PARTE QUARTA La Torre

32 Espresso spaziale

— Risparmiati le battute — lo pregò Warren Kingsley. — Non dirmi che se ne resterà incollato al terreno.

— Mi era venuta la tentazione — ridacchiò Morgan, esaminando il modello dimostrativo a grandezza naturale. — Sembra proprio un vagone ferroviario messo in piedi.

— È esattamente l'immagine che vogliamo proporre — rispose Kingsley. — Uno compera il biglietto alla stazione, sistema i bagagli, si accomoda sulla poltroncina e ammira il panorama. Oppure può andare nel salottino-bar e passare le cinque ore successive a bere sul serio, finché lo trascinano fuori alla Stazione di Mezzo. Tra parentesi, cosa ne pensi dell'idea della Sezione Design, decorazioni stile carrozza di lusso del diciannovesimo secolo?

— Non mi sembra un granché. Le carrozze di quell'epoca non possedevano cinque piani circolari, l'uno sopra l'altro.

— Sarà meglio che lo dica ai ragazzi. Si sono innamorati dell'illuminazione a gas.

— Se vogliono uno stile un po' più adatto, una volta ho visto un vecchio film di fantascienza al museo d'arte di Sydney. C'era un'astronave che aveva una sala d'osservazione circolare. Proprio quello che ci occorre.

— Ricordi il titolo?

— Oh… fammi pensare… Qualcosa tipo "Guerre spaziali Duemila". Sono certo che riuscirai a rintracciarlo.

— Dirò alla Sezione Design di cercarlo. Entriamo. Vuoi un casco protettivo?

— No — rispose bruscamente Morgan. Quello era uno dei pochi vantaggi dell'essere dieci centimetri più basso della media.

Entrando nel modello, Morgan provò un brivido d'eccitazione quasi fanciullesca. Aveva studiato i progetti, osservato i computer che lavoravano su grafici e bozzetti; gli sarebbe stato tutto familiare. Ma adesso era "vero", solido. D'accordo, sarebbe rimasto incollato al terreno, per usare quella vecchia frase. Ma un giorno, capsule perfettamente identiche a quella si sarebbero lanciate fra le nubi, raggiungendo in sole cinque ore la Stazione di Mezzo, a venticinquemila chilometri dalla Terra. E il tutto per la modica spesa di un dollaro d'elettricità per passeggero.

Persino in quel momento era impossibile comprendere fino in fondo il significato della rivoluzione imminente. Per la prima volta, lo spazio sarebbe diventato accessibile quanto qualsiasi punto sulla superficie della Terra. Entro pochi decenni, se l'uomo medio avesse voluto trascorrere il week-end sulla Luna, se lo sarebbe potuto permettere. E nemmeno Marte sarebbe stato inaccessibile. Non c'erano limiti a quello che diventava possibile. Morgan tornò di colpo alla realtà: aveva quasi inciampato in un tappeto messo giù male.

— Scusa — disse la sua guida. — Un'altra idea del Design. Il verde dovrebbe ricordare ai passeggeri la Terra. I soffitti saranno blu, sempre più scuri di piano in piano. E vogliono usare l'illuminazione indiretta dappertutto, in modo che le stelle siano visibili.

Morgan scosse la testa. — È una bella idea, ma non può funzionare. Se l'illuminazione è abbastanza forte da permettere di leggere, i riflessi offuscheranno le stelle. Ci vuole una parte della sala d'osservazione che si possa oscurare del tutto.

— È già previsto per una fetta del bar. Uno arriva, ordina da bere, e scompare nell'ombra.

Adesso si trovavano nel piano più basso della capsula, una stanza circolare di otto metri di diametro, alta tre. Tutto intorno c'erano scatole di varie dimensioni, cilindri e pannelli di controllo con scritte come RISERVA D'OSSIGENO, BATTERIA, ASSORBITORE DI CO2, MEDICINALI, CONTROLLO TEMPERATURA. Era chiaro che il tutto era momentaneo, provvisorio, che la disposizione poteva essere cambiata nel giro d'un momento.

— Chiunque crederebbe che stiamo costruendo un'astronave — commentò Morgan. — Fra l'altro, qual è l'ultima stima del periodo di sopravvivenza?

— Purché non manchi l'elettricità, una settimana come minimo, anche a pieno carico di cinquanta passeggeri. Il che è davvero assurdo, visto che una squadra di soccorso potrebbe sempre raggiungerli in tre ore, o dalla Terra o dalla Stazione di Mezzo.

— Escludendo una catastrofe totale che danneggi la Torre o i binari.

— Se dovesse succedere una cosa del genere, non credo che resterà nessuno da salvare. Ma se per qualche motivo una capsula dovesse fermarsi, e se i passeggeri non impazziscono e non si mangiano in un colpo tutte le nostre deliziose tavolette d'emergenza di cibo compresso, il loro problema sarà la noia.

Il secondo piano era completamente vuoto. Non c'erano nemmeno arredi provvisori. Qualcuno aveva tracciato un rettangolo ampio sul pannello in plastica della parete e aveva scritto all'interno: PORTELLO QUI?

— Questo è il bagagliaio, però non siamo sicuri se ci sarà bisogno di tanto spazio. Se ne avanza, possiamo usarlo per altri passeggeri. Questo piano è molto più interessante…

Il terzo piano conteneva una dozzina di poltroncine stile aereo, tutte di modello diverso. Due di esse erano occupate da manichini molto realistici, un uomo e una donna, che sembravano terribilmente annoiati di tutta la faccenda.

— Praticamente abbiamo deciso per questo tipo — disse Kingsley, indicandogli una lussuosa poltroncina inclinabile a cui era collegato un tavolino — ma faremo i soliti test prelminari.

Morgan affondò il pugno nel cuscino.

— Qualcuno è rimasto seduto lì per cinque ore? — chiese.

— Sì. Un volontario che pesa cento chili. Niente piaghe da decubito. Se i passeggeri si lamentano, ricorderemo loro i primi giorni dell'aviazione, quando erano necessarie cinque ore solo per trasvolare il Pacifico. E, naturalmente, per quasi tutto il viaggio ci è possibile offrire la comodità di una gravità ridotta.

Il piano superiore era identico al precedente, ma senza poltrone. Lo attraversarono in fretta e salirono al livello successivo, a cui i progettisti avevano dedicato particolare attenzione.

Il bar sembrava quasi vero, e in effetti il distributore di caffè funzionava. Appena sopra, in una cornice estremamente elaborata, c'era un'antica stampa così piena di significati da mozzare il respiro a Morgan. In alto a sinistra campeggiava un'enorme luna piena, verso cui correva un treno a forma di proiettile, con quattro vagoni. Dai finestrini del vagone di prima classe sporgevano le bombette di personaggi vittoriani, che ammiravano lo spettacolo.

— Dove l'hai trovato? — chiese Morgan, con un misto di sorpresa e di ammirazione.

— È caduta di nuovo la targhetta — si scusò Kingsley, chinandosi dietro il banco del bar. — Ah, eccola qui.

Tese a Morgan un pezzo di cartone su cui era scritto, a vecchi caratteri tipografici:


TRENO PROIETTILE PER LA LUNA
Stampa dall'edizione 1881 di
DALLA TERRA ALLA LUNA
Diretto
In 97 ore e 20 minuti
E UN VIAGGIO ATTORNO ALLA LUNA
Di Jules Verne

— Temo di dover dire che non l'ho mai letto — confessò Morgan dopo aver assimilato l'informazione. — Mi avrebbe risparmiato un sacco di guai. Però mi piacerebbe sapere come facevano a viaggiare senza rotaie…

— Non dobbiamo attribuire troppi meriti o demeriti a Jules. Questa stampa non è roba da prendere sul serio. È uno scherzo del disegnatore.

— D'accordo. Fa' i miei complimenti a quelli del Design. È una delle loro idee migliori.

Abbandonati i sogni del passato, Morgan e Kingsley s'incamminarono verso la realtà del futuro. Al di là della grande vetrata d'osservazione, un sistema di laser proiettava una stupefacente visuale della Terra, e non una visuale "qualsiasi", notò soddisfatto Morgan, ma quella esatta. Taprobane era nascosta, ovviamente, perché si trovava direttamente sotto di loro; ma appariva l'intero subcontinente indiano, fino alle nevi bianchissime dell'Himalaya.

— Sai — disse all'improvviso Morgan — succederà esattamente come per il Ponte, una seconda volta. La gente farà il viaggio solo per ammirare il panorama. La Stazione di Mezzo potrebbe diventare la più grande attrazione turistica della storia. — Gettò un'occhiata al soffitto azzurro-blu. — C'è niente d'interessante all'ultimo piano?

— Niente di speciale. La camera d'equilibrio è ultimata, ma non abbiamo ancora deciso dove mettere il dispositivo di supporto del sistema di sopravvivenza e gli strumenti elettronici per il centraggio dei binari.

— Problemi?

— No, con i nuovi magneti. In accelerazione o in inerzia possiamo garantire un gioco perfetto fino a ottomila chilometri orari, cioè il cinquanta per cento in più della velocità massima prevista.

Morgan si concesse un sospiro di sollievo. In quel settore era del tutto incapace di formulare giudizi, e doveva affidarsi completamente alla competenza di altri. Sin dall'inizio era stato chiaro che a velocità del genere ci si poteva affidare soltanto a qualche sistema di propulsione magnetica; anche il minimo contatto "fisico", a più di un chilometro al secondo, avrebbe provocato la catastrofe. Eppure, le quattro paia di scanalature di guida che correvano sui lati della torre avevano solo pochi centimetri di gioco attorno ai magneti; dovevano essere costruite in modo che potessero generarsi in continuazione forze stabilizzatrici enormi, in grado di correggere tutti gli spostamenti della capsula rispetto alla linea centrale.

Mentre seguiva Kingsley giù per la scala a chiocciola che attraversava l'intera lunghezza della capsula, Morgan fu colpito all'improvviso da un pensiero cupo. "Sto diventando vecchio" si disse. "Oh, avrei potuto salire fino al sesto piano senza problemi; ma sono contento che abbiamo deciso di non andarci.

"Ho solo cinquantanove anni, e ne occorreranno almeno altri cinque, ammesso che tutto vada bene, perché la prima capsula passeggeri raggiunga la Stazione di Mezzo. Poi altri tre anni di prove, tarature, correzioni. Diciamo dieci anni, per stare sul sicuro…"

Faceva caldo, ma lui sentì un brivido improvviso. Per la prima volta, a Vannevar Morgan venne in mente che il trionfo a cui aveva dedicato tutto se stesso poteva giungere troppo tardi. E, inconsciamente, premette la mano contro il sottile disco di metallo nascosto dentro la camicia.

33 CORA

— Perché hai aspettato fino ad oggi? — aveva chiesto il dottor Sen, col tono di chi si rivolgesse a un bambino ritardato.

— Il solito motivo — rispose Morgan, lasciando correre il pollice buono lungo l'allacciatura della camicia. — Avevo troppo da fare… E se mi veniva il fiato corto davo la colpa all'altitudine.

— Certo l'altitudine ha la sua parte di responsabilità. Sarà meglio che tu faccia fare un esame a tutti i tuoi uomini che lavorano sulla montagna. Come hai fatto a trascurare un particolare così ovvio?

"Già, come ho fatto?" si chiese Morgan imbarazzato.

— Quei monaci… Alcuni avevano passato l'ottantina! Stavano così bene che non mi è mai venuto in mente…

— I monaci vivono lassù da anni. Si sono adattati perfettamente. Ma tu hai continuato a salire e scendere parecchie volte al giorno…

— …Al massimo due…

— …Passando dal livello del mare a mezza atmosfera in pochi minuti. Ad ogni modo il danno non è troppo grave… Se d'ora in poi seguirai le istruzioni. Mie, e di CORA.

— CORA?

— Allarme coronario.

— Oh… Uno di quegli aggeggi.

— Sì. Uno di "quegli" aggeggi. Salvano circa dieci milioni di vite l'anno. Pezzi grossi del governo, uomini d'affari importanti, eminenti scienziati, ingegneri di fama e altri stupidi del genere. Mi chiedo spesso se ne vale la pena. Può darsi che la natura stia cercando di dirci qualcosa che noi non ascoltiamo.

— Ricordati del tuo giuramento ippocratico, Bill — ribatté Morgan con un sorriso. — E devi ammettere che io ho sempre fatto quello che mi dicevi. Andiamo, il mio peso non è cambiato d'un chilo in dieci anni.

— Uhm… Be', non sei il peggiore dei miei pazienti — ammise il medico, un po' più malleabile. Frugò sulla scrivania e trovò un grande olocatalogo. — Scegli tu. Questi sono i modelli correnti. Per il colore come preferisci, basta che sia il rosso medico unificato.

Morgan accese le immagini e le studiò con disgusto.

— Dove dovrei tenere questa cosa? — chiese. — Oppure vuoi trapiantarla?

— Non è necessario, almeno per ora. Forse entro cinque anni, però è da vedere. Ti consiglio di cominciare con questo tipo: si porta sotto lo sterno, per cui non c'è bisogno di sensori remoti. Dopo un po' non ti ricorderai nemmeno che esiste. E non ti darà fastidio, a meno che non sia indispensabile.

— Nel qual caso?

— Stai a sentire.

Il dottore premette uno dei numerosi pulsanti sul terminale della scrivania, e una voce dolce da mezzosoprano disse, in tono calmissimo: — Penso che dovreste sedervi a riposare per dieci minuti circa. — Dopo una breve pausa, continuò: — Sarebbe una buona idea coricarsi per una mezz'oretta. — Un'altra pausa. — Non appena possibile, fissate un appuntamento col dottor Sen. — Poi: — Per favore, prendete immediatamente una delle pillole rosse… Ho chiamato l'ambulanza. Restate coricato e calmo. Andrà tutto bene. — Morgan si tappò quasi le orecchie con le mani per non udire quel fischio penetrante. — Questo è un allarme CORA. Per favore, chiunque si trovi nel raggio della mia voce mi raggiunga immediatamente. Questo è un allarme CORA. Per favore…

— Credo che avrai afferrato l'idea — disse il medico, ristabilendo il silenzio nel suo studio. — Naturalmente i programmi e le reazioni sono studiati su misura per il paziente. E c'è un'ampia scelta di voci, alcune famose.

— Delizioso. Quando sarà pronto il mio apparecchio?

— Ti chiamo fra tre giorni. Oh, già. I modelli sternali hanno un vantaggio che dovrei sottolineare.

— E quale sarebbe?

— Uno dei miei pazienti è un accanito giocatore di tennis. Dice che quando apre la maglietta, la vista di quella scatoletta rossa ha un effetto assolutamente terribile sull'avversario.

34 Vertigine

Un tempo, uno dei compiti più modesti (ma spesso più importanti) di ogni uomo civile era l'aggiornamento regolare del taccuino d'indirizzi. Il codice universale aveva reso superflua quell'operazione: bastava conoscere il numero d'identità personale di un individuo per poterlo rintracciare entro pochi secondi. E anche se non si conosceva il numero, in genere i normali programmi di ricerca potevano scoprirlo piuttosto in fretta, servendosi della data approssimativa di nascita, della professione e di pochi altri dettagli (ovviamente si creava qualche problema se il nome era Smith, o Singh, o Mohammed…).

Lo sviluppo della rete mondiale d'informazioni aveva reso superfluo anche un altro dovere noioso. Bastava contrassegnare con una sigla particolare i nomi degli amici a cui si volevano porgere gli auguri per il compleanno o per occasioni simili, e il computer domestico avrebbe provveduto a tutto. Il giorno stabilito (a meno che, come succedeva spesso, non si fosse commesso qualche stupido errore di programmazione) il messaggio più appropriato sarebbe giunto automaticamente a destinazione. E per quanto il destinatario potesse sospettare che le calde parole che apparivano sul suo schermo fossero opera solo di strumenti elettronici, e che magari chi le firmava non pensava a lui da anni, il gesto era sempre gradito.

Ma la tecnologia che aveva eliminato certe necessità ne aveva create altre, ancor più imperiose. Fra tutte, la più importante era forse la programmazione del Sommario degli Interessi Personali.

Molti aggiornavano il proprio SIP a Capodanno, o quando compivano gli anni. L'elenco di Morgan conteneva cinquanta voci; aveva sentito parlare di gente che ne aveva centinaia. Probabilmente passavano tutte le ore della giornata a lottare col fiume d'informazioni, a meno che non si trattasse solo di burloni che si divertivano a programmare il segnale d'allarme per impossibilità classiche del tipo:

"Uova, dinosauro, rinvenimento di"

"Cerchio, quadratura del"

"Atlantide, emersione di"

"Cristo, secondo avvento di"

"Mostro di Loch Ness, cattura del"

E per chiudere in bellezza:

"Mondo, fine del".

In genere, com'è ovvio, egocentrismo e interessi professionali facevano sì che il nome dell'utente fosse il primo di ogni elenco. Morgan non faceva eccezione, ma le voci successive erano piuttosto insolite:

"Torre, orbitale"

"Torre, spaziale"

"Torre, (geo) sincrona"

"Elevatore, spaziale"

"Elevatore, orbitale"

"Elevatore, (ego) sincrono".

Quelle definizioni comprendevano quasi tutte le varianti usate dai mass-media, e gli permettevano di controllare almeno il novanta per cento delle notizie relative al suo progetto. In gran parte si trattava di sciocchezze, e a volte si chiedeva se valeva la pena di controllarle: le notizie davvero importanti gli sarebbero arrivate in fretta.

Morgan si stava ancora sfregando gli occhi, e il letto era appena scomparso nella parete del suo modesto appartamento, quando l'ingegnere notò che sul terminale occhieggiava il segnale d'allarme. Schiacciò simultaneamente i pulsanti del caffè e della lettura, ansioso di conoscere gli ultimi sviluppi della situazione.

LA TORRE ORBITALE È STATA ABBATTUTA, diceva il titolo.

— Devo proseguire? — chiese il terminale.

— Ci puoi scommettere — rispose Morgan, improvvisamente sveglio.

Nei secondi successivi, mentre leggeva il testo dell'articolo, il suo stato d'animo passò dall'incredulità all'indignazione, per finire alla preoccupazione. Trasmise il tutto a Warren Kingsley, aggiungendo: — Per favore chiamami appena puoi — e si dedicò alla colazione, ancora indignato.

Meno di cinque minuti dopo, Kingsley apparve sullo schermo.

— Andiamo, Van — disse con ironica rassegnazione — dovremmo considerarci fortunati. Ci ha messo cinque anni per arrivare fino a noi.

— È la cosa più ridicola che io abbia mai sentito! Dobbiamo ignorarlo? Se gli rispondiamo gli facciamo pubblicità, e quello non vuole altro.

Kingsley annuì. — È la miglior linea d'azione, almeno per ora. Non dobbiamo reagire come matti. Del resto può darsi che non abbia tutti i torti.

— Cosa vuoi dire?

Kingsley era diventato improvvisamente serio. Sembrava persino un po' a disagio.

— Esistono problemi psicologici, oltre a quelli tecnici — disse. — Pensaci. Ci vediamo in ufficio.

L'immagine scomparve dallo schermo, lasciando Morgan leggermente sconvolto. Era abituato alle critiche, sapeva come trattarle; anzi, si divertiva un mondo a giocare a botta e risposta su argomenti tecnici coi suoi avversari, ed era difficile che si lasciasse sconvolgere le rare volte in cui perdeva. Ma non era facile sistemare Paperino.

Ovviamente non si chiamava così; però l'atteggiamento indignato e critico del dottor Donald Bickerstaff, del tutto peculiare, faceva pensare spesso a quel personaggio della mitologia del ventesimo secolo. Si era laureato (a pieni voti, ma senza lode) in matematica pura; le sue armi erano un aspetto affascinante, una voce melliflua, e una fede incrollabile nella propria capacità di poter parlare di qualsiasi argomento scientifico. Nel suo campo, a dire il vero, era in gamba. Morgan ricordava con piacere una sua conferenza di vecchio stampo cui aveva assistito anni prima alla Royal Institution. In seguito, per una settimana circa era quasi riuscito a capire le singolari proprietà dei numeri transfiniti…

Sfortunatamente, Bickerstaff non conosceva i propri limiti. Possedeva una devota cerchia di sostenitori che seguivano i suoi programmi d'informazione (un tempo lo avrebbero definito "scienziato pop"), ma possedeva una schiera anche più ampia di nemici. I più gentili ritenevano che il suo cervello fosse stato educato oltre i limiti della sua intelligenza. Gli altri lo definivano un libero professionista dell'idiozia. Era un vero peccato, pensava Morgan, che non fosse possibile chiudere Bickerstaff in una stanza col dottor Goldberg-Parakarma: si sarebbero annullati a vicenda, come elettrone e positrone. Il genio dell'uno avrebbe distrutto la fondamentale stupidità dell'altro. Quella stupidità incrollabile contro cui, come lamentava Goethe, persino gli dèi lottavano invano. E siccome al momento c'erano pochi dèi disponibili, Morgan sapeva di dover affrontare da solo l'impresa. Conosceva un'infinità di modi migliori per occupare il tempo; però la cosa poteva offrirgli un comico sollievo, e c'era un precedente suggestivo.

Poche cose ornavano le pareti della stanza d'hotel che da circa un decennio costituiva una delle quattro case "temporanee" di Morgan. Fra queste cose spiccava una foto talmente ben truccata che alcuni ospiti non riuscivano a credere che si trattasse d'un montaggio. La foto era dominata da un piroscafo a vapore grazioso, amorevolmente restaurato: l'antenato di ogni vascello che potesse legittimamente essere definito moderno. A fianco dell'imbarcazione, sul molo a cui il piroscafo era stato miracolosamente restituito centoventicinque anni dopo il varo, si trovava il dottor Vannevar Morgan. Fissava le volute ornamentali della prua dipinta; e a pochi metri di distanza, a lanciargli un'occhiata interrogativa, c'era Isambard Kingdom Brunel, le mani infilate in tasca e il sigaro in bocca.

Tutti gli elementi della foto erano reali. Morgan aveva davvero posato a fianco della "Great Eastern", in un giorno d'estate a Bristol, l'anno dopo la realizzazione del Ponte di Gibilterra. Ma Brunel si trovava sempre nel 1857, ancora in attesa del varo del suo successivo, celeberrimo leviatano, le cui traversie lo avrebbero stroncato nel corpo e nello spirito.

La foto era stata regalata a Morgan per il suo cinquantesimo compleanno, ed era una delle cose che lui amava di più. I suoi colleghi l'avevano intesa come uno scherzo simpatico, dato che l'ammirazione di Morgan per il grande ingegnere del diciannovesimo secolo era nota a tutti. A volte, però, lui si chiedeva se l'idea dei suoi amici non fosse più esatta di quanto loro non pensassero. Il "Great Eastern" aveva divorato il suo creatore. La Torre poteva riservargli lo stesso destino.

Brunel, ovviamente, era circondato di Paperini. Il più insistente era un certo dottor Dionysius Lardner, che aveva dimostrato, al di là d'ogni dubbio, che nessun piroscafo a vapore era in grado di solcare l'Atlantico. Un tecnico poteva respingere le critiche basate su errori concreti o semplicemente su calcoli errati. Ma il punto sollevato da Paperino era più sottile, e la risposta non appariva facile. Morgan ricordò d'improvviso che quell'eroe aveva dovuto affrontare una crisi molto simile alla sua, tre secoli prima.

Tese la mano verso la sua collezione di libri veri, piccola ma senza prezzo, e prese quello che aveva letto, forse, più spesso di tutti: la classica biografia di Rolt "Isambard Kingdom Brunel". Sfogliando in fretta le pagine sporche di ditate, trovò subito il brano che aveva sollecitato la sua memoria.

Brunel aveva progettato un tunnel ferroviario lungo quasi tre chilometri, un'idea "mostruosa e paurosa, pericolosissima e impraticabile". Era inconcepibile, dissero i suoi detrattori, che esseri umani potessero sopportare l'orrore di viaggiare in quell'abisso stigio. "Nessuna persona può desiderare di essere tagliata fuori dalla luce del sole sapendo che sopra di sé c'è una quantità di terreno sufficiente a seppellirla in caso d'incidente… Il rumore di due treni che s'incrociano spezzerebbe i nervi… Nessun passeggero rifarebbe il viaggio una seconda volta…"

Parole già familiari. I Lardner e i Bickerstaff dovevano avere per motto: "Niente sarà fatto per la prima volta".

Eppure, "a volte avevano ragione", se non altro in forza delle leggi delle probabilità. Come lo raccontava Paperino, sembrava tutto così ragionevole. Aveva cominciato col dire, in un guizzo di modestia insolito quanto falso, che non pretendeva certo di criticare gli aspetti tecnici dell'elevatore spaziale. Voleva parlare solo dei problemi psicologici che avrebbe posto, riassumibili in un'unica parola: vertigine. L'essere umano medio, aveva fatto notare, possiede un timore più che giustificato dei luoghi alti; solo gli acrobati, i funamboli, sono immuni a questa reazione naturale. La costruzione più alta sulla Terra non raggiungeva i cinque chilometri; e non era poi molta la gente che si sarebbe lasciata tirare su in verticale lungo i pilastri del Ponte di Gibilterra.

Eppure quello era niente a paragone della terribile prospettiva della torre orbitale. "Chi non si è mai trovato" aveva declamato Bickerstaff "ai piedi di un edificio immenso, a fissarne la superficie vertiginosa sino ad avere l'impressione che stesse per cadere? Immaginate un edificio del genere che sale fra le nubi, nel buio dello spazio, traversando la ionosfera, superando le orbite di tutte le grandi stazioni spaziali, che continua a salire fino a coprire buona parte della distanza fra Terra e Luna! Un trionfo dell'ingegneria, senza dubbio; ma un incubo psicologico. Ritengo che qualcuno impazzirà alla semplice vista. E quanti riusciranno ad affrontare il vertiginoso orrore del viaggio, a salire 'in alto', sospesi sul vuoto dello spazio, per i venticinquemila chilometri sino alla prima fermata della Stazione di Mezzo?

"Non è una risposta esatta dire che individui perfettamente normali possono volare alla stessa altezza, e molto oltre, su una nave spaziale. È una situazione completamente diversa, simile al normale volo atmosferico. L'uomo medio non prova vertigine nemmeno se si trova sospeso nella navicella di un pallone aerostatico che fluttua in aria a qualche chilometro dal suolo. Ma mettetelo sull'orlo di un precipizio alla stessa altezza, e studiate le sue reazioni in quel momento!

"Il motivo di questa differenza è semplicissimo. Su una nave spaziale non esiste nessun legame fisico tra l'osservatore e il suolo. Di conseguenza, dal punto di vista psicologico egli è completamente distaccato dalla dura, solida terra che ha sotto. Non prova più il terrore della caduta; può scrutare paesaggi minuscoli e lontani che non oserebbe mai contemplare da una montagna alta. All'elevatore spaziale manca proprio questo distacco provvidenziale. Il povero passeggero, scaraventato su lungo la superficie della torre gigantesca, sarà fin troppo conscio del legame con la terra. Quali garanzie possiamo avere che qualcuno, a meno di non trovarsi sotto droga o anestesia, possa sopravvivere a una tale esperienza? Sfido il dottor Morgan a rispondermi."

Il dottor Morgan stava ancora pensando alle risposte, poche delle quali decenti, quando lo schermo si accese di nuovo: c'era una chiamata. Quando schiacciò il pulsante di CHIAMATA ACCETTATA, non restò affatto sorpreso nel vedere Maxine Duval.

— Allora, Van — disse lei, senza preamboli — cosa hai intenzione di fare?

— Ho la tentazione di rispondere, ma credo che non dovrei mettermi a discutere con quell'idiota. Tra l'altro, pensi sia stata qualche società aerospaziale a mettermelo contro?

— I miei uomini stanno già indagando. Se scoprono qualcosa te lo faccio sapere. Personalmente credo che sia tutta farina del suo sacco. Riconosco i segni della sua genuina personalità. Ma non hai risposto alla mia domanda.

— Non ho deciso. Sto ancora tentando di digerire la colazione. Tu cosa pensi che dovrei fare?

— Semplice: organizza una dimostrazione. Tra quanto potrebbe essere pronta?

— Fra cinque anni, se tutto va bene.

— Ridicolo. Hai già impiantato il primo cavo…

— Non cavo. Nastro.

— Non interrompermi. Che peso può sopportare?

— Oh… Al capo terrestre, non più di cinquecento tonnellate.

— Siamo a posto. Offri un giro a Paperino.

— Non garantirei la sua incolumità.

— Garantiresti la mia?

— Non parlerai sul serio!

— Parlo sempre sul serio, a quest'ora del mattino. Comunque era ora che preparassi un altro pezzo sulla Torre. Quel modello di caspsula è bellissimo, ma non fa niente. Ai miei spettatori piace l'azione, e anche a me. L'ultima volta che ci siamo visti mi hai mostrato i disegni di quegli apparecchietti che i tecnici useranno per salire e scendere lungo i cavi… Lungo i nastri, cioè. Come li hai chiamati?

— Ragni.

— È vero. L'idea mi affascina. È qualcosa che prima non è mai stato possibile, con nessuna tecnologia. Per la prima volta è possibile starsene seduti in cielo, persino al di sopra dell'atmosfera, e guardare la Terra sotto… Le navi spaziali non ci riusciranno mai. Mi piacerebbe essere la prima a descrivere questa sensazione. E al tempo stesso tarpare le ali di Paperino.

Morgan attese cinque secondi interi, fissando Maxine negli occhi, prima di decidere che era assolutamente seria.

— Posso capire — disse con aria stanca — che una povera ragazzina, un'aspirante giornalista che tenti disperatamente di farsi un nome, faccia salti di gioia davanti a una possibilità del genere. Non voglio distruggere una carriera promettente, ma la risposta è un no definitivo.

La decana dei giornalisti uscì in una sfilza di parole assai poco adatte a una signora, o anche a un signore, parole che non si udivano spesso sui circuiti pubblici.

— Prima che io ti strangoli col tuo iperfilamento, Van — riprese Maxine — perché no?

— Se succedesse qualcosa non mi perdonerei mai.

— Lascia stare le lacrime da coccodrillo. Certo la mia prematura scomparsa sarebbe una tragedia enorme… Per il tuo progetto. Ma non mi sognerei nemmeno di partire se tu non facessi tutte le prove necessarie e non mi garantissi una sicurezza del cento per cento.

— Sembrerebbe solo una trovata pubblicitaria.

— Come dicevano i vittoriani, o erano gli elisabettiani?: e con ciò?

— Senti, Maxine… Guarda che è arrivata la notizia che la Nuova Zelanda è appena affondata. Avranno bisogno di te in studio. Comunque grazie?

— Dottor Vannevar Morgan, lo so perfettamente perché rifiuti. Vuoi essere tu il primo.

— Come dicevano i vittoriani: e con ciò?

— "Touché". Ma ti avverto, Van. Appena uno di quei ragni sarà pronto a funzionare, sentirai di nuovo parlare di me.

Morgan scosse la testa. — Spiacente, Maxine — rispose. — Non hai la minima probabilità…

35 Stellaplano più ottanta

(Da "Dio e Stellisola", Mandala Press, Mosca, 2149)

"Esattamente ottant'anni fa, la robosonda interstellare nota col nome di Stellaplano entrò nel sistema solare e condusse il suo dialogo, breve ma d'importanza storica, con la razza umana. Per la prima volta ci giunse la certezza di quello che avevamo sempre sospettato: che la nostra non è l'unica intelligenza, e che fra le stelle esistono civiltà molto più antiche, e forse molto più sagge. "Dopo quell'incontro, niente poteva più essere lo stesso. Eppure, paradossalmente, da diversi punti di vista è cambiato pochissimo. L'umanità prosegue nelle proprie occupazioni, più o meno come ha sempre fatto. Quante volte ci fermiamo a pensare che gli Stellisolani, sul loro pianeta, sono al corrente della nostra esistenza da ventotto anni, o che, quasi certamente, riceveremo il loro primo messaggio diretto fra ventiquattro anni appena? E se, come qualcuno ha ipotizzato, 'fossero già in viaggio' loro stessi?

"L'uomo possiede una straordinaria abilità, forse provvidenziale, di rimuovere dalla propria coscienza le possibilità future più spaventose. Il contadino romano che arava i fianchi del Vesuvio non si preoccupava della presenza del vulcano. Metà del ventesimo secolo ha vissuto con la bomba all'idrogeno, metà del ventunesimo col virus Golgota. 'Noi' abbiamo imparato a vivere con la minaccia (o promessa) di Stellisola.

"Stellaplano ci ha mostrato molti strani mondi e razze, ma non ci ha svelato i segreti di tecnologie più avanzate, per cui ha avuto un impatto minimo sugli aspetti tecnologici della nostra cultura. Si è trattato di un caso o del risultato di un piano deliberato? Sono molte le domande che vorremmo rivolgere a Stellaplano, ora che è troppo tardi, o troppo presto.

"D'altra parte, ha discusso ampiamente di filosofia e religione, e in questi campi la sua influenza è stata profonda. Per quanto la frase non compaia in nessuna delle trascrizioni, a Stellaplano viene generalmente attribuito il famoso aforisma: 'La fede in Dio sembra essere un prodotto psicologico della riproduzione dei mammiferi'.

"E se fosse vero? La cosa non ha il minimo rilievo nei confronti del problema della 'reale' esistenza di Dio, come procederò a dimostrare…"

Swami Krisnamurthi (dottor Choam Goldberg)

36 Cielo crudele

L'occhio riusciva a seguire il nastro molto meglio di notte che di giorno. Al tramonto, quando si accendevano le luci di segnalazione, diventava un sottile filo incandescente, sempre meno distinguibile; finché, in un punto indefinito, si perdeva sullo sfondo delle stelle.

Era già la maggiore meraviglia del mondo. Prima che Morgan si decidesse a proibire l'accesso ai non addetti ai lavori, si verificava un continuo afflusso di turisti ("pellegrini", li aveva definiti ironicamente qualcuno) che venivano a rendere omaggio all'ultimo miracolo della montagna.

Si comportavano tutti allo stesso modo. Per prima cosa tendevano la mano a toccare dolcemente il nastro largo cinque centimetri, lasciandovi scorrere sopra la punta delle dita con qualcosa di simile alla riverenza. Poi si mettevano in ascolto: appoggiavano le orecchie al materiale liscio, freddo, di cui era fatto il nastro, quasi sperassero di udire la musica delle sfere. Alcuni, anzi, sostenevano di aver sentito una nota bassissima, al limite estremo di udibilità, ma erano solo degli illusi. Anche le armoniche più alte della frequenza naturale del nastro erano molto al di sotto dei livelli umani d'udibilità. E alcuni si allontanavano scuotendo la testa, dicendo: — Nessuno riuscirà mai a farmi salire su quella cosa! — Ma erano il tipo di persone che avevano detto la stessa cosa dei razzi a fusione, della navetta spaziale, dell'aeroplano, dell'automobile, persino della locomotiva a vapore…

La risposta consueta per quegli scettici era: — Non preoccuparti. Questa è solo una parte dell'impalcatura, uno dei quattro nastri che guideranno la Torre fino alla Terra. Quando la costruzione sarà completata, viaggiarci sopra sarà come prendere l'ascensore in un palazzo un po' alto. Solo che il viaggio sarà più lungo, e molto più comodo.

Il viaggo di Maxine Duval, invece, sarebbe stato brevissimo, e non particolarmente comodo. Però, dopo aver capitolato, Morgan aveva fatto del suo meglio per assicurarsi che procedesse senza incidenti.

Il sottile "Ragno" (un prototipo di prova che somigliava a un'assicella da muratore motorizzata) era già salito una dozzina di volte fino a venti chilometri, trasportando il doppio del peso che avrebbe accolto ora. Si erano verificati i soliti piccoli problemi d'aggiustamento, ma niente di serio; gli ultimi cinque viaggi erano andati alla perfezione. E cosa poteva andare storto? Se fosse venuta a mancare la corrente (il che era quasi impensabile in un veicolo così semplice, azionato a batteria) la gravità avrebbe riportato a terra Maxine, e i freni automatici avrebbero smorzato la velocità di discesa. L'unico vero rischio era che il meccanismo di guida potesse bloccarsi, intrappolando Ragno e passeggera negli strati alti dell'atmosfera. E Morgan aveva una soluzione anche per quell'eventualità.

— Solo quindici chilometri? — aveva protestato Maxine. — Basterebbe un aliante per arrivare più in alto!

— Ma tu non ci arriveresti con una semplice maschera a ossigeno. Naturalmente, se vuoi aspettare un anno, per allora avremo pronto il veicolo dotato di sistema di sopravvivenza…

— Non andrebbe bene una tuta spaziale?

Morgan si era rifiutato di cedere, per ottimi motivi. Per quanto sperasse che non fosse necessario, una piccola gru a reazione era pronta ai piedi di Sri Kanda. I gruisti, altamente specializzati, erano pratici di lavori insoliti; non avrebbero avuto la minima difficoltà a recuperare Maxine anche a un'altezza di venti chilometri.

Ma non esisteva nessun tipo di veicolo che potesse raggiungerla a un'altezza doppia. Al di sopra dei quaranta chilometri era terra di nessuno: troppo in basso per i razzi, troppo in alto per i palloni aerostatici.

In teoria, certo, un razzo poteva affiancarsi al nastro e restare immobile per qualche minuto, prima di esaurire tutto il propellente. Ma i problemi di navigazione e di contatto effettivo col Ragno erano talmente orrendi che Morgan non si era nemmeno preoccupato di riflettervi sopra. Nella realtà non sarebbe mai accaduto, e lui sperava che nessun produttore di videodrammi decidesse che si trattava di un buon soggetto per uno spettacolo di successo. Di quel tipo di pubblicità poteva proprio farne a meno.

Maxine Duval sembrava la tipica turista in visita all'Antartico: avvolta dalla scintillante termotuta a lamine metalliche, s'incamminò verso il Ragno e il gruppo di tecnici che gli stavano attorno.

Aveva scelto con molta cura l'ora: il sole si era alzato da sessanta minuti appena, e i suoi raggi non ancora troppo forti avrebbero illuminato magnificamente il paesaggio di Taprobane. Il suo Remoto, ancora più giovane e piacente di quello impiegato nell'ultima memorabile occasione, riprendeva il succedersi degli eventi per i suoi moltissimi spettatori.

Come sempre, aveva provato tutto alla perfezione. Non indugiò, non esitò quando salì a bordo, schiacciò il pulsante di BATTERIA IN FUNZIONE, tirò una profonda boccata d'ossigeno dalla maschera e controllò i monitor di tutti i canali video e audio. Poi, come i piloti degli antichi film di guerra, alzò il pollice verso gli altri e spinse dolcemente in avanti il comando d'accelerazione.

I tecnici raccolti attorno, molti dei quali si erano già divertiti a viaggiare fino all'altezza di qualche chilometro, scoppiarono in un applauso ironico. Qualcuno urlò: — Accensione! Decolliamo! — e, muovendosi all'incirca con la stessa velocità di uno di quegli enormi ascensori in voga sotto il regno di Vittoria I, il Ragno cominciò a salire.

"Dev'essere come andare in pallone" si disse Maxine. Tutto liscio, tranquillo, silenzioso. No, non completamente silenzioso: udiva il ronzio dolce dei motori che facevano girare le molte ruote in movimento sulla superficie piatta del nastro. Non c'erano assolutamente le oscillazioni e le vibrazioni che in parte si aspettava: quell'incredibile nastro lungo cui stava salendo era sottilissimo ma rigido come una sbarra d'acciaio, e i giroscopi del veicolo tenevano il Ragno immobile come una roccia. Chiudendo gli occhi, era facile immaginare di viaggiare già sulla Torre finita. Ma, naturalmente, non li avrebbe chiusi; c'erano troppe cose da vedere e registrare. C'erano anche molte cose da udire; era incredibile con quanta nitidezza viaggiasse il suono, perché udiva ancora benissimo le conversazioni sotto di sé.

Salutò con la mano Vannevar Morgan, poi cercò Warren Kingsley. Fu sorpresa di non riuscire a trovarlo; l'aveva aiutata a salire sul Ragno ed era scomparso. Poi ricordò la sua franca ammissione (a volte lo faceva quasi sembrare un fatto di cui vantarsi) che il miglior ingegnere strutturale del mondo non sopportava l'altezza… Tutti possiedono qualche paura segreta, a volte non troppo segreta. Maxine, ad esempio, non amava i ragni, e avrebbe desiderato che il veicolo su cui viaggiava avesse un altro nome; però, se proprio era necessario, coi ragni riusciva a cavarsela. La creatura che non avrebbe mai sopportato di toccare, per quanto l'avesse incontrata abbastanza spesso durante le sue scorrerie in mare, era il timido e innocuo polipo.

Adesso era visibile l'intera montagna, anche se lei non riusciva a valutarne l'altezza esatta, trovandosi esattamente al di sopra. Le due antiche scalinate che correvano lungo i suoi fianchi sembravano strade piane, stranamente serpeggianti; per quanto riusciva a vedere non c'era il minimo segno di vita lungo il loro percorso. Anzi, una parte delle scalinate era bloccata da un albero precipitato; come se la natura, dopo tremila anni, volesse avvisare che stava per riprendersi quello che le spettava.

Maxine lasciò la telecamera uno puntata verso il basso e cominciò a muovere la due. Sullo schermo del monitor sfilarono campi e foreste, poi le lontane cupole bianche di Ranapur, poi le acque scure del mare interno. E apparve Yakkagala…

Zumò sulla Montagna, e riuscì appena a distinguere le forme vaghe delle rovine che ne ricoprivano la sommità. La Parete dello Specchio era ancora in ombra, come la Galleria delle Principesse; non che si potesse sperare di vederle chiaramente da così lontano. Ma i contorni dei Giardini del Piacere, con gli specchi d'acqua e i camminamenti e il grande fossato che li cingeva, erano chiaramente visibili.

La fila di piume bianche la lasciò perplessa per un attimo, poi capì che stava ammirando un altro simbolo della sfida di Kalidas agli dèi: le cosiddette Fontane del Paradiso. Si chiese cosa avrebbe pensato il re, se l'avesse vista levarsi senza nessuno sforzo verso il paradiso del suo sogno ambizioso.

Era quasi un anno che non parlava con l'Ambasciatore Rajasinghe. D'impulso chiamò la sua villa.

— Ciao, Johan — lo salutò. — Come ti pare questa panoramica di Yakkagala?

— Così sei riuscita a convincere Morgan. Come ti senti?

— È una cosa esilarante; è la sola parola adatta. E unica. Ho volato e viaggiato su tutti i veicoli di questo mondo, ma questa è una faccenda assolutamente diversa.

— Cavalcate sicuri il cielo crudele…

— Che roba è?

— Un poeta inglese, dell'inizio del ventesimo secolo:

"Non m'importa se solcate i mari,

"O cavalcate sicuri il cielo crudele…"

— Be', a me importa, e mi sento sicurissima. Adesso vedo tutta l'isola, anche la costa dell'Indostan. A che altezza mi trovo, Van?

— Quasi dodici chilometri, Maxine. La maschera dell'ossigeno è ben stretta?

— Affermativo. Spero che non mi distorca la voce.

— Non temere. Sei sempre inconfondibile. Ancora tre chilometri.

— Quanta energia mi resta?

— Sufficiente. E se tenti di superare i quindici chilometri, inserisco la guida automatica e ti riporto giù.

— Non me lo sogno nemmeno. Complimenti, fra l'altro. Questa è un'ottima piattaforma d'osservazione. I clienti faranno la fila.

— Ci avevamo pensato. Quelli dei satelliti meteorologici e di comunicazione hanno già fatto offerte. Possiamo fornirli di relè e sensori all'altezza che preferiscono. Servirà tutto a pagare le spese.

— Ti vedo! — esclamò d'improvviso Rajasinghe. — Ho appena visto la tua immagine nel mio cannocchiale. Adesso stai agitando il braccio… Non ti senti sola, lassù?

Per un attimo ci fu un silenzio insolito. Poi Maxine Duval rispose dolcemente: — Non sola come dev'essersi sentito Yuri Gagarin, cento chilometri più in alto di me. Van, hai donato qualcosa di nuovo al mondo. Può darsi che il cielo sia ancora crudele, ma tu l'hai ammansito. Sì, forse qualcuno non avrà mai il coraggio d'affrontare questo viaggio: mi spiace molto per lui.

37 Il diamante da un miliardo di tonnellate

Negli ultimi sette anni si era fatto molto, eppure restava ancora moltissimo da fare. Erano state spostate montagne, o per lo meno asteroidi. Adesso la Terra possedeva una seconda luna naturale, sospesa in cielo poco sopra l'altezza sincrona. Aveva un diametro di meno di un chilometro, e diventava sempre più piccola man mano che le toglievano il carbonio e gli altri elementi leggeri. Quello che restava (il nucleo di ferro, i residui e le scorie della lavorazione industriale) avrebbe formato il contrappeso destinato a tenere la Torre in tensione. Sarebbe stata la pietra della fionda lunga quarantamila chilometri che adesso ruotava col pianeta una volta ogni ventiquattr'ore. Cinquanta chilometri a est della Stazione Ashoka fluttuava in cielo il grande complesso industriale che lavorava le megatonnellate (prive di peso, ma non di massa) di materiale grezzo trasformandolo in iperfilamento. Siccome il prodotto finale era per più del novanta per cento carbonio, con gli atomi disposti secondo un perfetto reticolo cristallino, alla Torre era stato affibbiato il soprannome di "diamante da un miliardo di tonnellate". L'Associazione Gioiellieri di Amsterdam aveva seccamente puntualizzato che (a) l'iperfilamento non era affatto diamante, e (b) se lo fosse stato, la Torre avrebbe pesato quindici carati per dieci alla quinta.

Carati o tonnellate, quelle enormi quantità di materiale avevano spremuto al massimo le risorse delle colonie spaziali e l'abilità dei tecnici orbitali. Nelle misure automatiche, negli impianti di produzione e nelle catene di montaggio a gravità zero si era riversato quasi tutto il genio tecnologico dell'umanità, faticosamente acquisito in duecento anni di colonizzazione spaziale. Presto tutti i componenti della Torre (pochi pezzi standard, prodotti in milioni d'esemplari) sarebbero stati radunati in giganteschi mucchi sospesi in cielo, in attesa degli operai robot.

Allora la Torre sarebbe cresciuta in due direzioni: da una parte verso la Terra e dall'altra, contemporaneamente, verso la massa d'ancoraggio orbitante. Il lavoro doveva essere condotto in modo che le sue direttive di sviluppo fossero sempre in equilibrio reciproco. La sezione trasversale della Torre sarebbe diminuita velocemente d'ampiezza scendendo dall'orbita, dove era sottoposta alle tensioni massime, verso la Terra; e sarebbe diventata sempre minore anche in direzione del contrappeso orbitante.

Completato il lavoro, l'intero cantiere di costruzione sarebbe stato lanciato in orbita di trasferimento verso Marte. Quella clausola del contratto aveva causato grossi dispiaceri fra i politici e i finanziatori terrestri adesso che, troppo tardi, era chiaro il potenziale dell'elevatore spaziale.

I marziani avevano fatto un bel colpo. Avrebbero atteso altri cinque anni prima di cominciare a recuperare gli investimenti, ma forse per un altro decennio avrebbero conservato il monopolio virtuale di quel tipo di costruzione. Morgan sospettava seriamente che la torre di Pavonis potesse essere solo la prima di molte torri. Poteva anche darsi che Marte fosse il pianeta migliore per diventare la base d'un insieme di elevatori spaziali, e i suoi energici abitanti non avrebbero perso un'occasione del genere. Se riuscivano a fare del loro mondo, nei prossimi anni, il centro del commercio interplanetario, buona fortuna a loro! Morgan aveva altri problemi di cui occuparsi, alcuni ancora da risolvere.

La Torre, nonostante le dimensioni enormi, era solo il supporto di qualcosa di molto più complesso. Lungo ognuna delle sue quattro facciate dovevano correre trentaseimila chilometri di binari, capaci di operare a velocità mai tentate. Per l'intero percorso dovevano essere alimentati da cavi a super-conduttività, collegati a giganteschi generatori a fusione; e il sistema nel suo insieme doveva essere controllato da una rete di computer incredibilmente complessa, infallibile.

Il Capolinea Spaziale, dove i passeggeri e le merci sarebbero stati trasferiti dalla Torre all'astronave ancorata lì, era già di per sé un progetto colossale. E lo era anche la Stazione di Mezzo. E lo era il Capolinea Terrestre, che in quel momento veniva scavato col laser nel cuore della montagna sacra. E, oltre a tutto questo, c'era l'Operazione Pulizia Totale…

Per duecento anni, satelliti di ogni forma e dimensione, da quelli grandi come un chiodo a interi villaggi spaziali, si erano andati accumulando in orbita attorno alla Terra. Tutto quello che passava al di sotto dell'altissima Torre, a prescindere dalla frequenza dei passaggi, doveva essere preso in considerazione, visto che costituiva un pericolo potenziale. Tre quarti di quel materiale erano relitti abbandonati, dimenticati da tempo. Adesso bisognava rintracciarli tutti e, in qualche modo, sistemarli.

Per fortuna, le antiche fortezze orbitanti erano magnificamente equipaggiate per quel compito. I loro radar, progettati per individuare missili in arrivo da distanze enormi e senza preavviso, riuscivano facilmente a rintracciare i relitti dei primi tempi dell'era spaziale. Poi i laser distruggevano i satelliti più piccoli, mentre i maggiori venivano inseriti su orbite più elevate e non pericolose. Alcuni, quelli di interesse storico, furono recuperati e riportati a Terra. L'operazione riservò non poche sorprese: ad esempio, tre astronauti cinesi morti in missione segreta, e alcuni satelliti da ricognizione costruiti con una miscela di componenti talmente ingegnosa che fu impossibile scoprire quale paese li avesse lanciati. Non che importasse molto, ovviamente, visto che erano di almeno cento anni prima.

Tutte le orbite dell'infinità di satelliti e stazioni spaziali in funzione, costretti per motivi operativi a restare vicini alla Terra, furono controllate e in qualche caso modificate. Ma ovviamente non si poteva fare niente per i corpi imprevedibili, guidati dal caso, che da un momento all'altro potevano giungere dai confini estremi del sistema solare. Come ogni creazione dell'umanità, la Torre sarebbe stata esposta alle meteoriti. Parecchie volte al giorno il suo sistema di sismometri avrebbe registrato impatti nell'ordine dei milligrammi; ed erano prevedibili danni strutturali di lieve entità una o due volte l'anno. E prima o poi, nei secoli futuri, si sarebbe forse scontrata con una meteora gigante che per un po' avrebbe messo fuori uso uno o più binari. Nel peggiore dei casi, la Torre poteva finire spezzata in un punto.

Il che aveva le stesse possibilità di verificarsi quanto l'impatto di una gigantesca meteorite su Londra o Tokyo, che all'incirca rappresentavano un bersaglio di dimensioni simili. Gli abitanti delle due città non perdevano molto sonno per la preoccupazione di un evento del genere. E nemmeno Vannevar Morgan. A parte i problemi che il futuro poteva riservare, ormai più nessuno dubitava che la Torre Orbitale rappresentasse un'idea di cui era giunto il momento.

Загрузка...