, solo per impressionarmi con quest'ultima meraviglia della scienza… Per quanto io sia impressionato. Voglio sapere cosa c'entro io in questa faccenda.
— C'entrate moltissimo, signor ambasciatore — rispose l'ingegnere, fattosi improvvisamente serio e formale come Rajasinghe. — Avete perfettamente ragione a pensare che questo materiale possa avere molte appplicazioni pratiche, alcune delle quali stiamo appena cominciando a intravedere. E una di queste applicazioni, nel bene o nel male, farà della vostra pacifica isoletta il centro del mondo. No, non solo del mondo. Dell'intero sistema solare. Grazie a questo filamento, Taprobane sarà il punto di partenza verso tutti i pianeti. E un giorno, forse, verso le stelle.
Paul e Maxine erano due dei suoi amici migliori e di più antica data. Eppure fino a quel momento non si erano mai incontrati, e nemmeno, per quanto risultava a Rajasinghe, erano mai entrati in contatto. Non ne avevano motivo. Oltre i confini di Taprobane nessuno aveva mai sentito parlare del professor Sarath, ma l'intero sistema solare avrebbe riconosciuto all'istante il volto o la voce di Maxine Duval.
I suoi due ospiti erano adagiati nelle comode poltrone reclinabili della biblioteca, mentre Rajasinghe sedeva dietro il terminale principale della villa. Tutti e tre fissavano la quarta figura, che era immobile.
Troppo immobile. Un visitatore giunto dal passato, ignaro dei miracoli quotidiani dell'elettronica, dopo qualche secondo avrebbe forse deciso di avere di fronte una statua di cera superbamente minuziosa. Però un esame più ravvicinato avrebbe svelato due fatti sconcertanti. La "statua" era trasparente al punto che attraverso il suo corpo si potevano vedere i lampadari; e, a pochi centimetri dal tappeto, i suoi piedi diventavano sfuocati.
— Riconoscete quest'uomo? — chiese Rajasinghe.
— Non l'ho mai visto in vita mia — rispose subito Sarath. — Sarà meglio che sia un uomo importante, perché mi hai fatto scappare via da Maharamba. Stavamo per aprire la sala delle reliquie.
— Io ho dovuto abbandonare il mio trimarano all'inizio delle gare sul lago Saladino — disse Maxine Duval. La sua famosa voce di contralto conteneva quel tanto d'irritazione sufficiente a gelare una persona meno coriacea del professor Sarath. — E lo conosco, è ovvio. Vuole costruire un ponte da Taprobane all'Indostan?
Rajasinghe rise. — No. Sono due secoli che abbiamo una strada rialzata perfettamente funzionale. E mi spiace di avervi trascinati qui tutti e due… Anche se tu, Maxine, prometti da vent'anni di venire.
— Vero — sospirò lei. — Ma devo passare così tanto tempo nel mio studio che a volte dimentico che fuori esiste un mondo vero, occupato da circa cinquemila cari amici e cinquanta milioni di conoscenti intimi.
— In quale categoria faresti rientrare il dottor Morgan?
— L'ho incontrato… Oh, tre o quattro volte. Gli abbiamo fatto un'intervista al termine della costruzione del Ponte. È un tipo straordinario.
Detto da Maxine Duval, pensò Rajasinghe, quello era un complimento eccezionale. Per oltre trent'anni lei era stata forse la professionista più rispettata nel suo difficile campo, e si era meritata tutti gli onori che potevano offrirle. Il primo Pulitzer, il trofeo Global Times, il premio David Frost erano appena la punta dell'iceberg. E solo di recente era tornata al professionismo attivo, dopo due anni trascorsi alla Columbia University come insegnante di nuove tecnologie applicate al giornalismo.
Tutto questo l'aveva un po' addolcita, senza compromettere il suo entusiasmo. Non era più la sciovinista, a volte crudele, che una volta aveva detto: — Visto che le donne sono così brave a fare figli, probabilmente la natura avrà dato agli uomini qualche talento per compensare il dislivello. Ma per ora non me ne viene in mente nessuno. — Ad ogni modo, di recente aveva messo nell'imbarazzo un povero moderatore affermando: — Sono una giornalista "donna", maledizione, non uno scribacchino.
Sulla sua femminilità non erano mai esistiti dubbi. Si era sposata quattro volte, e andava famosa per le scelte dei REM. A prescindere dal sesso, i Remoti erano sempre giovani e atletici, in modo da potersi muovere con la massima agilità nonostante l'ingombro delle apparecchiature, che potevano pesare fino a venti chili. Quelli di Maxine Duval, immancabilmente, erano molto maschi e molto belli. Nell'ambiente si diceva, scherzando, che tutti i suoi Remoti erano anche montoni. La battuta era assolutamente priva di rancore, perché anche i più accesi rivali amavano Maxine quasi quanto l'invidiavano.
— Mi spiace per le tue gare — disse Rajasinghe — ma vedo che "Marlin III" ha vinto con estrema facilità anche senza di te. Penso ammetterai che questa faccenda è molto più importante… Ma diamo la parola a Morgan.
Schiacciò il bottone di "pausa" del proiettore, e la statua immobile riacquistò immediatamente vita.
— Mi chiamo Morgan. Sono ingegnere capo della Divisione Terra della Terran Construction. I mio ultimo progetto è stato il ponte di Gibilterra. Adesso voglio parlarvi di qualcosa d'infinitamente più ambizioso.
Rajasinghe lanciò un'occhiata nella stanza. Morgan li aveva affascinati, come si aspettava.
Si appoggiò all'indietro sulla poltrona e attese di sentir esporre quel progetto ormai familiare, per quanto incredibile. Strano, si disse, come si faccia in fretta ad accettare le regole della proiezione, ignorando gli errori anche grossolani dei comandi Inclinazione e Livello. Persino il fatto che Morgan "si muovesse" pur restando nello stesso punto, e la prospettiva completamente falsa del paesaggio esteriore, non riuscivano a distruggere il senso di realtà.
— L'era spaziale ha quasi duecento anni. Per oltre metà di questo periodo, la nostra civiltà è dipesa in modo pressoché totale dall'insieme di satelliti che orbitano attorno alla Terra. Comunicazioni mondiali, previsione e controllo del tempo, riserve terrestri e marine di mezzi, servizi postali e d'informazione: se dovesse succedere qualcosa ai meccanismi che controllano tutto questo dallo spazio, precipiteremmo in epoche oscure. Durante il caos che ne risulterebbe, malattie e carestie distruggerebbero gran parte della razza umana.
"E guardando oltre la Terra, ora che abbiamo colonie autonome su Marte, su Mercurio e sulla Luna e che siamo in grodo di estrarre le incalcolabili ricchezze degli asteroidi, vediamo l'inizio di un vero commercio interplanetario. Anche se ci è voluto un po' più di tempo di quanto non prevedessero gli ottimisti, è ormai ovvio che la conquista dell'aria era solo un modesto preludio alla conquista dello spazio.
"Ma oggi ci troviamo di fronte a un problema fondamentale, un ostacolo che si frappone a ogni progresso futuro. Anche se generazioni di ricerche hanno fatto del missile la più sicura forma di propulsione mai inventata…"
— Hai pensato alle biciclette? — mormorò Sarath.
— …I veicoli spaziali sono ancora estremamente inefficienti. Quel che è peggio, il loro effetto sull'ambiente è tremendo. Nonostante tutti i tentativi di controllare i corridoi aerei, il frastuono dei decolli e dei rientri disturba milioni di persone. I prodotti di scarico abbandonati nelle zone più alte dell'atmosfera hanno scatenato mutamenti climatici che potrebbero produrre conseguenze molto serie. Tutti ricordano l'epidemia di cancro alla pelle degli anni Venti, causata da un'infiltrazione di raggi ultravioletti, e i costi astronomici dei prodotti chimici che furono necessari per ricostruire l'ozonosfera.
"Se estrapoliamo sino alla fine del secolo l'aumento del traffico spaziale, scopriamo che il tonnellaggio degli oggetti orbitanti attorno alla Terra deve aumentare quasi del cinquanta per cento. Il che non è possibile senza che i nostri standard di vita, forse la nostra stessa esistenza, paghino prezzi intollerabili. E non c'è niente che i costruttori di razzi possano fare: hanno praticamente raggiunto i limiti assoluti di perfezione, stabiliti dalle leggi della fisica.
"Qual è l'alternativa? Da secoli l'uomo sogna l'antigravità e la 'navigazione spaziale'. Nessuno ha mai portato la minima prova che cose del genere siano possibili; oggi riteniamo che si tratti solo di fantasie. Eppure, nello stesso decennio in cui veniva lanciato il primo satellite, un audace ingegnere russo concepì una tecnica che avrebbe reso obsoleti i missili. Ci sono voluti anni prima che qualcuno prendesse Yuri Artsutanov sul serio. Sono occorsi due secoli perché la nostra tecnologia giungesse all'altezza della sua visione."
Ogni volta che rivedeva la registrazione, Rajasinghe aveva l'impressione che a quel punto Morgan diventasse vivo davvero. Era facile capire il perché: adesso si trovava sul proprio terreno, non si affidava più a informazioni provenienti da altri campi. E, nonostante le riserve e i timori, Rajasinghe non poteva impedirsi di sentire almeno una parte del suo entusiasmo. Era una sensazione di cui ormai la sua esistenza godeva di rado.
— Uscite all'aperto in una notte chiara — continuò Morgan — e vedrete la meraviglia meno insolita dei nostri giorni: le stelle che non sorgono e non tramontano mai, che restano immobili in cielo. Noi, e i nostri genitori, e i loro genitori, diamo ormai per scontati i satelliti e le stazioni spaziali sincrone, che orbitano al di sopra dell'equatore alla stessa velocità di rotazione della Terra, per cui rimangono eternamente sospesi sullo stesso punto.
"La domanda che Artsutanov si pose aveva la fanciullesca freschezza del vero genio. Un uomo semplicemente intelligente non l'avrebbe mai formulata, oppure si sarebbe detto che era assurda e l'avrebbe respinta.
"Se le leggi della meccanica celeste fanno sì che un oggetto possa restare immobile in cielo, non si potrebbe far scendere sulla Terra, dalla sua superficie, un cavo, e costruire un sistema di elevatori che colleghino la Terra allo spazio?
"Non c'era niente di errato nella teoria, ma i problemi pratici erano enormi. I calcoli dimostrano che nessun materiale disponibile sarebbe stato abbastanza robusto. L'acciaio più resistente si sarebbe spezzato sotto il proprio peso molto prima di poter colmare i trentaseimila chilometri che corrono fra la Terra e l'orbita sincrona.
"Però nemmeno i più sofisticati tipi d'acciaio si avvicinavano lontanamente ai limiti teorici di resistenza. Su scala microscopica, in laboratorio erano stati creati materiali con resistenza infinitamente superiore. Se fosse stato possibile produrli su scala industriale il sogno di Artsutanov si sarebbe avverato, e la dinamica dei trasporti spaziali avrebbe subito un cambiamento radicale.
"Prima della fine del ventesimo secolo, dai laboratori cominciarono a uscire materiali super-resistenti, gli iperfilamenti. Ma erano terribilmente costosi, valevano un'infinità di volte il loro peso in oro. Per costruire una rete che potesse reggere tutto il traffico diretto verso la Terra ne erano necessari milioni di tonnellate, e così il sogno rimase un sogno.
"Sino a pochi mesi fa. Ora le fabbriche orbitanti possono produrre quantità praticamente illimitate di iperfilamento. Finalmente possiamo costruire l'Elevatore Spaziale, ovvero la Torre Orbitale, come preferisco chiamarla. Perché, in un certo senso, è una torre che si alza attraverso l'atmosfera e giunge molto, molto oltre…"
Morgan scomparve, come uno spettro improvvisamente esorcizzato. Venne sostituito da una Terra grande quanto un pallone da football, che ruotava lentamente su se stessa. Più alta d'un braccio del nostro pianeta, immobile sullo stesso punto al di sopra dell'equatore, una stella fulgida indicava la posizione d'un satellite sincrono.
Dalla stella partirono due sottili linee luminose: una diretta verso la Terra, l'altra esattamente in senso opposto, verso lo spazio.
— Quando si costruisce un ponte — continuò la voce senza corpo di Morgan — si comincia dalle due estremità e ci s'incontra a metà strada. Con la torre orbitale è esattamente il contrario. Bisogna costruire contemporaneamente verso l'alto e verso il basso, secondo un programma minuzioso, partendo dal satellite sincrono. Il trucco sta nel tenere sempre il centro di gravità della struttura bilanciato al punto stazionario; altrimenti la torre entrerà nell'orbita sbagliata e comincerà a girare lentamente attorno alla Terra.
La linea di luce che scendeva in basso raggiunse l'equatore. Nello stesso momento, si fermò anche la linea protesa nello spazio.
— L'altezza totale dev'essere almeno di quarantamila chilometri; e gli ultimi cento, quelli che scendono nell'atmosfera, potrebbero indubbiamente costituire il percorso più critico, perché la torre potrebbe essere soggetta agli uragani. Non sarà stabile finché non l'avremo saldamente ancorata al suolo.
"E allora, per la prima volta nella storia, avremo una scalinata per il paradiso, un ponte per le stelle. Un semplice sistema d'elevatori, alimentato dalla poco costosa elettricità, sostituirà i nostri razzi rumorosi e costosi, che saranno usati solo per il compito più adatto, e cioè per i trasporti nello spazio profondo. Eccovi uno dei possibili progetti per la torre orbitale…"
L'immagine della Terra svanì. La telecamera riprese in primo piano la torre, attraversò i muri per svelarne la struttura trasversale.
— Come vedete, consiste di quattro tubature identiche: due per il traffico che sale, due per il traffico che scende. Immaginate che sia una metropolitana o una ferrovia verticale, diretta dalla Terra all'orbita sincrona.
"Le capsule contenenti i passeggeri, il carico e il carburante correrebbero su e giù lungo le tubature a diverse migliaia di chilometri orari. Stazioni di alimentazione disposte a intervalli regolari fornirebbero tutta l'energia necessaria; e dato che di questa energia si potrebbe recuperare il novanta per cento, il costo netto per passeggero ammonterebbe a pochi dollari. Perché, quando le capsule torneranno verso la Terra, i loro motori funzioneranno come magneti-freni, generando elettricità. A differenza dei missili in rientro, non consumeranno tutta la loro energia per surriscaldare l'atmosfera e produrre esplosioni soniche: l'energia sarà ritrasferita al sistema. Si può anche dire che le capsule in discesa alimenteranno quelle in salita; per cui, tenendoci entro stime molto caute, la torre sarà cento volte più efficiente di ogni missile possibile.
"E praticamente non esistono limiti alla mole di traffico che potrebbe reggere, perché tubature nuove si possono aggiungere a seconda delle necessità. Se mai accadesse che un milione d'individui al giorno volesse visitare la Terra, o lasciarla, la torre orbitale potrebbe ospitarli. Dopo tutto, un tempo le metropolitane delle città più grandi hanno fatto altrettanto…"
Rajasinghe schiacciò un bottone, interrompendo Morgan a metà della frase.
— Il resto è tutta roba tecnica. Va avanti a spiegare che la torre può diventare una specie di fionda cosmica, per inviare materiali alla Luna e ai pianeti senza servirsi di un solo razzo. Ma credo che abbiate già visto abbastanza per afferrare l'idea.
— Il mio cervello è doverosamente ammirato — disse il professor Sarath. — Ma per tutti i numi, e anche gli altri, che cosa c'entro io? Oppure tu, a voler guardare?
— Tutto a tempo debito, Paul. Qualche commento, Maxine?
— Forse posso perdonarti. Questa potrebbe essere una delle notizie più colossali del decennio, o del secolo. Ma perché tanta fretta, per non parlare della segretezza?
— Stanno succedendo parecchie cose che io non capisco, ed è qui che tu puoi aiutarmi. Sospetto che Morgan stia portando avanti una battaglia su diversi fronti. Ha in mente di annunciare tutto al mondo in un futuro molto prossimo, ma non vuole esporsi prima di essere sicuro. Mi ha lasciato questa registrazione con la promessa che non fosse divulgata al pubblico. È per questo che ho dovuto far venire qui tutti e due.
— È al corrente del nostro incontro?
— Certo. Anzi, si è dimostrato molto felice quando gli ho detto che volevo parlare con te, Maxine. È chiaro che ti stima e che vorrebbe averti come alleata. E per quanto riguarda te, Paul, gli ho assicurato che sei in grado di tenere un segreto fino a un massimo di sei giorni senza che ti venga l'apoplessia.
— Solo se mi offrono un ottimo motivo.
— Comincio a vedere la luce — disse Maxine Duval. — Ci sono diverse cose che mi hanno lasciata perplesa, e adesso hanno un po' di senso. Primo, questo è un progetto "spaziale". Morgan è ingegnere capo della Divisione "Terra".
— E allora?
— Proprio tu vieni a chiedermelo, tu, Johan! Pensa alle battaglie burocratiche quando i disegnatori di missili e le industrie aerospaziali ne sentiranno parlare! Imperi di miliardi di dollari barcolleranno, tanto per cominciare. Se non agisce con la massima cautela, Morgan si sentirà dire: "Grazie tante. Adesso ci pensiamo noi. Lieti di avervi conosciuto".
— Ti capisco, ma è in una botte di ferro. Dopo tutto la torre orbitante è un edificio, non un veicolo.
— Ma non lo sarà più dopo essere passata in mano agli avvocati. Non esistono molti edifici i cui piani superiori viaggino a dieci chilometri al secondo, o quello che è, molto più in fretta delle fondamenta.
— Potresti aver ragione. Fra parentesi, quando ho sentito i sintomi della vertigine all'idea di una torre che arriva quasi alla Luna, il dottor Morgan ha detto: "Allora provate a immaginare che non sia una torre che va in su, ma che sia semplicemente un ponte proteso in fuori". Ci sto ancora provando, senza troppo successo.
— Oh! — esclamò improvvisamente Maxine Duval. — Ecco un altro pezzo del tuo puzzle. Il Ponte.
— Che vuoi dire?
— Lo sapevi che il presidente della Terran Construction, quell'asino presuntuoso del senatore Collins, voleva dare il suo nome al ponte di Gibilterra?
— No, e questo spiega diverse cose. Ma Collins non mi dispiace. Le poche volte che ci siamo incontrati l'ho trovato molto gentile e molto intelligente. Ai suoi tempi non ha fatto studi geotermici di prima qualità?
— Saranno passati cento anni. E tu non rappresenti certamente una minaccia per la sua reputazione. Con te può anche essere gentile.
— Come mai il Ponte è scampato al destino?
— C'è stata una lieve congiura di palazzo fra i dirigenti della Terran Construction. Naturalmente il dottor Morgan non c'entrava per niente.
— Ecco perché non vuole scoprire le sue carte! Lo ammiro sempre di più. Ma adesso è andato a sbattere contro un ostacolo che non riesce a superare. Lo ha scoperto solo pochi giorni fa, e tutto il suo lavoro si è fermato.
— Lasciami indovinare — disse Maxine. — Mi serve a tenermi in allenamento, a non farmi superare dagli altri. Posso capire perché è venuto qui. La base terrestre del suo sistema d'ascensori deve trovarsi sull'equatore, altrimenti non sarebbe verticale. Diventerebbe un po' come quella torre di Pisa prima che cadesse.
— Non capisco… — disse il professor Sarath, agitando le braccia in su e in giù. — Oh, è ovvio… — La sua voce si spense in un silenzio meditabondo.
— Ora — continuò Maxine — sull'equatore esiste solo un numero limitato di posizioni, perché è quasi tutto ricoperto dall'oceano, no?, e Taprobane è ovviamente una di queste posizioni. Anche se non riesco a capire quali vantaggi particolari offra rispetto all'Africa o al Sudamerica. Oppure Morgan sta prendendo in considerazione tutte le possibilità?
— Come al solito, mia cara Maxine, le tue capacità deduttive sono fenomenali. Hai imboccato la pista giusta, ma non puoi andare oltre. Per quanto Morgan abbia fatto del suo meglio per spiegarmi il problema, non pretendo di comprenderne tutti i risvolti scientifici. Ad ogni modo risulta che l'Africa e il Sudamerica non sono adatti per l'elevatore spaziale. È questione di punti instabili all'interno del campo gravitazionale terrestre. Solo Taprobane è adatta. Peggio ancora, solo una certa località di Taprobane. Ed è qui, Paul, che tu entri in scena.
— Mamada? — esclamò il professor Sarath, che la sorpresa e l'indignazione riportarono al taprobani.
— Sì, tu. Il dottor Morgan ha appena scoperto, con estremo turbamento, che la località di cui ha "assoluto" bisogno è già occupata, se così vogliamo dire. Vuole che io lo consigli su come far sloggiare il tuo buon amico Buddy.
Adesso era Maxine a sentirsi perplessa. — Chi? — disse.
Sarath rispose immediatamente. — Il Venerabile Anandatissa Bodhidharma Manhayake Thero, reggitore del tempio di Sri Kanda — intonò, come se stesse cantando una litania. — Allora è questo il nocciolo della faccenda.
Per un attimo ci fu silenzio. Poi un'espressione di perfida delizia allo stato puro apparve sulla faccia di Paul Sarath, professore emerito d'archeologia dell'università di Taprobane.
— Ho sempre desiderato — disse con aria sognante — sapere cosa accade esattamente quando una forza irresistibile si scontra con un oggetto inamovibile.
Quando gli ospiti se ne furono andati, Rajasinghe, estremamente pensieroso, depolarizzò la finestra della biblioteca e rimase per molto tempo a fissare gli alberi attorno alla villa, e le pareti rocciose di Yakkagala che sorgevano più lontane. Non si era ancora mosso quando, esattamente al rintocco delle quattro, l'arrivo del tè del pomeriggio lo riscosse dalle sue fantasticherie.
— Rani — disse — chiedi a Dravindra di tirare fuori i miei scarponi pesanti, se riesce a trovarli. Voglio andare sulla Montagna.
Rani, sorpresa, finse di lasciar cadere il vassoio.
— Aiyo, Mahathaya! — cantilenò in tono funebre. — Dovete essere impazzito. Ricordate quello che vi ha detto il dottor McPherson…
— Quell'idiota di scozzese guarda sempre i miei cardiogrammi al contrario. Ad ogni modo, mia cara, per cosa dovrei vivere quando tu e Dravindra mi avrete lasciato?
Non diceva solo per scherzo, e si pentì immediatamente di tanta autocommiserazione. Rani se ne accorse, e i suoi occhi si riempirono di lacrime.
La ragazza si girò, per nascondere la sua emozione, e disse in inglese: — Mi ero offerta di restare, almeno per il primo anno di Dravindra…
— Lo so, e non accetterei mai. A meno che Berkeley sia cambiata dall'ultima volta che ci sono stato, avrà bisogno di te. — "Non più di quanto ne abbia bisogno io, anche se in modo diverso" pensò fra sé. — E poi, a prescindere dal fatto che tu prenda o no la laurea, non è mai troppo presto per imparare a essere la moglie di un preside di facoltà.
Rani sorrise. — Non so se si tratta di un destino tanto piacevole, a giudicare da alcuni orribili esempi che conosco. — Riprese a parlare in taprobani. — Non dite davvero sul serio, eh?
— Sono serissimo. Non voglio arrivare alla cima, naturalmente; solo agli affreschi. Sono cinque anni che non salgo più lassù. Se aspetto ancora un po'… — Non c'era bisogno di terminare la frase.
Rani lo scrutò in silenzio per qualche secondo, poi decise che era inutile discutere.
— Ne parlerò a Dravindra — disse. — E a Jaya… Nel caso dovessero riportarvi indietro.
— Benissimo. Comunque sono sicuro che Dravindra potrebbe cavarsela da solo.
Rani gli dedicò un sorriso felice, in cui si mescolavano orgoglio e contentezza. Loro due, pensò lui dolcemente, erano stati la miglior scommessa vinta al banco della lotteria di stato; e sperava che quei due anni passati al suo servizio fossero stati gradevoli per loro quanto lo erano stati per lui. In quell'epoca, la servitù era il più raro dei lussi, concesso unicamente a uomini dai meriti straordinari. Rajasinghe non conosceva nessun altro civile che possedesse tre persone addette alla sua cura.
Per risparmiare le forze, nei Giardini del Piacere si servì di un triciclo a energia solare. Dravindra e Jaya scelsero di procedere a piedi, sostenendo che si faceva prima (il che era vero, però loro riuscivano a percorrere le scorciatoie). Poi salì molto lentamente, fermandosi diverse volte a riprendere fiato, finché non ebbe raggiunto il lungo corridoio della Galleria Inferiore, dove la Parete a specchi correva parallela alla faccia della Montagna.
Osservata dai soliti turisti curiosi, una giovane archeologa proveniente da una delle nazioni africane scrutava la parete in cerca d'iscrizioni, aiutandosi con una potente torcia obliqua. Rajasinghe fu sul punto d'avvertirla che le probabilità di fare una scoperta nuova erano praticamente zero. Paul Sarath aveva trascorso vent'anni a studiare ogni millimetro quadrato delle pareti, e i suoi "Graffiti di Yakkagala" in tre volumi erano un lavoro superbo, insuperabile, se non altro perché non sarebbe mai esistito un altro uomo capace di leggere con altrettanta abilità le iscrizioni in taprobani arcaico. Erano tutti e due giovani, quando Paul aveva iniziato il lavoro della sua vita. Rajasinghe ricordava ancora il momento in cui si trovava in quel medesimo punto, e l'allora vice-assistente epigrafista del Dipartimento d'Archeologia aveva scoperto le iscrizioni quasi indecifrabili sul gesso giallo e aveva tradotto i poemi dedicati alle bellissime donne dipinte sulla roccia. Dopo tanti secoli, quei versi facevano ancora vibrare qualcosa nel cuore di chi li leggeva:
Io sono Tissa,
Capitano della Guardia.
Ho percorso cinquanta leghe
per vedere le creature
dagli occhi di daina,
Ma loro non mi hanno parlato.
È bontà questa?
Che voi possiate rimanere qui
per mille anni,
come la lepre che il Re degli Dèi
ha dipinto sulla Luna.
Io sono il sacerdote Mahinda
del vihara di Tuparama.
Quella speranza era stata in parte esaudita, in parte no. Le signore della montagna erano lì da un periodo di tempo doppio di quello immaginato dal sacerdote, erano sopravvissute sino a un'epoca al di là dei suoi sogni più sfrenati. Ma come si erano ridotte in poche! Alcune iscrizioni parlavano di "cinquecento vergini dalla pelle dorata". Anche tenuto conto di considerevoli licenze poetiche, era chiaro che nemmeno un decimo degli affreschi originali era sfuggito alla furia del tempo o alla malevolenza dell'uomo. Ma le venti sopravvissute erano in salvo per sempre: la loro bellezza era riprodotta in innumerevoli pellicole e nastri e cristalli.
La loro fama aveva superato quella di uno scriba orgoglioso, che aveva ritenuto del tutto superfluo specificare il proprio nome:
Ho ordinato che la via
fosse sgombrata, cosicché
i pellegrini possano vedere
le meravigliose vergini
sul fianco della montagna.
Io sono il Re.
Nel corso degli anni, Rajasinghe (che portava un nome regale, e che senza dubbio ospitava molti geni regali) aveva pensato spesso a quelle parole: dimostravano in modo perfetto la natura effimera del potere, e la futilità dell'ambizione. "Io sono il Re." Ah, ma "quale" re? Il monarca che aveva calcato quel lastricato di granito quando era ancora quasi nuovo, milleottocento anni prima, era probabilmente un uomo capace e intelligente; ma non era riuscito a capire che un giorno anche lui sarebbe sprofondato nell'anonimato totale, come il più umile dei suoi sudditi. Ormai era del tutto impossibile identificarlo. Almeno una dozzina di re potevano aver scritto quelle frasi orgogliose: alcuni avevano regnato per anni, altri solo per settimane, e pochissimi erano morti tranquillamente nel loro letto. Nessuno avrebbe mai saputo se il re che aveva ritenuto superfluo firmarsi era Mahatissa II, o Bhatikabhaya, o Vijayakumara III, o Gajabahukagamani, o Candamukhasiva, o Moggallana I, o Kittisena, o Sirisamghabodhi… o qualche altro monarca che la lunga e complessa storia di Taprobane non registrava nemmeno.
L'inserviente addetto al piccolo ascensore rimase sorpreso davanti a quell'illustre turista, e salutò Rajasinghe con deferenza. Mentre la cabina lo trasportava quindici metri più in alto, lui ricordò i tempi in cui dalla scalinata a spirale osservava con disprezzo l'ascensore. Adesso erano Dravindra e Jaya, nella spensierata esuberanza della gioventù, a salire per quella scalinata.
L'ascensore si fermò e lui scese sulla piccola piattaforma d'acciaio, costruita in fuori rispetto alla parete della montagna. Sotto e dietro di lui si stendevano un centinaio di metri di spazio vuoto, ma la robusta rete di fili metallici assicurava tutta la protezione necessaria. Nemmeno il suicida più deciso avrebbe potuto sfuggire alla gabbia, abbastanza grande da contenere dodici persone, che pendeva dalla sporgenza rocciosa a forma di onda marina.
Lì, in quel rientro creato dal destino, dove la parete formava un'insenatura modesta che proteggeva gli affreschi dagli elementi, vivevano le creature superstiti della corte celeste del Re. Rajasinghe le salutò in silenzio, poi fu ben lieto di accomodarsi sulla sedia che gli offrì la guardia ufficiale.
— Vorrei essere lasciato in pace per dieci minuti — disse piano. — Jaya, Dravindra, vedete se riuscite a portare via i turisti.
I due amici gli lanciarono un'occhiata dubbiosa; e anche la guardia, che non avrebbe mai dovuto abbandonare gli affreschi. Ma, come sempre, l'ambasciatore Rajasinghe arrivò allo scopo, e senza nemmeno dover alzare la voce.
— Ayu bowan — salutò le figure, quando fu finalmente solo. — Mi duole di avervi trascurato per tanto tempo.
Rimase cortesemente in attesa d'una risposta, ma loro non gli prestarono più attenzione di quanta ne avessero riservata ad altri ammiratori negli ultimi venti secoli. Rajasinghe non si lasciò scoraggiare; era abituato alla loro indifferenza. Non faceva che aumentare il loro fascino.
— Ho un problema, mie care — proseguì. — Voi avete visto giungere e ripartire tutti gli invasori di Taprobane sin dal tempo di Kalidas. Avete visto la giungla avanzare come la marea attorno a Yakkagala, e poi ritrarsi davanti alle scuri e agli aratri. Ma in tutti questi anni non è mutato niente di sostanziale. La Natura e la Storia sono state gentili con Taprobane, non l'hanno disturbata…
"Ora può darsi che i secoli di pace stiano per finire. La nostra terra potrebbe diventare il centro del mondo, di molti mondi. La grande montagna a sud che voi osservate da tanto tempo potrebbe essere la chiave dell'universo. Se così è, la Taprobane che conoscevamo e amavamo non esisterà più.
"Forse io non posso fare molto… Però ho un certo potere, e posso aiutare o ostacolare. Ho ancora molti amici. Se volessi, potrei ritardare questo sogno (oppure è un incubo?) almeno fino al giorno della mia morte. Devo farlo? Oppure devo aiutare quest'uomo, a prescindere dai suoi veri motivi?"
Si girò verso la sua favorita, l'unica che non allontanava gli occhi quando la guardava. Tutte le altre vergini fissavano lontano, oppure scrutavano i fiori che reggevano in mano; ma la donna che lui aveva amato fin da giovane sembrava, da un certo angolo, raccogliere il suo sguardo.
— Ah, Karuna! Non è giusto che io ti faccia domande del genere. Cosa puoi saperne tu dei veri mondi oltre il cielo, o del hisogno che gli uomini provano di raggiungerli? Anche se un tempo tu sei stata una dea, il paradiso di Kalidas era solo un'illusione. Comunque tu vedi strani futuri che io non dividerò con te. Ci conosciamo da molto tempo, stando ai miei calcoli, se non ai tuoi. Finché mi sarà possibile ti guarderò dalla villa, ma non penso che potremo incontrarci ancora. Addio… E grazie a voi tutte, magnifiche vergini, per il piacere che mi avete regalato negli anni. Porgete i miei saluti a coloro che verranno dopo di me.
Eppure, mentre scendeva per le scale sdegnando l'ascensore, Rajasinghe non si sentiva affatto in vena d'addii. Anzi, gli sembrava di essersi scrollato di dosso qualche anno (e, dopo tutto, settantadue non erano poi troppi). Dravindra e Jaya, a giudicare dalla felicità dipinta sulle loro facce, dovevano essersi accorti dell'ardore giovanile dei suoi passi.
Forse negli ultimi tempi la vita si era fatta un po' monotona. Forse sia lui che Taprobane avevano bisogno d'una boccata d'aria fresca per spazzare via le ragnatele, proprio come i monsoni portavano nuova vita dopo tanti mesi di cieli torbidi, immobili.
Che Morgan ce la facesse o no, la sua impresa accendeva l'immaginazione e rimescolava l'animo. Kalidas lo avrebbe ammirato, e approvato.