PARTE SECONDA IL TEMPIO

"Le diverse religioni lottano l'una con l'altra per decidere chi sia in possesso della verità, ma dal nostro punto di vista non è importante la verità della religione… Se si cerca di attribuire alla religione un posto nell'evoluzione dell'uomo, sembra trattarsi non tanto di un'acquisizione perenne, quanto di un parallelo alle nevrosi che l'individuo civilizzato deve superare passando dall'infanzia alla maturità."

(Freud: Nuove letture introduttive alla psicanalisi, 1932)


"È ovvio che l'uomo ha costruito Dio a propria immagine e somiglianza; ma quali alternative aveva? Come era impossibile una vera scienza della geologia prima che riuscissimo a studiare altri mondi oltre la Terra, così una teologia valida doveva attendere il contatto con intelligenze extraterrestri. Non può esistere un campo di studio delle religioni comparate, finché ci limiteremo a studiare le religioni dell'uomo."

(El Hadj Mohammed ben Selim, professore di religioni comparate: Discorso inaugurale all'anno accademico 1998/99, Brigham Young University)


"Dobbiamo attendere, non senza ansietà, le risposte alle seguenti domande: a) Quali sono, ammesso che esistano, i concetti religiosi di entità con zero, uno, due, o più di due 'genitori'? b) La fede religiosa si rintraccia solo in seno a organismi che abbiano un contatto continuo coi loro progenitori diretti durante gli anni di formazione?

"Se scoprissimo che la religione nasce esclusivamente fra i corrispettivi intelligenti di scimmie, delfini, elefanti, cani, eccetera, ma non fra computer, termiti, pesci, tartarughe o amebe extraterrestri, dovremmo trarre alcune penose conclusioni… Forse sia l'amore che la religione possono nascere solo tra i mammiferi, e per ragioni molto simili. Il che è anche suggerito da uno studio delle loro patologie. Chiunque dubiti dei legami che corrono tra fanatismo religioso e perversione dovrebbe studiarsi a lungo, e a fondo, il 'Malleus Malleficarum' oppure 'I diavoli di Loudon' di Huxley."

(Ibidem)


"La nota constatazione del dottor Charles Willis (Hawaii, 1970) che 'la religione è un prodotto collaterale della malnutrizione' non è, di per sé, molto più utile della replica, un tantino indelicata, di Gregory Bateson. Praticamente, quello che il dottor Willis voleva dire è che: a) le allucinazioni causate dal digiuno volontario o involontario vengono facilmente interpretate come visioni religiose; b) la fame in 'questa' vita incoraggia la fede in un aldilà compensatorio, grazie a un meccanismo psicologico di sopravvivenza, forse essenziale…

"… Certo è un'ironia del fato che la ricerca con le cosiddette 'droghe che espandono la coscienza' abbia dimostrato che esse facevano esattamente il contrario, conducendoci alla scoperta delle reazioni chimiche 'apotetiche' che avvengono automaticamente nel cervello. Lo scoprire che i più devoti sostenitori di ogni fede potevano essere convertiti a qualsiasi altro credo grazie a una giudiziosa dose di 2-4-7 orto-parateosamina è stato, forse, il colpo più terribile mai ricevuto dalla religione.

"Naturalmente, fino all'arrivo di Stellaplano…"

(R. Gabor: Le basi farmacologiche della religione, Miskatonic University Press, 2069)

12 Stellaplano

Da cento anni si attendeva qualcosa del genere, e c'erano stati molti falsi allarmi. Eppure, quando finalmente accadde, la razza fu colta di sorpresa.

Il segnale radio proveniente dalla direzione di Alpha Centauri era così potente che dapprima venne giudicato un'interferenza sui normali canali commerciali. La cosa creò molto imbarazzo a tutti i radio-astronomi che, per tanti decenni, avevano atteso segnali intelligenti dallo spazio; soprattutto dal momento che avevano smesso da un pezzo di prendere in seria considerazione il sistema triplo di Alpha, Beta e Proxima Centauri.

D'un colpo, ogni radiotelescopio in grado di scrutare l'emisfero sud venne puntato su Centaurus. Nel giro di poche ore si fece una scoperta ancora più sensazionale. Il segnale non proveniva affatto dal sistema del Centauro, bensì da un punto lontano mezzo grado. "E si spostava."

Fu quello il primo indizio di verità. Quando venne confermato, tutte le normali attività del genere umano s'interruppero.

La forza del segnale non era più così sorprendente. La fonte si trovava ormai all'interno del sistema solare, e si spostava verso il Sole di seicento chilometri al secondo. Finalmente erano giunti i visitatori dallo spazio, attesi e temuti da tanto tempo…

Per trenta giorni, mentre oltrepassava i pianeti esterni, l'intruso non fece altro che trasmettere una serie di segnali che si limitavano ad annunciare: — Eccomi qui! — Non tentò di rispondere ai segnali che gli venivano indirizzati, e non modificò per niente la sua orbita naturale, simile a quella di una cometa. A meno che non avesse decelerato da una velocità molto più elevata, il suo viaggio dalla costellazione del Centauro doveva essere durato duemila anni. Qualcuno trovò rassicurante l'idea, poiché lasciava supporre si trattasse di una sonda spaziale; altri si sentirono delusi, convinti com'erano che l'assenza di veri extraterrestri in carne e ossa togliesse solennità al momento.

Si discusse fino alla nausea, dell'intero spettro di possibilità in tutti i mezzi di comunicazioni di massa, in ogni consesso umano. Tutte le trame usate dalla fantascienza, dall'arrivo di dèi benevoli a un'invasione di vampiri assetati di sangue, furono recuperate e analizzate con cura. I Lloyds di Londra raccolsero cifre non indifferenti da persone che si assicuravano contro ogni possibile futuro, compresi alcuni futuri in cui sarebbe stato praticamente impossibile incassare un centesimo.

Poi, quando la nave aliena oltrepassò l'orbita di Giove, gli strumenti umani cominciarono a imparare qualcosa sul suo conto. La prima scoperta creò un panico di breve durata: l'oggetto aveva un diametro di cinquecento chilometri, le stesse dimensioni d'una piccola Luna. Forse, dopo tutto, era davvero un pianeta mobile che portava un esercito d'invasori…

Quella paura scomparve quando rilevamenti più precisi mostrarono che il diametro effettivo del corpo estraneo era di soli pochi metri. L'alone di cinquecento chilometri che lo circondava era qualcosa di molto familiare: un riflettore parabolico sottilissimo che girava lentamente su se stesso, l'esatto equivalente dei radiotelescopi orbitanti degli astronomi terrestri. Probabilmente era l'antenna con cui il visitatore si teneva in contatto con la base lontana. E in quello stesso momento, senza dubbio, trasmetteva attraverso quell'antenna le sue scoperte, scrutando il sistema solare e registrando tutte le trasmissioni radio, TV e computer del genere umano.

Poi giunse un'altra sorpresa. L'antenna con le dimensioni d'un asteroide non era puntata in direzione di Alpha Centauri, ma verso un altro settore celeste. Si fece strada l'idea che il sistema del Centauro fosse solo l'ultimo scalo del veicolo, non il punto da cui era partito.

Gli astronomi stavano ancora meditando su quei dati quando capitò loro un caso molto fortunato. Una sonda solare in missione di normale amministrazione oltre Marte diventò improvvisamente muta, poi ricominciò a inviare segnali radio dopo un minuto. Esaminando le registrazioni si scoprì che gli strumenti erano rimasti momentaneamente paralizzati da intense radiazioni. La sonda era entrata nel raggio d'azione delle onde della nave aliena; dopodiché fu semplicissimo calcolare la loro esatta provenienza.

In quella direzione non esisteva niente per cinquantadue anni luce, tranne una stella nana rossa, debolissima e presumibilmente antichissima, uno di quei minuscoli soli che avrebbero tranquillamente continuato a brillare miliardi di anni dopo l'estinzione delle più fantastiche stelle giganti della galassia. Nessun radiotelescopio l'aveva mai esaminata a fondo; ora tutti quelli che non scrutavano il visitatore sempre più vicino si puntarono sulla sua sospetta origine.

E lo scoprirono: un segnale chiarissimo, nella banda di un centimetro. I costruttori erano ancora in contatto con la nave che avevano lanciato migliaia di anni prima; ma i messaggi che doveva ricevere "in quel momento " erano vecchi solo di mezzo secolo.

Poi, quando raggiunse l'orbita di Marte, il visitatore diede finalmente segno di essersi accorto della presenza dell'umanità, nel modo più clamoroso e indiscutibile che si potesse immaginare. Cominciò a trasmettere immagini televisive sulla frequenza standard 3075, alternate a videotesti in inglese e cinese fluenti, anche se un po' ampollosi. Era iniziata la prima conversazione cosmica; e l'intervallo fra domanda e risposta non era, come tutti avevano immaginato, di decenni ma solo di minuti.

13 L'ombra dell'alba

Morgan era uscito dall'hotel di Ranapur alle quattro di una notte chiara, senza luna. L'ora non lo rendeva particolarmente felice, ma il professor Sarath, che aveva preso tutti gli accordi, gli aveva promesso che ne valeva la pena. — Non potete capire niente di Sri Kanda — gli aveva detto — se non vedete l'alba dalla sommità della montagna. E Buddy, voglio dire il Maha Thero, non riceve visite a orari diversi. Dice che è un modo meraviglioso per scoraggiare le persone semplicemente curiose. — Per cui Morgan aveva accettato con tutta la buonagrazia possibile.

Per peggiorare ulteriormente le cose, l'autista, un indigeno di Taprobane, si era intestardito a condurre una specie di monologo interminabile, che a quanto sembrava aveva lo scopo di tracciare un profilo completo della personalità del passeggero. L'autista dimostrò una bontà talmente sincera che era impossibile offendersi, ma Morgan avrebbe preferito il silenzio.

E avrebbe anche desiderato, a volte con tutto il cuore, che l'autista facesse più attenzione alle curve a gomito che superavano al volo nella semi-oscurità. Forse era meglio che lui non vedesse tutte le sporgenze e i burroni che la macchina oltrepassava correndo verso l'alto. Quella strada era una gloria del genio militare del diciannovesimo secolo: opera dell'ultima potenza coloniale, era stata costruita durante la campagna contro i fieri montanari dell'interno. Ma non era mai stata predisposta per la guida automatica, e in certi momenti Morgan si chiese se sarebbe sopravvissuto al viaggio.

E poi, d'improvviso, scordò le sue paure e l'irritazione per le ore di sonno perso.

— Eccoci! — annunciò orgogliosamente l'autista, mentre la macchina girava attorno al fianco d'una collina.

Sri Kanda era completamente invisibile, in un'oscurità che non lasciava ancora intuire l'alba ormai vicina. La sua presenza era rivelata da un sottile nastro di luce che correva avanti e indietro, a zig-zag, sotto le stelle, sospeso in cielo come per magia. Morgan sapeva che quelle che vedeva erano solo lampade, sistemate lì duecento anni prima per guidare i pellegrini che salivano la più lunga scalinata del mondo; ma erano talmente in contrasto con la logica e con la gravità che gli parvero quasi un'anticipazione del suo sogno. Secoli prima della sua nascita, ispirati da filosofi che poteva appena immaginare, altri uomini avevano iniziato il lavoro che lui sperava di terminare. In senso molto letterale, avevano costruito i primi, rozzi scalini della strada che portava alle stelle.

Adesso Morgan non era più insonnolito. Scrutò la fila di luci che si facevano più vicine, che si trasformavano in una colonna di perle innumerevoli, brillanti. Anche la montagna cominciava a diventare visibile, era un triangolo nero che eclissava metà del cielo. Nella sua presenza silenziosa, enorme, c'era qualcosa di sinistro. A Morgan non era difficile immaginare che fosse la residenza di dèi che conoscevano la sua missione, e che raccoglievano le forze contro di lui.

Quei pensieri infausti gli uscirono di mente quando arrivarono alla stazione di partenza della funivia e Morgan, sorpreso (erano appena la cinque del mattino), scoprì che almeno un centinaio di persone si trovavano già nella minuscola sala d'attesa. Ordinò un delizioso caffè caldo per sé e per l'autista loquace che, per fortuna, gli lasciò capire di non voler affatto salire in alto. — Ci sono stato almeno venti volte — gli disse con una noia forse eccessiva. — Mi metterò a dormire in macchina finché non tornate giù.

Morgan acquistò il biglietto, fece rapidi calcoli, e stimò che sarebbe partito con la terza o quarta infornata di passeggeri. Era felice di aver seguito il consiglio di Sarath, infilandosi in tasca un termomantello: faceva già freddo a un'altezza di due soli chilometri. In cima, tre chilometri più su, probabilmente si congelava.

Mentre avanzava lungo la fila di turisti, tutti piuttosto tranquilli e addormentati, Morgan notò, divertito, di essere l'unico a non avere una cinepresa. Dove saranno i veri pellegrini?, si chiese. Poi ricordò: non li avrebbe trovati lì. Non esistevano scorciatoie per il paradiso, o per il Nirvana, o per quello che cercavano i fedeli. I meriti si conquistavano grazie ai propri sforzi, non con l'aiuto delle macchine. Una dottrina interessante, piena di verità; ma esistevano anche momenti in cui solo le macchine potevano servire.

Finalmente riuscì a sedere sulla funivia, che partì fra un notevole scricchiolio di cavi. Morgan si sentì di nuovo trascinato da quello strano senso d'eccitazione. L'elevatore che lui aveva in mente avrebbe trasportato più di mille volte il carico di quell'impianto primitivo, che probabilmente risaliva al ventesimo secolo. Eppure, tutto considerato, i princìpi basilari erano praticamente gli stessi.

All'esterno della funivia traballante si stendeva l'oscurità più totale, tranne quando diventava visibile una parte della scalinata illuminata. Che era completamente deserta, come se gli innumerevoli milioni di persone che l'avevano risalita durante gli ultimi tremila anni non avessero lasciato eredi. Ma poi Morgan capì che quelli che salivano a piedi dovevano già essere molto più in alto, pronti all'appuntamento con l'alba. Dovevano aver superato i primi contrafforti della montagna già da ore.

A quattro chilometri d'altezza i passeggeri dovettero scendere e percorrere il breve tratto che li divideva dalla stazione successiva, ma quel cambio di mezzi fece perdere poco tempo. Morgan era adesso felicissimo del mantello, e si avvolse stretto attorno al corpo il tessuto metallizzato. Il terreno era gelato, e l'atmosfera rarefatta gli rendeva più difficile del solito la respirazione. Non fu sorpreso di vedere file di bombole d'ossigeno nella piccola stazione, con le istruzioni per l'uso bene in vista.

E finalmente, mentre affrontavano l'ultima parte della salita, giunsero i primi segni dell'avvicinarsi del giorno. Le stelle a est risplendevano ancora in tutta la loro gloria, e Venere era la più brillante di tutte; ma all'approssimarsi dell'alba nuvole sottili, alte, cominciarono a splendere debolmente. Morgan osservò ansioso l'orologio e si chiese se sarebbe arrivato in tempo. Notò, con sollievo, che allo spuntare del giorno mancavano ancora trenta minuti.

D'improvviso uno dei passeggeri indicò l'immensa scalinata, di cui adesso poteva intravedere di tanto in tanto, sotto la funivia, qualche tratto che s'arrampicava a zig-zag lungo la montagna sempre più ripida. La scalinata non era più deserta: a una lentezza come di sogno, dozzine di uomini e donne salivano faticosamente lungo gli scalini interminabili. Ogni minuto il loro numero aumentava. Morgan si chiese da quante ore stessero salendo. Certo da tutta la notte, e forse da molto prima: parecchi dei pellegrini erano anziani, e in un giorno solo non ce l'avrebbero fatta. Lo sorprendeva scoprire quanta gente credesse ancora.

Un attimo dopo vide il primo monaco: una figura alta, in una tunica color zafferano, che si muoveva quasi con la stessa regolarità di un metronomo, senza guardare né a destra né a sinistra e ignorando completamente la funivia sospesa sopra il suo cranio rasato. Sembrava capace di ignorare anche gli elementi, perché il braccio e la spalla destra erano esposti, nudi, al vento gelido.

La funivia rallentò nei pressi della stazione d'arrivo, si fermò qualche minuto, scaricò i numerosi passeggeri, e s'incamminò verso la lunga discesa. Morgan si unì alla folla di due o trecento persone radunate in un piccolo anfiteatro, scavato nella parete ovest della montagna. Tenevano tutti lo sguardo puntato nel buio, anche se non c'era altro da vedere che le scie di luce che scendevano giù lungo l'abisso. Alcuni pellegrini in ritardo compivano l'ultimo sforzo sulla fine della scalinata, cercando di sconfiggere la fatica con la fede.

Morgan controllò di nuovo l'orologio: ancora dieci minuti. Non si era mai trovato fra così tanta gente silenziosa. Ormai, i turisti con le cineprese e i pellegrini più devoti erano uniti dalla stessa speranza. Il tempo era perfetto; presto avrebbero saputo se quel viaggio si era compiuto invano.

Dal tempio, ancora invisibile nelle tenebre a un centinaio di metri sopra di loro, venne un delicato tintinnio di campane; e contemporaneamente si spensero tutte le luci su quell'incredibile scalinata. Adesso, rivolti verso il sorgere del sole, potevano vedere i primi, deboli bagliori del giorno riflessi dalle nubi molto più in basso; ma la mole immensa della montagna frenava ancora l'alba.

Secondo per secondo la luce aumentava su tutti i lati di Sri Kanda, mentre il sole respingeva le ultime difese della notte. Poi, dalla folla in paziente attesa, uscì un mormorio basso di sorpresa.

Un attimo prima non c'era niente. Poi, d'improvviso, "era lì", si stendeva per metà della superficie di Taprobane: un triangolo perfettamente simmetrico, netto, di blu intensissimo. La montagna non aveva dimenticato i suoi adoratori; la sua ombra famosa si stagliava contro le nubi, un simbolo che ogni pellegrino poteva interpretare come desiderava.

In tanta perfezione di linee sembrava quasi solida, pareva una piramide capovolta, non un semplice disegno tracciato da luci e ombre. Mentre attorno all'ombra aumentava il chiarore, e i primi raggi del sole superavano i fianchi della montagna, il triangolo sembrò, per contrasto, farsi più scuro e più denso. Eppure, oltre il sottile strato di nubi responsabili della sua breve esistenza, Morgan intravedeva appena i laghi e le colline e le foreste della terra che si risvegliava.

Il vertice di quel triangolo etereo doveva corrergli incontro a una velocità spaventosa, mentre il sole si alzava verticalmente dietro le montagne, ma Morgan non si accorgeva di alcun movimento. Sembrava che il tempo si fosse fermato; era uno dei rari momenti della sua vita in cui non pensava allo scorrere dei minuti. Sul suo spirito incombeva l'ombra dell'eternità, esattamente come l'ombra della montagna incombeva sulle nubi.

Adesso tutto scompariva in fretta. Le tenebre si scioglievano in cielo come una macchia di colore assorbita dall'acqua. Il paesaggio spettrale e scintillante in basso diventava reale; a metà dell'orizzonte ci fu un'esplosione di luce, e i raggi del sole si rifletterono sulle finestre di un edificio. E più volte, a meno che gli occhi non lo ingannassero, Morgan vedeva il contorno scuro, indecifrabile, del mare che circondava l'isola.

A Taprobane era nato un nuovo giorno.

I visitatori si dispersero lentamente. Qualcuno tornò alla funivia mentre altri, più energici, si diressero alla scalinata, credendo erroneamente che la discesa fosse più facile della salita. Quasi tutti sarebbero stati ben lieti di montare sulla funivia alla stazione successiva; pochissimi avrebbero disceso l'intera scalinata.

Solo Morgan continuò a salire, seguito da molti sguardi curiosi, lungo i pochi scalini che conducevano al monastero e alla cima vera e propria della montagna. Quando raggiunse la parete esterna dell'edificio, liscia e debolmente illuminata dai primi raggi del sole, gli mancava il respiro.

Fu lieto di appoggiarsi un po' al massiccio portone in legno.

Qualcuno doveva averlo osservato. Prima che lui riuscisse a trovare un campanello, o a segnalare in qualche modo la sua presenza, il portone si spalancò silenziosamente. Gli venne incontro un monaco vestito di giallo, che lo salutò a mani giunte.

— Ayu bowan, dottor Morgan. Il Mahanayake Thero sarà lieto di vedervi.

14 L'educazione di Stellaplano

(Da "I documenti Stellaplano", prima edizione, 2071)

"Oggi sappiamo che la sonda interstellare definita popolarmente Stellaplano è completamente autonoma, e che opera secondo istruzioni generali programmate sessantamila anni fa. Mentre naviga tra i diversi soli, usa la sua antenna da cinquecento chilometri per trasmettere informazioni alla base a una velocità relativamente bassa e per ricevere eventuali aggiornamenti da 'Stellisola', se vogliamo usare il delizioso nome coniato dal poeta Llwellyn ap Cymru.

"Mentre attraversa un sistema solare, tuttavia, è in grado di assorbire l'energia del Sole, per cui la velocità con cui trasmette informazioni cresce infinitamente. Inoltre può 'ricaricare le batterie', per usare un'analogia estremamente rozza. E dal momento che, come i nostri primi Pioneer e Voyager, si serve dei campi gravitazionali dei corpi celesti per spostarsi di stella in stella, continuerà a funzionare all'infinito, a meno che un guasto meccanico o un accidente cosmico non ne stronchino il lavoro. La costellazione del Centauro è stata il suo undicesimo scalo; dopo aver oltrepassato il nostro Sole come una cometa, si è diretto esattamente verso Tau Ceti, lontana da noi dodici anni luce. Se lì esiste qualcuno, Stellaplano sarà pronto a iniziare la sua prossima conversazione nell'anno 8100…

"… Perché Stellaplano ha le funzioni sia d'ambasciatore che d'esploratore. Quando, al termine di uno dei suoi viaggi millenari, scopre una cultura tecnologica, entra in rapporti amichevoli coi nativi e comincia a scambiare informazioni, secondo l'unica forma di commercio interstellare che sarà mai possibile. E prima di ripartire per il suo viaggio interminabile, dopo il breve transito in un certo sistema solare, Stellaplano dà le coordinate del mondo da cui è partito, già pronto a ricevere una chiamata dall'ultimo abbonato all'elenco telefonico galattico.

"Nel nostro caso, possiamo essere discretamente orgogliosi del fatto che, prima ancora che Stellaplano ci trasmettesse le sue mappe stellari, avevamo già identificato il sistema da cui è partito e lanciato la nostra prima trasmissione. Adesso non ci resta che attendere 104 anni per la risposta. Che fortuna incredibile possedere dei vicini così poco lontani."

Sin dai suoi primi messaggi fu ovvio che Stellaplano capiva il senso di diverse migliaia di parole essenziali d'inglese e cinese, che aveva dedotto da un'analisi delle trasmissioni televisive e radiofoniche, e particolarmente dalla trasmissione d'informazioni via computer. Ma le nozioni che aveva raccolto nel periodo d'avviamento erano un esempio assai poco rappresentativo dell'intero spettro della cultura umana; contenevano pochissimi dati scientifici ad alto livello, ancor meno matematica superiore, e solo una selezione casuale di letteratura, musica e arti visive.

Quindi, come ogni genio autodidatta, Stellaplano possedeva lacune colossali nel suo bagaglio culturale. Partendo dall'idea che il troppo è meglio del poco, non appena venne stabilito il contatto a Stellaplano venne trasmesso l'"Oxford English Dictionary", il "Grande Dizionario Cinese" (edizione Romandarin), e l'"Encyclopaedia Terrae". La loro trasmissione digitale richiede poco più di cinquanta minuti, e il fatto notevole fu che, immediatamente dopo, Stellaplano se ne stette zitto per quasi quattro ore, il suo periodo di silenzio più lungo. Quando ristabilì il contatto il suo vocabolario era enormemente cresciuto, e per circa il 99 per cento del tempo la nave avrebbe potuto superare senza difficoltà il test di Turing; il che significa che dai messaggi inviati da Stellaplano era impossibile capire che si trattava di una macchina e non di un essere umano estremamente intelligente.

Di tanto in tanto si riscontrava qualche indizio rivelatore, ad esempio l'uso errato di parole ambigue e l'assenza di contenuti emotivi nel dialogo. Il che era più che logico; i computer terrestri più complessi potevano, se necessario, riprodurre le emozioni dei loro costruttori; ma i sentimenti e i desideri di Stellaplano erano presumibilmente quelli di una razza del tutto aliena, e quindi ampiamente incomprensibili all'uomo.

E, ovviamente, viceversa. Stellaplano riusciva a capire con precisione e completezza assoluta cosa significasse: "La somma dei quadrati costruiti sui cateti è uguale al quadrato costruito sull'ipotenusa". Ma non riusciva ad avere la più pallida idea di cosa passasse per la mente di Keats quando aveva scritto:

"Incantate e magiche finestre, aperte sulla schiuma

di mari perigliosi, in terre fatate e abbandonate…".

E ancora meno:

"Debbo paragonarti a un giorno d'estate?

Tu sei più dolce e più mite…"

A ogni modo, nella speranza di correggere quell'imperfezione, a Stellaplano vennero trasmesse anche migliaia di ore di musica, letteratura e scene di vita terrestre, umana e no. Tutti furono d'accordo che in quel campo bisognava esercitare una certa censura. Nonostante fosse assai difficile negare la propensione dell'uomo per la violenza e la guerra (L'"Encyclopaedia" era già stata trasmessa), Stellaplano ne ricevette solo pochi esempi accuratamente selezionati. E, finché Stellaplano rimase all'interno del nostro sistema, il tono generale delle trasmissioni video fu insolitamente tranquillo.

Per secoli, forse fino al momento in cui la nave aliena avesse raggiunto l'obiettivo successivo, i filosofi avrebbero discusso "a quale profondità" Stellaplano aveva compreso le faccende e i problemi umani. Ma su un punto nessuno avanzò obiezioni serie. I cento giorni del suo passaggio nel sistema solare avevano definitivamente mutato i punti di vista dell'umanità circa l'universo, le sue origini, e il posto in esso occupato dalla nostra razza. La civiltà umana non poteva più essere la stessa, dopo la comparsa di Stellaplano.

15 Bodhidharma

Quando la porta massiccia, scolpita da complesse rappresentazioni del loto, si chiuse dolcemente alle sue spalle, a Morgan parve di essere entrato in un altro mondo. Non era la prima volta che si trovava su un terreno un tempo consacrato a una grande religione; aveva visto Nôtre Dame, Santa Sofia, Stonehenge, il Partenone, Karnak, la cattedrale di San Paolo, e almeno un'altra dozzina di importanti templi e cattedrali. Ma li aveva considerati tutti come reliquie mummificate del passato, splendidi esempi di arte e ingegneria, però privi di significato per il mondo contemporaneo. Le fedi che li aveva creati e fatti esistere erano scomparse nell'oblio, anche se qualcuna era sopravvissuta fino al ventiduesimo secolo.

Ma lì sembrava che il tempo si fosse fermato. Gli uragani della storia avevano solo sfiorato quella sperduta cittadella della fede, lasciandola intatta. Come facevano da tremila anni, i monaci pregavano ancora, e meditavano, e osservavano l'alba.

Mentre camminava sul selciato logoro del cortile, consumato dai piedi di innumerevoli pellegrini, Morgan provò un'indecisione improvvisa e assolutamente insolita. Nel nome del progresso stava tentando di distruggere qualcosa d'antico e di nobile, qualcosa che non avrebbe mai capito in pieno.

L'apparizione della grande campana di bronzo, chiusa in un campanile che partiva dalla parete del monastero, lo bloccò. La sua mente d'ingegnere ne aveva immediatamente stimato il peso a non meno di cinque tonnellate, ed era evidente che era molto antica. Come diavolo…?

Il monaco notò la sua curiosità e gli rivolse un sorriso comprensivo.

— Ha duemila anni — disse. — È un dono di Kalidas il Maledetto, che ci è sembrato opportuno non rifiutare. Secondo la leggenda sono occorsi dieci anni per farla salire lungo la montagna… e le vite di cento uomini.

— Quando viene usata? — chiese Morgan, dopo aver digerito l'informazione.

— A causa della sua origine nefasta viene suonata solo in tempi di disastro. Io non l'ho mài sentita, così come non l'ha udita nessuno uomo oggi vivente. Ha suonato una volta, senza aiuti umani, durante il grande terremoto del duemiladiciassette. E la volta prima suonò nel millecinquecentoventidue, quando gli invasori iberici bruciarono il Tempio del Dente e s'impossessarono della Sacra Reliquia.

— Allora, dopo tanti sforzi, non è mai stata usata?

— Forse una dozzina di volte negli ultimi duemila anni. Sulla campana grava ancora la maledizione di Kalidas.

"Sarà una buona politica religiosa" non poté impedirsi di pensare Morgan "ma da un punto di vista economico non ci siamo." E, irriverente, si chiese quanti monaci avessero ceduto alla tentazione di dare un colpetto alla campana, magari minimo, solo per udire il timbro sconosciuto della sua voce proibita…

Oltrepassarono un masso enorme. Più avanti, una breve scalinata conduceva a un padiglione dorato. Erano giunti in cima alla montagna. Sapeva già cosa doveva contenere il reliquiario, ma il monaco lo illuminò di nuovo.

— L'impronta del piede — disse. — I musulmani credevano che fosse l'impronta d'Adamo, fermatosi qui dopo essere stato cacciato dal paradiso terrestre. Gli indù l'attribuivano a Shiva o Saman. Ma per i buddisti, ovviamente, era l'impronta dell'Illuminato.

— Vedo che usate il passato — disse Morgan, in un tono scrupolosamente neutro. — Adesso cosa si crede?

La faccia del monaco non mostrò la minima emozione. — Il Buddha era un uomo, come voi e me. L'impronta nella roccia, e la roccia è "molto" dura, è lunga due metri.

Col che la questione sembrò chiudersi. Morgan non fece altre domande mentre percorrevano un breve chiostro che terminava su una porta aperta. Il monaco bussò ma non attese risposta: gli fece subito cenno d'entrare.

Morgan si aspettava quasi di trovare il Mahanayake Thero seduto a gambe incrociate su uno stuoino, probabilmente circondato dall'incenso e da monaci che cantavano. In effetti c'era un debole sentore d'incenso in quell'aria gelida, ma il Supremo Reggente del "Wihara" di Sri Kanda sedeva dietro una scrivania perfettamente normale, dotata di un terminale standard di computer. L'unico tocco insolito nella stanza era la testa del Buddha, un po' più grande delle dimensioni naturali, posta su uno zoccolo in un angolo. Morgan non riuscì a capire se era vera o se si trattava solo di una proiezione.

Nonostante l'ambiente convenzionale, era assai improbabile che il rettore del monastero venisse scambiato per un normale uomo d'affari. A parte l'inevitabile tunica gialla, il Mahanayake Thero possedeva altre due caratteristiche che, a quell'epoca, erano estremamente rare. Era completamente calvo e portava gli occhiali.

Entrambe le cose, decise Morgan, erano frutto d'una scelta precisa. Visto che era tanto facile curare la calvizie, quel cranio lucido e immacolato doveva essere stato rasato o depilato. E non ricordava nemmeno da quanto tempo non vedeva più occhiali, se non in documentari o opere a sfondo storico.

La combinazione era affascinante, e sconcertante. Morgan trovò praticamente impossibile indovinare l'età del Mahanayake Thero: poteva avere dai quaranta agli ottanta anni ben portati. E quelle lenti, per quanto trasparenti, in qualche modo celavano pensieri ed emozioni.

— Ayu bowan, dottor Morgan — disse il monaco, indicando all'ospite l'unica poltrona vuota. — Questo è il mio segretario, il Venerabile Parakarma. Spero non vi dispiacerà se prende appunti.

— Certo che no — rispose Morgan, piegando la testa verso l'altro occupante della piccola stanza. Notò che il monaco più giovane, aveva i capelli lunghi e una barba immensa; probabilmente farsi rasare non era obbligatorio.

— E così, dottor Morgan — continuò il Mahanayake Thero — voi volete la nostra montagna.

— Temo di sì, vostra… ehm… eminenza. Almeno una parte, in ogni caso.

— Con tutto il mondo a disposizione… Questi pochi ettari?

— La scelta non è nostra, ma della natura. Il capolinea terrestre deve trovarsi sull'equatore e alla massima altezza possibile, dove la minore densità dell'aria equilibra la forza dei venti.

— In Africa e in Sudamerica si trovano montagne equatoriali più alte.

"Ci siamo di nuovo" brontolò fra sé Morgan. Amare esperienze gli avevano dimostrato che era quasi impossibile far comprendere quel problema ai profani, per quanto intelligenti e interessati. Con quei monaci prevedeva un successo ancora minore del solito. Se solo la Terra fosse stata un corpo perfetto, simmetrico, senza sporgenze e rientranze nel campo gravitazionale…

— Credetemi — disse con aria ispirata — abbiamo preso in considerazione ogni alternativa. Cotopaxi e il Monte Kenya e persino il Kilimanjaro, per quanto quest'ultimo sia più a sud di tre gradi, andrebbero benissimo, ma hanno un difetto irrimediabile. Quando un satellite s'inserisce su un'orbita stazionaria, non rimane "esattamente" fermo sullo stesso punto. A causa di irregolarità gravitazionali che non sto a spiegarvi, tende ad andare lentamente alla deriva lungo l'equatore. Per cui tutti i nostri satelliti sincroni e le stazioni spaziali devono bruciare propellente per restare immobili; fortunatamente ne basta pochissimo. Ma è impossibile spostare di continuo milioni di tonnellate, specialmente se hanno la forma di sottili aste lunghe decine di migliaia di chilometri, per tenerle in posizione. E non è nemmeno necessario. Fortunatamente per noi…

— … Ma non per "noi" — lo interruppe il Mahanayake Thero, facendogli quasi perdere il filo del discorso.

— … Esistono due punti stabili sull'orbita sincrona. Un satellite messo in orbita lì resterà "fermo", non si sposterà. Come se fosse chiuso all'estremità di un imbuto invisibile. Uno di questi punti si trova al di sopra del Pacifico, per cui è inutilizzabile. L'altro si trova direttamente sopra le nostre teste.

— Sono certo che qualche chilometro più in qua o più in là non farebbe nessuna differenza. A Taprobane esistono altre montagne.

— Nessuna è più alta della metà di Sri Kanda, il che ci porta al discorso del livello critico della forza dei venti. Vero, sull'equatore non ci sono molti uragani. Ma ce ne sono abbastanza per danneggiare la struttura, e proprio nel suo punto più debole.

— Ma siamo in grado di controllare i venti.

Era il primo contributo che il giovane segretario dava alla conversazione, e Morgan lo guardò con nuovo interesse.

— Fino a un certo punto, sì. Ovviamente ho discusso la cosa col Controllo Monsoni. Dicono che la certezza assoluta è fuori questione, in particolare per quanto riguarda gli uragani. Al massimo mi possono garantire una probabilità su cinquanta. Il che non è sufficiente per un progetto da un bilione di dollari.

Il Venerabile Parakarma sembrava incline alla discussione. — C'è un ramo quasi dimenticato della matematica, chiamato Teoria della Catastrofe, che potrebbe rendere la meteorologia una scienza davvero esatta. Sono certo che…

— Dovrei spiegare — intervenne tranquillamente il Mahanayake Thero — che un tempo il mio collega era piuttosto celebre per il suo lavoro in astronomia. Immagino abbiate sentito parlare del dottor Choam Goldberg.

A Morgan parve che d'improvviso gli si spalancasse una botola sotto i piedi. Dovevano avvertirlo! Poi ricordò che il professor Sarath gli aveva detto, strizzando l'occhio, di stare attento al segretario privato di Buddy. "È un tipo molto in gamba. "

Morgan si chiese se le sue guance fossero d'un rosso acceso mentre il Venerabile Parakarma, alias dottor Choam Goldberg, lo fissava con espressione ostile. E lui che aveva cercato di spiegare le instabilità orbitali a quei monaci sempliciotti! Probabilmente il Mahanayake Thero era molto più informato sull'argomento di quanto non fosse lui.

E ricordò che gli scienziati del mondo intero erano divisi in due nei confronti del dottor Goldberg: c'erano quelli "sicuri" che lui fosse pazzo, e gli altri che non avevano ancora deciso. Perché Goldberg era stato uno dei giovani ricercatori più promettenti nel campo dell'astrofisica quando, cinque anni prima, aveva annunciato: — Ora che Stellaplano ha raso al suolo tutte le religioni tradizionali, possiamo finalmente prestare un'attenzione seria al concetto di Dio.

E con quello era scomparso dalla scena.

16 Conversazioni con Stellaplano

Fra le migliaia di domande rivolte a Stellaplano durante il suo transito nel sistema solare, le risposte più attese riguardavano le creature viventi e le civiltà di altre stelle. Contrariamente ad alcune previsioni il robot rispose di buon grado, pur ammettendo che le sue ultime informazioni sull'argomento risalivano a più d'un secolo addietro.

Considerata l'immensa varietà di culture prodotte sulla Terra da un'unica specie, era ovvio che fra le stelle si sarebbe riscontrata una varietà ancora maggiore, dato che ogni tipo di biologia concepibile era possibile. Diverse migliaia di ore di affascinanti (spesso incomprensibili, talora orribili) scene di vita su altri pianeti chiarirono oltre ogni dubbio che era proprio così.

Ad ogni modo, gli Stellisolani avevano approntato una classificazione approssimativa delle culture basandosi sui propri standard tecnologici, forse l'unico punto di vista oggettivo possibile. L'umanità fu curiosa di scoprire che si trovava al quinto posto di una scala definita grosso modo da: 1) attrezzi di pietra; 2) metalli, fuoco; 3) scrittura, artigianato manuale, navigazione; 4) propulsione a vapore, scoperte scientifiche basilari; 5) energia atomica, viaggio spaziale.

Quando Stellaplano aveva iniziato il suo volo, sessantamila anni prima, i suoi costruttori, come la razza umana, erano ancora sullo scalino cinque. Ora erano passati al sei, caratterizzato dalla capacità di trasformare completamente la materia in energia e di trasmutare "tutti" gli elementi su scala industriale.

— Ed esiste una classe sette? — venne immediatamente chiesto a Stellaplano. La risposta fu un breve: — Affermativo. — Richiesta di dettagli ulteriori, la sonda spiegò: — Non mi è permesso descrivere tecnologie di maggior livello culturale a una razza di livello inferiore. — E la cosa rimase a quel punto, fino al momento dell'ultimo messaggio, nonostante le ingegnose domande escogitate dai più abili cervelli legali della Terra.

A quel punto, ormai, Stellaplano era al di là della portata di qualsiasi logico terrestre. Il che, in parte, fu colpa della facoltà di filosofia dell'università di Chicago: colta da un attacco di monumentale "hubris", gli aveva clandestinamente trasmesso l'intera "Summa Theologica", con risultati disastrasi…

2069 02 giugno GMT 19,34;

Messaggio 1946, sequenza 2.

Stellaplano a Terra:

Ho analizzato le argomentazioni del vostro San Tommaso d'Aquino come richiesto dal vostro messaggio 145 sequenza 3 del 2069 02 giugno GMT 18,42. La maggioranza del contenuto paiono essere segnali casuali privi di senso e quindi privi d'informazione, ma lo stampato che segue elenca 192 errori espressi nella logica simbolica della vostra riferimento Matematica 43 del 2069 29 maggio GMT 02,51.

Errore 1… (segue uno stampato di 75 pagine).

Come dimostra il rilevamento dei tempi, a Stellaplano. occorse meno di un'ora per demolire San Tommaso. Per quanto i filosofi abbiano trascorso diversi decenni a discutere di quell'analisi, rintracciarono solo due errori; e anche quelli potevano essere dovuti a un'incomprensione terminologica.

Sarebbe interessantissimo sapere quale frazione dei suoi circuiti d'elaborazione Stellaplano abbia usato per quel compito; sfortunatamente, nessuno pensò di chiederglielo prima che la sonda riprendesse il viaggio e interrompesse il contatto. E per allora erano giunti messaggi ancor più distruttivi…

2069 04 giugno GMT 07,59.

Messaggio 9056 sequenza 2.

Stellaplano a Terra:

Non sono in grado di distinguere chiaramente fra le vostre cerimonie religiose e comportamenti apparentemente identici a rituali sportivi e culturali che mi avete trasmesso. Mi riferisco in particolare ai Beatles, 1965; la Finale dei Mondiali di Calcio, 2046; e l'Apparizione d'Addio dei Cloni di Johann Sebastian, 2056.

2069 05 giugno GMT 20,38.

Messaggio 4675 sequenza 2.

Stellaplano a Terra:

Il mio ultimo aggiornamento su questo argomento risale a 175 anni fa, ma se vi comprendo correttamente la risposta è come segue. Il comportamento del tipo che definite religioso si è verificato fra 3 delle 15 culture conosciute di Classe Uno, 6 delle 28 culture di Classe Due, 5 delle 14 culture di Classe Tre, 2 delle 10 culture di Classe Cinque. Noterete che abbiamo molti più esempi della Classe Cinque, perché solo queste culture si possono scoprire su distanze astronomiche.

2069 06 giugno GMT 12,09.

Messaggio 5897 sequenza 2.

Stellaplano a Terra:

È esatta la vostra deduzione che le 3 culture di Classe Cinque che si sono dedicate ad attività religiose possedevano tutte un sistema riproduttivo bi-genitoriale e che i giovani restavano nei gruppi familiari per un'abbondante frazione della loro esistenza. Come siete arrivati a questa conclusione?

2069 08 giugno GMT 15,37.

Messaggio 6943 sequenza 2.

Stellaplano a Terra:

L'ipotesi da voi denominata Dio, per quanto non respingibile sull'unica base della logica, non è necessaria per la ragione che segue.

Se voi presumete che l'universo può essere cito spiegato fine citazione come creazione di un'entità conosciuta come Dio, egli deve ovviamente possedere un grado d'organizzazione superiore al suo prodotto. Così voi avete più che raddoppiato le dimensioni del problema di partenza, e avete compiuto il primo passo su un regresso divergente all'infinito. Guglielmo d'Occam ha fatto notare sin dal vostro quattordicesimo secolo che le entità non debbono essere moltiplicate senza necessità. Di conseguenza non riesco a capire perché questo dibattito prosegua.

2069 11 giugno GMT 06,48.

Messaggio 8964 sequenza 2.

Stellaplano a Terra:

Stellisola mi ha informato 456 anni fa che l'origine dell'universo è stata scoperta ma non posseggo i circuiti necessari per comprenderla. Dovreste comunicare direttamente per ulteriori informazioni.

Ora passo alla navigazione e devo interrompere il contatto. Arrivederci.

Secondo l'opinione di molti, quell'ultimo messaggio, celeberrimo fra le migliaia inviate, provava che Stellaplano possedeva "sense of humour". Altrimenti, perché avrebbe aspettato proprio la fine per far esplodere una simile granata filosofica? Oppure l'intera conversazione faceva parte di un piano millimetrico, destinato a indirizzare la razza umana sui giusti binari quando fossero giunti i primi messaggi diretti da Stellisola, presumibilmente entro 104 anni?

Qualcuno suggerì di seguire Stellaplano, dal momento che portava fuori dal sistema solare non solo inimmaginabili riserve di conoscenza, ma anche i tesori di una tecnologia più avanzata da secoli rispetto a ogni risorsa umana. Per quanto non esistessero ancora astronavi capaci di superare Stellaplano, e di ritornare alla Terra dopo averne raggiunto l'enorme velocità, senza dubbio era possibile costruirne una.

Però prevalsero più saggi consigli. Anche una robosonda spaziale doveva possedere mezzi di difesa molto efficaci contro eventuali intrusi; compresa, come ultima risorsa, la possibilità di autodistruggersi. Ma l'argomento decisivo fu che i suoi costruttori si trovavano "solo" a cinquantadue anni luce di distanza. Nei millenni trascorsi da che avevano lasciato Stellaplano, la loro tecnologia spaziale doveva essere cresciuta enormemente. Se la razza umana faceva qualcosa per provocarli, quelli potevano arrivare, leggermente risentiti, nel giro di poche centinaia d'anni. Nel frattempo, fra gli innumerevoli altri effetti esercitati sulla cultura umana, Stellaplano aveva portato a compimento un processo già molto sviluppato. Aveva messo fine ai miliardi di parole di pie sciocchezze con cui, per secoli, uomini apparentemente intelligenti si erano imputriditi il cervello.

17 Parakarma

Ripensando in breve alla conversazione, Morgan decise di non aver fatto la figura dello sciocco. Anzi, il Mahanayake Thero aveva forse perso un vantaggio tattico svelando l'identità del Venerabile Parakarma. Però non si trattava di un segreto; forse pensava che Morgan ne fosse già al corrente.

A quel punto ci fu un'interruzione davvero provvidenziale. Due giovani monaci entrarono in ufficio: uno reggeva un vassoio con piccoli piatti di riso, frutta, e quelle che sembravano ciambelline; l'altro lo seguiva con l'inevitabile teiera. Niente di particolarmente sostanzioso. Dopo quella lunga notte, Morgan avrebbe gradito due uova, ma immaginò che anche quelle fossero proibite. No, l'aggettivo era eccessivo: Sarath gli aveva detto che l'Ordine non proibiva niente, dato che non credeva in niente d'assoluto. Però aveva una scala di tolleranza calibrata al millimetro, e il distruggere una vita, anche una vita potenziale, non era un atto che godesse di troppo favore.

Morgan cominciò a studiare i diversi cibi, molti dei quali gli erano sconosciuti, e lanciò un'occhiata interrogativa al Mahanayake Thero, che scosse la testa.

— Noi non mangiamo prima di mezzogiorno. La mente funziona con chiarezza maggiore nelle ore del mattino, per cui non bisogna distrarla con cose materiali.

Addentando una deliziosa papaia, Morgan rifletté sull'abisso filosofico rappresentato da quella semplice frase. Per lui, uno stomaco vuoto poteva essere una distrazione enorme, capace d'inibire completamente le funzioni mentali superiori. Visto che possedeva da sempre il dono della salute, non aveva mai cercato di dissociare il corpo dalla mente, e non vedeva motivo perché qualcuno dovesse provarci.

Mentre Morgan mangiava quella colazione esotica il Mahanayake Thero si scusò, e per qualche minuto le sue dita danzarono, a velocità stupefacente, sui comandi del terminale. Quando apparve la lettura, la cortesia lo spinse a voltare gli occhi da un'altra parte. Inevitabilmente, il suo sguardo cadde sulla testa del Buddha. Probabilmente era vera, perché lo zoccolo proiettava sul muro un'ombra debole. Ma nemmeno quella era una prova decisiva. Lo zoccolo poteva essere ben solido, e la testa una proiezione centrata al di sopra con cura estrema. Era un trucco piuttosto comune.

Quella testa, come Monna Lisa, era un'opera d'arte che rifletteva le emozioni di chi l'osservava e al tempo stesso emanava una sua intensità. Però gli occhi della Gioconda erano aperti, anche se nessuno avrebbe mai saputo cosa stessero vedendo. Gli occhi del Buddha erano completamente vuoti, pozzi immensi in cui un uomo poteva perdere l'anima, oppure scoprire un universo.

Sulle sue labbra aleggiava un sorriso ancora più ambiguo di quello di Monna Lisa. Ma era poi davvero un sorriso, o solo un gioco di luci? Era già scomparso, sostituito da un'espressione di tranquillità superumana. Morgan non riusciva a distogliere gli occhi da quel volto ipnotico, e solo il ronzio familiare di una copia stampata che usciva dal terminale lo riportò alla realtà; se quella era realtà…

— Ho pensato che potrebbe farvi piacere un souvenir della vostra visita — disse il Mahanayake Thero.

Accettando il foglio che il monaco gli tendeva, fu sorpreso di scoprire che si trattava di una pergamena uso d'archivio; non era la solita carta sottilissima da gettare via dopo qualche ora. Non riusciva a leggerne una sola parola. A parte una minuscola scritta alfanumerica nell'angolo in basso a sinistra, il documento era scritto in quei caratteri fioriti che adesso sapeva appartenere al taprobani.

— Grazie — disse, con tutta l'ironia di cui era capace. — Che cos'è? — Si era già fatto un'idea: i documenti legali si assomigliano un po' tutti, a prescindere dalla lingua o dall'età.

— Una copia dell'accordo fra Re Ravindra e il Maha Sangha, datata Vesak all'anno ottocentocinquantaquattro dopo Cristo del vostro calendario. Stabilisce la proprietà del terreno spettante al tempio, per l'eternità. Persino gli invasori hanno riconosciuto i diritti sanciti da questo documento.

— Gli scozzesi e gli olandesi, credo. Ma non gli spagnoli.

Se il Mahanayake Thero rimase sorpreso dalla durezza di quella risposta, nemmeno l'inarcarsi delle sopracciglia lo tradì.

— Loro non rispettavano affatto la legge e l'ordine, in particolare quando si trattava di altre religioni. Spero che la loro filosofia del fine che giustifica i mezzi non affascini anche voi.

Morgan fece un sorriso alquanto forzato. — Certo che no — rispose. "Ma come si può stabilire un confine?" si chiede. Quando entravano in pericolo gli interessi preponderanti di grandi organizzazioni, spesso la morale convenzionale passava in seconda linea. Le migliori menti legali del pianeta, umane ed elettroniche, si sarebbero presto dedicate a quel problema. Se non riuscivano a trovare le risposte esatte, poteva nascerne una situazione molto delicata che avrebbe fatto di lui un usurpatore, anziché un eroe.

— Visto che avete sollevato l'argomento del trattato dell'ottocentocinquantaquattro, permettetemi di ricordarvi che esso si riferisce al terreno "entro" i limiti del tempio, chiaramente definiti dalle mura.

— Esatto. Ma è compresa l'intera cima.

— Voi non avete alcun controllo sul terreno all'esterno di questa zona.

— Abbiamo i diritti di ogni proprietario. Se i vicini ci procurano fastidi, possiamo agire per via legale. Non è la prima volta che la questione viene sollevata.

— Lo so. È successo con la funivia.

Un sorriso debole apparve sulle labbra del Maha Thero. — Vi siete informato — commentò. — Sì, ci siamo opposti vigorosamente al progetto, per molte ragioni… Anche se debbo ammettere che, adesso che esiste, ci è stata utile molto spesso. — S'interruppe pensieroso, poi aggiunse: — Si è creato qualche problema, ma siamo riusciti a coesistere con la funivia. I curiosi di passaggio e i turisti s'accontentano di fermarsi sulla piattaforma panoramica; ovviamente siamo sempre lieti di dare il benvenuto qui ai "veri" pellegrini.

— Allora forse potremmo giungere a un accordo anche nel nostro caso. Per noi poche centinaia di metri d'altezza non fanno differenza. Potremmo non toccare la cima e creare un'altra piattaforma come quella del capolinea della funivia.

Morgan si sentiva estremamente a disagio sotto l'esame prolungato dei due monaci. Non dubitava affatto che avrebbero capito l'assurdità di quella proposta, ma doveva farla per amore di completezza.

— Avete un senso dell'umorismo molto bizzarro, dottor Morgan — rispose finalmente il Mahanayake Thero. — Cosa resterebbe dello spirito della montagna, della solitudine che cerchiamo da tremila anni, se quel mostruoso marchingegno venisse eretto qui? Vi aspettate che tradiamo la fede dei milioni di persone che sono giunti in questo posto sacro, spesso pagando con la salute o addirittura con la vita?

— Apprezzo i vostri sentimenti — rispose Morgan (ma si chiese se stesse mentendo). — Ovviamente faremmo del nostro meglio per ridurre al minimo gli inconvenienti. Tutti gli edifici annessi alla torre verrebbero scavati dentro la montagna. All'aperto uscirebbe solo l'elevatore, e da una certa distanza sarebbe del tutto invisibile. L'aspetto generale della montagna non muterebbe affatto. Anche la vostra famosa ombra, che ho ammirato poco fa, resterebbe praticamente intatta.

Il Mahanayake Thero si girò verso il suo collega, come per ottenere una conferma. Il Venerabile Parakarma fissò Morgan negli occhi e chiese: — E per quanto riguarda i rumori?

"Maledizione" pensò Morgan "il mio punto più debole." Le capsule sarebbero uscite dalla montagna a diverse centinaia di chilometri orari: più velocità potevano ottenere dal sistema a terra, minore lo sforzo imposto alla torre aerea. Naturalmente i passeggeri non potevano sopportare più di mezza gravità circa, ma anche le loro capsule sarebbero partite a una velocità di tutto rispetto.

— Ci sarà qualche rumore aerodinamico — ammise Morgan. — Però non c'è nemmeno paragone con un grande aeroporto.

— Molto rassicurante — disse il Mahanayake Thero. Morgan era certo che stesse facendo del sarcasmo, eppure non trovava tracce d'ironia nella sua voce. O stava dando mostra d'una calma olimpica, oppure metteva alla prova le reazioni dell'ospite. Il monaco più giovane, invece, non cercava nemmeno di nascondere la collera.

— Sono anni — disse indignato — che protestiamo contro i disturbi causati dalle navi spaziali che rientrano. Adesso voi volete creare onde d'urto nel… nostro giardino.

— Le nostre operazioni non saranno transoniche, a questa altezza — ribatté lui decisamente. — E la struttura della torre assorbirà quasi tutta l'energia sonica. In effetti — aggiunse, cercando di sfruttare quello che sembrava un vantaggio improvviso — con l'andare del tempo vi aiuteremo a eliminare le esplosioni di rientro. La montagna diventerà più tranquilla.

— Capisco. Al posto di esplosioni occasionali avremo un rombo continuo.

"Con questo tipo non riesco a concludere niente" pensò Morgan "e io mi ero aspettato che l'osso duro fosse il Mahanayake Thero…"

A volte è meglio cambiare del tutto argomento. Morgan decise d'affondare un piede nel pantano turbolento della teologia.

— Non credete che ci sia qualcosa di giusto — chiese candidamente — in quello che stiamo cercando di fare? I nostri scopi possono essere diversi, ma i risultati pratici hanno molto in comune. Quello che speriamo di costruire è solo un prolungamento della vostra scalinata. Se mi è permesso dirlo, la portiamo più in alto, fino in paradiso.

Per un attimo il Venerabile Parakarma parve stupefatto di tanta sfrontatezza. Prima che lui riuscisse a riprendersi, il suo superiore rispose soavemente: — Un concetto interessante, ma la nostra filosofia non crede nel paradiso. È possibile trovare la salvezza che può esistere solo in "questo" mondo, e a volte la vostra ansietà d'abbandonarlo mi lascia perplesso. Conoscete la storia della torre di Babele?

— Vagamente.

— Vi consiglio di cercarla nell'antica Bibbia cristiana, Genesi undicesimo capitolo. Anche quello era un progetto d'ingegneria per scalare i cieli. Andò a monte, a causa di difficoltà di comunicazione.

— Avremo i nostri problemi, ma non credo che "questo" sarà il più grave.

Però, fissando il Venerabile Parakarma, Morgan non ne era poi troppo certo. Fra loro esisteva un abisso d'incomunicabilità che sembrava, in un certo senso, più profondo di quello tra l'Homo Sapiens e Stellaplano. Parlavano la stessa lingua, ma si guardavano da abissi d'incomprensione che forse era impossibile superare.

— Posso chiedervi — continuò il Mahanayake con cortesia imperturbabile — qual è stato il vostro successo col Dipartimento Parchi e Foreste?

— Sono stati assai disponibili.

— Non ne sono sorpreso. Mancano perennemente di fondi, e ogni nuova fonte d'introiti è ben vista. La funivia ha dato ossigeno alle loro finanze, e senza dubbio sperano che il vostro progetto sia ancora più proficuo.

— Il che è esatto. E hanno accettato il fatto che non creerà nessun pericolo ambientale.

— Se cadesse tutto giù? Morgan fissò negli occhi il venerabile monaco.

— Non cadrà — disse, con tutta l'autorità di un uomo che aveva creato l'arcobaleno capovolto che ora univa due continenti.

Ma Morgan sapeva, e doveva saperlo anche l'implacabile Parakarma, che in un campo del genere la certezza assoluta era impossibile. Duecentodue anni prima, il 7 novembre del 1940, la lezione era stata dimostrata in un modo che nessun ingegnere avrebbe mai scordato.

Morgan soffriva di pochi incubi, ma quello rientrava fra i pochi. Anche in quello stesso momento i computer della Terran Construction stavano cercando d'esorcizzarlo.

Ma tutti i computer dell'universo non potevano offrirgli protezione dai problemi che "non" aveva previsto, dagli incubi che dovevano ancora nascere.

18 Le farfalle d'oro

Nonostante lo splendore del sole e il paesaggio magnifico che lo cingeva da ogni lato, Morgan cadde in un sonno profondo prima che l'auto raggiungesse la pianura. Nemmeno le innumerevoli curve a gomito riuscirono a tenerlo sveglio; ma riaprì d'improvviso gli occhi quando l'autista schiacciò i freni e lui si trovò proiettato in avanti.

In un attimo di confusione assoluta pensò di essere ancora prigioniero del sogno. La brezza che entrava dai finestrini era così calda e umida che pareva uscita da un bagno turco; eppure la macchina, a quanto sembrava, si era fermata nel mezzo di un'accecante tempesta di neve.

Morgan sobbalzò, si sfregò gli occhi, li riaprì sulla realtà. Era la prima volta che vedeva una neve dorata…

Uno sciame densissimo di farfalle stava traversando la strada, diretto a est in una migrazione esatta, decisa. Qualche farfalla era stata risucchiata dall'auto e continuava a volare freneticamente, finché Morgan non la scacciò; molte altre si erano spiaccicate sul parabrezza. Mormorando quelle che dovevano essere senza dubbio alcune delle migliori bestemmie in taprobani, l'autista scese e ripulì il vetro. Quando ebbe finito, lo sciame si era ridotto a una manciata di esemplari isolati.

— Vi hanno raccontato la leggenda? — chiese poi, gettando un'occhiata al passeggero.

— No — rispose bruscamente Morgan. La cosa non gl'interessava affatto; era ansioso di rimettersi a dormire.

— Le Farfalle d'Oro. Sono le anime dei guerrieri di Kalidas, dell'esercito che il re perse a Yakkagala.

Morgan emise un gemito scarsamente entusiasta, nella speranza che l'autista raccogliesse il messaggio; ma l'altro continuò implacabile.

— Ogni anno, all'incirca in questo periodo, si dirigono verso la Montagna, e muoiono tutte ai primi contrafforti. A volte si incontrano a metà del percorso della funivia, ma più in alto non arrivano. Fortunatamente per il Vihara.

— Il Vihara? — chiese Morgan, insonnolito.

— Il Tempio. Se le farfalle riuscissero a raggiungerlo, Kalidas avrebbe vinto, e i bhikkus, i monaci, dovrebbero abbandonarlo. Così dice la profezia incisa su una lastra di pietra che si trova al museo di Ranapur. Posso mostrarvela.

— Un'altra volta — rispose pigramente Morgan, adagiandosi sul sedile imbottito. Ma passarono molti chilometri prima che lui riuscisse ad addormentarsi di nuovo, perché nell'immagine evocata dall'autista c'era qualcosa d'inquietante.

Nei mesi che lo attendevano l'avrebbe ricordata spesso: quando si svegliava, oppure nei momenti di stanchezza e di crisi. Si sarebbe trovato di nuovo immerso in quella tempesta di neve dorata, tra i milioni di farfalle destinate a morire che sprecavano le loro energie in un vano assalto alla montagna e a tutto ciò che simboleggiava. Persino in quel momento, all'inizio delle sue battaglie, l'immagine era troppo forte per concedergli il riposo.

19 Sulle rive del Lago Saladino

"Quasi tutte le simulazioni computerizzate di Storia Alternativa lasciano intendere che la battaglia di Tours (732 d.C.) sia stata uno dei disastri più cruciali per l'umanità. Se Carlo Martello fosse stato sconfitto, l'Islam poteva risolvere i conflitti interni che lo stavano divorando e proseguire la conquista dell'Europa. Così si sarebbero evitati secoli di barbarie cristiana, la rivoluzione industriale sarebbe iniziata almeno con mille anni d'anticipo, e oggi avremmo raggiunto le stelle più vicine, anziché i pianeti più vicini…

"…Ma il fato ha voluto altrimenti, e gli eserciti del Profeta sono tornati in Africa. L'Islam è sopravvissuto, come un affascinante fossile, quasi sino alla fine del ventesimo secolo. Poi, improvvisamente, si è dissolto nel petrolio…"

(Allocuzione del Presidente del Simposio per il bicentenario di Toynbee, Londra, 2089).

— Lo sapevi — disse lo sceicco Farouk Abdullah — che mi sono proclamato Grande Ammiraglio della Flotta del Sahara?

— La cosa non mi sorprenderebbe, signor presidente — rispose Morgan, scrutando l'immensità blu del Lago Saladino. — Se non è un segreto navale, quante navi possedete?

— Dieci, per il momento. La più grande è una nave a cuscino d'aria da trenta metri che batte la bandiera dell'Islam. Passa ogni weekend a salvare marinai incompetenti. La mia gente non ha ancora molta familiarità con l'acqua… Guarda quell'idiota che cerca di virare di bordo! Dopo tutto, duecento anni non sono poi molti per passare dai cammelli alle navi.

— Però fra una cosa e l'altra avete avuto Rolls Royce e Cadillac. Dovrebbero aver facilitato la metamorfosi.

— E le abbiamo ancora. La Silver Ghost del mio bis-bis-bisnonno è come nuova. Ma devo essere onesto: sono i visitatori di altri paesi che si mettono nei guai perché vogliono sfruttare i nostri venti. Noi usiamo barche a motore. E l'anno prossimo mi arriverà un sottomarino garantito in grado di raggiungere la profondità massima del lago, settantotto metri.

— A cosa vi serve?

— Ora ci sono venuti a dire che l'Erg era pieno di tesori archeologici. Ovviamente nessuno se n'è preoccupato prima che tutto fosse sommerso dall'acqua.

Era inutile cercare di mettere fretta al presidente del RANA (Repubbliche Autonome Nord Africa), e Morgan non aveva nessuna intenzione di provarci. Qualunque cosa dicesse la Costituzione, lo sceicco Abdullah controllava più poteri e ricchezze di ogni altro individuo esistente, o quasi. E, fatto ancor più importante, capiva gli usi di entrambe le cose.

Proveniva da una famiglia che non aveva mai temuto di affrontare rischi, e che molto di rado se n'era dovuta pentire. Il loro primo e più famoso azzardo, che per quasi mezzo secolo aveva scatenato l'odio dell'intero mondo arabo, era stato l'investimento di una cospicua massa di petrodollari nella scienza e tecnologia d'Istraele. Quell'atto di preveggenza aveva portato direttamente al drenaggio del Mar Rosso, alla sconfitta dei deserti, e, molto più tardi, al Ponte di Gibilterra.

— Non c'è bisogno che ti dica, Van — disse lo sceicco dopo una pausa — quanto mi affascina il tuo nuovo progetto. E dopo tutto ciò che abbiamo passato assieme durante la costruzione del Ponte, so che tu potresti farcela, se avessi i mezzi.

— Grazie.

— Però ho qualche domanda. Non capisco ancora bene perché c'è la Stazione di Mezzo, e perché si trova a un'altezza di venticinquemila chilometri.

— I motivi sono molti. Circa a quel livello ci è necessaria una grande centrale elettrica, e quindi in ogni caso bisognerà costruire parecchio. Poi ci è venuto in mente che sette ore sono troppe per starsene chiusi in una cabina piuttosto piccola, e interrompere il viaggio offre diversi vantaggi. Non saremo costretti a dar da mangiare ai passeggeri sulle capsule; potranno rifocillarsi e sgranchirsi le gambe alla Stazione. Inoltre potremo portare a livello ottimale il disegno dei veicoli; solo le capsule della sezione inferiore dovrebbero essere aerodinamiche. Quelle che ripartono dalla Stazione potrebbero essere molto più semplici e leggere. La Stazione di Mezzo non servirebbe solo come punto intermedio, ma anche come centrale operativa e di controllo; e col tempo, crediamo, diventerebbe un'attrazione turistica, un ottimo investimento.

— Ma non è a mezza strada! È quasi… a… due terzi del percorso per l'orbita stazionaria.

— Esatto. La metà del percorso si trova a diciottomila chilometri, non a venticinquemila. Ma entra in ballo un altro fattore: la sicurezza. Se la sezione superiore dovesse staccarsi, la Stazione di Mezzo non ricadrebbe sulla Terra.

— E perché?

— Avrà una quantità di moto sufficiente a mantenere un'orbita stabile. Naturalmente cadrà verso la Terra, ma resterà sempre al di fuori dell'atmosfera. Sarà perfettamente sicura; si limiterà a diventare una stazione spaziale con un'orbita ellittica di dieci ore. Due volte al giorno si troverà esattamente sul punto di partenza, e alla lunga sarà possibile ricollegarla alla Torre. In teoria, almeno…

— E in pratica?

— Oh, sono certo che sia possibile. Di sicuro potremo salvare le persone e gli strumenti della Stazione. Però non ce la faremmo assolutamente se la sistemassimo a un'altezza inferiore. Qualunque cosa cada partendo da sotto il limite dei venticinquemila chilometri colpisce l'atmosfera e brucia in cinque ore, o anche meno.

— Avresti intenzione di raccontare tutto questo ai passeggeri diretti dalla Terra alla Stazione di Mezzo?

— Noi speriamo che siano troppo presi ad ammirare il paesaggio per preoccuparsene.

— Sembra quasi che tu parli di un ascensore panoramico.

— Perché no? Solo che gli ascensori panoramici terrestri più alti arrivano appena a tre chilometri! Stiamo parlando qualcosa diecimila volte più alto.

Ci fu una pausa lunghissima. Lo sceicco Abdullah meditava la questione.

— Abbiamo sprecato una possibilità — disse alla fine. — Potevamo mettere ascensori panoramici da cinque chilometri sui pilastri del Ponte.

— Il progetto originale li prevedeva, ma abbiamo rinunciato per il solito motivo: fattori economici.

— Forse abbiamo commesso uno sbaglio; probabilmente si sarebbero pagati da sé. E mi è appena venuta in mente un'altra cosa. Se questo… iperfilamento fosse stato disponibile allora, suppongo che il Ponte sarebbe costato la metà.

— Non voglio raccontarvi bugie, signor presidente: meno di un quinto. Ma si sarebbe ritardata la costruzione di oltre vent'anni, per cui non avete perso niente.

— Devo parlarne coi miei contabili. Alcuni di loro non sono ancora convinti che si trattasse di una buona idea, anche se l'aumento della mole di traffico sta superando le nostre previsioni. Ma io continuo a ripetere loro che il denaro non è tutto. La Repubblica aveva bisogno del Ponte dal punto di vista psicologico e culturale, oltre che economico. Lo sapevi che il diciotto per cento della gente che viaggia sul Ponte lo fa solo perché esiste, e per nessun altro motivo? E poi tornano indietro, anche se devono pagare il pedaggio due volte.

— Se non ricordo male — rispose seccamente Morgan — vi avevo esposto argomenti simili, molto tempo fa. Non è stato facile convincervi.

— Vero. Ricordo che il Teatro dell'Opera di Sydney era il tuo esempio preferito. Ti divertivi a farmi presente quante volte quell'edificio si era ripagato da sé, anche in denaro, a prescindere dal prestigio.

— E non dimenticate le piramidi.

Lo sceicco rise. — Come le chiamavi? Il miglior investimento della storia umana?

— Esattamente. Dopo quattromila anni pagano ancora i dividendi turistici.

— Comunque il paragone non è esatto. I costi di manutenzione delle piramidi non sono certo quelli del Ponte, e tanto meno della Torre che proponi.

— La Torre può durare più a lungo delle piramidi. Si trova in un ambiente molto più favorevole.

— Una prospettiva davvero impressionante. Credi sul serio che funzionerà per diverse migliaia d'anni?

— Non nella sua forma originale, naturalmente. Ma come principio, sì. Quali che siano i progressi tecnici che ci porterà il futuro, non credo esisterà mai un modo più efficiente e più economico di raggiungere lo spazio. Provate a pensare che si tratti di un altro ponte, ma questa volta un ponte verso le stelle, o almeno verso i pianeti.

— E tu vorresti che noi ti aiutassimo di nuovo a finanziarlo. Abbiamo davanti altri vent'anni di pagamento per il tuo ultimo ponte. Il tuo elevatore spaziale non si trova sul nostro territorio, e non mi sembra d'importanza diretta per noi.

— Ma io credo lo sia, signor presidente. La vostra repubblica fa parte dell'economia terrestre, e il costo dei trasporti spaziali è, al momento, uno dei fattori che ne limitano la crescita. Se avete dato un'occhiata alle stime per gli anni Cinquanta e Sessanta…

— Certo, certo. Molto interessanti. Ma anche se noi non siamo esattamente poveri, non potremmo raccogliere nemmeno una minima frazione dei fondi necessari. Insomma, assorbirebbe l'intera produzione lorda mondiale per un paio d'anni!

— E ne ripagherebbe ogni centesimo, per l'eternità.

— Se le tue previsioni sono esatte.

— Per il Ponte lo erano. Ma voi avete ragione, naturalmente, e io non mi aspetto che il RANA faccia niente di più che mettere in moto il meccanismo. Non appena voi avrete dimostrato il vostro interesse, sarà molto più facile procurarci altri aiuti.

— Ad esempio?

— La Banca Mondiale. La Banca Planetaria. Il Governo Federale.

— E quelli per cui lavori, la Terran Construction Corporation? Cosa hai in mente esattamente, Van?

"Ci siamo" pensò Morgan, quasi con un sospiro di sollievo. Adesso, finalmente, poteva parlare francamente con qualcuno di cui si fidava, qualcuno che stava troppo in alto per lasciarsi coinvolgere da meschini intrighi burocratici, ma che poteva apprezzarne a fondo gli aspetti più sottili.

— Ho fatto quasi tutto questo lavoro nel mio tempo libero. Ad esempio, in questo momento sono in ferie. Tra parentesi, è proprio così che è nato il Ponte! Non so se vi ho mai raccontato che mi avevano ordinato ufficialmente di scordarmelo… Ho imparato qualche lezione, negli ultimi quindici anni.

— Il progetto senza dubbio deve aver richiesto un impiego notevole di computer. Chi ha pagato?

— Oh, io ho a disposizione fondi discrezionali non indifferenti. E il mio staff fa sempre studi che nessun altro capisce. A dire il vero, ho formato un gruppetto che si gingilla con l'idea da parecchi mesi. Ne sono talmente entusiasti che anche loro gli dedicano quasi tutto il tempo libero. Ma adesso dobbiamo metterci all'opera, oppure abbandonare il progetto.

— Lo stimato presidente della TCC ne è al corrente?

Morgan sorrise, non troppo divertito. — Ovviamente no, e non voglio parlargliene finché non avrò definito ogni dettaglio.

— Immagino le implicazioni della situazione — disse lo sceicco, con aria arguta. — Una delle quali, suppongo, è assicurarsi che il senatore Collins non inventi la Torre per primo.

— Questo non può farlo. L'idea è vecchia di duecento anni. Ma lui, e parecchia altra gente, potrebbero rallentare tutto. Voglio vederla realizzata finché sono in vita.

— E, naturalmente, vuoi dirigere tu i lavori… Allora, cosa vorresti che facessimo esattamente?

— Il mio è solo un suggerimento, signor presidente. Forse voi avete un'idea migliore. Formate un consorzio, che comprenda magari il Direttivo del Ponte di Gibilterra, le Società di Suez e Panama, la Compagnia Inglese del Canale, la Società della Diga di Bering. Poi, quando tutto sarà fatto, mettetevi in contatto con la TCC e chiedete uno studio di sondaggio. A questo livello l'investimento sarà minimo.

— Cioè?

— Meno di un milione. Soprattutto considerato che io ho già eseguito il novanta per cento del lavoro.

— E poi?

— In seguito, col vostro appoggio, signor presidente, posso andare a orecchio. Potrei restare con la TCC. Oppure dare le dimissioni e unirmi al consorzio… chiamiamolo consorzio d'astroingegneria. Dipenderà solo dalle circostanze. Farò tutto quello che sembrerà meglio per il progetto.

— Mi pare un piano ragionevole. Penso che possiamo combinare qualcosa.

— Grazie, signor presidente — disse Morgan, con la massima sincerità. — Però c'è uno spiacevole ostacolo che dobbiamo aggirare subito, forse prima ancora di formare il consorzio. Dobbiamo interpellare la Corte Mondiale e farci assegnare la giurisdizione sul pezzo di terreno più prezioso del pianeta.

20 Il ponte che danzava

Anche in quell'epoca di comunicazioni istantanee e di trasporti planetari velocissimi era opportuno avere un posto che potesse fungere da ufficio. Non tutto si poteva ridurre a impulsi elettronici; esistevano ancora cose come i cari vecchi libri, gli attestati professionali, i premi e le menzioni, i modellini di lavoro, i campioni di materiale, i disegni artistici dei progetti (non accurati come quelli d'un computer, ma molto ornamentali), e naturalmente il tappeto wall-to-wall" di cui ogni burocrate navigato aveva bisogno per ammorbidire l'impatto della realtà esterna.

L'ufficio di Morgan, che in media lui vedeva dieci giorni al mese, si trovava al sesto piano ("Terra") dell'enorme quartier generale della Terran Construction Corporation, a Nairobi. Il piano più sotto era quello del "Mare", quello più sopra l'"Amministrazione", il che significava il presidente Collins e il suo impero. L'architetto, preso da un simbolismo ingenuo, aveva dedicato l'ultimo piano allo "Spazio". Sul tetto c'era persino un minuscolo osservatorio, con un telescopio da trenta centimetri sempre rotto perché veniva usato solo durante i party d'affari, e spesso per scopi niente affatto astronomici. Le stanze in alto dell'hotel Triplanetario, lontane solo un chilometro, erano uno degli obiettivi preferiti, visto che non di rado ospitavano strane forme di vita, o almeno di comportamento.

Dato che Morgan si teneva continuamente in contatto con le sue due segretarie (una umana, l'altra elettronica) non si aspettava sorprese quando entrò in ufficio, dopo il breve volo di ritorno dal RANA. Stando ai costumi di un secolo o due prima, la sua organizzazione era estremamente piccola. Sotto il suo diretto controllo agivano meno di trecento fra uomini e donne; ma i computer e gli apparecchi per l'elaborazione delle informazioni di cui disponevano erano superiori all'intera popolazione umana del globo.

— Allora, com'è andata con lo sceicco? — gli chiese Warren Kingsley, suo vice e amico di lunga data, non appena restarono soli.

— Benissimo. Penso che l'affare sia fatto. Ma non riesco ancora a credere che un problema così stupido possa fermarci. Cosa dice l'ufficio legale?

— Dovremo senz'altro ricorrere alla Corte Mondiale. Se la Corte stabilisce che si tratta di una questione di preponderante interesse pubblico, i nostri reverendi amici dovranno andarsene… Però, se volessero intestardirsi, si creerebbe una situazione molto spiacevole. Forse dovresti organizzare un piccolo terremoto per spingerli a decidersi.

Il fatto che Morgan facesse parte del Comitato Generale Tettonico forniva da sempre materia per battute fra lui e Kingsley; ma il CGT, probabilmente per fortuna, non aveva mai scoperto il modo di controllare e dominare i terremoti, e nemmeno presumeva di riuscirci. La sua massima speranza era predirli e incanalare pacificamente le loro energie, prima che facessero disastri. Ma anche così, la percentuale di successi non andava molto oltre il 75 per cento.

— Buona idea — disse Morgan. — Ci penserò. E l'altro problema?

— È tutto pronto. Vuoi cominciare adesso?

— Va bene. Vediamoci il peggio.

Le finestre dell'ufficio si oscurarono, e una rete di linee luminose apparve al centro della stanza.

— Fai attenzione, Van — disse Kingsley. — È questo il regno che ci darà guai.

File di lettere e numeri si materializzarono per aria: velocità, carichi, accelerazioni, tempi di transito. Morgan le assimilò con un'occhiata. Il globo terrestre, coi cerchi di longitudine e latitudine, era sospeso appena sopra il tappeto; e dal pianeta, raggiungendo un'altezza di poco superiore a quella d'un uomo, partiva il filo luminoso che contrassegnava la posizione della torre orbitale.

— Velocità cinquecento volte superiore al normale. Ingrandimento della scala laterale cinquanta. Ci siamo.

Una forza invisibile aveva cominciato a muovere la linea di luce, allontanandola dalla verticale. La forza si spostava sempre più in alto. Rappresentava, attraverso i milioni di calcoli al secondo del computer, la salita di una capsula da carico attraverso il campo gravitazionale terrestre.

— Di quant'è lo spostamento? — chiese Morgan, tendendo lo sguardo per seguire ogni particolare della simulazione.

— Al momento di circa duecento metri. Arriva a trecento prima…

Il filo di luce si spezzò. Con un movimento lentissimo equivalente a velocità reali di migliaia di chilometri orari, i due segmenti della torre infranta presero ad allontanarsi l'uno dall'altro. Uno ricadde verso Terra, il secondo si tese nello spazio come una frusta… Ma Morgan non era più pienamente conscio di quel computer. Adesso a quelle immagini si sovrapponeva la realtà che lo ossessionava da anni.

Aveva visto almeno cinquanta volte quel filmato vecchio di due secoli, e in certi punti lo aveva studiato fotogramma per fotogramma, fino a conoscere a memoria tutti i particolari. Dopo tutto era il filmato più costoso mai girato, almeno in tempo di pace. Era costato allo stato di Washington diversi milioni di dollari al minuto.

C'era il ponte snello (troppo snello!) e aggraziato, teso al di sopra del canyon. Non c'era traffico; una sola automobile era stata abbandonata a metà dall'autista. Il che non era strano, dal momento che il ponte, si stava comportanto come mai nessun ponte, nell'intera storia dell'ingegneria, si era comportato.

Sembrava impossibile che migliaia di tonnellate di metallo potessero eseguire un balletto aereo di quel tipo. Era più facile credere che il ponte fosse fatto di gomma, non d'acciaio. Ondulazioni enormi, lente, di metri d'ampiezza, percorrevano l'intera lunghezza della campata; l'autostrada sospesa fra i piloni avanzava e si ritraeva come un serpente infuriato. Il vento che soffiava nel canyon intonava una nota troppo bassa perché orecchie umane la percepissero, e raggiungeva la frequenza naturale di quella struttura bellissima, condannata a morte. Erano ore che le vibrazioni di torsione aumentavano, ma nessuno sapeva quando sarebbe giunta la fine. E quei lunghi spasimi d'agonia erano testimoni di una resistenza a cui gli sfortunati progettisti avrebbero rinunciato volentieri.

D'improvviso i cavi di supporto si spezzarono, volando in alto come micidiali fruste d'acciaio. Contorcendosi, capovolgendosi, l'autostrada precipitò nel fiume, e frammenti della costruzione si scagliarono in ogni direzione. Anche se il filmato veniva proiettato a velocità normale, sembrava che il cataclisma finale si svolgesse al rallentatore: la scala del disastro era talmente ampia che la mente umana non possedeva metri di paragone. In realtà tutto durò forse cinque secondi; dopo i quali, il ponte di Tacoma Narrows si guadagnò un posto perenne nella storia dell'ingegneria. Duecento anni più tardi, sulla parete dell'ufficio di Morgan c'era una foto dei suoi ultimi momenti, con la didascalia: "Uno dei nostri prodotti di minor successo".

Per Morgan quella non era una battuta, bensì il monito indimenticabile che l'imprevisto poteva sempre colpire all'improvviso. Durante la progettazione del Ponte di Gibilterra aveva studiato a fondo la classica analisi di von Karman del disastro di Tacoma Narrows, imparando tutto il possibile da uno dei più costosi errori del passato. Nemmeno le peggiori tempeste arrivate dall'Atlantico avevano creato seri problemi di vibrazione, anche se il piano stradale si era spostato di cento metri dalla linea centrale, esattamente come previsto.

Ma l'elevatore spaziale costituiva un tale salto nel buio che le sorprese spiacevoli erano praticamente una certezza. Era facile stimare la forza dei venti sulla sezione atmosferica, ma era anche necessario tener conto delle vibrazioni prodotte dalla partenza e dall'arresto delle capsule; e poi, su una struttura così enorme, degli effetti di marea della luna e del sole. E nessuno di quei fattori si presentava da solo, agivano tutti assieme; poi, magari, di tanto in tanto si sarebbe presentato un terremoto a complica re il quadro, nella cosiddetta analisi del "peggiore dei casi".

— Tutte le simulazioni, nel caso di qualche tonnellata di carico all'ora, dànno lo stesso risultato. Le vibrazioni salgono di continuo finché non si verifica una frattura a circa cinquecento chilometri d'altezza. Dovremo aumentare lo smorzamento, e in maniera drastica.

— È quello che temevo. Quanto ci serve?

— Altri dieci megatonnellate.

Quella cifra diede a Morgan un'amara soddisfazione. Era vicinissima a quella che lui aveva immaginato, usando la sua intuizione di tecnico e le risorse misteriose del suo inconscio. Il computer aveva confermato l'ipotesi: dovevano aumentare la massa "d'àncora" in orbita di dieci milioni di tonnellate.

Anche sulla Terra si trattava di una massa tutt'altro che indifferente; corrispondeva a una sfera di roccia di circa duecento me tri di diametro. Morgan ebbe una improvvisa immagine di Yakkagala come l'aveva vista l'ultima volta, stagliata contro il cielo di Taprobane. Immaginarsi a sollevare "quella" di quarantamila chilometri nello spazio! Per fortuna poteva non essere necessario; esistevano almeno altre due possibilità.

Morgan lasciava sempre che i suoi collaboratori pensassero col proprio cervello. Era l'unico modo per farli sentire responsabili; toglieva a lui molte incombenze, e, in diverse circostanze, i suoi uomini erano giunti a soluzioni che forse lui avrebbe trascurato.

— Cosa suggerisci, Warren? — chiese tranquillamente.

— Potremmo usare una delle chiatte di lancio lunari e scagliare in orbita dieci megatonnellate di roccia lunare. Sarebbe un lavoro lungo e costoso, e avremmo bisogno di una grande base nello spazio per raccogliere il materiale e inserirlo nell'orbita esatta. Inoltre si creerebbe anche un problema psicologico…

— Già, capisco. Nessuno vuole che si verifichi un altro episodio come quello di San Luiz Domingo…

San Luiz era il villaggio del Sudamerica, fortunatamente piccolo, su cui era precipitato un carico di metalli lunari già lavorati destinati a una stazione orbitante a bassa quota. Nelle ultime fasi del volo la guida del carico era sfuggita al controllo, producendo il primo cratere meteorico creato dall'uomo, e duecentocinquanta morti. Da allora, la popolazione del pianeta Terra era molto sensibile a quelle operazioni compiute su bersagli celesti.

— Una risposta molto migliore è servirci di un asteroide. Stiamo cercando gli asteroidi con orbite adatte, e abbiamo già trovato tre candidati promettenti. Ce ne serve uno carbonoso, così possiamo usarlo per estrarre il materiale greggio quando avremo installato gli impianti di lavorazione. Due piccioni con una fava.

— Una fava piuttosto grande, ma probabilmente è l'idea migliore. Lascia stare la piattaforma lunare: un milione di lanci da dieci tonnellate la terrebbero impegnata per anni, e una parte del materiale si perderebbe. Se non riuscite a trovare un asteroide abbastanza grande possiamo sempre mandare su la massa mancante con l'elevatore, anche se odio l'idea di sprecare tanta energia, a meno che non sia indispensabile.

— Forse è il metodo meno costoso. Considerata l'efficienza degli ultimi impianti di fusione, per mettere in orbita una tonnellata di materiale si spenderebbero solo venti dollari di elettricità.

— Sei sicuro della cifra?

— Mi è stata comunicata dalla Centrale.

Morgan rimase in silenzio per qualche minuto. Poi disse: — Gli ingegneri aerospaziali mi odieranno proprio. — "Quasi quanto il Venerabile Parakarma" aggiunse fra sé.

No, era ingiusto. L'odio era un'emozione impossibile per un vero seguace della Dottrina. Quello che aveva visto negli occhi dell'ex dottor Choam Goldberg era solo un'implacabile opposizione; ma anche quella poteva essere pericolosissima.

21 La sentenza

Una delle specialità più irritanti di Paul Sarath era la chiamata improvvisa, allegra o triste secondo i casi, che inevitabilmente si apriva con le parole: — Hai sentito la notizia? — Rajasinghe era stato spesso tentato di dargli una risposta generica: — Sì, non sono affatto sorpreso. — Ma non aveva mai trovato il coraggio di privare Paul di quel piacere così semplice.

— Cosa c'è questa volta? — rispose senza troppo entusiasmo.

— C'è Maxine sulla Mondiale Due. Sta parlando col senatore Collins. Credo che Morgan sia nei pasticci. Ti richiamo.

L'immagine eccitata di Paul svanì dallo schermo per essere sostituita, pochi secondi dopo, da Maxine Duval: Rajasinghe era passato sul canale delle trasmissioni televisive. Maxine, seduta nel suo studio, familiare a tutti, parlava col presidente della Terran Construction Corporation, che pareva trovarsi in uno stato d'indignazione repressa a stento, e probabilmente falsa.

— …Senatore Collins, ora che è stato emesso il verdetto della Corte Mondiale…

Rajasinghe inserì il registratore automatico, mormorando: — Credevo che avrebbero deciso venerdì. — Spense il sonoro, mise in funzione la linea di collegamento personale con ARISTOTELE ed esclamò: — Mio Dio, è venerdì!

Come sempre, Ari rispose immediatamente.

— Buongiorno, Raja. Cosa posso fare per te?

Quella voce bella, spassionata, che non usciva da una gola umana, non era mai cambiata nei quarant'anni da che la sentiva. Per decenni, forse per secoli, dopo la sua morte avrebbe parlato ad altri uomini come aveva parlato a lui (anzi, quante conversazioni stava sostenendo in quello stesso momento?). Un tempo quell'idea deprimeva Rajasinghe; ora non aveva più importanza. Non invidiava l'immortalità di ARISTOTELE.

— Buongiorno, Ari. Vorrei il verdetto odierno della Corte Mondiale per il caso Corporazione Astroingegneria contro il Vihara di Sri Kanda. Mi basta il sommario. Poi fammi avere lo stampato integrale.

— Decisione Uno: la proprietà del terreno del tempio è confermata in perpetuo secondo la legge taprobanica e mondiale, come codificata nel duemilaottantacinque. Votazione unanime.

"Decisione Due: la costruzione della progettata Torre Orbitale, coi conseguenti rumori, vibrazioni e impatto generale su un luogo di grande importanza storica e culturale costituirebbe un danno civile, passibile d'ingiunzione secondo la Legge dei Torti. A questo punto, l'interesse pubblico non è di entità sufficiente per modificare la decisione. Voti quattro contro due, un'astensione."

— Grazie, Ari. Lascia stare lo stampato. Non mi serve. Arrivederci.

Dunque era andata come si aspettava. Eppure non sapeva se sentirsi sollevato o deluso.

Le sue radici affondavano talmente nel passato che era felice di veder protette e riverite le antiche tradizioni. Se la sanguinosa storia dell'umanità aveva insegnato qualcosa, era che solo i singoli individui avevano importanza: per quanto eccentriche potessero essere le loro idee, andavano salvaguardate, almeno finché non entravano in conflitto con interessi più ampi ma egualmente legittimi. Cosa aveva scritto l'antico poeta? "Non esiste una cosa chiamata Stato." Forse quello significava spingersi un po' troppo in là, ma era meglio dell'estremo opposto.

Al tempo stesso, Rajasinghe provava un certo senso di rimpianto. Si era convinto a metà (ma lo faceva solo per non opporsi all'inevitabile?) che la fantastica impresa di Morgan era proprio quello che occorreva a Taprobane (e forse al mondo intero, anche se quello non rientrava più nelle sue responsabilità per non cadere in un declino piacevole, gratificante. Adesso la Corte aveva chiuso quella strada, almeno per molti anni.

Si chiese cosa avesse da dire Maxine sull'argomento, e fece partire la registrazione del programma. Sulla Mondiale Due, il canale d'analisi delle notizie (definito a volte la "Terra delle Teste Parlanti"), il senatore Collins stava schiacciando l'acceleratore.

— …senz'altro eccedendo in autorità e usando i mezzi della sua divisione per progetti che non la riguardavano.

— Senatore, non vi pare di essere un po' troppo rigido? Da quanto mi risulta l'iperfilamento è stato creato per costruire, in particolare, ponti. E questo non è una specie di ponte? Ho sentito il dottor Morgan usare questa analogia, anche se la definisce Torre.

— Adesso sei tu troppo rigida, Maxine. Personalmente preferisco il nome "elevatore spaziale". E per quanto riguarda l'iperfilamento ti sbagli. È il risultato di duecento anni di ricerche aerospaziali. Il fatto che il prodotto finale si sia concretizzato nella divisione "Terra" della mia… ah… organizzazione è irrilevante, anche se ovviamente sono fiero che lo abbiano inventato i miei scienziati.

— Ritenete che l'intero progetto debba essere trasmesso alla divisione "Spazio"?

— Quale progetto? Si tratta solo di uno studio tecnico, come alla TCC se ne fanno a centinaia. Io non sento mai parlare di questi studi, e non voglio sentirne parlare finché non arrivano al punto in cui è necessario prendere una decisione definitiva.

— E per la Torre non è il caso?

— Decisamente no. I miei esperti di traffico spaziale affermano di poter tenere sotto controllo tutti gli aumenti previsti di traffico, almeno per il prossimo futuro.

— Il che significa, esattamente?

— Altri vent'anni.

— E poi cosa succederà? Secondo il dottor Morgan ci vorranno proprio vent'anni per costruire la Torre. E se non fosse pronta in tempo?

— Avremo qualcosa d'altro. I miei uomini stanno studiando tutte le possibilità, e non è affatto certo che l'elevatore spaziale sia la risposta giusta.

— L'idea, comunque, è fondamentalmente esatta?

— Sembra di sì, ma saranno necessari altri studi.

— Quindi dovreste essere riconoscente al dottor Morgan per il suo lavoro iniziale.

— Ho il massimo rispetto per il dottor Morgan. È uno dei più brillanti ingegneri della mia organizzazione, se non del mondo intero.

— Non credo, senatore, che ciò risponda alla mia domanda.

— D'accordo. Sono grato al dottor Morgan per aver portato quest'argomento alla nostra attenzione. Ma non approvo il modo in cui l'ha fatto. Se così posso esprimermi, ha cercato di forzarmi la mano.

— Come?

— Rivolgendosi all'esterno della mia… della sua, organizzazione, dimostrando mancanza di lealtà. Come risultato delle sue manovre è giunta una decisione negativa della Corte Mondiale, che ha inevitabilmente provocato molti commenti sfavorevoli. Date le circostanze, non ho altra scelta che chiedergli, con tutto il rimpianto, di presentare le dimissioni.

— Grazie, senatore Collins. È stato un piacere parlare con voi, come sempre.

— Dolcissima bugiarda — disse Rajasinghe, spegnendo la registrazione e rispondendo alla chiamata che aspettava da un minuto.

— Hai visto tutto? — chiese il professor Sarath. — È la fine del dottor Vannevar Morgan.

Rajasinghe guardò intensamente il suo vecchio amico per qualche secondo.

— Ti è sempre piaciuto balzare alle conclusioni, Paul. Quanto vuoi scommettere?

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