PARTE TERZA La campana

22 L'apostata

Condotto alla disperazione dagli sforzi vani per comprendere l'Universo, il saggio Devadas, esasperato, annunciò infine:

OGNI FRASE CHE CONTENGA LA PAROLA DIO È FALSA.

All'istante, il discepolo che meno amava, Somasiri, replicò: — La frase che sto pronunciando contiene la parola Dio. Non riesco a vedere, o Nobile Maestro, come questa semplice frase possa essere falsa.

Devadas considerò la questione per diversi Poya. Poi rispose, questa volta con apparente soddisfazione:

SOLO LE FRASI CHE "NON" CONTENGONO LA PAROLA DIO POSSONO ESSERE VERE.

Dopo una pausa appena sufficiente a una mangusta affamata per ingoiare un seme di miglio, Somasiri replicò: — Se questa frase si applica a se stessa, o Venerabile, non può essere vera, poiché contiene la parola Dio. Ma se "non" è vera…

A questo punto Devadas ruppe la sua ciotola per la carità sulla testa di Somasiri, e deve quindi essere onorato come vero fondatore dello Zen.

(Da un frammento del "Culavamsa", non ancora scoperto).

Nel tardo pomeriggio, quando sulla scalinata non si abbatteva più tutta la furia del sole, il Venerabile Parakarma iniziò la discesa. Al cadere della notte avrebbe raggiunto la casa di ristoro per i pellegrini più elevata; e per il giorno seguente sarebbe tornato nel mondo degli uomini.

Il Maha Thero non l'aveva esortato né scoraggiato, e se la partenza del suo collega lo angustiò non lo diede a vedere. Aveva solo intonato: — Ogni cosa è transitoria. — Aveva giunto le mani e lo aveva benedetto.

Il Venerabile Parakarma, che un tempo era stato il dottor Goldberg e che forse lo sarebbe diventato di nuovo, avrebbe trovato estremamente difficile spiegare tutti i suoi motivi. "L'azione giusta" è facile da intuire, ma non da spiegare.

Al Maha Vihara di Sri Kanda aveva trovato la pace, ma non era sufficiente. Data la sua educazione scientifica, non gli andava più d'accettare l'atteggiamento ambiguo dell'Oriente nei confronti di Dio. La loro indifferenza gli sembrava ormai peggiore di un ateismo deciso.

Se esistesse una cosa come il genere rabbinico, il dottor Goldberg l'avrebbe posseduto. Seguendo le impronte di molti uomini, Goldberg-Parakarma aveva cercato Dio con l'aiuto della matematica, incoraggiato anche dalla granata che Kurt Godei, con la scoperta delle proposizioni indecidibili, aveva fatto esplodere all'inizio del ventesimo secolo. Non riusciva a capire come qualcuno potesse contemplare l'asimmetria dinamica della formula di Eulero, profonda eppure meravigliosamente semplice:

eπi+1=0

senza chiedersi se l'universo non fosse la creazione di un'intelligenza enorme.

La prima fama gli era giunta con una nuova teoria cosmologica che era sopravvissuta quasi dieci anni prima di essere respinta. Goldberg era stato acclamato come un nuovo Einstein o N'goya. In un'epoca di ultraspecializzazione, era persino riuscito a fare considerevoli progressi nell'aerodinamica e idrodinamica, da tempo considerate incapaci di produrre altre sorprese.

Poi, nel pieno della forza intellettuale, aveva conosciuto una conversione religiosa non troppo diversa da quella di Pascal, anche se meno compiaciuta. Per i dieci anni successivi si era accontentato di perdersi nell'anonimato d'una tunica color zafferano, puntando il suo cervello brillante su questioni di dottrina e filosofia. Non rimpiangeva quell'intermezzo, e non era nemmeno sicuro di aver abbandonato l'Ordine: un giorno, forse, quella grande scalinata lo avrebbe rivisto. Ma i suoi talenti, regalati da Dio, reclamavano le proprie ragioni. C'era un lavoro enorme da fare, e gli servivano strumenti che non poteva trovare a Sri Kanda, e nemmeno, a dire il vero, su tutta la Terra.

Provava pochissima ostilità, ormai, per Vannevar Morgan. Senza saperlo, l'ingegnere aveva acceso la scintilla; con tutta la sua stupidità, era anche lui un messo di Dio. Però il tempio doveva essere protetto a ogni costo. Che la Ruota del Fato lo facesse o non lo facesse tornare a quella tranquillità, Parakarma era implacabilmente deciso a difenderlo.

E così, come un nuovo Mosè che riportasse dalla montagna leggi che avrebbero mutato i destini dell'umanità, il Venerabile Parakarma discese a quel mondo cui un tempo aveva rinunciato. Era cieco alle bellezze della terra e del cielo che gli stava attorno; poiché esse erano assolutamente banali a paragone di quelle che lui solo poteva vedere, nell'esercito di equazioni che gli marciava in mente.

23 Lundozer

— Il vostro guaio, dottor Morgan — disse l'uomo sulla sedia a rotelle — è che vi trovate sul pianeta sbagliato.

— Non posso impedirmi di pensare — ribatté Morgan, gettando un'occhiata penetrante all'apparecchiatura di cui si serviva il suo ospite — che anche di voi si possa dire lo stesso.

Il vice presidente (Investimenti) della Narodny Marte uscì in una risatina compiaciuta.

— Per lo meno io resto qui una sola settimana; poi torno sulla Luna, a una gravità decente. Oh, se proprio ci sono costretto riesco a camminare. Ma preferisco di no.

— Se posso chiederlo, come mai siete venuto sulla Terra?

— Ci vengo il meno possibile, ma a volte la presenza fisica è indispensabile. Nonostante quello che si dice, i remoti non possono fare tutto. Sono certo che lo saprete.

Morgan annuì. Era abbastanza vero. Ripensò a tutte le volte che la consistenza di qualche materiale, il tocco della roccia o del suolo sotto i suoi piedi, il profumo d'una giungla, l'umidità della schiuma sulla faccia avevano giocato un ruolo decisivo in uno dei suoi progetti. Un giorno, forse, sarebbe stato possibile trasmettere elettronicamente anche quelle sensazioni; anzi, in via sperimentale era già stato fatto, in modo molto rozzo e con costi enormi. Ma la realtà non ha surrogati; non bisogna fidarsi delle imitazioni.

— Se siete venuto sulla Terra per vedere me — disse Morgan — apprezzo l'onore. Ma se volete offrirmi un lavoro su Marte state perdendo tempo. In pensione mi diverto, vedo amici e parenti che non incontravo da anni, e non ho intenzione di iniziare una nuova carriera.

— Lo trovo sorprendente. Dopo tutto avete solo cinquantadue anni. Come pensate di occupare il tempo?

— Facilissimo. Potrei trascorrere tutto il resto della mia vita tra una dozzina di progetti. Gli antichi costruttori, i romani, i greci, gli incas, mi hanno sempre affascinato, e non ho mai avuto il tempo di studiarli. Mi hanno chiesto di scrivere e tenere un corso sulla scienza della progettazione per l'Università Mondiale. Ho firmato un contratto per un volume sulle strutture complesse. Voglio sviluppare alcune idee circa l'uso degli elementi naturali per correggere i carichi dinamici: i venti, i terremoti, eccetera. Sono ancora consulente del Comitato Generale Tettonico. E sto preparando un rapporto sull'amministrazione della TCC.

— Su richiesta di chi? Non del senatore Collins, immagino.

— No — rispose Morgan, con un sorriso torvo. — Pensavo che potesse essere… utile. E mi aiuta a sentirmi meglio.

— Ne sono certo. Ma nessuna di queste attività è davvero creativa. Prima o poi impallidiranno, come questo magnifico paesaggio norvegese. Vi stancherete di guardare laghi e abeti, come vi stancherete di scrivere e parlare. Voi siete il tipo d'uomo che non sarà mai soddisfatto, dottor Morgan, se non può modellare il proprio universo.

Morgan non rispose. La prognosi era troppo esatta per non turbarlo.

— Sospetto che siate d'accordo con me. Cosa direste se vi raccontassi che la mia Banca è seriamente interessata al progetto dell'elevatore spaziale?

— Sarei scettico. Quando li ho contattati mi hanno risposto che era un'ottima idea, ma che a questo stadio non potevano investire niente. Tutti i fondi disponibili erano necessari per lo sviluppo di Marte. È la solita storia: saremo lieti di aiutarvi quando non vi servirà più aiuto.

— Questo è successo un anno fa. Ora ci abbiamo ripensato. Vorremo che voi costruiste l'elevatore spaziale, ma non sulla Terra. Su Marte. Vi interessa?

— Può darsi. Continuate.

— Considerate i vantaggi. Solo un terzo della gravità, per cui le forze in gioco sono proporzionalmente inferiori. Anche l'orbita sincrona è più vicina, si trova a meno della metà dell'altezza di qui. Quindi i problemi tecnici sono enormemente ridotti sin dall'inizio. Secondo la nostra stima, l'elevatore su Marte verrebbe a costare meno di un decimo che sulla Terra.

— È possibile. Comunque dovrò controllare.

— E questo è appena l'inizio. Su Marte, nonostante l'atmosfera rarefatta, abbiamo tempeste terribili… però anche montagne che si alzano molto al di sopra delle tempeste. La vostra Sri Kanda è alta solo cinque chilometri. Noi abbiamo il Mons Pavonis: ventun chilometri, ed esattamente sull'equatore! Ancora meglio, sulla sua cima non esistono monaci marziani con diritti di proprietà a lungo termine. E c'è un'altra ragione per cui forse Marte è l'ideale per un elevatore spaziale. Deimos si trova appena a tremila chilometri sopra l'orbita stazionaria. Per cui possediamo già un paio di milioni di megatonnellate sistemati nel posto esatto per l'ancoraggio.

— Si creerebbe qualche interessante problema per la sincronizzazione, ma capisco il vostro punto. Mi piacerebbe incontrare le persone che hanno elaborato questi dati.

— Qui è impossibile. Stanno tutte su Marte. Dovreste venire da noi.

— Sono tentato, ma ho ancora qualche domanda.

— Avanti.

— La Terra "deve" avere l'elevatore, per tutti i motivi che voi indubbiamente conoscete. Ma mi sembra che Marte potrebbe farne a meno. Voi avete solo una minima parte del nostro traffico spaziale, e un tasso di crescita previsto molto minore. Francamente non mi pare che la cosa abbia molto senso.

— Mi chiedevo quando l'avreste chiesto.

— Appunto, l'ho chiesto.

— Avete sentito parlare del Progetto Eos?

— Non credo.

— Eos, alba, in greco. Il progetto per ringiovanire Marte.

— Oh, certo che lo conosco. Vorreste sciogliere le calotte polari, no?

— Esattamente. Se riuscissimo a sgelare tutta quell'acqua e quel ghiaccio di anidride carbonica succederebbero parecchie cose. La densità atmosferica crescerebbe fino al punto da permettere agli uomini di lavorare all'aperto senza le tute spaziali; in tempi più lunghi, potremmo addirittura rendere respirabile l'aria. Ci sarebbero corsi d'acqua, piccoli mari, e soprattutto vegetazione: sarebbe l'inizio di un ambiente biologico accuratamente pianificato. In un paio di secoli Marte potrebbe diventare un secondo Giardino dell'Eden. È l'unico pianeta del sistema solare che siamo in grado di trasformare con la tecnologia attuale. Venere, probabilmente, è già troppo caldo.

— E l'elevatore spaziale cosa c'entra?

— Dovremo mettere in orbita diversi milioni di tonnellate d'equipaggiamenti. L'unico modo pratico per riscaldare Marte è usare specchi solari con un diametro di centinaia di chilometri. E ne avremo bisogno per sempre: all'inizio per sciogliere le calotte, poi per mantenere una temperatura confortevole.

— Non potete ottenere tutto il materiale dalle miniere degli asteroidi?

— Una parte sì, certo. Ma i migliori specchi per questo uso si fabbricano col sodio, che nello spazio è raro. Dovremo estrarlo dai depositi salini di Tharsis, che per fortuna si trovano proprio ai piedi del Pavonis.

— E quanto tempo ci vorrebbe per tutto questo?

— Se non si creano problemi, il primo stadio potrebbe essere terminato entro cinquant'anni. Forse per il vostro centesimo compleanno, che secondo gli attuari potete raggiungere con trentanove probabilità su cento.

Morgan rise.

— Ammiro chi fa lavori di ricerca tanto accurati.

— Su Marte non sopravvivremo, se non prestassimo attenzione ai particolari.

— Molto bene. Sono favorevolmente impressionato, per quanto abbia ancora molte riserve. I finanziamenti, ad esempio…

— Questo è lavoro mio, dottor Morgan. Io sono il banchiere. Voi l'ingegnere.

— Perfetto. Però mi sembra che voi d'ingegneria ne sappiate parecchio, e io ho dovuto imparare diverse cose dell'economia, spesso a mie spese. Prima anche solo di prendere in considerazione l'idea d'imbarcarmi in un progetto del genere, voglio vedere un preventivo dettagliato.

— Che possiamo fornirvi…

— … E questo è solo l'inizio. Forse non sapete che bisogna ancora eseguire un'infinità di ricerche in una mezza dozzina di campi: produzione su scala industriale dell'iperfilamento, problemi di stabilità e di controllo… Potrei continuare per tutta la notte.

— Non sarà necessario. I nostri ingegneri hanno letto tutte le vostre relazioni. Quello che propongo è un esperimento su piccola scala per risolvere molti dei problemi tecnici e dimostrare che il principio è esatto…

— Su questo non c'è dubbio.

— Ne convengo, ma è sorprendente quanta differenza potrebbe fare una piccola dimostrazione pratica. Questo è quello che vi proponiamo. Progettate il sistema più piccolo possibile: semplicemente un filo con un carico di pochi chilogrammi. Tendetelo dall'orbita sincrona alla Terra, sì, la Terra. Se funziona qui, su Marte sarà ancora più facile. Poi fate salire qualcosa, solo per dimostrare che i razzi sono obsoleti. L'esperimento costerà relativamente poco, ci fornirà informazioni essenziali e una prima pratica, e, dal nostro punto di vista, risparmierà anni di discussione. Potremo presentarci al Governo Terrestre, al Fondo Solare, alle altre banche interplanetarie, e far presente la dimostrazione.

— Avete proprio pensato a tutto. Tra quanto vorreste la mia risposta?

— Ad essere sincero, fra cinque secondi circa. Ma, ovviamente, la questione non ha niente d'urgente. Metteteci il tempo che vi sembra ragionevole.

— Benissimo. Datemi i vostri studi grafici, l'analisi dei costi, e tutto l'altro materiale che avete. Dopo averli esaminati, vi farò sapere la mia risposta in… oh, una settimana al massimo.

— Grazie. Questo è il mio numero. Mi trovate sempre.

Morgan infilò il biglietto da visita del banchiere nell'ingresso di memoria del suo comunicatore e controllò che si accendesse la scritta REGISTRATO. Prima di restituire il biglietto aveva già deciso.

A meno che l'analisi marziana non contenesse qualche errore decisivo (ma avrebbe scommesso una fortuna che era perfetta), il suo periodo di riposo era terminato. Aveva notato spesso, con un certo divertimento, che mentre di solito impiegava molto a prendere decisioni relativamente secondarie, non aveva mai esitato un attimo nei punti di svolta più cruciali della sua carriera. Aveva sempre saputo cosa fare, e s'era sbagliato di rado.

Eppure, a quel livello, era meglio non investire troppo capitale intellettuale o emotivo in un progetto che poteva finire in niente. Dopo che il banchiere fu ripartito per la prima parte del viaggio di rientro a Porto Tranquillità, via Oslo e Gagarin, Morgan trovò impossibile dedicarsi a qualcuna delle attività che aveva programmato per il lungo inverno nordico: il suo cervello era in subbuglio, esaminava l'intero spettro di futuri improvvisamente diversi.

Dopo qualche minuto di passeggiare irrequieto, sedette alla scrivania e cominciò ad annotare gli impegni in ordine contrario alla loro importanza, partendo dalle cose che poteva rimandare con maggior facilità. Poco dopo, tuttavia, trovò impossibile concentrarsi su questioni talmente ordinarie. Dentro, nel profondo della sua mente, qualcosa cercava di parlargli, di attrarre la sua attenzione. Quando cercò di concentrarsi, quel qualcosa si eclissò subito, come una parola familiare ma momentaneamente dimenticata.

Con un sospiro di frustrazione Morgan si alzò dalla scrivania e s'incamminò sulla veranda che correva lungo la facciata ovest dell'hotel. Faceva freddissimo, ma l'aria era calma, e la temperatura sotto zero era più uno stimolo che un inconveniente. Il cielo era uno splendore di stelle e la luna gialla, crescente, si tendeva verso il proprio riflesso nel fiordo. La superficie delle acque era così scura e immobile da sembrare una lastra di ebano tirata a lucido.

Trent'anni prima si trovava quasi in quello stesso punto, con una ragazza di cui non riusciva più a ricordare chiaramente l'aspetto. Tutti e due celebravano la loro prima laurea, e quello era tutto quanto avevano in comune. Non si trattava di una storia seria: erano giovani, stavano bene assieme, e tanto bastava. Eppure, chissà come, quel ricordo sbiadito lo aveva riportato al fiordo Trollshavn in quel momento cruciale della sua vita. Cosa avrebbe pensato quel giovane studente di ventidue anni se avesse saputo che, tre decenni dopo, i passi lo avrebbero ricondotto in quel luogo di antichi piaceri?

Nel ricordo di Morgan non c'era traccia di nostalgia o di autocommiserazione; solo una specie di divertimento pensieroso. Nemmeno per un istante aveva rimpianto il fatto che lui e Ingrid si fossero separati da buoni amici, senza neanche prendere in considerazione il solito contratto annuale. Lei era riuscita a rendere moderatamente infelici altri tre uomini prima di trovarsi un lavoro nella Commissione Lunare, e Morgan l'aveva persa di vista. Forse lei era lassù anche in quel momento, su quella luna crescente dal colore tanto simile a quello dei suoi capelli.

Ma basta col passato. Morgan rivolse i pensieri al futuro. Dov'era Marte? Si vergognava d'ammettere che non sapeva nemmeno se quella notte fosse visibile. Lasciò scorrere gli occhi lungo il percorso dell'eclittica, dalla Luna allo scintillio accecante di Venere, e oltre; ma in quella profusione di gioielli non vide niente che potesse identificare esattamente col pianeta rosso. Era eccitante pensare che in un futuro non troppo lontano, lui (che non si era mai spinto oltre l'orbita lunare!) avrebbe visto quei paesaggi scarlatti coi propri occhi, osservato le piccole lune che passavano in fretta di fase in fase.

In quel momento il sogno crollò. Morgan restò un attimo paralizzato, poi si precipitò dentro l'hotel, dimentico dello splendore notturno.

Nella sua stanza non c'era un terminale per usi generici, per cui dovette scendere nell'atrio per ottenere l'informazione che desiderava. La sorte fece sì che la cabina fosse occupata da un'anziana signora, la quale impiegò tanto tempo a scoprire quello che voleva sapere che Morgan quasi bussò alla porta. Ma finalmente quella buona a niente se ne andò mormorando scusa, e Morgan si trovò a tu per tu con tutta l'arte e la scienza dell'umanità.

Ai tempi in cui studiava, aveva vinto diversi campionati di velocità: combatteva contro l'orologio cercando di ottenere oscure informazioni su liste preparate da giudici ingeniosi e sadici ("Qual è stato il tasso di piovosità nella capitale dello stato nazionale più piccolo del mondo il giorno che il campionato di baseball del college ha registrato un numero di basi inferiore di due unità al record?" era una delle domanche che ricordava con affetto particolare). Col tempo la sua abilità era migliorata, e poi quella era una domanda semplice. La risposta giunse dopo trenta secondi, fornendogli molti più dettagli di quanti non gli occorressero.

Morgan scrutò lo schermo per un minuto, poi scosse la testa, decisamente sorpreso.

— Non possono non averci pensato! — mormorò. — Ma cosa potrebbero farci?

Morgan schiacciò il pulsante per ottenere lo stampato e risalì in camera col foglio di carta, per studiarlo meglio. Il problema era così straordinariamente, incredibilmente ovvio da indurlo a chiedersi se non gli fosse sfuggita una soluzione altrettanto ovvia, e se non avrebbe fatto la figura dell'imbecille sollevando l'argomento. Eppure non esistevano scappatoie…

Guardò l'orologio: mezzanotte passata. Ma era una questione che doveva sistemare subito.

Con sollievo di Morgan, il banchiere non aveva premuto il pulsante NON DISTURBARE. Gli rispose immediatamente, un po' sorpreso.

— Spero di non avervi svegliato — disse Morgan, senza troppa sincerità.

— No. Stiamo per atterrare a Gagarin. Qual è il problema?

— Circa dieci teratonnellate che viaggiano a due chilometri al secondo. La luna interna, Phobos. È un bulldozer cosmico che passerà accanto all'elevatore ogni undici ore. Non ho ancora calcolato le probabilità esatte, ma è inevitabile una collisione ogni pochi giorni.

Dall'altra parte del circuito ci fu silenzio per un lungo momento. Poi il banchiere disse: — Potevo pensarci persino io. Per cui, ovviamente, qualcuno avrà la risposta. Forse dovremo spostare Phobos.

— Impossibile. Ha una massa troppo grande.

— Dovrò chiamare Marte. Al momento c'è un intervallo di dodici minuti. Entro un'ora dovrei avere una risposta.

"Lo spero" si disse Morgan. "E che sia una risposta buona… Naturalmente, se voglio 'davvero' questo lavoro."

24 Il dito di Dio

La "Dendrobium macarthiae" di solito fioriva all'arrivo del monsone di sudovest, ma quell'anno era in anticipo. Johan Rajasinghe, mentre nella serra delle orchidee ammirava i complessi boccioli viola-rosa, ricordò che la stagione scorsa era rimasto intrappolato lì per mezz'ora da una violenta precipitazione, proprio quando esaminava i boccioli.

Guardò ansioso il cielo: no, c'era scarso pericolo di pioggia. Era una bella giornata; banchi alti e sottili di nuvole mitigavano l'irruenza del sole. Però "quella" era strana…

Rajasinghe non aveva mai visto niente del genere. Quasi sulla verticale sopra di lui, le formazioni parallele di nubi erano interrotte da una perturbazione circolare. Sembrava un piccolo ciclone, con un diametro di pochi chilometri, ma gli ricordava qualcosa di completamente diverso: una nodosità che interrompesse la superficie liscia di un'asse di legno. Abbandonò le adorate orchidee e uscì, per osservare meglio il fenomeno. Ora vedeva che la piccola perturbazione si spostava lentamente in cielo; la traccia del suo passaggio era chiaramente indicata dalla distorsione delle nubi.

Non era difficile immaginare che il dito di Dio stesse scendendo dal paradiso, tracciando un solco fra le nuvole. Nemmeno Rajasinghe, che conosceva i principi basilari del controllo meteorologico, aveva idea che fosse possibile una precisione così totale; ma poteva essere un poco orgoglioso del fatto che, circa quarant'anni prima, aveva avuto un ruolo in quelle conquiste.

Non era stato facile persuadere le ultime superpotenze ad abbandonare le loro fortezze orbitali e consegnarle al Comitato Meteorologico Mondiale. Si era trattato (se la metafora non era eccessiva) dell'ultimo, drammaticissimo esempio di spade trasformate in aratri. Ora, i laser che un tempo minacciavano l'umanità dirigevano i loro raggi su parti dell'atmosfera accuratamente scelte, oppure su remote regioni della Terra che ne assorbivano il calore. L'energia che contenevano era irrilevante, a paragone di quella tempesta più piccola; ma è minuscola anche l'energia della pietra che cade e dà origine a una valanga, o del neutrone che avvia una reazione a catena.

A parte quello, Rajasinghe non sapeva niente dei dettagli tecnici, se non che si serviva di una rete di satelliti monitor e di computer che possedevano nel loro cervello elettronico un modello completo dell'atmosfera terrestre, delle terre e dei mari. Si sentiva un po' come un selvaggio pieno di meraviglia di fronte ai miracoli di una tecnologia avanzata: il piccolo ciclone si mosse deciso verso ovest, poi scomparve sotto la fila di palme oltre i bastioni dei Giardini del Piacere.

Poi lui alzò gli occhi verso i tecnici e gli scienziati invisibili che correvano attorno al mondo nei loro paradisi costruiti dall'uomo.

— Molto impressionante — disse. — Ma spero che sappiate "esattamente" cosa state facendo.

25 Roulette orbitale

— Dovevo immaginarmelo — disse il banchiere, depresso — che la risposta si trovava in una di quelle appendici tecniche che non ho mai guardato. E adesso che voi avete studiato la relazione, mi piacerebbe conoscere la risposta. Da che avete sollevato il problema, mi sono sentito preoccupato.

— È ingegnosamente ovvio — rispose Morgan. — Avrei dovuto pensarci da solo.

"E prima o poi ci avrei pensato" si disse con una certa sicurezza. Con l'occhio della mente vedeva ancora le simulazioni del computer, l'immensa struttura che oscillava come la corda d'un violino cosmico mentre le vibrazioni correvano dalla Terra all'orbita e venivano riflesse indietro. E poi, in sovrimpressione, fece scorrere di nuovo nella memoria, per la centesima volta, il filmato del ponte che danzava. Non gli servivano altre indicazioni.

— Phobos passa accanto alla torre ogni undici ore e dieci minuti, ma per fortuna non si muove esattamente sullo stesso piano, se no avremmo una collisione ogni volta che transita. Non colpisce la torre durante parecchie rivoluzioni, e i periodi critici si possono predire con esattezza, fino al centesimo di secondo, se vogliamo. L'elevatore, come ogni costruzione, non è una struttura completamente rigida. Ha un suo periodo naturale di vibrazioni che si possono calcolare quasi con la stessa accuratezza delle orbite planetarie. Per cui i vostri ingegneri propongono di mettere in sintonia l'elevatore, in modo che le sue oscillazioni naturali, che comunque non è possibile evitare, lo tengano sempre alla larga da Phobos. Ogni volta che il satellite incrocerà la struttura, la torre non ci sarà: si sarà spostata di qualche chilometro rispetto all'area pericolosa.

Ci fu una lunga pausa all'altro capo del circuito.

— Non dovrei dirlo — replicò finalmente il marziano — ma ho l'impressione che i capelli mi si rizzino in testa.

Morgan rise. — Detto in maniera così brutale, sembra un po'… come si chiamava?… la roulette russa. Ma ricordatevi che abbiamo a che fare con movimenti esattamente prevedibili. Sappiamo sempre dove si troverà Phobos e possiamo controllare lo spostamento della torre semplicemente attraverso la pianificazione del traffico.

"Semplicemente" pensò Morgan, non era il termine esatto, ma chiunque poteva comprendere che era possibile. E poi gli venne in mente un'analogia così assurda, da farlo quai scoppiare a ridere. No… non era proprio il caso di raccontarla al banchiere.

Tornò ancora una volta al ponte di Tacoma Narrows, ma questa volta in un mondo di fantasia. Una nave doveva passargli sotto, all'ora esattamente prevista. Sfortunatamente, l'albero di coffa era alto un metro di troppo.

Nessun problema. Poco prima dell'arrivo della nave, bastava far passare di corsa sul ponte due autocarri pesanti, a intervalli accuratamente calcolati per corrispondere alla frequenza di risonanza della struttura. Un'onda dolce sarebbe corsa lungo la carreggiata di pilastro in pilastro, e la cresta dell'onda doveva coincidere con l'arrivo della nave.

E così l'albero di coffa sarebbe tranquillamente passato, con diversi centimetri di margine… Su una scala migliaia di volte più ampia, era così che Phobos non avrebbe incontrato la struttura che da Mons Pavonis si slanciava nello spazio.

— Sono lieto che voi mi rassicuriate — disse il banchiere — ma penso che prima d'imbarcarmi sulla Torre controllerò la posizione di Phobos.

— Allora sarete sorpreso di sapere che qualcuno dei vostri giovanotti (sono senz'altro brillanti, e presumo che siano giovani per la loro terribile audacia tecnica) vuole sfruttare i periodi critici come attrazione turistica. Pensano di poter far pagare biglietti più salati per lo spettacolo di Phobos che passa a portata di mano, alla velocità di un paio di centinaia di chilometri orari. Uno spettacolo fantastico, non credete?

— Personalmente preferisco solo immaginarlo, ma forse hanno ragione. Ad ogni modo sono lieto di sentire che esiste una soluzione. E sono felice di notare che ammirate i nostri talenti. Significa che possiamo attenderci presto la vostra decisione?

— Ve la do subito — rispose Morgan. — Quando possiamo cominciare a lavorare?

26 La notte prima di Vesak

Dopo ventisette secoli, quello era ancora il giorno più sacro del calendario di Taprobane. Alla luna piena di maggio, secondo la leggenda, il Buddha era nato, aveva ricevuto l'illuminazione, ed era morto. Anche se per molta gente Vesak ormai non significava molto di più dell'altra grande festa annuale, il Natale, era sempre un'occasione di meditazione e tranquillità.

Per molti anni il Controllo Monsoni aveva fatto sì che non piovesse, la notte prima e dopo Vesak. E, quasi per altrettanti anni, Rajasinghe si era recato alla Città Reale due giorni prima della luna piena, in un pellegrinaggio che ogni anno rigenerava il suo spirito. Non vi andava il giorno di Vesak: Ranapur era troppo affollata di visitatori, qualcuno lo avrebbe senz'altro riconosciuto, disturbato la sua solitudine.

Solo l'occhio più acuto poteva notare che l'enorme luna gialla sospesa sulle cupole a campana degli antichi "dagoba" non era ancora un cerchio perfetto. Emanava una luminosità tanto intensa che nel cielo senza nubi erano visibili solo poche stelle e satelliti, i più brillanti. E non c'era un soffio di vento.

Due volte, si diceva, Kalidas si era fermato lungo quel percorso quando aveva lasciato per sempre Ranapur. La prima sosta fu alla tomba di Hanuman, l'amato compagno della sua infanzia; e la seconda al Tempio del Buddha Morente. Rajasinghe si era chiesto spesso quale sollievo ne avesse tratto il re maledetto, forse in quello stesso punto, perché era il luogo migliore da cui osservare l'immensa statua scolpita nella roccia solida. Le proporzioni di quella figura reclinata erano talmente perfette che bisognava arrivarle davanti, prima di afferrare le reali dimensioni. Da lontano era impossibile accorgersi che il cuscino sotto la testa di Buddha era, da solo, più alto d'un uomo.

Rajasinghe aveva visto molto del mondo, ma non conosceva un altro luogo così pieno di pace. A volte pensava di poter restare seduto lì per l'eternità, sotto la luna gialla, del tutto dimentico dei problemi e della confusione dell'esistenza. Non aveva mai cercato di analizzare troppo a fondo la magia del Tempio, per timore di distruggerla, ma alcune delle sue componenti erano piuttosto chiare. Lo stesso atteggiamento dell'Illuminato, sereno ad occhi chiusi dopo una vita lunga e nobile, irradiava serenità. Le pieghe morbide della sua tunica erano straordinariamente dolci e riposanti da contemplare; sembravano fluire dalla roccia, formare onde di pietra immobile. E, come le onde del mare, il ritmo naturale delle loro curve faceva appello a istinti di cui la parte razionale della mente non sapeva niente.

In momenti eterni come quello, solo col Buddha e la luna quasi piena, Rajasinghe sentiva di riuscire finalmente a comprendere il significato del Nirvana, quel particolare stato che può essere definito solo attraverso negazioni. Emozioni come l'ira, il desiderio, la cupidigia non possedevano più alcun potere; anzi, erano a stento concepibili. Persino il senso dell'identità personale sembrava sul punto di scomparire, come la nebbia davanti al sole del mattino.

Non poteva durare, naturalmente. Adesso avvertiva il ronzio degli insetti, il lontano abbaiare di cani, il freddo ruvido della pietra su cui sedeva. La tranquillità non è uno stato che si possa protrarre a lungo. Con un sospiro Rajasinghe si alzò e s'incamminò verso la macchina, parcheggiata un centinaio di metri all'esterno del terreno del tempio.

Stava salendo in auto quando notò la macchiolina bianca, così netta da sembrare dipinta in cielo, che si alzava a ovest al di sopra degli alberi. Era la nube più strana che Rajasinghe avesse mai visto: un ellissoide perfettamente simmetrico, dai contorni così precisi che sembrava quasi solido. Si chiese se qualcuno stesse volando in dirigibile nei cieli di Taprobane; ma non vedeva code stabilizzatrici, e non udiva il rombo dei motori.

Poi, per un brevissimo momento, fu cullato da un fantasia ancor più sfrenata. "Erano arrivati gli Stellisolani…"

Ma, ovviamente, era assurdo. Se anche fossero riusciti a correre più veloci dei loro segnali radio, era impossibile che avessero traversato tutto il sistema solare (e fossero scesi sui cieli della Terra!) senza far scattare tutte le postazioni radar esistenti. La notizia sarebbe già stata diffusa da ore.

Sorpreso, Rajasinghe scoprì di essere piuttosto deluso. E ora, mentre l'apparizione si faceva più vicina, scoprì che era senz'altro una nuvola, perché i contorni erano leggermente sfilacciati. Viaggiava a una velocità impressionante, come trasportata da una tempesta personale di cui non c'era ancora traccia a livello del suolo.

E così gli scienziati del Controllo Monsoni si davano di nuovo da fare, mettevano alla prova la padronanza dei venti. "Cos'altro" si chiese Rajasinghe "escogiteranno la prossima volta?"

27 Stazione Ashoka

Come sembrava piccola l'isola da quell'altitudine! Trentaseimila chilometri più in basso, a cavallo dell'equatore, Taprobane non pareva molto più grande della luna. Il suo intero territorio sembrava un bersaglio troppo minuscolo per riuscire a colpirlo; eppure lui mirava a una zona al centro dell'isola delle dimensioni di un campo da tennis.

Nemmeno ora Morgan era completamente sicuro delle proprie motivazioni. Per quella dimostrazione avrebbe anche potuto servirsi della Stazione Kinte e colpire il Kilimanjaro o il Monte Kenya. Il fatto che Kinte si trovasse in uno dei punti più instabili di tutta l'orbita stazionaria, e che dovesse continuamente manovrare per restare sopra l'Africa Centrale, non avrebbe contato molto nei pochi giorni dell'esperimento. Per un po' si era lasciato tentare dall'idea di scegliere come bersaglio Chimborazo; gli americani si erano persino offerti, nonostante la spesa non indifferente, di portare la Stazione Colombo su quell'esatta longitudine. Ma alla fine, a dispetto di quelle proposte, era tornato all'obiettivo iniziale: Sri Kanda.

Per Morgan era una fortuna che, in quell'epoca di decisioni prese con l'aiuto del computer, anche una sentenza della Corte Mondiale si potesse ottenere nel giro di qualche settimana. Il "vihara", ovviamente, aveva protestato. Morgan aveva ribattuto che un breve esperimento scientifico, condotto su un terreno all'esterno dei possedimenti del tempio e che non avrebbe creato rumori, inquinamento, o inconvenienti d'altro tipo, non poteva costituire un torto. Se gli avessero impedito di procedere, tutto il suo lavoro sarebbe stato in pericolo, lui non avrebbe avuto modo di controllare i calcoli, e un progetto di vitale importanza per la Repubblica di Marte avrebbe ricevuto un duro colpo.

Erano argomenti molto plausibili, e Morgan stesso li aveva ritenuti praticamente validi. Anche i giudici, cinque contro due. Per quanto la Corte Mondiale non dovesse lasciarsi influenzare da questioni del genere, l'accenno ai litigiosi marziani era stata una mossa abile. La Repubblica Marziana aveva già in ballo tre cause molto complesse, e la Corte cominciava a essere stanca di stabilire precedenti nella legislazione interplanetaria.

Ma Morgan sapeva, o almeno lo sapeva la parte freddamente analitica del suo cervello, che quell'azione non gli era stata imposta solo dalla logica. Non era uomo da accettare di buon grado le sconfitte; un gesto di sfida gli procurava una certa soddisfazione. Eppure, a un livello ancora più profondo, rifiutava quel motivo sciocco: un capriccio del genere non era degno di lui. In realtà stava ricostruendo la fiducia in se stesso, voleva affermare ancora una volta la sua fede nel successo finale. Senza sapere come, o quando, stava annunciando al mondo e, soprattutto, a quei monaci testardi chiusi fra mura antiche: "Ritornerò".

La Stazione Ashoka controllava praticamente tutta la meteorologia, le comunicazioni, la supervisione ambientale e il traffico spaziale nella regione del Catai indù. Se avesse smesso di funzionare, un miliardo di vite si sarebbero trovate in pericolo, e, se non avesse ricominciato a operare, per loro sarebbe stata la morte sicura. Era logico che Ashoka possedeva due sub-satelliti completamente indipendenti, Bhaba e Sarabhai, lontani un centinaio di chilometri. Se anche una catastrofe inimmaginabile avesse distrutto tutte e tre le stazioni, Kinte e Imhotep a ovest, o Confucio a est, erano in grado di sostituirle in una situazione d'emergenza. La razza umana aveva imparato, da lezioni durissime, a non mettere tutte le uova nello stesso paniere.

Lì, così lontano dalla Terra, non c'erano turisti, gitanti o ospiti di passaggio. Gente del genere portava a termine i propri affari, oppure si godeva lo spettacolo, a pochi chilometri d'altezza dal pianeta, e lasciava quell'alta orbita geosincrona a scienziati e tecnici; ma anche loro non si erano mai recati su Ashoka per compiere una missione così bizzarra e tanto meno con strumenti tanto insoliti.

In quel momento, l'elemento essenziale dell'Operazione Ragnatela fluttuava in una delle piccole camere d'agganciamento della stazione, in attesa dell'ultimo controllo prima del lancio. Non aveva niente di troppo spettacolare, e il suo aspetto non lasciava immaginare le ricerche di anni e i milioni occorsi per crearlo.

Il cono d'un grigio anonimo, lungo quattro metri e largo due metri alla base, sembrava fatto di metallo solido; occorreva un attento esame per scoprire la fibra tesissima che ne ricopriva l'intera superficie. A parte un nucleo interno e i fogli di tessuto plastico che separavano le centinaia di strati, il cono era fatto solo di un filo d'iperfilamento, lungo quarantamila chilometri.

Due antiche tecnologie, totalmente diverse, erano state riesumate per la costruzione di quel cono anonimo.

Trecento anni prima avevano iniziato a funzionare, lungo i letti degli oceani, i telegrafi sottomarini; l'umanità aveva sprecato immense fortune prima di padroneggiare l'arte di arrotolare migliaia di chilometri di cavo e stenderli a velocità costante di continente in continente, nonostante le tempeste e tutti gli altri pericoli del mare. Poi, un secolo dopo, alcune delle prime, rozze armi guidate vennero controllate da fili robusti che si srotolavano durante il volo verso il bersaglio, a poche centinaia di chilometri l'ora. Morgan tentava di superare di un migliaio di volte la portata di quei pezzi da museo della guerra, a una velocità cinquanta volte superiore. Però aveva qualche vantaggio. Il suo missile, tranne che per gli ultimi cento chilometri, avrebbe viaggiato nel vuoto assoluto; e il suo bersaglio non avrebbe cercato di sfuggirgli.

La direttrice operativa del Progetto Ragnatela richiamò l'attenzione di Morgan con un colpo di tosse leggermente imbarazzato.

— Abbiamo ancora un piccolo problema, dottore — gli disse. — Sulla discesa del filo non ci sono dubbi: tutte le prove e simulazioni al computer sono soddisfacenti, come avete visto. È il rientro del filamento che preoccupa la Sicurezza della Stazione.

Morgan ammiccò rapidamente. Aveva riflettuto poco sulla questione. Gli sembrava ovvio che riarrotolare il filamento fosse un problema banale a paragone del problema di mandarlo giù. Senza dubbio non serviva altro che un semplice argano elettrico, con le modifiche necessarie per controllare un materiale così sottile e di spessore variabile, però sapeva che nello spazio non si poteva dare niente per scontato, e quell'intuizione, soprattutto l'intuizione di un ingegnere abituato a lavorare a terra, poteva risultare ingannevole.

Vediamo: terminata la prova, tagliamo l'estremità collegata a terra e Ashoka comincia a riarrotolare il filamento. Ovviamente, a prescindere dalla forza applicata, quando tira il capo di una corda lunga quarantamila chilometri non succede niente per ore. Occorreva mezza giornata perché l'impulso raggiungesse l'altro capo e il sistema cominciasse a muoversi nel suo insieme. Per cui bisogna tenere costante la tensione… Oh!

— Qualcuno ha fatto un po' di calcoli — continuò la donna — e ha scoperto che quando il filo si metterà in moto avremo diverse tonnellate di peso dirette verso la stazione a mille chilometri l'ora. E l'idea non è piaciuta a nessuno.

— Comprensibile. Cosa vogliono che facciamo?

— Che programmiamo un rientro a velocità più bassa, con una quantità di moto totale sotto controllo. Se dovesse succedere il peggio potrebbero ordinarci di ultimare il recupero all'esterno della stazione.

— E questo ritarderà l'operazione?

— No. Abbiamo elaborato un piano d'emergenza per trasportare il tutto fuori dalla camera d'equilibrio in cinque minuti, se fosse necessario.

— E potrete recuperare l'argano con facilità?

— Naturalmente.

— Spero che abbiate ragione. Quel minuscolo filo da pesca costa un sacco di soldi, e voglio usarlo ancora.

"Ma dove?" si chiese Morgan, fissando il disco della Terra che cresceva lentamente. Forse era meglio completare prima il progetto su Marte, anche se questo significava diversi anni d'esilio. Quando l'impianto di Pavonis fosse stato pronto, la Terra sarebbe stata costretta a seguire l'esempio, e lui non dubitava che, in un modo o nell'altro, si sarebbero scavalcati gli ultimi ostacoli.

Allora l'abisso che fissava in quel momento sarebbe stato colmato, e la fama guadagnata da Gustave Eiffel tre secoli prima sarebbe risultata del tutto eclissata.

28 La prima discesa

Per almeno altri venti minuti non c'era niente da vedere. Eppure, tutti quelli che non erano di servizio al centro controllo erano già fuori, a scrutare il cielo. Anche Morgan stentava a resistere a quell'impulso, e continuava a incamminarsi verso la porta.

L'ultimo Remoto di Maxine, un bel giovanotto sotto la trentina, gli stava sempre a pochi metri. Sulle sue spalle erano montati gli strumenti consueti del suo lavoro: due telecamere (quella di destra riprendeva in avanti, quella di sinistra all'indietro) e, sopra, una piccola sfera non molto più grande d'un pompelmo. L'antenna all'interno della sfera compiva operazioni molto brillanti a una velocità di migliaia al secondo, ed era già puntata sul satellite di comunicazione più vicino nonostante tutti gli spostamenti del giovane che la portava. E all'altro capo del circuito, comodamente seduta nell'ufficio del suo studio, Maxine Duval vedeva attraverso gli occhi del suo alter ego lontano e sentiva con le sue orecchie; in compenso non congelava in quell'aria glaciale. Questa volta le toccava il lato migliore della faccenda, ma non era sempre così.

Morgan aveva accettato la sua proposta con una certa riluttanza. Sapeva che si trattava di un'occasione storica, e si era fidato della promessa di Maxine: — Il mio uomo non ti starà fra i piedi. — Ma era anche perfettamente conscio di tutte le cose che potevano andare per il verso storto in un esperimento così rivoluzionario, specialmente durante gli ultimi cento chilometri di discesa nell'atmosfera. D'altro canto, sapeva che Maxine avrebbe presentato sia il fallimento che il trionfo senza il minimo sensazionalismo.

Come tutti i grandi giornalisti, Maxine Duval non era emotivamente distaccata dagli eventi che osservava. Poteva offrire ogni punto di vista, senza distorcere o omettere quei fatti che reputava essenziali. Eppure non tentava di nascondere le proprie emozioni, anche se non permetteva che le prendessero la mano. Ammirava enormemente Morgan, con la meraviglia un po' invidiosa di chi non possiede una vera capacità creativa. Era dai tempi del Ponte di Gibilterra che aspettava di vedere cos'altro avrebbe fatto l'ingegnere; e non era rimasta delusa. Ma, anche se augurava ogni fortuna a Morgan, lui in realtà non le piaceva. Riteneva che la spinta terribile e spietata dell'ambizione lo rendesse superiore alla forza stessa della vita, ma poco umano. Non poteva fare a meno di paragonarlo al suo vice, Warren Kingsley. Quella era una persona gentile e deliziosa ("E un ingegnere migliore di me" le aveva detto una volta Morgan). Ma nessuno avrebbe mai sentito parlare di Warren; sarebbe sempre rimasto un satellite fedele che girava felice all'ombra del pianeta primario.

Era Warren che le aveva pazientemente spiegato i meccanismi, sorprendentemente complessi, del lancio. A occhio e croce pareva abbastanza semplice far precipitare qualcosa in linea retta sull'equatore, da un satellite immobile sul bersaglio. Ma l'astrodinamica era zeppa di paradossi: se si cercava di rallentare, si accelerava. Se si sceglieva il percorso più breve, si bruciava più carburante. Se si puntava in una direzione, si viaggiava nell'altra… Per non parlare che dei campi gravitazionali. Adesso la situazione era molto più complicata. Nessuno aveva mai provato a lanciare una sonda che si tirava dietro quarantamila chilometri di filo. Ma il programma Ashoka aveva funzionato perfettamente, sino all'arrivo ai margini dell'atmosfera. Entro pochi minuti il centro di controllo di Sri Kanda sarebbe entrato in azione per l'ultima fase della discesa. C'era poco da stupirsi che Morgan apparisse teso.

— Van — disse Maxine sul suo circuito personale, dolce ma ferma — smettila di succhiarti il pollice. Sembri un bambino.

Morgan si sentì indignato, poi sorpreso, e alla fine si rilassò con un sorriso lievemente imbarazzato.

— Grazie per l'avvertimento — disse. — Non vorrei distruggere la mia immagine pubblica.

Guardò con timido divertimento il pezzo di pollice che gli mancava e si chiese quando tutti gli spiritosi avrebbero smesso di esclamare: — Ah! L'ingegnere si è fatto male coi suoi petardi! — Dopo tutte le volte che aveva messo in guardia gli altri, era diventato imprudente ed era riuscito a ferirsi mentre dava una dimostrazione delle proprietà dell'iperfilamento. Praticamente non c'era stato dolore, e pochissimi inconvenienti. Un giorno avrebbe fatto qualcosa in merito; ma proprio non poteva permettersi di passare un'intera settimana collegato a un rigeneratore d'organi solo per due centimetri di pollice.

— Altezza due cinque zero — disse una voce calma, impersonale, dalla cabina di controllo. — Velocità della sonda uno sei zero metri al secondo. Tensione del filamento novanta per cento nominale. Apertura del paracadute fra due minuti.

Dopo quella pausa momentanea, Morgan era di nuovo teso e in guardia; come un pugile, non poté impedirsi di pensare Maxine Duval, che studiasse un avversario sconosciuto ma pericoloso.

— Com'è la situazione del vento? — chiese Morgan.

Gli rispose un'altra voce, questa volta tutt'altro che impersonale.

— Non riesco a crederci — disse con tono preoccupato. — Ma il Controllo Monsoni ha appena diramato un preavviso di tempesta.

— Non è il momento di scherzare.

— Non stanno scherzando. Ho già chiesto conferma.

— Ma avevano garantito correnti non superiori ai trenta chilometri orari!

— Hanno alzato il massimo a sessanta… Mi correggo, ottanta. Qualcosa è andata proprio male…

— Lo sapevo — mormorò Maxine fra sé. Poi trasmise istruzioni ai suoi occhi e orecchi lontani: — Scompari. Non ti vogliono in giro, ma non perdere niente. — Abbandonando il Remoto alle prese con quegli ordini piuttosto contraddittori, consultò il suo eccellente servizio d'informazioni meteorologiche. Le occorsero meno di trenta secondi per scoprire quale stazione meteorologica era responsabile del tempo nella zona di Taprcbane. Ed era frustrante, ma non sorprendente, vedere che non accettava chiamate dal pubblico generico.

Ordinò al suo efficientissimo staff di superare quell'ostacolo e si ricollegò con la montagna. E fu sorpresa di scoprire quanto fossero peggiorate le condizioni, anche in quel breve intervallo.

Il cielo si era fatto più scuro. I microfoni raccoglievano il ruggito debole, lontano, della tempesta in arrivo. Maxine Duval aveva incontrato cambiamenti di tempo così bruschi in mare, e più d'una volta se n'era avvantaggiata nelle sue scorrerie oceaniche. Ma adesso era una sfortuna incredibile. Si sentì vicina a Morgan: i suoi sogni, le sue speranze potevano essere spazzate via da quell'imprevisto, quell'" impossibile" scoppio di vento.

— Altezza due zero zero. Velocità della sonda uno uno cinque metri al secondo. Tensione novantacinque per cento nominale.

Per cui la tensione cresceva, in tutti i sensi. Non si poteva interrompere l'esperimento in una fase così avanzata. A Morgan non restava che continuare e sperare. Maxine avrebbe voluto parlargli, ma capiva benissimo di non doverlo disturbare in quel momento.

— Altezza uno nove zero. Velocità uno uno zero zero. Tensione centocinque per cento. Apertura del primo paracadute… ORA!

La sonda era arrivata, era prigioniera dell'atmosfera terrestre. Ora il poco carburante che restava andava usato per raggiungere la rete tesa sulla montagna. I cavi che sostenevano la rete, sotto la spinta del vento, cominciavano già a sobbalzare.

D'improvviso Morgan emerse dalla cabina di controllo e fissò il cielo. Poi si girò e guardò direttamente nella telecamera.

— "Qualunque cosa" succeda, Maxine — disse lentamente, attentamente — la prova ha già avuto successo al novantacinque per cento. No, al novantanove per cento. Abbiamo superato trentaseimila chilometri e ce ne restano meno di duecento.

Maxine non rispose. Sapeva che quelle parole non erano per lei, ma per l'uomo seduto sulla complessa sedia a rotelle appena fuori la cabina. L'identità dell'uomo era chiara: solo qualcuno in visita alla Terra aveva bisogno di un apparecchio del genere. I dottori potevano ormai curare praticamente tutte le malformazioni muscolari; ma i fisici non potevano curare la gravità.

Queste forze e interessi si concentravano sulla cima di quella montagna! Le forze della natura, la Banca di Narodny Marte, la Repubblica Autonoma del Nord Africa, Vannevar Morgan (che da solo era una forza naturale non trascurabile), e quei monaci implacabili nel loro eremo.

Maxine Duval mormorò istruzioni al suo paziente Rem, e la telecamera guizzò dolcemente in alto. Apparve la cima, incoronata dalle pareti bianchissime del tempio. Qui e là, lungo i parapetti, Maxine intravedeva tuniche arancioni che fluttuavano nella tempesta. Come si aspettava, i monaci erano in osservazione.

Li riprese con una zoomata, arrivando abbastanza vicino da distinguere le singole facce. Non aveva mai incontrato il Maha Thero (perché un'intervista le era stata cortesemente rifiutata) ma sperava di riuscire a riconoscerlo. Ma non c'era segno del prelato; forse era chiuso nel "sancta sanctorum", a concentrare la sua volontà formidabile su qualche esercizio spirituale.

Maxine Duval non era certa che il maggior antagonista di Morgan indulgesse a un esercizio così ingenuo come la preghiera. Ma se aveva pregato per ottenere quella tempesta miracolosa, le sue richieste stavano per ottenere risposta. Gli Dèi della Montagna si stavano risvegliando.

29 Avvicinamento finale

"Al crescere della tecnologia s'accompagna una crescente vulnerabilità; più l'Uomo conquista ('sic') la Natura, più diventa soggetto a catastrofi. La storia recente ce ne fornisce prove sufficienti; ad esempio, l'affondamento di Marina City (2127), il crollo della cupola B di Tycho (2098), il liberarsi dell'iceberg arabo dai cavi che lo trainavano (2062) e la fusione del reattore di Thor (2009). Possiamo essere certi che in futuro questa lista ospiterà voci ancora più impressionanti. Forse le prospettive più terrificanti son quelle che includono fattori 'psicologici' e non solo tecnologici. In passato, un attentatore pazzo o un cecchino potevano uccidere solo poche persone; oggi non sarebbe impossibile, a un tecnico folle, assassinare una città. È ampiamente documentato come la Colonia Spaziale O'Neill II sia sfuggita per il rotto della cuffia, nel 2047, a un disastro del genere. Incidenti di questo tipo, almeno in teoria, potrebbero essere evitati attraverso esami accuratissimi e procedure 'a prova di bomba', anche se troppo spesso queste precauzioni non sono affatto all'altezza della situazione.

"Esiste anche un tipo estremamente interessante, ma per fortuna molto raro, di evento in cui l'individuo agente occupa una posizione talmente alta, o è dotato di poteri così unici, che nessuno capisce cosa stia facendo finché non è troppo tardi. La devastazione creata da questi geni folli (mi pare che non esista modo migliore di definirli) può toccare il mondo intero, come nel caso di A. Hitler (1889-1945). In un numero sorprendente di casi non si sa niente delle loro attività, grazie a una cospirazione del silenzio da parte dei loro imbarazzati collaboratori.

"Un esempio classico è venuto di recente alla luce con la pubblicazione delle 'Memorie' della signora Maxine Duval, da tempo attesa e rimandata a lungo. Anche oggi, alcuni aspetti della questione non sono del tutto chiari."

("La civiltà e i suoi malcontenti", J. K Golitsyn, Praga, 2175)

— Altezza uno cinque zero, velocità novantacinque. Schermo termico fuori.

Quindi la sonda era riuscita a entrare nell'atmosfera e a ridurre la velocità in eccesso. Ma era ancora troppo presto per cominciare a brindare. Restavano da percorrere non solo centocinquanta chilometri in verticale, ma anche trecento in orrizzontale, con la tempesta che complicava le cose. La sonda aveva ancora una piccola quantità di propellente, ma la sua libertà di manovra era molto limitata. Se l'operatore non centrava la montagna al primo tentativo, non avrebbe avuto la possibilità di riprovare.

— Altezza uno due zero. Per ora nessun effetto atmosferico.

La minuscola sonda scendeva giù dal cielo come un ragno che percorre la sua ragnatela di seta. "Spero" pensò Maxime "che abbiano abbastanza filo: chissà come si imbestialirebbero se finisse a pochi chilometri dal bersaglio!" Tragedie del genere erano successe coi primi cavi sottomarini, trecento anni addietro.

— Altezza otto zero. Avvicinamento nominale. Tensione cento per cento. Leggera resistenza atmosferica.

Gli strati superiori dell'atmosfera cominciavano a farsi sentire, anche se solo dai sensibili strumenti della sonda.

Un piccolo telescopio telecomandato era stato installato a fianco dell'autocarro di controllo, e stava già seguendo automaticamente la sonda per il momento invisibile. Morgan si incamminò in quella direzione. Il Remoto di Maxine lo seguì come un'ombra.

— Non si vede ancora niente? — sussurrò dolcemente Maxine dopo qualche secondo. Morgan, impaziente, scosse la testa e continuò a guardare nel telescopio.

— Altezza sei zero. Si sposta sulla sinistra. Tensione centocinque per cento. Mi correggo, centodieci.

"Siamo ancora nei limiti previsti" pensò Maxine. Ma dall'altra parte della stratosfera cominciava a succedere qualcosa. Ormai Morgan doveva aver individuato la sonda…

— Altezza cinque cinque. Diamo un impulso correttivo di due secondi.

— Eccola! — esclamò Morgan. — Vedo il getto!

— Altezza cinque zero. Tensione centocinque per cento. Difficile tenere la rotta. Ci sono spinte laterali.

Era inconcepibile che, ad appena cinquanta chilometri dal bersaglio, la sonda non riuscisse a completare il suo viaggio di trentaseimila chilometri. Però, a pensarci bene, quanti aerei e missili non erano precipitati negli ultimi metri?

— Altezza quattro zero. Vento ancora di rotta. Impulso di tre secondi.

— L'ho persa — disse Morgan, disgustato. — Si sono messe in mezzo le nuvole.

— Altezza quattro zero. Oscillazioni continue. La tensione arriva a centocinquanta, ripeto, centocinquanta per cento.

Orribile. Maxine sapeva che il limite di rottura era al duecento per cento. Uno spostamento di troppo, e l'esperimento sarebbe finito.

— Altezza tre cinque. Il vento peggiora. Impulso di un secondo. Riserva di propellente quasi terminata. La tensione continua a crescere, è al centosettanta per cento.

Ancora un trenta per cento, pensò Maxime, e persino quella fibra incredibile si sarebbe spezzata come un materiale qualsiasi al di là del proprio carico di rottura.

— Portata tre zero. La perturbazione peggiora. Notevoli oscillazioni sulla sinistra. Impossibile calcolare correzione. I movimenti sono troppo casuali.

— La vedo! — gridò Morgan. — Ha oltrepassato le nubi!

— Portata due cinque. Non c'è abbastanza propellente per rientrare in rotta. Stimo che sbaglieremo il bersaglio di tre chilometri.

— Non importa! — urlò Morgan. — Fatela atterrare dove potete!

— Al più presto. Portata due zero. La forza del vento aumenta. Perdiamo stabilità. La sonda comincia a girare su se stessa.

— Togliete i freni! Lasciate srotolare il filamento!

— Già fatto — rispose quella voce oscenamente calma. Maxine avrebbe pensato che stava parlando una macchina, se non avesse saputo che Morgan aveva assunto per quel compito uno dei migliori controllori di traffico spaziale. — Guasto al meccanismo di srotolamento. La sonda ruota su se stessa cinque volte al secondo. Il filamento probabilmente si è impigliato. Tensione uno otto zero per cento. Uno nove zero. Due zero zero. Portata uno cinque. Tensione due uno zero. Due due zero. Due tre zero.

"Non durerà molto" pensò Maxine. Restavano solo una dozzina di chilometri e quel filo maledetto s'era impigliato nella sonda che girava su se stessa.

— Tensione zero, ripeto, "zero".

Era fatta. Il filo si era spezzato e adesso si tendeva lentamente verso le stelle. Senz'altro i tecnici di Ashoka lo avrebbero recuperato, ma ormai Maxine capiva abbastanza della teoria per sapere che si trattava di un compito lungo e complesso. E la sonda sarebbe caduta lì, da qualche parte, fra i campi e le giungle di Taprobane. Comunque, come aveva detto Morgan, il successo era superiore al novantacinque per cento. La prossima volta, se non c'era vento…

— Eccola! — gridò qualcuno. Fra due galeoni di nuvole che solcavano il cielo s'era accesa una stella brillante. Sembrava una meteora luminosissima che cadesse a terra. Per ironia, quasi a prendere in giro gli uomini che l'avevano progettato, il segnale luminoso installato sulla sonda per rendere più facili le ultime fasi del volo si era acceso automaticamente. Sarebbe ancora servito a qualcosa: avrebbe reso meno difficoltoso il recupero del missile.

Il Remoto di Maxine compì una lenta rivoluzione, in modo che lei potesse vedere quella stella luminosissima superare le montagne e scomparire a est. Maxine stimò che dovesse atterrare a meno di cinque chilometri di distanza. Poi disse: — Ridammi il dottor Morgan. Vorrei parlargli.

Voleva complimentarsi con lui, a voce abbastanza alta perché il banchiere marziano potesse sentirli, e dirgli che era sicura che la prossima volta il lancio avrebbe avuto un successo totale. Maxine stava ancora preparando quel piccolo discorso di congratulazioni quando, all'improvviso, le parole le uscirono di mente. Avrebbe rivisto gli avvenimenti dei trenta secondi successivi fino a conoscerli a memoria. Ma non sarebbe mai stata certa di averli capiti sino in fondo.

30 Le legioni del re

Vannevar Morgan aveva fatto il callo alle sconfitte, persino ai disastri, e sperava che quello fosse un disastro non troppo grande. La sua vera preoccupazione, mentre osservava il segnale luminoso che svaniva oltre il giogo della montagna, era che la Banca di Marte considerasse sprecati i suoi soldi. L'osservatore dagli occhi impassibili, seduto sulla sedia a rotelle, si era dimostrato estremamente chiuso. A quanto pareva, la gravità terrestre gli aveva paralizzato arti e lingua. Ma questa volta interpellò Morgan prima che l'ingegnere potesse rivolgergli la parola.

— Una sola domanda, dottor Morgan. So che questa tempesta è senza precedenti, eppure si è verificata. Per cui potrebbe verificarsi di nuovo. E se succedesse quando la Torre è già costruita?

Morgan pensò in fretta. Era impossibile così, su due piedi, formulare una risposta esatta, e ancora non riusciva a credere a quello che era successo.

— Nella peggiore delle ipotesi dovremo sospendere per un po' le operazioni. I binari potrebbero subire una lieve distorsione. La forza dei venti che in genere spirano a questa altezza non riuscirebbero a danneggiare la struttura della Torre. Anche la nostra fibra sperimentale non avrebbe subito danni, se fossimo riusciti ad ancorarla.

Sperava che fosse un'analisi esatta. Entro pochi minuti Warren Kingsley gli avrebbe fatto sapere se era vera o no. Per fortuna, apparentemente soddisfatto, il marziano replicò: — Grazie. Non desideravo sapere altro.

Morgan, però, era deciso ad andare sino in fondo.

— E su Mons Pavonis, naturalmente, un problema del genere non verrebbe mai a crearsi. Lì la densità atmosferica è meno di un centesimo…

Da decenni non udiva il suono che in quel momento irruppe nelle sue orecchie, eppure era un suono che nessuno avrebbe mai scordato. Il suo richiamo imperioso, più forte del ruggito della tempesta, trasportò Morgan lungo metà del globo. Non si trovava più su una montagna battuta dai venti; era sotto la cupola dell'Hagia Sophia, e i suoi occhi scrutavano, stupefatti e ammirati, il lavoro di uomini morti sedici secoli prima. E nelle sue orecchie risuonava il richiamo dell'immensa campana che un tempo aveva invitato i fedeli alla preghiera.

Il ricordo di Instanbul svanì. Si trovava nuovamente sulla montagna, più perplesso e confuso che mai.

Cosa gli aveva raccontato il monaco? Che il dono indesiderato di Kalidas era rimasto in silenzio per secoli, e poteva suonare solo in tempi di disastro? Ma non c'era stato nessun disastro; anzi, dal punto di vista del tempio era accaduto esattamente il contrario. Per un attimo, a Morgan venne in mente l'imbarazzante possibilità che la sonda fosse caduta all'interno del terreno del monastero. No, la cosa era fuori discussione: la sonda aveva evitato la cima di alcuni chilometri. E poi, in ogni caso, era un oggetto troppo piccolo per procurare danni seri anche se fosse precipitato, con scarsa forza, dal cielo.

Fissò il tempio. La voce della grande campana continuava a sfidare la tempesta. Tutte le tuniche arancioni erano svanite dai parapetti; non si vedeva nemmeno un monaco.

Qualcosa sfiorò dolcemente la guancia di Morgan, e lui l'allontanò soprappensiero. Era difficile persino pensare mentre quel suono doloroso riempiva l'aria e gli martellava il cervello. Forse era meglio raggiungere il monastero e chiedere cortesemente al Maha Thero cos'era successo.

Di nuovo quel tocco morbido, serico, sulla sua faccia, e questa volta Morgan vide con la coda dell'occhio un lampo giallo. I suoi riflessi erano sempre stati veloci: mosse la mano, e non sbagliò.

L'insetto giaceva raggrinzito nel palmo della sua mano, viveva gli ultimi secondi della sua vita effimera sotto gli occhi di Morgan; e l'universo che lui conosceva da sempre parve tremare e dissolversi. La sua sconfitta miracolosa si era trasformata in una vittoria ancora più inesplicabile, eppure lui non provava la minima sensazione di trionfo. Sentiva solo confusione e sorpresa.

Perché adesso ricordava la leggenda delle farfalle d'oro. Guidate dalla tempesta, a centinaia e migliaia, risalivano la montagna per morire sulla cima.

Le legioni di Kalidas avevano finalmente ottenuto il loro sahgue, e, nello stesso tempo, la loro vendetta.

31 L'esodo

— Cos'è successo? — chiese lo sceicco Abdullah.

" Ecco una domanda a cui non sarò mai capace di rispondere" pensò Morgan. Ma disse: — La Montagna è nostra, signor presidente. I monaci hanno già cominciato ad andarsene. È incredibile. Com'è possibile che una leggenda antica di duemila anni…? — Scosse la testa, stupefatto, perplesso.

— Se ci sono abbastanza uomini che credono in una leggenda, diventa vera.

— Suppongo di sì. Ma qui c'è in ballo qualcosa di più. L'intera serie di avvenimenti mi pare incredibile.

— È sempre rischioso usare questo aggettivo. Permettimi di raccontarti una modesta storia. Un caro amico, un grande scienziato ormai morto, mi prendeva in giro sostenendo che siccome la politica è la scienza del possibile, sembra attraente solo a cervelli di seconda categoria. Perché quelli di prima categoria, diceva, s'interessano solo all'impossibile. E lo sai cosa gli ho risposto?

— No — disse Morgan, cortesemente e prevedibilmente.

— È una fortuna che siamo in tanti, perché qualcuno deve governare il mondo… E… se è successo l'impossibile, dovresti accettarlo con gratitudine.

"Lo accetto con riluttanza" pensò Morgan. "C'è qualcosa di molto strano in un universo dove qualche cadavere di farfalla può controbilanciare una torre da un miliardo di tonnellate."

E a quel punto entrava in gioco il ruolo ironico del Venerabile Parakarma, che ormai doveva sentirsi una pedina nelle mani di qualche dio malizioso. Il direttore del Controllo Monsoni si era dimostrato molto dispiaciuto, e Morgan aveva accettato le sue scuse con una cortesia insolita. Non gli era difficile credere che il brillante dottor Choam Goldberg avesse rivoluzionato la micrometeorologia, che nessuno avesse capito sino in fondo cosa stava facendo, e che per finire gli fosse capitato un esaurimento nervoso mentre conduceva i suoi esperimenti. Non sarebbe mai più successo. Morgan aveva espresso i suoi auguri, del tutto sinceri, per una veloce guarigione dello scienziato; e i suoi istinti di burocrate gli avevano lasciato capire che, a tempo debito, avrebbe ricevuto l'attenzione del Controllo Monsoni. Il direttore era scomparso fra una profusione di ringraziamenti, senza dubbio perplesso dalla sorprendente magnanimità di Morgan.

— A puro titolo di curiosità — chiese lo sceicco — dove sono diretti i monaci? Potrei ospitarli qui. La nostra cultura ha sempre dato il benvenuto a fedi diverse.

— Non so, e non lo sa nemmeno l'Ambasciatore Rajasinghe. Ma quando gliel'ho chiesto mi ha risposto che si troveranno bene. Un ordine religioso che è sopravvissuto frugalmente per tremila anni non dovrebbe essere del tutto sprovveduto.

— Hmm. Forse ci farebbero comodo un po' delle loro ricchezze. Questo tuo modesto progetto diventa più costoso ogni volta che ci vediamo.

— Non è esatto, signor presidente. L'ultima stima comprende una cifra destinata esclusivamente alla contabilità. Si tratta di operazioni nello spazio profondo che la Banca di Marte ha accettato di finanziare. Saranno loro a scovare un satellite carbonoso e a trasportarlo nell'orbita terrestre. Sono molto più pratici di noi di lavori del genere, e questo risolve uno dei problemi principali.

— E il carbonio per la loro torre?

— Ne possiedono riserve illimitate su Deimos, esattamente dove occorre. Marte ha già iniziato a cercare d'individuare i punti più adatti allo scavo, anche se i processi di lavorazione non potranno aver luogo sulla Luna.

— Posso chiedere perché?

— A causa della gravità. Anche Deimos possiede un certo grado di gravità. L'iperfilamento si può produrre solo in condizioni di assoluta mancanza di gravità. Altrimenti è impossibile garantire una struttura cristallina perfetta, rispondente ai nostri standard di resistenza.

— Grazie, Van. Posso chiederti perché hai cambiato il progetto originario? Non mi spiacevano quelle quattro tubature, due per salire e due per scendere. Quella specie di metropolitana era qualcosa che riuscivo a comprendere, anche se saliva verso l'alto in verticale.

Non per la prima volta, e indubbiamente neanche per l'ultima, Morgan restò sorpreso davanti alla capacità straordinaria del vecchio di ricordare anche il particolare più insignificante. Con lui non si doveva mai dare niente per scontato. A volte le sue domande erano dettate dalla pura curiosità (spesso la curiosità di chi è talmente sicuro di sé da non aver bisogno di fingere di sapere, per dignità), ma certo non trascurava mai nessun dettaglio.

— Temo che i nostri progetti iniziali fossero un po' troppo terreni. Abbiamo fatto come i primi disegnatori d'automobili, che continuavano a creare carri senza cavalli. Adesso il nostro progetto è quello di una torre cava, quadrata, con un binario su ogni facciata. Immaginate che si tratti di quattro binari verticali. Si parte dall'orbita con un lato di quaranta metri, che si riduce a venti arrivando sulla Terra.

— Come una stalag… Stalatt…

— Stalattite. Sì, anch'io ho dovuto controllare. Dal punto di vista tecnico, una buona analogia potrebbe essere la vecchia Torre Eiffel, capovolta e allungata di circa centomila volte.

— Così tanto?

— Più o meno.

— D'accordo. Immagino che nessuna legge proibisca a una torre di pendere verso il basso.

— Ne avremo anche una che va "in alto", non scordatevene: dall'orbita sincrona alla massa d'ancoraggio che tiene in tensione l'intera struttura.

— E la Stazione di Mezzo? Spero che non avrai cambiato anche quella.

— No. Si trova ancora nello stesso punto, a venticinquemila chilometri d'altezza.

— Bene. So che non la vedrò mai, ma mi piace pensarci… — Lo sceicco mormorò qualcosa in arabo. — C'è un'altra leggenda, sai. La bara di Maometto, sospesa fra cielo e terra. Proprio come la Stazione di Mezzo.

— Vi prepareremo un banchetto lì, signor presidente, quando inaugureremo la linea.

— Anche se riesci a tener fede ai programmi, e ammetto che col Ponte sei andato in ritardo solo di un anno, per quella data io avrò novantotto anni. No, temo di non arrivarci.

"Ma io ci arriverò" pensò Morgan. "Perché adesso so che gli dèi stanno dalla mia parte, anche se ignoro quali dèi siano."

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