PARTE PRIMA LA STRADA DEL VAMPIRO LESTAT

È una tentazione porre in un collage coerente

l’ape, la catena montuosa, l’ombra

del mio zoccolo…

è una tentazione raggiungerli, imprigionato dal logico,

immenso, mutevole filo molecolare del pensiero,

attraverso ogni sostanza…

È una tentazione

dire che vedo in tutto ciò che vedo

il punto dove l’ago

ha incominciato a inserirsi nell’arazzo… ma, ah,

tutto sembra l’intero e la parte…

sia lunga vita all’occhio e al lucido cuore.

Stan Rice

da «Four Days in Another City»

Some Lamb (1975)

1. LA LEGGENDA DELLE GEMELLE

Dillo

in ritmica

continuità.

Dettaglio per dettaglio

le creature viventi.

Dillo

come dev’essere detto, il ritmo

solido nella forma.

Donna. Broccia levate. Divoratrice d’ombra.

Stan Rice

da «Elegy»

Whiteboy (1976)


«Chiamala per me», disse l’uomo. «Dille che ho fatto sogni stranissimi che riguardavano le gemelle. Devi chiamarla!»

La figlia non voleva farlo. Lo guardò maneggiare faticosamente il libro. Le mani, adesso, gli erano nemiche: lo diceva spesso. A novantun anni stentava a stringere una matita o a girare una pagina.

«Papà», riprese lei, «probabilmente quella donna è morta.»

Tutti quelli che lui aveva conosciuto erano morti: era sopravvissuto ai colleghi, ai fratelli, alle sorelle e persino a due dei suoi figli. Da un tragico punto di vista era sopravvissuto anche alle gemelle perché ormai nessuno leggeva più il suo libro. Nessuno si curava della «leggenda delle gemelle».

«No, chiamala», disse. «Devi chiamarla. Dille che ho sognato le gemelle. Le ho vedute nel sogno.»

«E cosa può importarle, papà?»

La figlia prese il taccuino degli indirizzi e lo sfogliò lentamente. Erano tutti morti, da molto tempo. Gli uomini che avevano lavorato con suo padre in tante spedizioni, i redattori e i fotografi che avevano collaborato al suo libro. Anche i suoi nemici, quelli che avevano affermato che la sua vita era stata sprecata, che la sua ricerca non aveva approdato a nulla; anche i più volgari, che l’avevano accusato di truccare le fotografie e di mentire a proposito delle grotte, tutte cose che suo padre non aveva mai fatto.

Perché la donna che aveva finanziato le spedizioni di tanto tempo prima, la donna ricca che aveva mandato tanto denaro per tanti anni doveva essere ancora viva?

«Devi chiederle di venire! Dille che è molto importante! Devo descriverle che cosa ho visto.»

«Dirle di venire? Venire a Rio de Janeiro solamente perché un vecchio ha fatto strani sogni?» La figlia trovò la pagina: sì, c’erano il nome e il numero. E accanto la data, che risaliva appena a due anni prima.

«Sta a Bangkok, papà.» Che ore erano a Bangkok? Non ne aveva idea.

«Verrà. Lo so.»

Il vecchio chiuse gli occhi e si abbandonò nuovamente sul cuscino. Ormai era minuto, rattrappito. Ma quando riaprì gli occhi, la donna vide il padre che la guardava. Aveva la pelle incartapecorita e ingiallita, chiazze nere sul dorso delle mani sciupate e la testa calva.

Sembrava che ora ascoltasse la musica, il canto sommesso del vampiro Lestat che giungeva dalla sua camera. Avrebbe abbassato il volume, se era quello a tenere sveglio il padre. Non aveva molta simpatia per i cantanti rock americani: ma questo le piaceva abbastanza.

«Dille che le devo parlare!» disse all’improvviso il vecchio come se tornasse in sé.

«Va bene, papà, se proprio vuoi.» La donna spense la lampada accanto al letto. «Ora torna a dormire.»

«Non devi rinunciare a cercarla fino a che l’avrai trovata. Dille… le gemelle! Ho visto le gemelle.»

Ma, mentre la donna usciva, il vecchio la richiamò con uno di quei gemiti improvvisi che la spaventavano sempre. Nella luce che filtrava dal corridoio, vide che le stava additando i libri dello scaffale di fronte.

«Portamelo», disse. Si stava sforzando per sollevarsi di nuovo a sedere.

«Il libro, papà?»

«Le gemelle… le foto…»

La donna prese il vecchio volume, glielo portò e glielo mise sulle ginocchia. Gli sistemò i cuscini per farlo stare più comodo e riaccese la luce.

La faceva soffrire sentirlo così leggero mentre lo sollevava; la faceva soffrire vederlo faticare tanto per inforcare gli occhiali dalla montatura d’argento. Il vecchio prese la matita per aiutarsi a leggere, pronto a scrivere come aveva sempre fatto; ma poi la lasciò cadere. La figlia la raccolse e la rimise sul tavolo.

«Devi chiamarla!»

Lei annuì. Ma rimase dov’era, nell’eventualità che il padre la trattenesse. La musica che veniva dalla sua camera era più forte, una delle canzoni più metalliche e squillanti. Ma sembrava che il vecchio non se ne accorgesse. Gli aprì delicatamente il libro alla prima coppia di immagini a colori. Una riempiva la pagina di sinistra, l’altra quella di destra.

Conosceva bene quelle figure. Ricordava che, da bambina, era salita con il padre fino alla grotta sul monte Carmelo, dove l’aveva condotta nel buio polveroso con la lampada tenuta alta per rivelare i graffiti sulle pareti.

«Ecco là le due figure, le vedi? Le donne dai capelli rossi?»

In un primo momento era stato difficile distinguere le figure rudimentali nel raggio fioco della lampada. Era stato più agevole, in seguito, studiare ciò che rivelava la macchina fotografica.

Ma non avrebbe mai dimenticato quel primo giorno, quando suo padre le aveva mostrato i disegni in sequenza: le gemelle danzanti sotto la pioggia che cadeva in tanti trattini dalle nubi; le gemelle inginocchiate ai lati di un altare sul quale giaceva un corpo, addormentato o morto; le gemelle fatte prigioniere e condotte davanti a un tribunale di figure minacciose; le gemelle che fuggivano. E poi i disegni danneggiati e indecifrabili; e infine una sola gemella che piangeva, con le lacrime che cadevano in trattini minuscoli come la pioggia dagli occhi che erano anch’essi minuscoli segni neri.

Erano figure incise nella roccia, con l’aggiunta dei pigmenti… arancione per i capelli, gesso bianco per le vesti, verde per le piante che crescevano intorno a loro, persino azzurro per il cielo sulle loro teste. Erano trascorsi seimila anni da quando erano state create nel buio profondo della grotta.

E non erano meno antichi i graffiti quasi identici nella camera scavata nella roccia sulle alte pendici di Huayna Picchu, dall’altra parte del mondo.

Anche quel viaggio l’aveva compiuto insieme al padre, un anno dopo, oltre il fiume Urubamba e attraverso le giungle del Perù. Aveva visto con i suoi occhi le due donne, raffigurate in uno stile straordinariamente simile anche se non identico.

Anche là, sulla parete levigata, c’erano le stesse scene: la pioggia, le gemelle dai capelli rossi che danzavano gioiosamente. Poi la cupa scena con l’altare, resa con dettagli accurati. Sull’altare giaceva un corpo di donna, e le gemelle tenevano nelle mani due minuscoli piatti. E c’erano i soldati che facevano irruzione durante la cerimonia, con le spade levate. Le gemelle venivano trascinate via e piangevano. Seguivano il tribunale ostile e la solita fuga. In un’altra scena, sbiadita ma ancora discernibile, le gemelle reggevano un infante, un fagottino con due punti al posto degli occhi e un accenno di capelli rossi; quindi affidavano ad altri il loro tesoro, e i soldati minacciosi ricomparivano.

E infine si vedeva una sola delle gemelle, fra gli alberi frondosi della giungla, con le braccia protese come se invocasse la sorella, e il pigmento rosso dei capelli incrostato alla parete di pietra con il sangue disseccato.

Ricordava l’emozione. Aveva condiviso l’estasi del padre perché aveva trovato le gemelle a un mondo di distanza, in quelle immagini antiche, sepolte nelle grotte montane della Palestina e del Perù.

Sembrava l’avvenimento più grande della storia: niente avrebbe potuto essere più importante. Poi, un anno dopo, in un museo di Berlino era stato scoperto un vaso che mostrava le due stesse figure inginocchiate con i piatti nelle mani, davanti al feretro di pietra. Era un oggetto rozzo, privo di documentazione. Ma cosa contava? I metodi più attendibili l’avevano datato intorno al 4000 a.C., e inconfondibili, nella lingua dell’antica Sumer tradotta da poco tempo, c’erano le parole che significavano


LA LEGGENDA DELLE GEMELLE.

Sì, era parso terribilmente significativo. La giustificazione del lavoro di tutta una vita. Fino a che suo padre non aveva presentato i risultati della ricerca.

Avevano riso di lui. O l’avevano ignorato. Non era credibile, quell’anello di congiunzione fra il vecchio e il nuovo mondo. Seimila anni, figurarsi! Lo avevano considerato un pazzo, come quelli che parlavano di astronauti nell’antichità, di Atlantide e del regno perduto di Mu.

E lui aveva discusso e tenuto conferenze, li aveva implorati di credere, di recarsi con lui nelle grotte, per vedere con i loro occhi! Aveva mostrato i campioni dei pigmenti, i rapporti di laboratorio, gli studi dettagliati delle piante raffigurate nei rilievi, persino le vesti bianche delle gemelle.

Un altro si sarebbe arreso. Ogni fondazione, ogni università l’aveva respinto. Non aveva denaro neppure per provvedere ai suoi figli. Aveva accettato una cattedra da insegnante per guadagnarsi il pane, e la sera scriveva lettere ai musei di tutto il mondo. Una tavoletta coperta di disegni era stata trovata a Manchester, e un’altra a Londra, ed entrambe raffiguravano chiaramente le gemelle. Grazie a una somma che si era fatto prestare, aveva fatto il viaggio per fotografare i reperti. Aveva scritto saggi sull’argomento, pubblicati su oscure riviste. E aveva continuato la ricerca.

Poi era comparsa quella donna eccentrica dalla voce sommessa che gli aveva dato ascolto, aveva esaminato il materiale e gli aveva consegnato un antico papiro, ritrovato all’inizio del secolo nell’Alto Egitto, che conteneva alcune delle stesse immagini e le parole «La leggenda delle gemelle».

«Un dono per lei», aveva detto. Poi gli aveva comprato il vaso del museo di Berlino. E gli aveva procurato anche le tavolette conservate in Inghilterra.

Ma era affascinata soprattutto dalla scoperta peruviana. Gli aveva messo a disposizione somme cospicue perché tornasse nel Sudamerica per continuare il lavoro.

Per anni il vecchio aveva visitato una grotta dopo l’altra in cerca di altre prove, aveva interrogato gli indigeni sui loro miti più antichi, aveva esaminato città in rovina e templi, persino vecchie chiese cristiane, in cerca di pietre sottratte ai santuari pagani.

Ma erano passati decenni e non aveva trovato nulla.

Era stata la sua rovina. Persino la sua mecenate gli aveva consigliato di desistere. Non voleva vederlo sprecare la vita in quel modo. Doveva lasciare il compito a uomini più giovani. Ma lui non voleva ascoltare. Era la sua scoperta! La leggenda delle gemelle! Perciò lei gli firmava gli assegni; e lui aveva continuato fino a che era diventato troppo vecchio per scalare le montagne e aprirsi la strada nella giungla a colpi di machete.

Negli ultimi anni s’era limitato a tenere qualche conferenza ogni tanto. Non riusciva a interessare gli studenti a quel mistero, neppure quando mostrava il papiro, il vaso, le tavolette. Dopotutto, quegli oggetti non avevano una collocazione precisa, non appartenevano a un periodo definito. E le grotte… chi avrebbe potuto ritrovarle, adesso?

La sua mecenate gli era però rimasta fedele. Aveva comprato loro quella casa a Rio e aveva istituito un fondo vincolato che, alla sua morte, sarebbe passato alla figlia. Aveva anche pagato gli studi della ragazza e tante altre cose. Era strano che vivessero tra gli agi. Come se il vecchio avesse avuto successo.

«Chiamala», ripetè. Si stava agitando, e le mani vuote si tendevano verso le fotografie. Dopotutto, sua figlia non s’era mossa. Gli stava accanto e guardava le immagini, le figure delle gemelle.

«D’accordo, papà.» Lo lasciò con il suo libro.


Era pomeriggio inoltrato quando la figlia entrò e gli diede un bacio. L’infermiera disse che aveva pianto come un bambino. Il vecchio aprì gli occhi quando la figlia gli prese la mano.

«So che cosa hai fatto», disse. «L’ho visto. È stato un sacrilegio!»

La figlia cercò di calmarlo. Gli disse che aveva chiamato la donna. La donna stava per arrivare.

«Non era a Bangkok, papà. S’è trasferita in Birmania, a Rangoon. Ma sono riuscita a mettermi in contatto con lei, e le ha fatto piacere avere tue notizie. Ha detto che sarebbe partita tra qualche ora. Vuol sapere dei sogni.»

Il vecchio era felice. Lei stava per arrivare. Chiuse gli occhi e affondò il volto nel cuscino. «I sogni ricominceranno quando farà buio», bisbigliò. «L’intera tragedia ricomincerà.»

«Riposa, papà», disse la figlia. «Fino al suo arrivo.»


Il vecchio morì durante la notte. Quando la figlia entrò, era già freddo. L’infermiera attendeva ordini. Lui non aveva lo sguardo spento e velato dei morti. La matita era abbandonata sulla coperta, e sotto la mano destra c’era un pezzo di carta gualcito… il risvolto del suo prezioso libro.

La figlia non pianse. Per un momento non fece nulla. Ricordò la grotta in Palestina, la lanterna. «Vedi? Le due donne?»

Gli chiuse delicatamente gli occhi e gli baciò la fronte. Lui aveva scritto qualcosa sul foglio: gli sollevò le dita fredde e rigide, prese la carta e lesse le poche parole scarabocchiate con una grafìa esile.

«nelle giungle… cammina.»

Cosa poteva significare?

Ormai era troppo tardi per mettersi in contatto con la donna. Molto probabilmente sarebbe arrivata quella sera. Un viaggio così lungo…

Bene, le avrebbe dato quel pezzo di carta, se era importante, e le avrebbe riferito ciò che suo padre le aveva detto a proposito delle gemelle.

2. LA BREVE VITA DI BABY JENKS E LA BANDA DELLA ZANNA

Qui si serve

Il Burger del Delitto.

Non devi attendere

Alle porte del Paradiso

La Morte azima.

Puoi morire

Proprio in questo angolo.

Maionese, cipolle, dominazione della carne.

Se vuoi mangiarlo

Devi nutrirlo.

«Ritoma presto.»

«Ci puoi contare.»

Stan Rice

da «Texas Suite»

Some Lamb (1975)


Baby Jenks lanciò l’Harley a centodieci orari mentre il vento le agghiacciava le mani bianche e nude. Aveva quattordici anni quando l’estate scorsa avevano fatto di lei una dei Morti, e come «peso morto» era trentotto chili al massimo. Da allora non s’era più pettinata (non era necessario) e le due treccine bionde erano spinte indietro dal vento che le sollevava dalle spalle del giubbotto di pelle nera. Protesa in avanti, con una smorfia sulla boccuccia imbronciata, aveva l’aria cattiva e ingannevolmente graziosa. I grandi occhi azzurri erano vacui.

La musica rock del Vampiro Lestat imperversava nella cuffia, e quindi non sentiva altro che le vibrazioni della gigantesca moto sotto di lei e il folle senso di solitudine che l’aveva assalita da quando era partita da Gun Barrel City, cinque notti prima. E c’era un sogno che la perseguitava, un sogno che ritornava ogni notte prima che aprisse gli occhi.

Nel sogno vedeva le gemelle dai capelli rossi, le due belle signore, e allora tutte le cose terribili si allontanavano. No, non le piaceva affatto, e si sentiva sola, così sola da impazzire.

La Banda delle Zanne non l’aveva attesa a sud di Dallas come aveva promesso. Lei aveva aspettato per due notti accanto al cimitero, e poi aveva capito che c’era qualcosa che non andava, non andava assolutamente. Non sarebbero mai partiti per la California senza di lei. Forse erano andati a vedere il vampiro Lestat nello spettacolo a San Francisco, ma avevano ancora molto tempo a disposizione. No, c’era qualcosa che non andava. Lo sapeva.

Anche quando era viva, Baby Jenks aveva sempre saputo intuirle, certe cose. Adesso che era Morta, le percepiva dieci volte più di prima. Sapeva che la Banda delle Zanne era nei guai. Killer e Davis non l’avrebbero mai scaricata. Killer diceva di amarla. Perché diavolo, se no, l’avrebbe iniziata, se non l’avesse amata? A Detroit sarebbe morta se non fosse stato per Killer.

Stava morendo dissanguata; il dottore aveva fatto quel che doveva fare, il bambino non c’era più, ma sarebbe morta anche lei perché il dottore aveva sbagliato qualcosa, ed era così fatta d’eroina che non le importava niente. E poi era successa quella cosa strana. S’era trovata ad aleggiare su, fino al soffitto, e a guardare il suo corpo dall’alto. E non era neppure per effetto delle droghe. Le sembrava che stessero per accadere tante altre cose.

Ma laggiù era entrato Killer, e lei da lassù, da dove stava fluttuando, Baby Jenks aveva potuto vedere che era un Morto. Naturalmente non sapeva come si definiva, allora. Sapeva soltanto che non era vivo. Sembrava piuttosto normale. Jeans neri, capelli neri, occhi neri profondissimi. Aveva la scritta «Fang Gang», Banda delle Zanne, sul giubbotto di pelle. S’era seduto sul bordo del letto, accanto al corpo di Baby Jenks, e s’era chinato.

«Come sei carina, bimba», aveva detto. Era la stessa cosa che le aveva detto il magnaccia quando le aveva fatto intrecciare i capelli e mettere i fermaglietti di plastica, prima di mandarla a battere per le strade.

E poi, whooom! Era ritornata nel suo corpo, si era sentita pervasa da una sensazione calda e più piacevole della droga e lo aveva sentito dire: «Non morirai, Baby Jenks, non morirai mai più!» Gli teneva affondati i denti nello stramaledetto collo, e cribbio, era un paradiso!

Ma cos’era quella storia che non sarebbe mai morta? Adesso non era tanto sicura.

Prima di lasciare Dallas e di rinunciare ad attendere la Banda delle Zanne, aveva visto la casa della congrega, in Swiss Avenue, bruciata e ridotta in cenere. Tutti i vetri delle finestre erano scoppiati. Era accaduto lo stesso a Oklahoma City. Cosa diavolo era successo a tutti i Morti in quelle case? Ed erano i succhiatori di sangue delle grandi città, per giunta, quelli furbi che si facevano chiamare vampiri.

Come aveva riso quando Killer e Davis le avevano detto… quando le avevano raccontato che quei Morti andavano in giro in abiti con il panciotto e ascoltavano musica classica e si facevano chiamare vampiri. Baby Jenks sarebbe morta dal gran ridere. Anche Davis lo trovava molto ridicolo, ma Killer aveva continuato a metterla in guardia, raccomandandole di star lontana da loro.

Killer e Davis, e Tim e Russ l’avevano fatta passare davanti alla casa della congrega in Swiss Avenue poco prima che li lasciasse per andare a Gun Barrel City.

«Devi sapere dov’è», aveva detto Davis. «E poi devi starci lontana.»

Le avevano mostrato le case delle congreghe in tutte le grandi città dove andavano. Ma era stato quando le avevano mostrato la prima, a St. Louis, che le avevano raccontato tutta la storia.

S’era sempre trovata bene con la Banda delle Zanne da quando avevano lasciato Detroit e si erano nutriti degli uomini che attiravano fuori dalle birrerie lungo la strada. Tim e Russ erano tipi a posto, ma Killer e Davis erano i suoi grandi amici, ed erano i capi della Banda delle Zanne.

Ogni tanto erano entrati in città e avevano trovato una baracca abbandonata, magari con un paio di barboni, uomini che somigliavano un po’ a suo padre, con il berretto a visiera e le mani callose. E allora li avevano usati per banchettare. Con gente così si poteva sempre vivere, le aveva detto Killer, perché nessuno si preoccupava della loro sorte. Attaccavano svelti, kachoom!, bevendo in fretta il sangue, e li prosciugavano fino all’ultimo battito del cuore. Non era divertente torturare così la gente, diceva Killer. Bisognava provar compassione per loro. Facevi quello che dovevi fare, e poi bruciavi la baracca, oppure li portavi fuori e scavavi una buca molto profonda e li seppellivi lì. E se non potevi far niente per nascondere l’accaduto, ricorrevi a un piccolo trucco: ti tagliavi un dito, lasciavi che il sangue di Morto scorresse sopra il segno dei denti, ed ecco che le trafitture sparivano in un lampo. Nessuno avrebbe mai capito la verità perché sembrava un colpo o un attacco di cuore.

Baby Jenks si divertiva un mondo. Sapeva guidare una grossa Harley, reggere un cadavere con un braccio, scavalcare il cofano di una macchina… era fantastico! E a quel tempo non aveva ancora fatto lo stramaledetto sogno, il sogno che era incominciato a Gun Barrel City… con quelle gemelle dai capelli rossi e quel corpo di donna disteso sull’altare. Che cosa stavano facendo?

E che cosa avrebbe fatto lei, adesso, se non fosse riuscita a trovare la Banda delle Zanne? In California il vampiro Lestat sarebbe andato in scena fra due sere. E tutti i Morti del creato sarebbero stati presenti… o almeno così pensava, e così aveva pensato la Banda delle Zanne, e avrebbero dovuto essere là tutti insieme. E allora perché mai era separata dalla Banda delle Zanne, diretta verso una città schifosa come St. Louis?

Lei voleva che tutto continuasse ad andare come prima, accidenti. Oh, il sangue era squisito, yum, era davvero ottimo, anche adesso che era sola e doveva farsi coraggio, com’era successo quella sera, per fermarsi a un distributore e adescare il vecchio benzinaio. Oh, sì, snap, quando gli aveva stretto le mani intorno al collo ed era venuto il sangue era stato bellissimo, come hamburger e patatine fritte e frullati alla fragola, come la birra e i gelati al cioccolato. Era come una droga, coca e hashish. Era meglio d’una chiavata! Era tutto.

Però le cose andavano meglio quando c’era con lei la Banda delle Zanne. Loro capivano quando diceva che era stufa dei vecchi e voleva qualcosa di giovane e tenero. Nessun problema. Ehi, diceva Killer, Baby ha bisogno di un ragazzino scappato da casa. Chiudi gli occhi e pensa a quel che desideri. E difatti lo avevano trovato sulla strada, a cinque chilometri da una cittadina nel nord Missouri, e si chiamava Parker. Un bel ragazzino con i lunghi capelli neri, appena dodici anni ma molto alto per la sua età, con un po’ di barba; cercava di farsi passare per un sedicenne. Era salito sulla sua moto e l’avevano portato nei boschi. Poi Baby Jenks s’era sdraiata vicino a lui, dolcemente, e slurp, per Parker era finita.

Era delizioso, davvero. Ma Baby Jenks non sapeva se, a pensarci bene, era davvero meglio dei vecchi. E con loro era più divertente. Il buon sangue vecchio, diceva Davis.

Davis era un Morto negro, e anche molto bello, o almeno così lo vedeva Baby Jenks. La sua pelle aveva un riflesso dorato, il riflesso dei Morti che nel caso dei bianchi dava l’impressione che fossero sotto una luce fluorescente. Davis aveva anche delle ciglia magnifiche, incredibilmente lunghe e folte, e si metteva addosso tutto l’oro che riusciva a trovare. Rubava gli anelli d’oro, gli orologi e le catene alle vittime.

Davis amava ballare. Tutti amavano ballare, ma Davis aveva una resistenza maggiore. Andavano a ballare nei cimiteri, magari verso le tre del mattino, dopo che avevano mangiato e avevano sepolto i cadaveri e tutto quanto. Piazzavano la radio su una lapide e l’alzavano al massimo, con il vampiro Lestat che ruggiva Il Grande Sabba, una canzone che andava bene per ballare. Eh, cribbio, era magnifico saltare e piroettare e balzare in aria, oppure stare a guardare Davis che si muoveva e Killer che si muoveva e Russ che girava in tondo fino a crollare. Quello sì era il vero ballo dei Morti.

E se quei succhiasangue delle grandi città non erano entusiasti anche loro, be’, erano matti.

Dio, avrebbe potuto raccontare a Davis il sogno che faceva sempre dopo Gun Barrel City. Le era capitato la prima volta nella roulotte di sua madre, zap, mentre stava aspettando. Per essere un sogno era molto nitido, le due donne con i capelli rossi, e il loro corpo con la pelle tutta nera e screpolata. E cosa diavolo c’era sui piatti del sogno? Sì, su uno c’era un cuore, sull’altro un cervello. Cristo. Tutta quella gente inginocchiata intorno al corpo, e i piatti. Metteva i brividi. E da quella volta il sogno era tornato molte volte. Oh, ritornava ogni stramaledetta volta che chiudeva gli occhi, e poi di nuovo prima che cominciasse a scavare per uscire dal posto dove s’era rintanata per sfuggire alla luce del giorno.

Killer e Davis avrebbero capito. Avrebbero saputo dire se significava qualcosa. Volevano insegnarle tutto.

Quando erano capitati a St. Louis mentre erano diretti a sud, la Banda delle Zanne aveva lasciato il boulevard per addentrarsi in una di quelle strade buie con i cancelli di ferro, che a St. Louis chiamano «posti privati». Era il Central West End, avevano detto. A Baby Jenks erano piaciuti i grandi alberi. Non c’erano grandi alberi nel Texas meridionale. Anzi, nel Texas meridionale non c’era niente di niente. E lì gli alberi erano così grandi che ti formavano un tetto sopra la testa. E le strade erano piene di foglie fruscianti e le case erano grandi, con i tetti spioventi e le luci accese. La casa della congrega era di mattoni, e c’erano quelli che Killer chiamava «archi moreschi».

«Non avvicinarti», aveva detto Davis. Killer aveva riso. Killer non aveva paura dei Morti delle grandi città, Killer era stato creato sessant’anni prima; era vecchio e sapeva tutto.

«Ma cercheranno di farti male, Baby Jenks», aveva detto mentre spingeva a mano l’Harley un po’ più avanti, lungo la strada. Aveva la faccia lunga e magra, portava un orecchino d’oro e gli occhi erano piccoli, pensierosi. «Vedi, questa è una vecchia congrega, è a St. Louis dall’inizio del secolo.»

«Ma perché dovrebbero farci male?» aveva chiesto Baby Jenks. La casa l’incuriosiva molto. Cosa facevano i Morti che vivevano nelle case? Che mobili avevano? Chi pagava i conti, santo cielo?

Le sembrava di vedere un lampadario attraverso le tende d’una di quelle case. Un grande lampadario lussuoso. Cribbio! Quello sì che era vivere.

«Oh, hanno proprio di tutto», aveva detto Davis, leggendole nel pensiero. «Non pensi che i vicini li credano gente normale? Guarda la macchina sul viale, sai cos’è? È una Bugatti, Baby. E quell’altra è una Mercedes.»

Perché diavolo non andava bene una Cadillac rossa? A lei sarebbe piaciuto averla, una grossa decapottabile succhiabenzina che in un rettilineo poteva andare a centonovanta. Era stato proprio quello a metterla nei guai, a Detroit, uno stronzo con una Cadillac decapottabile. Ma anche se eri Morta questo non voleva dire che dovessi girare con una Harley e dormire tutti i giorni sottoterra, eh?

«Noi siamo liberi, tesoro», aveva detto Davis, leggendole nel pensiero. «Non capisci? La vita nelle grandi città ha i suoi inconvenienti. Diglielo, Killer. E non riuscirai a farmi vivere in una casa come quella e a farmi dormire in una bara in cantina.»

S’era messo a ridere. Killer l’aveva imitato e s’era messa a ridere anche lei. Ma cosa diavolo si provava a vivere là dentro? Guardavano la televisione in seconda serata e seguivano i film di vampiri? Davis si rotolava per terra.

«Il fatto è, Baby Jenks», aveva detto Killer, «che per loro siamo emarginati. Vogliono comandare. Non credono che abbiamo diritto di essere Morti. Quando creano un vampiro nuovo — loro così lo chiamano — fanno una grande cerimonia.»

«Vuoi dire come un matrimonio o qualcosa del genere?»

E gli altri due giù a ridere di nuovo.

«Non proprio», aveva detto Killer. «Piuttosto come un funerale!»

Facevano troppo chiasso. Sicuramente i Morti che stavano nella casa li avrebbero sentiti. Ma Baby Jenks non aveva paura, se non aveva paura Killer. Dov’erano Russ e Tim? Erano andati a caccia?

«Ma il fatto è, Baby Jenks», aveva detto Killer, «che loro hanno tutte quelle regole, e ti dirò una cosa: dicono in giro che faranno fuori il vampiro Lestat la sera del concerto. Ma sai, hanno letto il suo libro come se fosse la Bibbia. Usano lo stesso linguaggio, Dono Tenebroso, Trucco Tenebroso. Te lo dico io, è la cosa più stupida che abbia mai visto: bruceranno quel tipo sul rogo e poi useranno il suo libro come se fosse un manuale di bon-ton…»

«Non uccideranno mai Lestat», aveva sbuffato Davis. «Impossibile. Non si può uccidere il vampiro Lestat, è assolutamente impossibile. Ci hanno già provato, vedete, ma è stato inutile. Quello è assolutamente immortale.»

«Ehi, vanno là come ci andiamo noi», aveva detto Killer. «Per metterci con lui, se ci vuole.»

Baby Jenks non capiva tutto. Non sapeva cosa fosse un manuale di bon-ton. E non siamo tutti immortali? E perché il vampiro Lestat dovrebbe aver voglia di imbarcarsi con la Banda delle Zanne? Voglio dire, è un divo del rock, Cristo. Probabilmente aveva una berlina di lusso. Ed era adorabile, Morto o vivo! Capelli biondi da morire, e un sorriso che ti metteva la voglia di lasciare che ti mordesse sul collo!

Baby Jenks aveva cercato di leggere il libro del vampiro Lestat, la storia dei Morti che risaliva ai tempi antichi e tutto il resto: ma c’erano troppi paroloni e zac, s’era addormentata.

Killer e Davis dicevano che poteva leggere molto velocemente, se si impegnava. Si portavano dietro le copie di un libro, quello con il titolo che non ricordava mai esattamente, qualcosa come «conversazioni con il vampiro» o «colloqui con il vampiro» o «incontro con il vampiro». Ogni tanto Davis lo leggeva ad alta voce, ma Baby Jenks non riusciva a stare attenta e si addormentava. Il Morto Louis, o come si chiamava, era stato creato Morto a New Orleans, e il libro era pieno di discorsi sulle foglie di banano, le ringhiere di ferro battuto e il lichene spagnolo.

«Baby Jenks, loro sanno tutto, i vecchi europei», diceva Davis. «Loro sanno com’è incominciato, sanno che possiamo tirare avanti per sempre, possiamo vivere fino a mille anni e diventare di marmo bianco.»

«Oh, è magnifico, Davis», diceva lei. «È già un guaio non poter entrare in Seven Eleven sotto quelle luci senza che la gente ti guardi. Chi vuol sembrare di marmo bianco?»

«Baby Jenks, tu non hai più bisogno di niente dal Seven Eleven», diceva Davis con molta calma. Però aveva capito.

Meglio lasciar perdere i libri. Baby Jenks amava la musica del vampiro Lestat, e quelle canzoni le davano molto, soprattutto quella che parlava di Coloro-che-devono-essere-conservati, il re e la regina egiziani… anche se per dire la verità non sapeva cosa diavolo significava, prima che Killer glielo spiegasse.

«Sono i progenitori di tutti i vampiri, Baby Jenks, la Madre e il Padre. Vedi, c’è una discendenza ininterrotta da quel re e da quella regina dell’antico Egitto, chiamati Coloro-che-devono-essere-conservati. E bisogna conservarli perché, se li distruggi, distruggi anche tutti noi.»

A lei sembravano un mucchio di fesserie.

«Lestat ha visto la Madre e il Padre», aveva detto Davis. «Li ha trovati nascosti su un’isola greca, quindi sa che è vero. È quel che dice a tutti con le sue canzoni… ed è la verità.»

«E la Madre e il Padre non si muovono, non parlano e non bevono sangue, Baby Jenks», aveva detto Killer. Aveva un’aria pensierosa, quasi triste. «Se ne stanno lì a occhi sbarrati, come fanno da migliaia di anni. Nessuno sa quello che sanno quei due.»

«Probabilmente niente», aveva detto Baby Jenks, disgustata. «E ve lo dico io, bel modo d’essere immortali! Perché dici che i Morti delle grandi città possono ucciderci? Come è possibile?»

«Il fuoco e il sole ci riescono sempre», aveva risposto Killer, un po’ spazientito. «Te l’ho detto. Adesso ascoltami, ti prego. Puoi sempre combattere i Morti delle grandi città. Il fatto è che i Morti delle grandi città hanno paura di te come tu ne hai di loro. Basta che fili via quando vedi un Morto che non conosci. È una regola seguita da tutti i Morti.»

Dopo che avevano lasciato la casa della congrega, Baby Jenks aveva avuto un’altra sorpresa da Killer; le aveva detto dei bar dei vampiri. Erano grandi locali di lusso a New York e San Francisco e New Orleans dove i morti s’incontravano nelle sale sul retro mentre gli stupidi esseri umani bevevano o ballavano. Là dentro nessun altro Morto poteva ucciderti, cittadino o europeo o vagabondo come lei.

«Corri a rifugiarti in uno di quei posti», le aveva detto Killer, «se i Morti delle grandi città ti scoprissero.»

«Non sono abbastanza grande per entrare in un bar», aveva detto Baby Jenks.

Non mancava altro. Killer e Davis avevano riso da star male. Quasi cadevano dalle motociclette.

«Trova un bar di vampiri, Baby Jenks», aveva detto Killer. «Lanciagli il Malocchio e poi digli ‘Fatemi entrare’.»

Sicuro, lei aveva usato il Malocchio con la gente e aveva funzionato. E per la verità non avevano mai visto i bar dei vampiri. Ne avevano solo sentito parlare. Non sapevano dov’erano. Baby Jenks aveva tante cose da chiedere quando finalmente avevano lasciato St. Louis.

Ma adesso, mentre puntava verso nord, verso quella città, l’unica cosa al mondo che le interessasse era arrivare alla stramaledetta casa della congrega. Morti della grande città, ecco che arrivo. Sarebbe diventata pazza se avesse dovuto continuare da sola.

La musica in cuffia cessò. Il nastro era finito. Non sopportava il silenzio nel rombo del vento. Le ritornò in mente il sogno: rivide le gemelle, i soldati che si avvicinavano. Gesù. Se non l’avesse scacciato, quello stramaledetto sogno si sarebbe ripetuto come una registrazione.

Tenne la moto con una mano e si frugò nel giubbotto per aprire il piccolo mangiacassette. Girò il nastro: «Avanti, canta!» disse. La sua voce era esile e stridula nel vento.

Cosa possiamo sapere

Di Coloro-che-devono-essere-conservati?

C’è qualche spiegazione che ci può salvare?

Sissignori, era la canzone che le piaceva. L’aveva ascoltata quando s’era addormentata in attesa che sua madre tornasse dal lavoro a Gun Barrel City. Non erano le parole che la colpivano, era il modo in cui la cantava. Gemeva nel microfono come Bruce Springsteen e ti spezzava il cuore.

In un certo senso era come un inno, aveva quel genere di suono; eppure Lestat era là, cantava per lei, e c’era un ritmo ossessivo che le arrivava alle ossa.

«Okay, cribbio, okay, sei l’unico stramaledetto Morto che mi resta, Lestat. Continua a cantare.»

Mancavano cinque minuti per arrivare a St. Louis, e lei pensava di nuovo a sua madre. Com’era stato strano e doloroso…

Baby Jenks non aveva neppure detto a Killer e a Davis perché andava a casa, anche se loro sapevano e capivano.

Baby Jenks doveva farlo: doveva arrivare dai genitori prima che la Banda delle Zanne si dirigesse all’ovest. Non era pentita neppure adesso. Solo per quello strano attimo, quando sua madre stava morendo sul pavimento.

Baby Jenks aveva sempre odiato sua madre. Pensava che fosse una gran scema; ogni giorno della sua vita faceva le croci con le conchigliette rosa e i pezzetti di vetro e le portava al mercato delle pulci di Gun Barrel City e le vendeva per dieci dollari. Erano brutte, vere schifezze fatte a mano, quelle cose con un minuscolo Gesù contorto in centro, fatto di perline rosse e azzurre.

Ma non era solo questo: era tutto ciò che sua madre aveva fatto, a disgustare Baby Jenks. Andava in chiesa, e questo era già abbastanza orrendo, ma poi parlava con la gente con tanta dolcezza e sopportava le sbronze del marito e inoltre sapeva dire sempre qualcosa di carino su tutti.

Baby Jenks non aveva mai creduto una parola. Se ne stava sdraiata sulla cuccetta della roulotte e si chiedeva: Cosa la fa funzionare veramente? Quando scoppierà come un candelotto di dinamite? Oppure è troppo stupida? Sua madre aveva smesso di guardarla negli occhi diversi anni prima. Quando Baby Jenks aveva dodici anni, era entrata e aveva detto: «Sai che l’ho fatto, vero? Spero che non penserai che sono vergine!» E sua madre aveva preso quell’atteggiamento svanito e aveva girato gli occhi vuoti e stupidi mettendosi a lavorare e canticchiando come sempre quando faceva quelle croci di conchiglie.

Una volta un tale d’una grande città aveva detto a sua madre che era una vera artista popolare. «Ti prendono in giro», aveva detto Baby Jenks. «Non lo sapevi? Non hanno comprato neanche una di quelle schifezze, vero? Sai cosa mi sembrano? Te lo dico io: mi sembrano orecchini da grande magazzino!» Sua madre non discuteva. Porgeva l’altra guancia. «Vuoi la cena, cara?»

Era un caso aperto e chiuso, pensava Baby Jenks. Perciò aveva lasciato Dallas molto presto ed era arrivata a Cedar Creek Lake in meno di un’ora. C’era il cartello che indicava la sua dolce, piccola città natale.


BENVENUTI A GUN BARREL CITY
CON VOI SPARIAMO DIRITTO

Quando era arrivata, aveva nascosto la Harley dietro la roulotte. In casa non c’era nessuno. S’era sdraiata per fare un sonnellino, mentre Lestat cantava nella cuffia, il ferro a vapore a portata di mano: quando sua madre fosse entrata, slam bam, tante grazie signora, e l’avrebbe fatta fuori con quello.

Poi c’era stato il sogno. Non era ancora addormentata quando era incominciato. La voce di Lestat s’era affievolita, il sogno l’aveva stordita e… snap!

Si trovava in un posto pieno di sole. Una radura sul fianco della montagna. E c’erano le gemelle, belle donne dai capelli rossi ondulati, che stavano inginocchiate come angeli in chiesa, a mani giunte. Intorno c’era tanta gente, tutti con le vesti lunghe come nella Bibbia. E poi c’era anche la musica, un ritmo ossessivo e il suono di un corno, molto lugubre. Ma la cosa più orrenda era il corpo morto, bruciato della donna sulla lastra di pietra. Sembrava arrostita. E sui piatti c’erano un grosso cuore lucente e un cervello. Sì, sicuro: un cuore e un cervello.

Baby Jenks s’era svegliata, impaurita. Al diavolo. Sua madre era ferma sulla soglia. Baby Jenks era balzata in piedi e l’aveva colpita con il ferro a vapore fino a che aveva smesso di muoversi. Botte in testa. Avrebbe dovuto essere morta, ma non lo era. E poi era venuto il momento pazzesco.

Sua madre era stesa sul pavimento, mezzo morta, a occhi sbarrati, come poi sarebbe successo a suo padre. E Baby Jenks era sulla sedia, con una gamba accavallata sul bracciolo, si appoggiava sul gomito o rigirava una treccia e aspettava e pensava alle gemelle del sogno e al corpo e ai piatti, che senso aveva? Ma soprattutto aspettava. Muori, stupida, avanti, muori, non ti darò un’altra botta in testa.

Ancora adesso Baby Jenks non sapeva con sicurezza cosa fosse accaduto. Era come se i pensieri di sua madre fossero cambiati, fossero ingigantiti. Forse stava salendo verso il soffitto come era successo a Baby Jenks quando era stata sul punto di morire prima che Killer la salvasse. Ma qualunque fosse la causa, i pensieri erano sorprendenti. Davvero sorprendenti. Come se sua madre sapesse tutto! Tutto del bene e del male e dell’importanza dell’amore, del vero amore, e del fatto che c’era molto di più delle solite regole, non bere, non fumare, prega Gesù. Non erano i discorsi dei predicatori. Era qualcosa di gigantesco.

Stesa sul pavimento, sua madre aveva pensato che la mancanza d’amore in Baby Jenks era stata terribile, come un gene difettoso che l’avesse resa storpia e cieca. Ma non aveva importanza. Tutto sarebbe andato per il meglio. Baby Jenks si sarebbe distaccata da ciò che stava succedendo, come aveva fatto prima che Killer la raggiungesse, e allora sarebbe venuta la comprensione di tutto. Cosa diavolo significava? Tutto, intorno a noi, faceva parte di qualcosa d’immenso, le fibre del tappeto, le foglie fuori dalla finestra, l’acqua che sgocciolava nel lavello, le nubi che passavano sopra il Cedar Creek Lake e gli alberi spogli, e non erano veramente brutti come aveva pensato Baby Jenks. No, all’improvviso tutto era quasi troppo bello per descriverlo. È la madre di Baby Jenks l’aveva sempre saputo! L’aveva sempre visto così. Sua madre perdonava tutto a Baby Jenks. Povera Baby Jenks. Lei non sapeva. Non sapeva dell’erba verde. O delle conchigliette che brillavano nella luce della lampada.

Poi la madre di Baby Jenks era morta. Grazie a Dio! Basta! Ma Baby Jenks aveva pianto. Poi aveva portato il cadavere fuori dalla roulotte e l’aveva sepolto, a grande profondità, e aveva pensato che era davvero bello essere una dei Morti, così forte da poter sollevare quelle badilate di terra.

Poi era venuto a casa suo padre. Quello era stato davvero divertente! L’aveva seppellito ancora vivo. Non avrebbe mai dimenticato la sua faccia quand’era entrato e l’aveva vista con l’accetta da pompiere. «Be’, guarda Lizzie Borden.»

Chi diavolo era Lizzie Borden?

Era così sicuro di sé, con il mento proteso e il pugno che scattava verso di lei. «Troietta!» Baby Jenks gli aveva spaccato la fronte. Sì, quello era stato magnifico, sentire il cranio che si spezzava… «Crepa, bastardo!» ed era stato magnifico anche spalargli la terra sulla faccia mentre la guardava ancora. Era paralizzato e non poteva muoversi, e pensava d’essere di nuovo bambino in una fattoria del New Mexico. Pensieri infantili. Figlio di puttana, ho sempre saputo che avevi la merda al posto del cervello, e adesso sento l’odore!

Ma perché diavolo era andata laggiù? Perché aveva abbandonato la Banda delle Zanne?

Se non li avesse lasciati, adesso sarebbe stata con loro a San Francisco, con Killer e Davis, in attesa di vedere Lestat sul palcoscenico. Forse sarebbero andati nel bar dei vampiri, o qualcosa del genere. Almeno, se ci fossero arrivati. Se non ci fosse stato qualcosa che non andava.

E adesso cosa diavolo faceva? Perché tornava indietro? Forse avrebbe dovuto proseguire verso ovest. Due notti: non restava di più.

Diavolo, magari avrebbe preso una stanza in un motel, al momento del concerto, e l’avrebbe seguito alla tv. Ma prima doveva trovare qualche Morto a St. Louis. Non poteva proseguire sola.

Come poteva trovare il Central West End? Dov’era?

Quel viale le sembrava familiare. Procedeva adagio e si augurava che nessun poliziotto ficcanaso la seguisse. L’avrebbe seminato, naturalmente, lo faceva sempre anche se sognava di beccare uno di quei figli di puttana su una strada solitària. Ma il fatto era che non voleva essere costretta a fuggire da St. Louis.

Ecco, le sembrava di conoscere quel posto. Sì, era il Central West End o come lo chiamavano. Svoltò a destra e percorse una vecchia strada con i grandi alberi frondosi. Le ricordavano di nuovo sua madre, l’erba verde, le nuvole. Un piccolo singhiozzo soffocato nella gola.

Se almeno non si fosse sentita così maledettamente sola! Ma poi vide il cancello. Sì, quella era la strada. Killer le aveva detto che i Morti non dimenticano mai nulla, che il suo cervello era come un piccolo computer. Forse era vero. C’era il cancello, due grandi battenti di ferro, aperti e coperti d’edera verdescura. Forse non lo chiudevano mai.

Baby Jenks rallentò poi spense il motore. Faceva troppo chiasso in quella specie di valle scura. Avrebbe potuto richiamare i poliziotti. Doveva scendere e spingere la moto. Non aveva le gambe abbastanza lunghe per farcela in un altro modo. Ma andava bene così. Le piaceva camminare su quegli strati di foglie morte. Le piaceva quella strada tranquilla.

Cribbio, se fossi un vampiro di città anch’io abiterei qui, pensò. E in fondo alla strada vide la casa della congrega, vide i muri di mattoni e i bianchi archi moreschi. Il cuore incominciò a battere forte.

Bruciata!

In un primo momento non riuscì a crederlo. Poi vide che era vero: vide le grandi striature nere sui mattoni e le finestre scoppiate, neppure un vetro rimasto intatto. Gesù Cristo! Le sembrava di impazzire. Si avvicinò spingendo la moto e si morse così forte le labbra da sentire il sapore del proprio sangue. Incredibile. Chi diavolo era stato a farlo? C’erano schegge di vetro sparse su tutto il prato e persino sugli alberi, e quel posto scintillava in un modo che probabilmente gli umani non potevano capire. Le sembravano decorazioni natalizie uscite da un incubo. E il puzzo di legno bruciato era ancora nell’aria.

Stava per piangere. Stava per mettersi a urlare. Ma poi sentì qualcosa. Non era un suono vero, ma una delle cose che Killer le aveva insegnato ad ascoltare. Là dentro c’era un Morto!

Non riusciva a credere di avere tanta fortuna; non le importava niente di quello che era successo. Doveva entrare. Sì, là dentro c’era qualcuno. Era molto debole. Si avvicinò di qualche passo e le foglie morte scricchiolarono sotto i suoi piedi. Non c’era luce, ma là dentro si muoveva qualcosa, e sapeva che lei si avvicinava. E quando Baby Jenks si fermò con il cuore che martellava, spaventata ma ansiosa di entrare, qualcuno uscì sotto il portico, un Morto che la fissava.

«Dio sia ringraziato», mormorò lei. Non era uno stronzo in abito a tre pezzi. Era un ragazzo che forse non aveva avuto che due anni più di lei quando l’avevano iniziato, e sembrava davvero speciale. Come se avesse i capelli d’argento, tanto per cominciare, bei capelli grigi e ricci, e stavano sempre benissimo a un giovane. Era alto, anche, circa uno e ottantacinque, e magro, davvero elegante. La carnagione era così bianca che sembrava di ghiaccio, e indossava un maglione marrone scuro con il collo alto, molto attillato sul petto, e giubbotto e pantaloni di pelle marrone d’ottimo taglio, molto diversi dalle tenute dei motociclisti. Era davvero sensazionale, e più carino di tutti i Morti della Banda delle Zanne.

«Entra!» disse lui, sibilando. «Presto.»

Baby Jenks salì i gradini come se volasse. L’aria era ancora piena di cenere che le bruciava gli occhi e la faceva tossire. Metà del portico era crollato. Avanzò con prudenza nel corridoio. Era rimasto un tratto della scala, ma il tetto era scoperchiato. E il lampadario era caduto: era tutto schiacciato e pieno di fuliggine. Quel posto era davvero agghiacciante, come una casa infestata.

Il Morto era nel soggiorno o in quel che ne restava, e frugava fra la roba bruciata con aria irosa.

«Baby Jenks, vero?» disse, rivolgendole uno strano sorriso falso che mostrava i denti perlacei, incluse le piccole zanne. E gli occhi grigi brillavano. «E ti sei persa, vero?»

Be’, un altro capace di leggere nei pensieri, come Davis. E aveva l’accento straniero.

«E allora?» disse lei. Era davvero sorprendente: afferrò il nome come se fosse una palla e lui gliel’avesse lanciata. Laurent. Era un nome di classe e aveva un suono francese.

«Resta lì, Baby Jenks», disse Laurent. Anche l’accento doveva essere francese. «Erano tre in questa congrega, e due sono stati inceneriti. La polizia non può scoprirne i resti, ma tu li riconosceresti se li calpestassi, e non ti piacerebbe.»

Cristo! E le diceva la verità perché ce n’era uno proprio lì, in fondo al corridoio, e sembrava un ammasso di vestiti semibruciati dalla sagoma vaga di un uomo. E sicuro, lo capiva dall’odore, dentro a quei vestiti c’era stato un Morto; ma erano rimasti solo le maniche, i pantaloni e le scarpe. In mezzo c’era qualcosa di grigiastro che sembrava grasso e cipria, più che cenere. Era strana, la manica della camicia che spuntava da quella della giacca. Be’, forse era stato un abito a tre pezzi.

Baby Jenks era in preda alla nausea. Si poteva sentire nausea quando si era Morti? Voleva andarsene. E se ciò che aveva causato quella distruzione fosse tornato? Pensaci, immortale!

«Non ti muovere», le disse il Morto. «E ce ne andremo insieme al più presto possibile.»

«Subito», disse lei. Tremava, accidenti. Era questo che intendevano quando parlavano di sudore freddo!

Il Morto aveva trovato una scatola di latta e stava prendendo il denaro che c’era dentro.

«Ehi, amico, io filo», disse Baby Jenks. Sentiva qualcosa, lì intorno, e non aveva nulla a che fare con la chiazza di grasso sul pavimento. Pensava alle case delle congreghe, bruciate a Dallas e a Oklahoma City, e al fatto che la Banda delle Zanne era sparita e l’aveva abbandonata. Capì che lui aveva afferrato tutto: il suo volto si era disteso, era ridiventato carino. Il Morto lasciò cadere la scatola e venne verso di lei, così in fretta da spaventarla ancora di più.

«Sì, ma chère», disse con voce gentile. «Tutte le case delle congreghe, esattamente. La Costa Orientale è stata bruciata come un circuito di luci. Nessuno risponde nella casa della congrega di Parigi e in quella di Berlino.»

Le prese il braccio mentre si avviavano verso l’uscita.

«Chi diavolo sta facendo tutto questo?» chiese lei.

«Chi diavolo lo sa, chérie? Distrugge le case, i bar dei vampiri, i vagabondi che trova. Dobbiamo andarcene da qui. Fai partire la moto.»

Ma Baby Jenks s’era fermata. C’era qualcosa, là fuori. S’era fermata sul bordo del portico. Qualcosa. Aveva paura di proseguire, come aveva paura di tornare in casa.

«Cosa succede?» chiese Laurent, bisbigliando.

Com’era buio quel posto con i grandi alberi e la casa che sembrava infestata… E poteva sentire qualcosa, qualcosa di sommesso come… come se qualcosa respirasse. Sì, ecco.

«Baby Jenks! Muoviti!»

«Ma dove andiamo?» chiese lei. La cosa era ormai quasi un suono.

«Nell’unico posto dove possiamo andare. Da lui, cara, dal vampiro Lestat. Lui è a San Francisco e aspetta illeso!»

«Sì?» disse Baby Jenks, e fissò la strada buia. «Sì, dal vampiro Lestat.» Dieci passi per arrivare alla moto. Vai, Baby Jenks. Laurent stava per andarsene senza di lei. «No, non ci provare, figlio di puttana, non toccare la mia moto!»

Ma era un suono, no? Baby Jenks non aveva mai sentito niente di simile. Quando sei Morto senti tante cose. Senti i treni a chilometri di distanza, e la gente che parla a bordo degli aerei quando ti passano sopra la testa.

Anche il Morto sentì. No, sentì lei che lo sentiva. «Che cos’è?» mormorò. Gesù, com’era spaventato. E poi lo sentì anche lui.

La trascinò giù per i gradini. Lei incespicò e per poco non cadde, ma Laurent la sollevò di peso e la mise sulla moto.

Il rumore era sempre più forte. Arrivava a ondate come una musica. Era così intenso che non le permetteva neppure di sentire cosa le diceva il Morto. Girò la chiave, regolò le manette per dare gas all’Harley, e il Morto balzò sul sellino dietro di lei… ma Gesù, il rumore. Non riusciva a pensare. Non riusciva neppure a sentire il motore acceso.

Abbassò lo sguardo cercando di vedere cosa diavolo succedeva: il motore funzionava, e ne sentiva le vibrazioni. Poi alzò gli occhi e comprese che stava guardando in direzione della cosa che emanava il rumore. Era nel buio, dietro gli alberi.

Il Morto era saltato dalla moto e balbettava in quella direzione, come se la vedesse… Ma no, si guardava intorno come un pazzo che parla tra sé. Ma lei non sentiva una parola. Sapeva soltanto che la cosa era lì e li guardava… e quel pazzo sprecava il fiato!

Baby Jenks balzò dalla Harley che era caduta. Il rumore cessò. Poi sentì nelle orecchie uno squillo intenso.

«… tutto ciò che vuoi», stava dicendo il Morto. «Qualunque cosa, non hai che da chiedere e lo faremo. Siamo i tuoi servitori…» Poi passò correndo accanto a Baby Jenks e per poco non la fece cadere. Afferrò la moto.

«Ehi!» gridò Baby Jenks. Ma nel momento i cui si mosse per raggiungerlo, il Morto prese fuoco. Urlò.

E anche Baby Jenks urlò e urlò. Il Morto bruciava e si rotolava a terra come una girandola. E dietro di lei, la casa della congrega esplose. Sentì la vampata di caldo alla schiena, vide gli oggetti volare in aria. Il cielo era così illuminato che sembrava mezzogiorno.

Oh, Gesù santo, lasciami vivere, lasciami vivere!

Per una frazione di secondo pensò che il suo cuore stesse per scoppiare. Stava per abbassare lo sguardo e controllare se il petto si fosse squarciato e il cuore eruttasse sangue come lava da un vulcano: ma il caldo crebbe dentro di lei e swoosh… non era più lì.

Saliva e saliva attraverso un tunnel nero, aleggiava in alto e guardava la scena.

Oh, sì, proprio come prima. Ed era là, la cosa che li aveva uccisi, una figura bianca in mezzo agli alberi. Gli abiti del Morto fumavano sull’asfalto. E anche il suo corpo bruciava.

Attraverso le fiamme vedeva i puri contorni neri del suo cranio e delle sue ossa. Ma non le facevano paura. Non le sembrava neppure interessante.

Era la figura bianca a sbalordirla. Pareva una statua, come la vergine Maria nella chiesa cattolica. Fissava gli scintillanti fili argentei che sembravano irradiarsi dalla figura in ogni direzione, fili di luce danzante. E mentre saliva più in alto, vide che i fili argentei si protendevano, si aggrovigliavano con altri fili e formavano una rete gigantesca su tutto il mondo. E nella rete c’erano tanti Morti, imprigionati come mosche in una ragnatela. Minuscoli punti di luce che palpitavano e si collegavano alla figura bianca, ed era quasi bello… però era molto triste. Oh, le povere anime di tutti i Morti, prigioniere nella materia indistruttibile che non poteva invecchiare né morire.

Ma era libera. La rete era lontana da lei. E vedeva tante cose.

E c’erano migliaia e migliaia di altri morti anche lassù, in un grande strato grigio e nebuloso. Alcuni erano smarriti, altri lottavano tra loro, altri ancora guardavano dov’erano morti ed erano patetici perché non sapevano o non credevano d’essere morti. Ce n’erano alcuni che cercavano di farsi vedere e sentire dai vivi, ma non ci riuscivano.

Sapeva d’essere morta. Era già accaduto. Stava semplicemente passando attraverso quel covo nebbioso di esseri tristi. Ormai stava andando. E la pateticità della sua vita terrena l’addolorava. Ma non era la cosa più importante.

La luce splendeva di nuovo, la stessa luce magnifica che brillava quando per poco non era morta, la prima volta. Si mosse in quella dkezione e vi entrò. Era davvero bellissimo. Non aveva mai visto simili colori, un simile fulgore, non aveva mai udito la musica purissima che ora stava ascoltando. Non c’erano parole per descrivere tutto questo: trascendeva ogni linguaggio. E questa volta nessuno l’avrebbe riportata indietro!

Perché quella che veniva verso di lei, per accòglierla e aiutarla… era sua madre! E sua madre non l’avrebbe mai lasciata andare.

Non aveva mai provato un amore come quello che sentiva ora per sua madre; ma del resto l’amore la circondava… la luce, il colore, l’amore… erano tutte cose indistinguibili l’una dall’altra.

Ah, povera Baby Jenks, pensò mentre guardava la terra per l’ultima volta. Ma non era Baby Jenks, adesso. Non lo era più.

3. LA DEA PANDORA

Una volta avevamo le parole.

Bue e Falco. Aratro.

C’era chiarezza.

Selvagge come coma

ricurve.

Vivevamo in stanze di pietra.

Facevamo ricadere i capelli dalle finestre e gli uomini si arrampicavano.

Un giardino dietro gli orecchi, i riccioli.

Su ogni collina un re

Di quella collina. La notte i fili venivano tolti

Dagli arazzi. Gli uomini disfatti urlavano.

Tutte le lune rivelate. Noi avevamo le parole.

Stan Rice

da «The Words Once»

Whiteboy (1976)


Lei era alta, tutta vestita di nero, le si vedevano solo gli occhi, i passi erano lunghi mentre si muoveva a velocità inumana sul sentiero infido coperto di neve. Era quasi serena, quella notte tempestata di stelle minuscole nell’atmosfera rarefatta dell’Himalaya, e molto più avanti, al di là della sua capacità di misurare la distanza, incombeva il fianco massiccio e increspato dell’Everest, splendidamente visibile al di sopra di una densa ghirlanda di nubi bianche e turbolente. Si sentiva mancare il respiro ogni volta che lo guardava, non solo perché era così bello ma perché sembrava così pieno di significato, anche se in realtà un vero significato non esisteva.

Venerare quella montagna? Sì, lo si poteva fare impunemente, perché la montagna non avrebbe mai risposto. Il vento sibilante che le agghiacciava la pelle era la voce di nulla e di nessuno. E quella grandiosità casuale e indifferente le faceva venire voglia di piangere.

E le faceva venir voglia di piangere anche la vista dei pellegrini, molto più in basso, che sembravano tante formiche mentre percorrevano una strada assurdamente stretta. Le loro illusioni erano indicibilmente tristi. Eppure anche lei era avviata verso lo stesso tempio nascosto tra le montagne, verso lo stesso dio spregevole e ingannatore.

Il freddo la faceva soffrire. Il ghiaccio le incrostava il viso e le palpebre, le pendeva dalle ciglia in minuscoli cristalli. E ogni passo nel vento furioso era difficile persino per lei. In realtà tutto questo non poteva causarle sofferenza o morte, era troppo vecchia. La sua sofferenza era mentale. Derivava dalla tremenda resistenza degli elementi, dal fatto di non vedere nulla, per ore, tranne il candore abbagliante delle nevi.

Non aveva importanza. Un profondo fremito d’allarme l’aveva scossa qualche notte prima, nelle vie affollate e fetide della vecchia Delhi, e s’era ripetuto a ogni ora, come se il nucleo stesso della terra avesse incominciato a tremare.

In certi momenti era sicura che la Madre e il Padre si stessero destando. Chissà dove, in una cripta dove li aveva nascosti il suo amato Marius, Coloro-che-devono-essere-conservati s’erano finalmente mossi. Soltanto la loro resurrezione poteva trasmettere quel segnale potente e tuttavia vago… Akasha ed Enkil che si levavano, dopo seimila anni di orrorifica immobilità, dal loro trono comune.

Ma era una fantasia, no? Tanto sarebbe valso chiedere alla montagna di parlare. Gli antenati lontani di tutti i bevitori di sangue per lei non rappresentavano una semplice leggenda. Diversamente da tanti dei loro discendenti, ella li aveva visti con i suoi occhi. Era stata resa immortale sulla soglia del loro sacrario; s’era trascinata in ginocchio e aveva toccato la Madre; aveva trapassato la superficie levigata che un tempo era stata la pelle della Madre e aveva raccolto nella bocca aperta il getto di sangue. Era stato un grande miracolo anche allora, il sangue vivo che sgorgava dal corpo senza vita prima che le ferite si rimarginassero prodigiosamente.

Ma in quei primi secoli di fede magnifica aveva condiviso con Marius la convinzione che la Madre e il Padre fossero soltanto addormentati, e sarebbe venuto il momento in cui si sarebbero destati e avrebbero parlato nuovamente ai loro figli.

Alla luce delle candele, lei e Marius avevano cantato insieme gli inni; lei aveva bruciato l’incenso, aveva portato i fiori, e aveva giurato di non rivelare mai l’ubicazione del santuario perché altri bevitori di sangue non venissero a eliminare Marius, a rubargli i progenitori affidati a lui e a banchettare con il sangue più potente.

Ma questo era avvenuto molto tempo prima, quando il mondo era diviso fra tribù e imperi, quando gli eroi e i sovrani venivano proclamati divinità in un giorno. A quel tempo le eleganti idee filosofiche avevano colpito la sua fantasia.

Ora sapeva cosa significava vivere in eterno. Poteva dirlo alla montagna.

Pericolo. Sentì scorrere di nuovo dentro di sé una corrente di fuoco. Poi svanì. E una rapida visione di un luogo verde e umido, di terra soffice e di vegetazione soffocante. Ma svanì quasi immediatamente.

Si soffermò, e la neve illuminata dalla luna l’abbacinò per un momento. Alzò gli occhi verso le stelle che brillavano attraverso una nube rada. Ascoltò, cercando altre voci immortali. Ma non udì nessuna trasmissione chiara e vitale… soltanto un palpito indistinto proveniente dal tempio dov’era diretta e molto più lontano, dietro di lei, dai formicai bui e sporchi della città sovraffollata, le morte registrazioni elettroniche di quel folle bevitore di sangue, «il divo del rock», il vampiro Lestat.

Era condannato, quel novellino moderno e impetuoso che aveva osato confezionare canzoni ingarbugliate con frammenti di antiche verità. Lei aveva visto tanti giovani ascendere e precipitare.

Tuttavia la sua audacia l’affascinava, anche se la sconvolgeva. Forse l’allarme che percepiva era legato in qualche modo a quelle canzoni lamentose e tuttavia sonanti?

Akasha, Enkil,

Ascoltate i vostri figli!

Come osava rivelare i nomi antichi al mondo dei mortali? Sembrava impossibile, un insulto alla ragione, il fatto che un simile essere non potesse venire eliminato con noncuranza. Eppure il mostro, circondato da una celebrità improbabile, rivelava segreti che poteva aver appreso soltanto da Marius. E dov’era Marius, che per duemila anni aveva portato da un santuario segreto all’altro Coloro-che-devono-essere-conservati? Si sentiva spezzare il cuore quando pensava a Marius e ai dissidi che li avevano divisi tanto tempo prima.

Ma la voce registrata di Lestat era svanita, inghiottita da altre fievoli voci elettriche, vibrazioni che ascendevano dalle città e dai villaggi, e il grido sempre udibile delle anime mortali. Come accadeva spesso, il suo udito potente non riusciva a separare un segnale. La marea crescente l’aveva sopraffatta, informe, orribile… e la costringeva a interrompere l’ascolto. Rimase solo il vento.

Oh, come dovevano essere le voci collettive della terra per la Madre e il Padre, i cui poteri erano cresciuti inevitabilmente dagli albori della storia documentata? Avevano il potere, come lei l’aveva ancora, di interrompere il flusso o di selezionare di tanto in tanto le voci che potevano udire? Forse erano passivi in questo come in ogni altra cosa; ed era il fragore inarrestabile che li teneva inchiodati, incapaci di ragionare, mentre ascoltavano le grida interminabili, mortali e immortali, del mondo intero.

Guardò la grande vetta dentellata che le stava davanti. Doveva proseguire. Si coprì meglio il volto. Riprese a camminare.

E quando la pista la condusse a un piccolo promontorio, vide finalmente la sua destinazione. Al di là di un ghiacciaio immenso, il tempio s’innalzava da una rupe, una struttura di pietra dal candore quasi invisibile, con il campanile che scompariva nella neve turbinante.

Quanto tempo avrebbe impiegato per raggiungerlo, anche alla velocità con cui poteva camminare? Sapeva cosa doveva fare, eppure lo temeva. Doveva alzare le braccia, sfidare le leggi della natura e la propria ragione, e sollevarsi sopra l’abisso che la separava dal tempio, per discendere dolcemente solo dopo aver raggiunto l’altra parte della gola gelata. Nessun altro potere in suo possesso riusciva a farla sentire più insignificante e più lontana dall’essere umano che era stata un tempo.

Ma voleva raggiungere il tempio. Doveva farlo. E perciò alzò le braccia lentamente, con grazia consapevole. I suoi occhi si chiusero per un momento quando comandò a se stessa di sollevarsi, e sentì il suo corpo innalzarsi immediatamente, come se fosse privo di peso, una forza non ostacolata dalla sostanza, sospinto sul vento dal potere dell’intenzione.

Per un lungo momento lasciò che il vento la sballottasse, lasciò che il suo corpo andasse alla deriva. Salì ancora più in alto, distaccandosi completamente dalla terra mentre le nubi le volavano intorno e lei si volgeva verso le stelle. Com’erano pesanti i suoi indumenti: non era pronta a diventare invisibile? Non sarebbe stato quello, il passo successivo? Un granello di polvere nell’occhio di Dio, pensò. Le doleva il cuore. L’orrore di sentirsi completamente priva di legami… Le lacrime le salirono agli occhi.

E come accadeva sempre in quei momenti, il vago passato umano cui si aggrappava sembrava più che mai un mito da conservare, mentre tutte le convinzioni concrete si spegnevano. Che ho vissuto, che ho amato, che il mio corpo era caldo. Vedeva Marius, il suo creatore, non come era adesso ma com’era stato allora, un giovane immortale che ardeva di un segreto sovrannaturale: «Pandora, carissima…» «Dimmelo, ti prego.» «Pandora, vieni con me a chiedere la benedizione della Madre e del Padre. Vieni nel sacrario.»

Disancorata e disperata, avrebbe potuto dimenticare la sua destinazione, e si sarebbe lasciata andare verso il sole nascente. Ma l’allarme ritornò, il segnale silenzioso e palpitante del pericolo, e le ricordò il suo scopo. Allargò le braccia, s’impose di volgersi di nuovo verso la terra e vide il cortile del tempio con i fuochi fumanti direttamente sotto di lei. Sì, là.

La velocità della discesa la sbalordì. Per un momento infranse la sua ragione. Si ritrovò in piedi nel cortile: il suo corpo fu pervaso da una sofferenza fuggevole, poi rimase freddo e immobile.

L’urlo del vento era distante. Attraverso i muri giungeva la musica del tempio in un ritmo vertiginoso segnato da tamburi e tamburelli, mentre le voci si fondevano in un suono cupo e ripetitivo. E davanti a lei c’erano le pire che crepitavano, i cadaveri che annerivano, ammucchiati sul legname ardente. Il lezzo le dava la nausea. Eppure rimase a lungo a guardare le fiamme che divoravano lentamente la carne sfrigolante, i moncherini che annerivano, i capelli che esalavano spire di fumo bianco. L’odore la soffocava, e l’aria purifìcatrice della montagna non poteva raggiungerla.

Fissò le lontane porte lignee del sacrario interno. Ancora una volta, amaramente, valutò il suo potere. Là. E si sorprese a varcare la soglia. La porta si aprì, la luce della camera interna l’abbagliò, con l’aria calda e il canto assordante.

«Azim! Azim! Azim!» ripetevano i celebranti. Le volgevano le spalle e si accalcavano al centro del tempio illuminato dalle candele, con le mani levate giravano i polsi, allo stesso ritmo con cui muovevano le teste. «Azim! Azim! Azim-Azim-Azim-Azim! Aaaah-ziiim!» Il fumo saliva dagli incensieri; uno sciame interminabile di figure che giravano scalze su se stesse ma non la vedevano. Avevano gli occhi chiusi, le facce scure erano levigate e soltanto le bocche si muovevano per ripetere il nome riverito.

Avanzò in mezzo alla calca di uomini e donne laceri, altri avvolti in sete colorate e tintinnanti di gioielli d’oro: tutti ripetevano l’invocazione con agghiacciante monotonia. Sentiva l’odore della febbre, della fame, dei morti caduti nella ressa, dimenticati nel delirio collettivo. Si aggrappò a una colonna marmorea, come per ancorarsi nel torrente tumultuoso di movimento e di chiasso.

Poi vide Azim in mezzo alla folla. La pelle di bronzo scuro era umida e lucida nella luce delle candele, la testa era avvolta in un turbante di seta nera, le lunghe vesti ricamate erano macchiate d’un miscuglio di sangue mortale e immortale. Gli occhi neri, cerchiati di kohl, erano enormi. Nel ritmo dei tamburi, danzava ondeggiando e spingendo in avanti i pugni per poi ritrarli come se li battesse contro un muro invisibile. I piedi calzati da babbucce percuotevano il pavimento di marmo con un ritmo frenetico. Un filo di sangue gli colava dagli angoli della bocca, e la sua espressione era totalmente assorta.

Eppure sapeva che lei era lì. E dal centro della danza la guardò direttamente, e lei vide le labbra sporche di sangue incurvarsi in un sorriso.

Pandora, mia bellissima, immortale Pandora…

Era sazio del banchetto, ingrassato e riscaldato come raramente lei aveva visto diventare un immortale. Azim buttò la testa all’indietro, girò su se stesso e lanciò un grido stridulo. I suoi accoliti si avvicinarono, e gli colpirono i polsi protesi con i coltelli cerimoniali.

I fedeli si assieparono intorno a lui, con le bocche levate per cogliere il sacro sangue che sgorgava. Il salmodiare divenne più forte, più insistenti divennero le grida soffocate di coloro che gli stavano più vicini. E all’improvviso lo vide sollevare, disteso sulle spalle dei seguaci, con le babbucce d’oro rivolte verso l’alto soffitto, mentre i coltelli gli tagliavano le caviglie e di nuovo i polsi, dove le ferite s’erano già chiuse.

La folla impazzita sembrava espandersi mentre i movimenti diventavano più frenetici; corpi puzzolenti la urtavano, dimentichi del freddo e della durezza delle membra antiche sotto gli informi indumenti di lana. Non si mosse. Si lasciò circondare, attirare. Vide Azim calato di nuovo al suolo, dissanguato, gemente, con le ferite già rimarginate. Le fece cenno di avvicinarsi. Lei rifiutò in silenzio.

Rimase a guardare mentre Azim si tendeva e afferrava una vittima, ciecamente, a caso, una donna giovane dagli occhi dipinti e dagli orecchini d’oro, e le squarciava la gola.

La folla aveva perduto la forma perfetta delle sillabe cantilenanti; da ogni bocca, adesso, saliva un semplice grido senza parole.

Con gli occhi sbarrati come se inorridisse del proprio potere, Azim succhiò tutto il sangue della donna, e poi lasciò il corpo sulle pietre ai suoi piedi, dove giacque straziato mentre i fedeli lo circondavano con le mani protese verso il dio vacillante.

Lei voltò le spalle; uscì nell’aria fredda del cortile, allontanandosi dal calore dei fuochi. C’era puzzo di urina e di feci. Si fermò contro il muro e guardò in alto, e pensò alla montagna. Non badò agli accoliti che le passavano davanti trascinando i corpi dei nuovi morti per gettarli tra le fiamme.

Pensò ai pellegrini che aveva visto sulla strada, sotto al tempio, la lunga catena che si muoveva torpidamente giorno e notte fra le montagne disabitate, verso quel luogo senza nome. Quanti morivano senza aver raggiunto quel precipizio? Quanti morivano davanti alle porte, in attesa di poter entrare?

Le ripugnava. Eppure non aveva importanza. Era un orrore antico. Attese. Poi Azim la chiamò.

Si voltò, varcò di nuovo la porta, e poi ne varcò un’altra, ed entrò in una piccola anticamera squisitamente dipinta dove, su un tappeto rosso bordato di rubini, Azim l’aspettava in silenzio, circondato da tesori, offerte d’oro e d’argento, mentre la musica che giungeva dal tempio era più smorzata, carica di languore e di paura.

«Carissima», disse. Le prese il viso tra le mani e la baciò. Un getto caldo di sangue le sgorgò nella bocca, e per un momento d’estasi i suoi sensi si colmarono dei canti e delle danze dei fedeli, delle grida inebrianti. Il calore dilagante dell’adorazione e della resa dei mortali.

Sì, amore. Per un istante rivide Marius. Aprì gli occhi e indietreggiò. Per un momento vide le pareti con i gigli e i pavoni dipinti; vide i mucchi d’oro scintillante. Poi vide soltanto Azim.

Era immutabile come i suoi devoti, immutabile come i villaggi dai quali erano venuti, vagando tra la neve e le rocce fino a giungere a una fine orrenda e priva di senso. Mille anni prima,

Azim aveva dato inizio al suo dominio in quel tempio dal quale nessun fedele usciva mai vivo. La morbida pelle dorata, nutrita da un fiume incessante di sangue sacrificale, era impallidita di pochissimo nel corso dei secoli, mentre la sua aveva perso il colorito umano in metà del tempo. Soltanto gli occhi, e forse i capelli bruni, le davano ancora un’apparenza immediata di vita. Era bella, sì, e lo sapeva, ma Azim aveva un vigore travolgente. Malefico. Irresistibile per i suoi seguaci, avvolto nella leggenda, regnava senza passato né futuro, incomprensibile per lei come sempre.

Non voleva indugiare. Il luogo le ripugnava più di quanto desiderasse far conoscere il suo messaggio. Gli confidò silenziosamente il suo scopo, l’allarme che aveva percepito. C’era qualcosa che non andava, qualcosa che cambiava, qualcosa che prima non era mai accaduto. E gli parlò anche del giovane bevitore di sangue che registrava canzoni in America, canzoni piene di verità sulla Madre e sul Padre, di cui conosceva i nomi. Fu una semplice apertura della sua mente, senza drammaticità.

Guardava Azim, percepiva il suo potere immenso, la capacità con cui avrebbe raccolto da lei ogni pensiero fuggevole, e le avrebbe nascosto i segreti della propria mente.

«Benedetta Pandora», disse con disprezzo. «Che m’importa della Madre e del Padre? Cosa sono per me? Che m’importa del tuo prezioso Marius? Può chiamarmi in suo aiuto quanto vuole! Per me non conta nulla!»

Lei era sbigottita. Marius chiedeva aiuto! Azim rise.

«Spiegati», gli disse.

Un’altra risata. Azim le voltò le spalle. Non le restava altro che aspettare. Era stato Marius a crearla. Tutto il mondo poteva udire la voce di Marius, ma lei no. Era un’eco che l’aveva raggiunto, l’eco fievole di un grido potente che gli altri avevano ascoltato? Dimmi, Azim. Perché rendermi nemica?

Quando Azim si voltò di nuovo era pensoso; la faccia tonda era grassa e umana, il dorso delle mani era carnoso e segnato da fossette mentre le premeva sotto l’umido labbro inferiore. Voleva qualcosa da lei: adesso aveva accantonato disprezzo e malizia.

«È un avvertimento», disse. «Giunge continuamente, ed echeggia attraverso una catena di ascoltatori che lo portano dalle sue origini in un luogo lontano. Siamo tutti in pericolo. Poi è seguito da un’invocazione più debole. Chiede aiuto per cercare di scongiurare il pericolo. Ma non c’è molta convinzione. È soprattutto il monito che vuole farci ascoltare.»

«Le parole… quali sono?»

Azim scrollò le spalle. «Non ascolto. Non m’importa.»

«Ah!» Fu lei a voltargli le spalle. Lo sentì avvicinarsi, sentì che le posava le mani sulle spalle.

«Ora devi rispondere alla mia domanda», disse Azim. La fece girare verso di lui. «È il sogno delle gemelle che mi preoccupa. Che cosa significa?»

Il sogno delle gemelle. Lei non conosceva una risposta. Era una domanda che non aveva senso. Non aveva mai fatto quel sogno.

Azim la fissò in silenzio, come fosse convinto che ella mentisse. Poi parlò molto lentamente, valutando con cura la risposta.

«Due donne dai capelli rossi. Accadono loro cose terribili. Mi appaiono in visioni turbate e sgradite, poco prima che apra gli occhi. Vedo quelle donne violentate in presenza di una corte. Eppure non so chi sono, né perché si compia l’oltraggio. E non sono il solo a chiedermelo. Là, sparsi nel mondo, vi sono altri dèi delle tenebre che fanno questi sogni, e vorrebbero sapere perché ora vengono a noi.»

Dèi delle tenebre! Noi non siamo dèi, pensò lei con un moto di disprezzo.

Azim le sorrise. Non erano forse nel suo tempio? Non si udivano forse i gemiti dei fedeli? Non sentiva l’odore del loro sangue?

«Non so nulla di quelle due donne», disse Pandora. Due gemelle dai capelli rossi. No. Gli toccò le dita in un gesto gentile, quasi seducente. «Azim, non tormentarmi. Voglio che tu mi dica di Marius. Da dove viene il suo richiamo?»

Come lo odiava in quel momento, al pensiero che le nascondesse il segreto…

«Da dove?» chiese Azim in tono di sfida. «Ah, questo è l’importante, no? Pensi che oserebbe condurci al sacrario della Madre e del Padre? Se lo pensassi, gli risponderei. Oh, sì, davvero. Lascerei il mio tempio per trovarlo, naturalmente. Ma non può trarci in inganno. Preferirebbe venire annientato, piuttosto che rivelare quel rifugio.»

«Da dove chiama?» chiese lei, paziente.

«I sogni», insistette Azim oscurandosi. «I sogni delle gemelle! Ecco ciò che vorrei fosse spiegato!»

«E io ti direi chi sono e che cosa significano, se lo sapessi.» Lei pensò alle canzoni di Lestat, alle parole che aveva udito. Le canzoni parlavano di Coloro-che-devono-essere-conservati, e delle cripte sotto le città europee: canzoni di ricerca e di sofferenza. Non si accennava alle donne dai capelli rossi…

Furioso, Azim le indicò di tacere. «Il vampiro Lestat», disse con una smorfia. «Non parlarmi di questo abominio. Perché non è ancora stato annientato? Gli dèi delle tenebre dormono come la Madre e il Padre?»

La scrutò con aria calcolatrice. Lei attese.

«Sta bene, ti credo», disse finalmente Azim. «Mi hai detto ciò che sai.»

«Sì.»

«Chiudo i miei orecchi a Marius. Te l’ho detto. Ha rapito la Madre e il Padre, e può chiedere aiuto fino alla fine del tempo, per quel che m’interessa. Ma tu, Pandora… Ti amo come sempre e perciò mi degnerò di parlare di questa storia. Attraversa il mare e recati nel Nuovo Mondo. Cerca nel gelido nord, al di là degli ultimi boschi e presso il mare occidentale. Là, forse, troverai Marius imprigionato in una cittadella di ghiaccio. Grida di essere impossibilitato a muoversi. In quanto al suo monito, è vago non meno che persistente. Siamo in pericolo. Dobbiamo aiutarlo perché possa bloccarlo, perché possa raggiungere il vampiro Lestat.»

«Ah. Dunque è stato il giovane a far questo!»

Il brivido che la scosse fu violento, doloroso. Vide con gli occhi della mente i visi vacui della Madre e del Padre, mostri indistruttibili dalla forma umana. Guardò confusa Azim. Taceva: ma non aveva terminato, e lei attese che proseguisse.

«No», disse Azim con una voce più bassa che aveva perduto il tono tagliente della collera. «C’è un pericolo, Pandora, sì. Un grande pericolo, e non c’è bisogno che sia Marius ad annunciarlo. Riguarda le gemelle dai capelli rossi.» Era insolitamente serio e indifeso. «Questo lo so», disse, «perché ero già vecchio prima che Marius venisse creato. Le gemelle, Pandora. Dimentica Marius. E dai ascolto ai tuoi sogni.»

Pandora l’osservava ammutolita. Lui la guardò per un lungo istante; quindi i suoi occhi parvero rimpicciolire. Lo sentì allontanarsi da lei e da tutte le cose di cui avevano parlato. Finalmente, non la vide più.

Ascoltava i gemiti insistenti degli adoratori; aveva di nuovo sete, e voleva inni e sangue. Si voltò, si avviò per uscire dalla camera, quindi lanciò un’occhiata alle spalle.

«Vieni con me, Pandora! Unisciti a me, anche per un’ora soltanto!» La voce era ebbra, confusa.

L’invito la colse impreparata. Rifletté. Erano anni che non cercava l’apice del piacere. Pensò non solo al sangue ma anche all’unione momentanea con un’altra anima. E all’improvviso, ecco, ciò l’attendeva tra coloro che avevano scalato la catena montuosa più alta della terra per cercare quella morte. E pensò alla ricerca che l’attendeva per trovare Marius, e ai sacrifìci che avrebbe comportato.

«Vieni, carissima.»

Gli prese la mano. Si lasciò condurre fuori dall’anticamera fino al centro della sala affollata. Il fulgore della luce le ferì gli occhi. Sì, di nuovo il sangue. L’odore degli umani l’avvolgeva e la tormentava.

Le grida dei fedeli erano assordanti. Il calpestio dei piedi umani sembrava scuotere i muri dipinti e lo splendente soffitto d’oro. L’incenso le bruciava gli occhi. Un vago ricordo del sacrario, tanti anni addietro, di Marius che l’abbracciava. Azim le stava davanti; le tolse il mantello scoprendole il viso, le braccia nude, il semplice abito di lana nera, i lunghi capelli bruni. Pandora si vide rispecchiata in mille paia d’occhi mortali.

«La dea Pandora!» gridò Azim, rovesciando all’indietro la testa.

Un coro di urla si levò nel ritmo convulso dei tamburi. Innumerevoli mani umane l’accarezzarono. «Pandora, Pandora, Pandora!» Il canto si mescolava alle invocazioni del nome di Azim.

Un giovane bruno danzava davanti a lei, con la camicia di seta bianca incollata dal sudore al torace. Gli occhi neri brillavano sotto le sopracciglia scure e ardevano d’una sfida. Io sono la tua vittima! Dea! All’improvviso Pandora non vide più nulla nella luce guizzante e nel fragore morente, se non i suoi occhi, la sua faccia. Lo abbracciò, stritolandogli le costole nella fretta, gli affondò i denti nel collo. Vivo. Il sangue si riversò in lei, le arrivò al cuore e lo inondò, diffuse il tepore nelle sue membra fredde. Trascendeva ogni ricordo, quella sensazione favolosa… e il desiderio squisito! La morte la squassò, le mozzò il respiro: la sentì passare nel cervello. Era accecata, gemente. Quindi la chiarezza della visione divenne paralizzante. Le colonne marmoree vivevano e respiravano. Lasciò cadere il corpo e afferrò un altro maschio giovane, affamato e nudo fino alla cintola: la sua forza, sull’orlo della morte, la faceva impazzire.

Gli spezzò il collo fragile mentre beveva, e udì il proprio cuore gonfiarsi, sentì inondare di sangue anche la superficie della propria pelle. Vide il colore nelle sue mani prima di chiudere gli occhi; sì, mani umane, la morte più lenta, la resistenza, e quindi il cedimento in un afflusso di luci che si affievolivano e di suoni ruggenti. Vivo.

«Pandora! Pandora! Pandora!»

Dio, non c’è giustizia, non c’è una fine?

Rimase ritta, ondeggiando, facce umane che danzavano livide davanti a lei. Il sangue le ribolliva dentro e cercava ogni tessuto, ogni cellula. Vide la terza vittima avventarsi contro di lei, avvinghiarla con le membra esili, così morbidi i capelli, la lanugine sul dorso delle braccia, le ossa fragili così leggere, come se lei fosse l’essere reale e quelle non fossero altro che creature della sua immaginazione.

Staccò per metà la testa dal collo, fissò le vertebre bianche della spina dorsale, quindi trangugiò la morte con lo spruzzo violento di sangue eruttato dall’arteria lacerata. Ma voleva vedere e assaporare il cuore, il cuore palpitante. Ributtò il corpo sul braccio destro, facendo scricchiolare le ossa, e con la mano sinistra spezzò lo sterno, scardinò le costole, e insinuò la mano nella cavità calda e sanguinante per estrarre il cuore.

Non era ancora completamente morto. Era lucido come uva bagnata. I fedeli si accalcarono intorno a lei mentre lo teneva sopra la testa e lo strizzava delicatamente in modo che il sangue vivo le scorresse dalle dita nella bocca aperta. Sì, sì, per sempre.

«Dea! Dea!»

Azim la osservava e sorrideva. Ma Pandora non lo guardava. Fissava il cuore rattrappito mentre cadevano le ultime gocce di sangue. Una poltiglia. Lo gettò via. Le sue mani splendevano come mani vive, insanguinate. Lo sentiva nel viso, il calore fremente. Una marea di ricordi, di visioni incomprensibili. La scacciò. Questa volta non l’avrebbero asservita.

Prese il mantello nero. Sentì che la avvolgeva mentre le calde, sollecite mani umane le sistemavano la lana morbida sui capelli, intorno alla parte inferiore del volto. Ignorò le voci che invocavano il suo nome, si voltò e uscì, sfiorando accidentalmente i fedeli che barcollavano tutto intorno.

Nel cortile il freddo era delizioso. Inclinò leggermente la testa all’indietro, aspirò il vento vagabondo che soffiava nel recinto e ravvivava le fiamme delle pire prima di portarne via il fumo acre. Il chiaro di luna era puro e bellissimo mentre cadeva sui picchi innevati, oltre le mura.

Si fermò per sentire meglio il sangue scorrere dentro di lei, e si meravigliò disperatamente perché aveva ancora il potere di ristorarla e rafforzarla, persino ora. Triste, angosciata, guardò la splendida desolazione che attorniava il tempio, alzò gli occhi verso le nubi irrequiete. Il sangue le dava coraggio, le dava la fede momentanea nella rettitudine dell’universo… frutto di un atto atroce e imperdonabile.

Se la mente non riesce a trovare un significato, allora lo danno i sensi. Vivi per questo, essere sciagurato.

Si avvicinò a una pira e, attenta a non strinarsi le vesti, tese le mani perché il fuoco le purificasse, bruciasse il sangue e i frammenti di cuore. Le fiamme che la lambivano non erano nulla in confronto al calore del sangue dentro di lei. Quando finalmente apparve un lieve inizio di sofferenza, il più fievole segnale di cambiamento, si ritrasse e si guardò le mani bianche e immacolate.

Ma ora doveva andarsene. I suoi pensieri erano troppo pieni di collera, di un nuovo risentimento. Marius aveva bisogno di lei. Pericolo. L’allarme si ripetè, più forte che mai, perché il sangue rendeva più forte la ricezione. E non sembrava provenire da un individuo singolo. Era una voce comune, lo squillo indistinto d’una comune conoscenza. Le faceva paura.

Lasciò che la sua mente si svuotasse, mentre le lacrime le offuscavano la vista. Alzò delicatamente le mani, soltanto le mani. E l’ascesa incominciò. Silenziosa, rapida, invisibile agli occhi mortali come il vento.

In alto, sopra il tempio, il suo corpo trapassò una nebbia rada e agitata. La luce intensa la sbalordì. Dovunque quel biancore abbagliante. E sotto di lei il panorama merlato di picchi e di ghiacciai accecanti discendeva nella morbida oscurità delle foreste e della valle. Annidati qua e là c’erano grappoli di luci splendenti, i villaggi e le città. Le sarebbe piaciuto restare per sempre a contemplare la scena. Eppure dopo pochi secondi la coltre ondulata di una nube aveva nascosto tutto. E lei era sola con le stelle.

Le stelle… fredde, scintillanti, l’abbracciavano come se fosse una di loro. Ma in realtà le stelle non riconoscevano nulla e nessuno. Si sentiva atterrita. Poi venne un’angoscia profonda, non dissimile alla gioia. Niente più lotta. Niente più affanni.

Scrutò la distesa splendida delle costellazioni, rallentò l’ascesa e tese entrambe le mani verso occidente.

L’aurora era nove ore più indietro di lei. Incominciò il suo viaggio per allontanarsene, muovendosi con la notte verso l’altra parte del mondo.

4. LA STORIA DI DANIEL, IL FAVORITO DEL DIAVOLO OVVERO IL RAGAZZO DELL’INTERVISTA CON IL VAMPIRO

Chi sono le ombre che attendiamo e crediamo

che verranno una sera in macchine di lusso

dal Paradiso?

La rosa

benché lo sappia

non ha gola

e non può dirlo.

La mia metà mortale ride.

Il codice e il messaggio non sono gli stessi.

E che cos’è un angelo

se non un fantasma travestito?

Stan Rice

da «Of Heaven»

Body of Work (1983)


Si chiamava Daniel Molloy. Era un giovane alto e snello, con i capelli biondocenere e gli occhi viola. Indossava una maglietta sporca e un paio di jeans sporchi, e aveva freddo nel vento che sferzava Michigan Avenue alle cinque del mattino.

Aveva trentadue anni, sebbene sembrasse più giovane, un eterno studente, non un uomo… di quel tipo con la faccia da adolescente. Mentre camminava mormorava tra sé: «Armand, ho bisogno di te. Armand, al concerto di domani sera… succederà qualcosa di terribile, terribile…»

Aveva fame. Èrano passate trentasei ore dall’ultima volta che aveva mangiato. Non c’era niente nel frigo della sua piccola, lurida stanza d’albergo; e comunque l’avevano chiuso fuori quella mattina perché non aveva pagato. Era difficile ricordare tutto contemporaneamente.

Poi rammentò il sogno che si ripeteva, il sogno che tornava ogni volta che chiudeva gli occhi, e la voglia di mangiare passò.

Nel sogno vedeva due gemelle, vedeva il corpo carbonizzato della donna steso davanti a loro, i capelli bruciati, la pelle raggrinzita. Il cuore giaceva come un frutto gonfio su un piatto. Il cervello sull’altro piatto sembrava esattamente un cervello cotto.

Armand lo sapeva, doveva saperlo. Non era un sogno normale. Aveva a che fare con Lestat, indubbiamente. E Armand sarebbe venuto presto.

Dio, era debole e delirante. Aveva bisogno di bere qualcosa, almeno. In tasca non aveva denaro, solo un vecchio assegno per i diritti d’autore del libro Intervista con il Vampiro che aveva «scritto» con uno pseudonimo più di dodici anni prima.

Altri tempi, allora, quando era un giovane cronista e andava in giro per il mondo, nei bar con il registratore, e cercava di convincere i relitti della notte a raccontargli qualche verità. Bene, una notte a San Francisco aveva trovato un soggetto magnifico per la sua inchiesta. E la luce della vita normale s’era spenta all’improvviso.

Adesso era un essere rovinato che camminava troppo svelto sotto il nuvoloso cielo notturno di Chicago in ottobre. Domenica scorsa era stato a Parigi, e il venerdì precedente a Edimburgo. Prima di Edimburgo era stato a Stoccolma e prima ancora… non riusciva a ricordare. L’assegno dei diritti d’autore l’aveva raggiunto a Vienna, ma non sapeva quanto tempo fosse passato.

In tutti quei luoghi aveva spaventato coloro che incontrava. Il vampiro Lestat si era espresso bene nella sua autobiografia: «Uno di quei noiosi mortali che hanno visto gli spiriti…» Sono io!

Dov’era quel libro, Il vampiro Lestat? Oh, qualcuno l’aveva rubato quel pomeriggio nel parco mentre Daniel dormiva. Bene, se lo tenessero pure. Anche Daniel l’aveva rubato, e l’aveva letto già tre volte.

Ma se ora l’avesse avuto, avrebbe potuto venderlo e magari ricavarne abbastanza per pagarsi un bicchiere di brandy che l’avrebbe scaldato. E, al momento, quanto poteva valere un vagabondo infreddolito e affamato che percorreva Michigan Avenue e odiava il vento che l’agghiacciava attraverso gli indumenti lisi e sporchi? Dieci milioni? Cento milioni di dollari? Non lo sapeva. Doveva saperlo Armand.

È il denaro che vuoi, Daniel? Te lo procuro io. È più semplice di quanto credi.

Millecinquecento chilometri più a sud Armand attendeva sulla loro isola privata, l’isola che in realtà apparteneva soltanto a lui, a Daniel. Se in quel momento avesse avuto un quarto di dollaro, avrebbe potuto trovare un telefono e dire ad Armand che voleva andare a casa. E allora sarebbero discesi dal cielo e sarebbero venuti a prenderlo. Lo facevano sempre. Il grande aereo con la camera da letto tutta di velluto, oppure quello più piccolo con le poltrone di pelle. C’era qualcuno, su quella strada, disposto a prestargli un quarto di dollaro in cambio di un viaggio in aereo per Miami? Probabilmente no.

Armand! Voglio essere al sicuro con te quando Lestat salirà su quel palcoscenico, domani sera.

Chi gli avrebbe cambiato l’assegno? Nessuno. Erano le sette e i negozi di lusso in Michigan Avenue erano quasi tutti chiusi e lui, come se non bastasse, non aveva documenti d’identità perché il suo portafogli era scomparso, chissà come, due giorni prima. Quel grigio crepuscolo invernale era tetro, il cielo ribolliva silenziosamente di nubi basse e metalliche. Persino i negozi avevano assunto una cupezza inconsueta, con le loro facciate dure di marmo o di granito, e le ricchezze all’interno che brillavano come reperti archeologici dietro le vetrine dei musei. Affondò le mani nelle tasche per scaldarle, e abbassò la testa mentre il vento lo assaliva con maggiore violenza e con le prime sferzate di pioggia.

Per la verità, non gli importava nulla dell’assegno. Non riusciva a immaginare di premere i tasti di un telefono. Lì non c’era nulla che gli sembrasse reale, incluso il freddo. Soltanto il sogno pareva reale, e il senso del disastro imminente, l’impressione che il vampiro Lestat avesse messo in moto qualcosa che neppure lui sarebbe mai riuscito a controllare.

Mangia i rifiuti pescati nei bidoni dell’immondizia, se è necessario, dormi da qualche parte, magari nel giardino pubblico. Non ha importanza. Ma sarebbe morto di freddo se si fosse sdraiato di nuovo all’aperto. E poi sarebbe tornato il sogno.

Tornava ogni volta che chiudeva gli occhi. E ogni volta era più lungo e più ricco di dettagli. Le gemelle dai capelli rossi erano di una bellezza così tenera. Non voleva sentirle urlare.

La prima notte, nella camera d’albergo, aveva ignorato tutto. Non aveva per lui un significato. Aveva ripreso a leggere l’autobiografia di Lestat, e ogni tanto aveva alzato gli occhi verso i video di Lestat sullo schermo del piccolo televisore in bianco e nero di quel tugurio.

Era rimasto affascinato dall’audacia di Lestat; eppure era così semplice, il travestimento da rock star. Occhi roventi, membra snelle e potenti e un sorriso malizioso, sì. Ma non si poteva capire. O forse sì? Non aveva mai visto Lestat.

Comunque conosceva bene Armand, aveva studiato ogni dettaglio del suo corpo e del suo volto. Oh, era stato un piacere delirante leggere di Armand nelle pagine di Lestat, mentre si chiedeva se gli insulti sferzanti e le analisi adoranti di Lestat avevano scatenato in Armand chissà quale rabbia.

Affascinato, Daniel aveva seguito il videoclip della mtv che presentava Armand come il capo della congrega dei vecchi vampiri sotto il cimitero parigino, dove presiedeva rituali demoniaci. Tutto questo fino a che il vampiro Lestat, l’iconoclasta del diciottesimo secolo, aveva distrutto le Vecchie Tradizioni.

Armand aveva avuto sbotti di rabbia e di odio nel vedere la sua storia privata messa a nudo in immagini lampeggianti, molto più volgari del racconto misurato di Lestat. Proprio Armand, che sospettoso scrutava continuamente gli esseri umani intorno a lui, e che rifiutava persino di parlare dei non-morti. Ma era impossibile che non sapesse.

E questo era a disposizione di tutti… come una cronaca etnografica dove l’antropologo, ammesso alla cerchia più sacra, svende i segreti della tribù per classificarsi ai primi posti nella lista dei bestseller.

Era meglio lasciare che gli dèi demoniaci si facessero guerra tra loro. Questo mortale è stato sulla cima del monte dove incrociano le spade. Ed è tornato. È stato respinto.

La notte successiva il sogno era riapparso con la nitidezza di un’allucinazione. Sapeva che non l’aveva inventato lui. Non aveva mai visto persone come quelle, non aveva mai visto quei semplici gioielli d’osso e di legno.

Il sogno era ritornato ancora tre notti dopo. Daniel aveva seguito per la quindicesima volta un video rock di Lestat… era quello sugli antichi, inamovibili progenitori egizi, il Padre e la Madre dei vampiri, Coloro-che-devono-essere-conservati.

Akasha ed Enkil,

Noi siamo vostri figli,

Ma voi cosa ci date?

Nel vostro silenzio

Un dono migliore della verità?

E poi Daniel aveva sognato. E le gemelle stavano per iniziare il festino. Avrebbero spartito gli organi sui piatti di coccio. Una avrebbe preso il cervello, l’altra il cuore.

S’era svegliato con un senso d’angoscia e di paura. Stava per accadere qualcosa di terribile, a tutti… Ed era la prima volta che collegava tutto ciò a Lestat. Avrebbe voluto prendere il telefono, in quel momento. A Miami erano le quattro del mattino. Perché non l’aveva fatto? Armand doveva essere seduto sulla terrazza della villa, a guardare l’instancabile flotta di barche bianche che andava e veniva da Night Island. «Sì, Daniel?» Quella voce sensuale, ipnotica. «Calmati e dimmi dove sei, Daniel.»

Ma Daniel non aveva chiamato. Erano passati sei mesi da quando aveva lasciato Night Island, e questa volta avrebbe dovuto essere una partenza definitiva. Aveva rinunciato per sempre al mondo dei tappeti, delle berline e degli aerei privati, delle cantine piene di vini rari e dei guardaroba pieni di abiti eleganti, della presenza silenziosa e soverchiante dell’amante immortale che gli dava tutti i beni terreni immaginabili.

Ma adesso faceva freddo e non aveva una stanza, non aveva denaro ed era spaventato.

Tu sai dove sono, demonio. Sai che cos’ha fatto Lestat. E sai che voglio tornare a casa.

Cosa avrebbe risposto Armand?

Ma io non lo so, Daniel. Io ascolto. Mi sforzo di sapere. Non sono Dio, Daniel.

Non m’importa. Vieni, Armand. Vieni. È buio e freddo a Chicago. E domani sera il vampiro Lestat canterà le sue canzoni su un palcoscenico di San Francisco. E succederà qualcosa di terribile.

Senza rallentare il passo, Daniel infilò la mano nella maglietta e toccò il pesante medaglione d’oro che portava sempre con sé… l’amuleto, come lo chiamava Armand con il suo gusto teatrale, il medaglione con la minuscola boccetta del sangue di Armand.

E se non avesse mai bevuto a quella coppa avrebbe fatto quel sogno, presagio di sciagura?

La gente si voltava a guardarlo: aveva ricominciato a parlare da solo? Il vento lo faceva sospirare. Per la prima volta in tanti anni provava l’impulso di aprire il medaglione e la boccetta, di sentire quel sangue che gli bruciava la lingua. Armand, vieni!

L’ultima volta il sogno gli si era presentato nella forma più allarmante.

Era seduto su una panchina nel giardino accanto a Water Tower Piace. Qualcuno aveva dimenticato un giornale, e quando l’aveva aperto aveva visto l’annuncio pubblicitario: «Domani sera: il vampiro Lestat in concerto a San Francisco». La televisione via cavo avrebbe trasmesso il concerto alle dieci, ora di Chicago. Molto simpatico per quelli che vivevano ancora con un tetto sulla testa, potevano pagare l’affitto e avevano la corrente elettrica. Avrebbe voluto ridere di tutto, rallegrarsi all’idea che Lestat li sorprendesse tutti. Ma il gelo l’aveva colpito, era diventato un trauma profondo, sconvolgente.

E se Armand non lo sapeva? I negozi di dischi di Night Island dovevano però avere in vetrina Il vampiro Lestat. Dovevano suonare quelle canzoni ossessive e ipnotiche in tutti i locali eleganti.

In quel momento Daniel aveva addirittura pensato di andare da solo in California. Avrebbe potuto compiere un miracolo, farsi rendere il passaporto all’albergo, portarlo in banca per farsi riconoscere. Ricco, sì, era così ricco quel povero mortale…

Ma come poteva pensare a qualcosa di tanto concreto? Il sole batteva caldo sul suo viso e sulle sue spalle, mentre stava sdraiato sulla panchina. Aveva piegato il giornale per usarlo come cuscino.

Ed era venuto il sogno che aveva sempre atteso…

Nel mondo delle gemelle era mezzogiorno: il sole scendeva sulla radura. Un silenzio interrotto solo dal canto degli uccelli.

E le gemelle inginocchiate, immobili, nella polvere. Erano così pallide, con gli occhi verdi, i capelli lunghi e ondulati, rossi come il rame. Indossavano abiti di lino bianco acquistati nei mercati di Ninive dai paesani per onorare le streghe potenti cui obbedivano gli spiriti.

Il banchetto funebre era pronto. I mattoni d’argilla del forno erano stati rimossi, e il corpo giaceva fumante sulla lastra di pietra, con il sugo giallo che fuoriusciva da dove la pelle s’era screpolata, una cosa nera e nuda ricoperta di foglie cotte. Daniel inorridiva.

Ma lo spettacolo non aveva lo stesso effetto sui presenti: né le gemelle né gli abitanti del villaggio venuti ad assistere all’inizio del banchetto parevano preoccuparsi.

Il banchetto era il diritto e il dovere delle gemelle. Il corpo annerito sulla lastra di pietra era quello della loro madre. E ciò che era umano doveva restare con gli umani. Sarebbero stati necessari un giorno e una notte per concludere il banchetto, ma tutti avrebbero vegliato fino al totale compimento.

Una corrente d’eccitazione attraversa la folla convenuta nella radura. Una delle gemelle alza il piatto dove stanno il cervello e gli occhi, l’altra annuisce e prende il piatto che contiene il cuore.

E così la divisione è compiuta. Daniel non vede il suonatore, anche se sente levarsi il rullo di un tamburo. Lento, ritmico, brutale.

«Incominci il banchetto.»

Ma poi viene il grido terribile, come Daniel ha previsto. Fermate i soldati. Ma non può. Tutto ciò è accaduto in qualche luogo: è la sola cosa di cui è certo. Non è un sogno ma una visione. E lui non è presente. I soldati invadono la radura, i paesani si disperdono, le gemelle posano i piatti e si gettano sulla mensa fumante. Ma è una pazzia.

I soldati le scostano senza fatica, e quando la lastra viene sollevata il corpo cade e va in pezzi, e il cuore e il cervello finiscono nella polvere. Le gemelle urlano come disperate.

Ma anche i paesani gridano a squarciagola; i soldati li abbattono mentre tentano di fuggire. Morti e moribondi costellano i sentieri della montagna. Gli occhi della madre sono caduti dal piatto nella polvere e come il cuore e il cervello finiscono calpestati.

Una delle gemelle, trattenuta con le braccia dietro la schiena, invoca la vendetta degli spiriti. E gli spiriti vengono. In un turbine. Ma non basta.

Se almeno tutto finisse. Ma Daniel non riesce a svegliarsi.

Silenzio. L’aria è piena di fumo. Non è rimasto più nulla, dove questa gente ha vissuto per secoli. I mattoni d’argilla sono dispersi, i recipienti rotti, tutto ciò che poteva bruciare è cenere. I bambini con la gola squarciata giacciono nudi a terra mentre sono assaliti dalle mosche. Nessuno arrostirà quei corpi, nessuno ne consumerà la carne. Sarà cancellata dalla razza umana con tutto il suo potere e il suo mistero. Gli sciacalli già si avvicinano. E i soldati sono andati via. Dove sono le gemelle? Daniel le sente gridare, ma non riesce a individuarle. Una grande tempesta imperversa sulla stretta via che si snoda nella valle verso il deserto. Gli spiriti causano il tuono. Gli spiriti mandano la pioggia.

Riaprì gli occhi. Chicago, Michigan Avenue, mezzogiorno. Il sogno si era spento come una luce che viene chiusa. Rimase seduto dov’era, sudato e tremante.

Una radiolina accanto a lui suonava. Lestat, con quella voce ossessiva, cantava Coloro-che-devono-essere-conservati.

Madre e Padre,

Serbate il silenzio,

Serbate i vostri segreti,

Ma quelli di voi che hanno la lingua

Cantino la mia canzone

Figli e figlie

Creature della tenebra

Levate le voci,

formate un coro

Perché il cielo ci ascolti

Venite,

Fratelli e sorelle,

venite a me.

S’era alzato e aveva incominciato a camminare. Era entrato in Water Tower Piace, così simile a Night Island con i negozi, la musica, le luci e le vetrine lucenti.

E adesso erano quasi le otto e aveva camminato e camminato per fuggire dal sonno e dal sogno. Era lontano dalla musica e dalla luce. Per quanto tempo sarebbe continuato, la prossima volta? Avrebbe scoperto se erano vive o morte? Creature mie, mie povere creature…

Si fermò voltando le spalle al vento, ascoltò i rintocchi lontani delle campane, poi scorse un orologio sopra il banco di una tavola calda. Sì, Lestat si era svegliato sulla Costa Occidentale. Chi c’è con lui? C’è Louis? E mancano poco più di ventiquattr’ore al concerto. Catastrofe! Annand, ti prego.

Una raffica di vento lo spinse indietro di qualche passo, lo fece tremare. Aveva le mani gelate. Aveva mai avuto tanto freddo in tutta la sua vita? Ostinatamente, attraversò Michigan Avenue insieme alla folla di un semaforo, e si fermò davanti alla vetrina della libreria, dov’era esposto il libro, Il vampiro Lestat.

Sicuramente Armand l’aveva letto, aveva divorato ogni parola in quel suo strano modo orribile di leggere, girando una pagina dopo l’altra e facendo balenare gli occhi sulle parole fino a che il libro era finito… e allora lo gettava in disparte. Com’era possibile che una creatura splendesse di tanta bellezza e nel contempo ispirasse tanta… cos’era, ripugnanza? No, non aveva mai provato ripugnanza per Armand, doveva ammetterlo. Aveva provato sempre un desiderio avido e disperato.

Una ragazza, nel tepore della libreria, prese una copia del libro di Lestat e lo guardò attraverso la vetrina. Il suo respiro appannava il vetro di fronte a lui. Non preoccuparti, mia cara. Sono ricco. Potrei comprare l’intera libreria per regalartela. Sono il signore e padrone della mia isola, sono il favorito del Diavolo che realizza ogni mio desiderio.

Era buio da ore sulla costa della Florida. Night Island era già affollata.

I negozi, i ristoranti e i bar avevano aperto le porte di vetro al tramonto, su cinque livelli di una galleria pavimentata da ricche moquette. Le argentee scale mobili avevano incominciato a far udire il loro ronzio sommesso. Daniel chiuse gli occhi e immaginò le pareti di vetro che si ergevano sopra le terrazze del porto. Gli pareva quasi di udire il grande scroscio delle fontane, di vedere le lunghe aiuole di narcisi e tulipani che fiorivano eternamente fuori stagione, e di sentire la musica ipnotica che batteva come un cuore.

E Armand si aggirava probabilmente nelle stanze fiocamente illuminate della villa, a pochi passi dai turisti e dai compratori, e tuttavia completamente isolato dalle porte d’acciaio e dai muri bianchi… un grande palazzo con le vetrate e i balconi, affacciato sulla sabbia bianca. Solitario e tuttavia vicino al movimento incessante, con il vasto soggiorno che guardava le luci ammiccanti della spiaggia di Miami.

O forse era passato da una delle tante porte ed era entrato nella galleria. «Per vivere e respirare tra i mortali», come diceva, nell’universo sicuro e autosufficiente creato da lui e da Daniel. Armand amava le brezze calde del golfo, l’eterna primavera di Night Island.

Nessuna delle luci si sarebbe spenta prima dell’alba.

«Manda qualcuno a prendermi, Armand, ho bisogno di te! Tu sai che voglio tornare a casa!»

Naturalmente era accaduto tante altre volte. Non era necessario che spuntassero strani sogni o che Lestat ricomparisse, ruggendo come Lucifero nei nastri e nei filmati.

Andava tutto bene per mesi, mentre Daniel si sentiva spinto a passare da una città all’altra, a camminare per le vie di New York o Chicago o New Orleans. Poi c’era l’improvvisa disintegrazione. Si accorgeva di non essersi mosso dalla poltrona per cinque ore. Oppure si svegliava in un letto sporco e puzzolente, e non riusciva a ricordare il nome della città dove si trovava, o dov’era stato nei giorni precedenti. Poi la macchina veniva a prenderlo, e l’aereo lo riportava a casa.

Non era Armand a causare tutto ciò? Non era lui a spingere Daniel verso quei periodi di follia? Non usava una magia malefica per inaridire ogni fonte di piacere, ogni fonte di vita fino a che Daniel salutava con gioia la comparsa del solito chauffeur venuto per accompagnarlo all’aeroporto, l’uomo che non si scandalizzava mai per il comportamento di Daniel, la sua barba lunga e i suoi indumenti sudici?

Quando finalmente Daniel arrivava a Night Island, Armand negava.

«Sei tornato da me perché lo volevi, Daniel», diceva sempre con calma radiosa e gli occhi pieni d’amore. «Ormai per te non c’è più nulla, tranne me. Lo sai. Là fuori è in agguato la pazzia.»

«La solita musica», rispondeva invariabilmente Daniel. E tutto quel lusso inebriante, i letti soffici, la musica, il bicchiere di vino nella sua mano. Le stanze erano sempre piene di fiori, le pietanze che preferiva gli venivano servite su piatti d’argento.

Armand stava adagiato su un’enorme poltrona di velluto nero e guardava la televisione, Ganimede con i calzoni bianchi e la camicia di seta bianca, seguendo i notiziari, i film, i nastri che aveva fatto di se stesso mentre leggeva poesie, le stupide situation comedy, i drammi, i musical, i film muti.

«Vieni, Daniel, siediti. Non mi aspettavo che ritornassi tanto presto.»

«Figlio di puttana», diceva Daniel. «Mi volevi qui e mi hai chiamato. Non riuscivo a mangiare e a dormire, niente, vagabondavo e pensavo a te. Sei stato tu.»

Armand sorrideva, a volte rideva addirittura. Aveva una bella risata, eloquente di gratitudine e di gaiezza. Quando rideva, sembrava mortale. «Calmati, Daniel. Ti batte il cuore. Mi fa paura.» Una piccola grinza sulla fronte liscia, la voce resa per un momento più profonda dalla compassione. «Dimmi che cosa vuoi, Daniel, e te lo darò. Perché continui a fuggire?»

«Tu menti, bastardo! Dì che mi volevi. Mi tormenterai in eterno, vero? e poi mi guarderai morire, e lo troverai interessante. Era vero ciò che diceva Louis. Li guardi morire, i tuoi schiavi umani: non significano nulla per te. Guarderai la mia faccia cambiar colore mentre muoio.»

«Questo è il linguaggio di Louis», diceva con pazienza Armand. «Ti prego, non citarmi quel libro. Preferirei morire io, piuttosto che morissi tu, Daniel.»

«E allora dammela, maledizione, l’immortalità così vicina… vicina come le tue braccia.»

«No, Daniel, perché preferirei morire piuttosto che fare questo.»

Ma anche se non era Armand a causare la follia che riportava a casa Daniel, sicuramente sapeva sempre dov’era. Poteva udire il richiamo. Il sangue li legava, doveva essere così… le preziose, minuscole gocce dell’ardente sangue sovrannaturale. Non era mai abbastanza per far più che destare i sogni in Daniel, e la sete d’eternità, e far danzare e cantare i fiori della tappezzeria. Comunque Armand riusciva sempre a trovarlo: su questo non aveva dubbi.


Nei primi anni, prima dello scambio del sangue, Armand aveva perseguitato Daniel con l’astuzia di un’arpia. Non c’era stato luogo sulla terra dove Daniel potesse nascondersi.

Era agghiacciante. Un tentatore. L’inizio a New Orleans, dodici anni prima, quando Daniel era entrato in una vecchia casa cadente del Garden District, aveva compreso subito d’essere nel covo del vampiro Lestat.

Dieci giorni prima aveva lasciato San Francisco dopo la lunga intervista con il vampiro Louis, tormentato dalla conferma finale del racconto spaventoso che aveva ascoltato. Con un abbraccio improvviso, Louis aveva dimostrato il potere sovrannaturale di svuotare Daniel fin quasi al punto di morte. Le ferite delle trafitture erano scomparse, ma il ricordo aveva lasciato Daniel sull’orlo della follia. Febbricitante, a volte in delirio, aveva viaggiato per non più di poche centinaia di chilometri al giorno. Nei modesti motel lungo il percorso, dove s’imponeva di mangiare qualcosa, aveva duplicato a uno a uno i nastri dell’intervista, e aveva mandato le copie a un editore di New York, in modo che il libro era già quasi pronto prima ancora che giungesse davanti alla porta di Lestat.

Ma la pubblicazione aveva avuto un’importanza secondaria: era stata un evento collegato ai valori di un mondo sempre più lontano.

Doveva trovare il vampiro Lestat. Doveva stanare l’immortale che aveva creato Louis e che sopravviveva tuttora in quella vecchia, umida città decadente e bellissima, forse in attesa che Daniel lo destasse, lo conducesse nel secolo che lo aveva terrorizzato e l’aveva spinto a nascondersi sottoterra.

Sicuramente era ciò che voleva Louis. Altrimenti perché avrebbe dato all’emissario mortale tanti indizi precisi sul luogo dove si poteva trovare Lestat? Eppure alcuni dettagli erano fuorvianti. Era un doppio gioco da parte di Louis? Tutto sommato non aveva importanza. Daniel aveva trovato l’atto di proprietà e il numero civico sotto un nome inconfondibile: Lestat de Lioncourt.

Il cancello di ferro non era neppure chiuso a chiave; e quando s’era aperto sulla strada nel giardino incolto, era riuscito facilmente a spezzare la serratura arrugginita del portone.

Era entrato e s’era aiutato con una piccola lampada tascabile. Ma c’era anche la luna che brillava bianca fra i rami delle querce. Daniel aveva visto chiaramente le file dei libri ammucchiati fino al soffitto in ogni stanza. Nessun umano avrebbe potuto o voluto fare una cosa tanto folle e metodica. E su, nella camera da letto, s’era inginocchiato sulla polvere spessa che copriva il tappeto imputridito e aveva trovato l’orologio d’oro da taschino con il nome di Lestat.

Ah, quel momento agghiacciante, il momento in cui il pendolo s’era allontanato da una demenza crescente per tendere a una passione nuova… avrebbe cercato fino ai confini della terra gli esseri pallidi e letali dei quali aveva appena intravisto l’esistenza.

Che cosa aveva desiderato in quelle prime settimane? Sperava di giungere a possedere gli splendidi segreti della vita? Sicuramente, da quella conoscenza non avrebbe guadagnato uno scopo per un’esistenza già carica di delusioni. No, voleva allontanarsi da tutto ciò che un tempo aveva amato. Aspirava al mondo violento e sensuale di Louis.

Il male. Non gli faceva più paura.

Forse era come l’esploratore sperduto che, avanzando nella giungla, vede all’improvviso davanti a sé il muro del tempio favoleggiato, con i rilievi coperti da ragnatele e rampicanti; e non ha importanza se forse non sopravvivrà per raccontare la sua scoperta… ha veduto la verità con i propri occhi.

Ma se avesse potuto aprire un poco di più la porta, per vedere tutta la magnificenza… Se l’avessero lasciato entrare! Forse desiderava solo vivere in eterno. Qualcuno poteva biasimarlo per questo?

Si era sentito forte e sicuro solo tra le rovine della vecchia casa di Lestat, con le rose selvatiche che entravano dalla finestra sfondata e il letto a baldacchino ridotto a uno scheletro, con i tendaggi ormai marci.

Vicino a loro, vicino alla loro tenebra preziosa, alla loro meravigliosa oscurità divorante. Come aveva amato la desolazione, le sedie intagliate e ammuffite, i brandelli di velluto e gli esseri striscianti che finivano di distruggere il tappeto.

Ma la reliquia, ah, la reliquia era tutto, lo splendente orologio d’oro che portava il nome di un immortale!

Dopo un po’ aveva aperto l’armoire. Le marsine nere erano andate a pezzi quando le aveva toccate. Sulle assi di cedro stavano gli stivali raggrinziti.

Ma, Lestat, tu sei qui. Aveva preso il registratore, l’aveva posato, aveva inserito il primo nastro e aveva lasciato che la voce di Louis si levasse sommessa nella stanza piena d’ombre. I nastri avevano continuato a girare per ore e ore.

Poi, poco prima dell’alba, aveva visto una figura nel corridoio, e aveva compreso che intendeva farsi vedere da lui. Aveva visto il chiaro di luna investire il volto fanciullesco, i capelli fulvi. La terra s’era inclinata, la tenebra era discesa. L’ultima parola che aveva pronunciato era stata il nome, Armand.

Avrebbe dovuto morire allora. Era stato un capriccio a tenerlo in vita?

S’era destato in una cantina buia e umida. L’acqua colava sulle pareti. Brancolando nell’oscurità aveva scoperto una finestra murata, una porta chiusa a chiave e ricoperta d’acciaio.

E il suo conforto era l’aver trovato un altro dio del pantheon segreto… Armand, il più vecchio tra gli immortali descritti da Louis. Armand, il capo della congrega del Teatro dei Vampiri di Parigi, che aveva confidato a Louis il segreto terribile: non si sa nulla delle nostre origini.

Per tre giorni e tre notti, forse, Daniel era rimasto a giacere in quella prigione. Era impossibile dirlo. Senza dubbio era stato sul punto di morire: il lezzo della sua urina lo nauseava, gli insetti lo facevano impazzire. Ma il suo era un fervore religioso. Si era avvicinato alle tenebrose verità palpitanti che Louis aveva rivelato. Tra la coscienza e l’incoscienza, aveva sognato Louis, che gli parlava nella stanzetta lurida di San Francisco, vi sono sempre stati esseri come noi, sempre, Louis che l’abbracciava, gli occhi verdi che si oscuravano mentre lasciava che Daniel gli vedesse le zanne.

La quarta notte Daniel s’era svegliato e aveva compreso immediatamente che qualcuno o qualcosa era nella stanza. La porta era aperta su un corridoio. Si sentiva l’acqua scorrere più rapida, come in una fogna sotterranea. Lentamente i suoi occhi si erano abituati alla luce sporca e verdognola che giungeva dal vano della porta. E allora aveva visto la figura pallida contro la parete.

L’abito nero era immacolato, la camicia bianca inamidata… sembrava l’imitazione di un uomo del ventesimo secolo. E i capelli fulvi erano tagliati corti, le unghie avevano una fioca lucentezza persino nella semioscurità. Come un cadavere pronto per la bara… così asettico, così ben preparato.

La voce era gentile, con un lieve accento. Non era europeo: più secco e nel contempo più sommesso. Forse arabo o greco… quel tipo di musicalità. Le parole erano lente, prive di collera.

«Vattene. Porta via i tuoi nastri. Sono lì, accanto a te. So del tuo libro. Nessuno ci crederà. Adesso vattene e porta via quella roba.»

Allora non mi ucciderai. E non farai di me uno di voi. Erano pensieri stupidi e disperati, ma non poteva evitarli. Aveva visto il potere! Non erano menzogne o inganni. E s’era accorto di piangere, indebolito dalla paura e dalla fame, ridotto come un bambino impaurito.

«Fare di te uno di noi?» L’accento era diventato più intenso, aveva conferito un suono cantilenante alle parole. «Perché dovrei farlo?» Gli occhi s’erano socchiusi. «Non lo farei per quelli che giudico spregevoli, che vorrei veder bruciare nell’inferno. Perché dovrei farlo a uno sciocco ingenuo come te?»

Lo voglio. Voglio vivere in eterno. Daniel s’era sollevato a sedere, s’era alzato in piedi lentamente, cercando di vedere più chiaramente Armand. In fondo al corridoio era accesa una lampadina fioca. Voglio stare con Louis e con te.

Una risata, smorzata e gentile. Ma sprezzante. «Capisco perché lui ti ha scelto come confidente. Sei ingenuo e bello. Ma la bellezza potrebbe essere l’unica ragione, sai.»

Silenzio.

«I tuoi occhi hanno un colore poco comune, quasi violetto. E sei stranamente audace e implorante nello stesso momento.»

Donami l’immortalità. Donamela!

Un’altra risata. Quasi triste. Poi silenzio, l’acqua che scorreva rapida a distanza. La camera era diventata visibile, una lurida tana sotterranea. E la figura era quasi mortale. C’era un lieve riflesso rosato sulla pelle liscia.

«Era tutto vero, ciò che lui ti ha detto. Ma nessuno lo crederà. E con il tempo, questa conoscenza ti farà impazzire. Accade sempre così. Ma non sei ancora pazzo.»

No. È reale, ciò che sta accadendo. Tu sei Armand, e parliamo. E io non sono pazzo.

«No. Trovo piuttosto interessante… il fatto che tu sappia il mio nome e che sia vivo. Non ho mai detto il mio nome a nessuno… che sia vivo.» Armand aveva esitato. «Non voglio ucciderti. Non voglio ucciderti ora.»

Daniel aveva provato il primo tocco di paura. Se guardavi quegli esseri abbastanza da vicino, potevi vedere cos’erano. Era stata la stessa cosa con Louis. No, non erano vivi. Erano atroci imitazioni dei viventi. E quello splendente manichino d’un giovane!

«Ti lascerò uscire da qui», aveva detto Armand. Educatamente, sottovoce. «Voglio seguirti, sorvegliarti, vedere dove vai. Finché ti troverò interessante, non ti ucciderò. E naturalmente, potrei anche disinteressarmi totalmente di te e non degnarmi neanche di ucciderti. È sempre possibile. Puoi sperare. E forse, se sarai fortunato, perderò le tue tracce. Ho i miei limiti, naturalmente. Hai tutto il mondo a disposizione e puoi muoverti di giorno. Ora va’. Fuggi. Voglio vedere che cosa fai, voglio sapere che cosa sei.»

Ora va’. Fuggi.

Aveva preso l’aereo di quella mattina per Lisbona, stringendo nella mano l’orologio d’oro di Lestat. Eppure due notti più tardi, a Madrid, s’era voltato e aveva visto Armand seduto su un autobus accanto a lui, a pochi centimetri di distanza. Dopo una settimana, a Vienna, aveva guardato dalla vetrata di un caffè e aveva visto Armand che lo spiava dalla strada. A Berlino, Armand era salito in tassi al suo fianco, ed era rimasto a fissarlo fino a che Daniel era balzato giù in mezzo al traffico ed era corso via.

Ma nel giro di pochi mesi, quegli incontri muti e sconvolgenti avevano lasciato il posto ad assalti più vigorosi.

S’era svegliato in una stanza d’albergo a Praga e aveva trovato Armand in piedi accanto a lui, in preda a una rabbia violenta. «Parla! Te lo ordino! Svegliati! Voglio che esci con me, che mi mostri tante cose in questa città. Perché sei venuto proprio qui?»

Mentre attraversava la Svizzera in treno, aveva alzato gli occhi e aveva visto Armand seduto di fronte a lui, intento a osservarlo al di sopra del bavero rialzato del cappotto foderato di pelliccia. Armand gli aveva strappato il libro dalle mani e aveva preteso che gli spiegasse che cos’era e perché lo leggeva e cosa significava l’illustrazione della copertina.

A Parigi, Armand l’aveva seguito ogni notte nei boulevard e nelle viuzze, e ogni tanto gli aveva fatto domande sui luoghi dove andava, sulle cose che faceva. A Venezia, quando s’era affacciato dalla stanza al Danieli, aveva scorto Armand che lo scrutava dalla finestra di fronte.

Poi erano trascorse settimane senza apparizioni. Daniel vacillava fra il terrore e una strana attesa, e dubitava della propria ragione. Ma c’era Armand ad aspettarlo all’aeroporto di New York. E la notte successiva a Boston, Armand era nella sala da pranzo del Copley quando lui era entrato. La cena per Daniel era già stata ordinata. «Prego, accomodati. Sai che Intervista con il Vampiro è uscito nelle librerie?»

«Devo confessare di gradire questa piccola misura di notorietà», aveva detto Armand con una cortesia squisita e un sorriso perverso. «Mi sconcerta, invece, che tu non cerchi la notorietà. Non ti presenti come scrittore, il che significa che sei molto modesto o molto vile. Entrambe le spiegazioni però sarebbero molto banali.»

«Non ho fame, andiamocene», aveva risposto fiaccamente Daniel. Eppure i piatti venivano messi in tavola uno dopo l’altro e tutti lo guardavano.

«Non sapevo che cosa preferissi», aveva confidato Armand, con un sorriso estatico. «Perciò ho ordinato tutto quel che avevano.»

«Credi di riuscire a farmi impazzire, vero?» aveva ringhiato Daniel. «Be’, non ce la farai. Lascia che te lo dica. Ogni volta che ti vedo, mi rendo conto che non ti ho inventato e che sono sano di mente!» E aveva incominciato a mangiare di buon appetito… un po’ di pesce, un po’ di manzo, un po’ di vitello, qualche dolce, un pezzetto di formaggio, un po’ di tutto, e tutto insieme perché tanto non gliene importava nulla, e Armand era apparso felice, e aveva riso e riso come un ragazzino mentre l’osservava a braccia conserte. Era la prima volta che Daniel sentiva quella risata sommessa. Così seducente. S’era ubriacato in fretta.

Gli incontri erano diventati sempre più lunghi. Conversazioni, schermaglie e aperti litigi erano la regola. Una volta Armand aveva trascinato dal letto Daniel a New Orleans e gli aveva gridato: «Quel telefono. Voglio che chiami Parigi. Voglio vedere se può veramente parlare con Parigi».

«Dannazione, puoi farlo tu!» aveva gridato Daniel. «Hai cinquecento anni e non sai usare un telefono? Leggi le istruzioni. Che cosa sei, un immortale idiota? Non mi presto al tuo gioco.»

Armand s’era mostrato sorpreso.

«D’accordo. Chiamerò Parigi. Ma tu pagherai il conto.»

«Certo», aveva detto Armand con fare innocente. Aveva estratto dalla giacca dozzine di biglietti da cento dollari, e li aveva sparsi sul letto di Daniel.

Negli incontri, parlavano sempre più spesso di filosofia. Una volta Armand aveva fatto uscire Daniel da un teatro, a Roma, e gli aveva chiesto cosa pensava veramente che fosse la morte. Coloro che erano ancora vivi sapevano certe cose! Daniel sapeva che cosa temeva davvero Armand?

Era mezzanotte passata, e Daniel era ubriaco ed esausto, e s’era addormentato a teatro prima che Armand lo trovasse. E non gli importava nulla.

«Ti dirò che cosa temo», aveva detto Armand, con l’intensità di un giovane studente. «Dopo la morte viene il caos, ed è un sogno dal quale non puoi svegliarti. Immagina di aleggiare tra la coscienza e l’incoscienza e di cercare invano di ricordare chi sei e che cosa eri. Immagina di cercare in eterno la perduta chiarezza del vivere…»

Daniel s’era spaventato. C’era qualcosa di vero. Non si parlava forse di medium che conversavano con presenze incoerenti e tuttavia potenti? Non lo sapeva. Come diavolo poteva saperlo? Forse quando morivi non c’era nulla. Questo terrorizzava Armand, che non faceva nulla per nascondere la sua angoscia.

«Non pensi che terrorizzi anche me?» aveva chiesto Daniel, fissando la figura dal volto pallidissimo che gli stava accanto. «Quanti anni mi restano? Puoi dirlo semplicemente guardandomi? Dimmelo.»

Quando Armand lo aveva svegliato a Port-au-Prince, smaniava di parlare di guerra. Cosa pensavano veramente della guerra gli uomini di quel secolo? Daniel sapeva che Armand era un ragazzo quando era incominciato tutto? Diciassette anni, e a quei tempi erano pochi, molto pochi. Nel ventesimo secolo i diciassettenni erano veri mostri, avevano la barba e il pelo sul petto, ma erano bambini. Allora no. Eppure i bambini lavoravano come se fossero uomini.

Ma è meglio non lasciarsi distrarre. Il fatto era che Armand non sapeva cosa provavano gli uomini. Non l’aveva mai saputo. Oh, certo, aveva conosciuto i piaceri della carne, questo era logico. A quei tempi nessuno pensava che i bambini fossero innocenti dei piaceri sensuali. Ma sapeva poco della vera aggressività. Uccideva perché era la sua natura di vampiro; e il sangue era irresistibile. Ma perché gli uomini trovavano irresistibile la guerra? Cos’era il desiderio di scontrarsi violentemente con le armi contro la volontà di un altro? Cos’era il bisogno fisico di uccidere?

In quei momenti Daniel faceva del suo meglio per rispondere: per alcuni uomini era il bisogno di affermare la propria esistenza mediante l’annientamento di un altro. Sicuramente Armand doveva conoscere queste cose.

«Conoscere? Conoscere? Che importanza ha se non capisci?» aveva chiesto Armand con un accento reso più netto dall’agitazione. «Se non puoi procedere da una percezione a un’altra? Non capisci? È ciò che io non posso fare.»

Quando aveva incontrato Daniel a Francoforte, era stata la natura della storia, l’impossibilità di scrivere una spiegazione coerente degli eventi che non fosse di per sé una menzogna. L’impossibilità della verità servita da affermazioni generiche, e l’impossibilità di apprendere procedendo senza di esse.

Ogni tanto quegli incontri non s’erano svolti all’insegna esclusiva dell’egoismo. In una locanda della campagna inglese Daniel era stato svegliato dalla voce di Armand che lo avvertiva di andarsene subito. Un incendio aveva distrutto la locanda dopo meno di un’ora.

Un’altra volta Daniel era finito in prigione a New York per ubriachezza e vagabondaggio quando Armand era comparso e gli aveva pagato la cauzione: sembrava fin troppo umano, come sempre dopo che si era nutrito, un giovane avvocato in giacca di tweed e pantaloni di flanella. Aveva accompagnato Daniel in una stanza al Carlyle e l’aveva lasciato a smaltire la sbronza nel sonno, con una valigia piena di abiti nuovi e un portafoglio pieno di denaro in una delle tasche.

Finalmente, dopo un anno e mezzo di quella follia, Daniel aveva cominciato a interrogare Armand. Com’era stata l’esistenza a Venezia, a quei tempi? «Guarda questo film ambientato nel secolo decimottavo e dimmi cosa c’è che non va.»

Ma Armand non aveva reagito. «Non posso dirti queste cose perché non rientrano nella mia esperienza. Vedi, ho una ben scarsa capacità di sintetizzare la conoscenza. Mi occupo dell’immediato con lucida intensità. Com’era a Parigi? Chiedimi se pioveva la notte di sabato 5 giugno 1793. Forse potrò dirtelo.»

Eppure in altri momenti parlava concitatamente delle cose che gli stavano intorno, dello strano, sgargiante lindore di quell’epoca, dell’orrida accelerazione dei cambiamenti.

«Guarda le invenzioni rivoluzionarie che diventano inutili o superate entro lo stesso secolo: il piroscafo, le ferrovie. Eppure sai cosa significavano dopo seimila anni di galere ai remi e di uomini a cavallo? Adesso le ragazzette comprano una sostanza chimica per uccidere il seme dei loro amanti, e vivono fino a settantacinque anni in stanze piene di aggeggi che rinfrescano l’aria e mangiano la polvere. Eppure, nonostante tutti i film in costume e i romanzi tascabili che trovi anche nei supermercati, il pubblico non ha un ricordo accurato di nulla; ogni problema sociale viene osservato in relazione a ‘norme’ che in realtà non sono mai esistite, e la gente si ritiene ‘privata’ di lussi e di tranquillità e di pace che in realtà non sono mai stati comuni per nessun popolo del mondo.»

«Ma la Venezia dei tuoi tempi, parlamene…»

«Cosa devo dire? Che era sporca? Che era bella? Che la gente andava in giro coperta di stracci, con i denti guasti e l’alito fetido e rideva alle esecuzioni? Vuoi conoscere la differenza fondamentale? In questi tempi c’è una solitudine agghiacciante. No, ascoltami. Noi vivevamo in sei o sette per stanza, allora, quando ero ancora tra i vivi. Le vie della città erano mari di umanità; e adesso in questi palazzi altissimi le anime stupide sono circondate da un’intimità lussuosa, e attraverso la finestra della televisione guardano un mondo lontano di baci e di carezze. È inevitabile che produca un grande patrimonio di conoscenza comune, un livello nuovo di coscienza umana, un curioso scetticismo, lo stare tanto soli.

Daniel era affascinato, e a volte cercava di mettere per iscritto le cose che gli diceva Armand. Tuttavia Armand continuava a fargli paura. Daniel era sempre in fuga.


Non sapeva con esattezza quanto tempo fosse passato prima che smettesse di fuggire, anche se era impossibile dimenticare quella notte.

Forse erano trascorsi quattro anni dall’inizio del gioco. Daniel aveva passato una lunga estate tranquilla nell’Italia meridionale senza vedere neppure una volta il suo demone familiare.

In un modesto albergo a mezzo isolato dalle rovine dell’antica Pompei aveva letto e scritto e cercato di definire le trasformazioni causate in lui dalla visione del sovrannaturale, e aveva pensato che avrebbe dovuto imparare nuovamente a desiderare, a immaginare e a sognare. L’immortalità su questa terra era davvero possibile. Lo sapeva senza il minimo dubbio: ma che importanza aveva se non poteva averla?

Di giorno camminava per le strade devastate, tra i reperti di città romana riportata alla luce dagli scavi. E quando la luna era piena vi ritornava, solo, anche di notte. Gli sembrava di aver ritrovato la ragione. E forse presto sarebbe ritornata anche la vita. Le foglie verdi avevano un odore fresco quando le schiacciava fra le dita. Guardava le stelle e provava più tristezza che risentimento.

Eppure in altri momenti desiderava Armand come un elisir cui non poteva rinunciare. L’energia tenebrosa che l’aveva acceso per quattro anni, adesso gli mancava. Sognava che Armand gli fosse accanto; si svegliava piangendo come uno stupido. Poi veniva il mattino, e allora si sentiva triste ma calmo.

E finalmente Armand era ritornato.

Era tardi, forse le dieci di sera; e il cielo, come avveniva spesso nell’Italia meridionale, era di un blu fulgido. Daniel stava camminando tutto solo lungo la strada che conduce da Pompei alla Villa dei Misteri e si augurava che i guardiani non venissero ad allontanarlo.

Appena aveva raggiunto l’antica casa, era sceso uno strano silenzio. Non c’erano guardiani. Non c’era anima viva. Solo l’apparizione improvvisa di Armand davanti all’entrata. Di nuovo Armand.

Era uscito senza far rumore dall’ombra al chiaro di luna, un ragazzo con i jeans sporchi e il giubbotto di tela tutto liso, gli aveva passato il braccio intorno alle spalle e lo aveva baciato dolcemente sul viso. Una pelle così tiepida, satura del sangue fresco di una preda. Daniel aveva l’impressione di sentirlo, il profumo della vita che ancora aderiva ad Armand.

«Vuoi entrare in questa casa?» aveva bisbigliato Armand. Non c’erano serrature che potessero impedirgli di entrare in un luogo. Daniel tremava e stava per piangere. E perché? Era così lieto di vederlo, di toccarlo, ah, maledetto!

Erano entrati nelle camere buie e basse, e la pressione del braccio di Armand contro la sua schiena gli dava uno strano conforto. Ah, sì, l’intimità, perché era di questo che si trattava. Tu, il mio…

Il mio amante segreto.

Sì.

La rivelazione era venuta a Daniel mentre stavano insieme nel triclinio in rovina, con i famosi affreschi della flagellazione rituale appena visibili nel buio. Non mi ucciderà, dopotutto. Non lo farà. Naturalmente non mi farà diventare come lui, ma non mi ucciderà. La danza non finirà così.

«Ma com’è possibile che non lo sapessi?» aveva detto Armand leggendogli nel pensiero. «Ti amo. Se non avessi finito per amarti ti avrei ucciso molto prima, naturalmente.»

Il chiaro di luna filtrava attraverso le grate di legno. Le figure degli affreschi prendevano vita sullo sfondo rossocupo, il colore del sangue secco.

Daniel fissava l’essere che gli stava davanti, la cosa che sembrava umana ma non lo era. C’era un soprassalto mostruoso nella sua coscienza: vedeva quell’essere come un grande insetto, un predatore malefico che aveva divorato un milione di vite umane. Eppure l’amava. Amava la pelle bianca e liscia, i grandi occhi scuri. L’amava non perché sembrava un uomo giovane e gentile, ma perché era terribile e odioso, e nello stesso tempo bellissimo. L’amava come la gente ama il male, perché l’eccita fino nel profondo dell’anima. Immagina, uccidere così, prendere la vita agli altri quando vuoi, affondare i denti nella gola di un altro e prendere tutto ciò che la vita può dare.

Guarda i suoi indumenti. Camicia di cotone blu, giubbotto di tela con i bottoni d’ottone. Dove li aveva presi? Li aveva tolti a una vittima, sì: era come estrarre il coltello e scuoiare la preda mentre è ancora calda. Non era strano che sapessero di sale e di sangue, anche se non avevano macchie. E i capelli tagliati corti, come se non stessero per ricrescere entro ventiquattr’ore per arrivargli come al solito alle spalle. Questo è il male. Questa è l’illusione. Questo è ciò che voglio essere, ed è per questo che non sopporto di guardarlo.

Le labbra di Armand s’erano mosse in un sorriso gentile, un po’ misterioso. Poi gli occhi s’erano appannati e s’erano chiusi. S’era chinato verso Daniel e gli aveva premuto le labbra sul collo.

E ancora una volta, com’era accaduto in una stanzetta di Divisadero Street a San Francisco con il vampiro Louis, Daniel aveva sentito i denti acuminati trapassargli la pelle. Una fitta improvvisa, un calore palpitante. «Hai deciso di uccidermi, finalmente?» Era assonnato e ardeva, pieno d’amore. «Sì, sì.»

Ma Armand aveva bevuto solo poche gocce. Aveva lasciato Daniel e gli aveva premuto gentilmente le mani sulle spalle, costringendolo a inginocchiarsi. Daniel aveva alzato gli occhi e aveva visto il sangue scorrere dal polso di Armand. Al sapore di quel sangue, grandi scosse elettriche lo avevano investito. In un lampo gli era parso che Pompei fosse pervasa di sussurri e di pianti, dell’impronta vaga e pulsante delle sofferenze e delle morti lontane. Migliaia di persone che perivano tra il fumo e la cenere. Migliaia di persone che morivano insieme. Insieme. Daniel s’era aggrappato ad Armand. Ma il sangue non c’era più. Solo poche gocce… niente altro.

La mattina seguente, quando s’era svegliato nel letto dell’Excelsior di Roma, Daniel sapeva che non sarebbe più fuggito lontano da Armand. Meno di un’ora dopo il tramonto, Armand era tornato. Sarebbero partiti per Londra, la macchina li attendeva per portarli all’aereo. Ma c’era abbastanza tempo per un altro abbraccio, un altro piccolo scambio di sangue. «Qui dalla mia gola», aveva sussurrato Armand, guidandogli la testa con la mano. Un palpito meraviglioso, silenzioso. La luce della lampada si espandeva, si ravvivava, cancellava la stanza.

Amanti. Sì, era diventata una relazione estatica e travolgente.

«Tu sei il mio insegnante», gli aveva detto Armand. «Dovrai dirmi tutto di questo secolo. Sto già apprendendo segreti che mi erano sfuggiti fin dall’inizio. Dormirai dopo il sorgere del sole, se vuoi, ma le notti saranno mie.»


Si lanciarono nel mezzo della vita. Armand era un genio della simulazione, e poiché ogni sera uccideva presto, poteva passare per umano dovunque andassero. In quelle prime ore la sua pelle scottava, il suo volto era pieno di curiosità appassionata, i suoi abbracci erano rapidi e febbrili.

Sarebbe stato necessario un altro immortale per reggere il suo ritmo. Daniel sonnecchiava alle sinfonie e all’opera e durante le centinaia di film che Armand lo trascinava a vedere. Poi c’erano le feste interminabili e chiassose da Chelsea a Mayfair, dove Armand discuteva di politica e di filosofia con gli studenti o con le signore della moda, o con chiunque fosse disposto ad ascoltarlo. I suoi occhi s’inumidivano per l’eccitazione, la voce perdeva la risonanza sovrannaturale e assumeva il duro accento umano degli altri presenti.

Era affascinato dagli abiti d’ogni genere, non per la loro bellezza ma per quello che pensava significassero. Portava jeans e magliette come Daniel, portava maglioni di lana grossa e scarpe sportive, giubbotti di pelle e occhiali a specchio rialzati sulla fronte. Portava abiti confezionati su misura e smoking, frac e cravatta bianca quando gli veniva la fantasia; una sera i suoi capelli erano tagliati corti e lo facevano sembrare un giovane allievo di Cambridge, e la sera dopo erano lunghi e ricciuti come la chioma di un angelo.

Sembrava che lui e Daniel non facessero altro che salire quattro rampe di scale non illuminate per andare a trovare un pittore, uno scultore o un fotografo, o per vedere qualche film, eccezionale, mai distribuito nei circuiti normali ma rivoluzionario. Passavano ore negli appartamenti privi d’acqua calda di donne giovanissime che suonavano musica rock e preparavano tè d’erbe, anche se Armand non lo beveva mai.

Uomini e donne, naturalmente, s’innamoravano di Armand, «così innocente, così appassionato, così brillante!» In effetti, il potere di seduzione di Armand era quasi incontrollabile. Ed era Daniel che doveva portarsi a letto quegli sventurati, se Armand riusciva a combinare per poi assistere da una poltrona, come un Cupido dagli occhi scuri e dal tenero sorriso d’approvazione. Era ardente e devastante, quella passione osservata, con Daniel che si lavorava l’altro corpo con un abbandono sempre più grande, eccitato dal duplice scopo di ogni gesto intimo. Eppure dopo si sentiva svuotato, e fissava Armand con freddo risentimento.


A New York frequentavano le inaugurazioni dei musei, andavano nei caffè e nei bar, avevano adottato un giovane ballerino e gli avevano pagato gli studi. Sedevano sui gradini delle case a Soho e nel Greenwich Village, a passare le ore in compagnia di chiunque fosse disposto a fermarsi con loro. Andavano a corsi serali di letteratura, filosofia, storia dell’arte e politica. Studiavano biologia, acquistavano microscopi, facevano raccolta di campioni. Studiavano libri di astronomia e piazzavano telescopi giganti sui tetti dei palazzi in cui vivevano al massimo pochi giorni o un mese. Andavano agli incontri di pugilato, ai concerti rock, agli spettacoli di Broadway.

Le invenzioni tecnologiche cominciavano a ossessionare Armand, una dopo l’altra. Prima c’erano i frullatori con i quali preparava intrugli spaventosi, composti unicamente sulla base dei colori degli ingredienti; quindi i forni a micro-onde, dove cuoceva scarafaggi e ratti. Gli inceneritori dei rifiuti lo incantavano: vi gettava asciugamani di carta e pacchetti interi di sigarette. Poi c’erano i telefoni. Faceva telefonate in tutto il pianeta e parlava per ore con i «mortali» in Australia e in India. Finalmente s’era lasciato conquistare dalla televisione, e l’appartamento s’era riempito di altoparlanti e di schermi balenanti.

Tutti i programmi in cui si vedeva il cielo azzurro lo affascinavano. Poi s’era sentito in dovere di assistere ai telegiornali, ai teleromanzi in prima serata, ai documentari, e a ogni film, indipendentemente dal valore intrinseco.

Poi un film in particolare aveva colpito la sua fantasia. Aveva visto e rivisto Blade Runner di Ridley Scott, affascinato da Rutger Hauer, il poderoso attore che, a capo degli androidi ribelli, affronta il suo creatore umano, lo bacia e gli sfonda il cranio. La scena strappava ad Armand una risata lenta e maliziosa; lo scricchiolio delle ossa, l’espressione nei gelidi occhi azzurri di Hauer.

«Ecco il tuo amico Lestat», aveva sussurrato una volta a Daniel. «Lestat avrebbe il… come si dice?… il fegato per farlo.»

Dopo Blade Runner era venuto I banditi del tempo, un film sciocco e divertente, una commedia britannica in cui cinque nani rubano una «Mappa della Creazione» per poter viaggiare attraverso le brecce nel tempo. Precipitano in un secolo dopo l’altro, rubando e azzuffandosi, insieme a un bambino, fino a che capitano tutti nella stanza del diavolo.

Una scena in particolare era la prediletta di Armand: i nani su un misero palcoscenico di Castelleone, mentre cantavano Me and My Shadow, perché Napoleone faceva impazzire Armand. Perdeva la compostezza sovrannaturale e diventava totalmente umano, e rideva fino a farsi venire le lacrime agli occhi.

Daniel doveva ammettere che aveva un suo fascino orribile, la scena di Me and My Shadow, con i nani che si rotolavano e si azzuffavano e alla fine rovinavano tutto mentre i musicisti settecenteschi non sapevano cosa pensare della canzone del secolo ventesimo. Napoleone restava stupito, poi s’entusiasmava. Un tocco di genialità comica, quella scena. Ma quante volte poteva rivederla un vivo? Armand non se ne stancava mai.

Dopo sei mesi aveva abbandonato i film per le telecamere, e girava i filmati da sé. Trascinava Daniel in giro per tutta New York, mentre intervistava la gente per le strade, la notte. Armand aveva registrazioni che lo mostravano mentre recitava poesie in italiano o in latino, o stava semplicemente a braccia conserte, una presenza bianca spesso sfuocata nella luce bronzea eternamente fioca.

Poi, chissà dove e chissà come, in un luogo che Daniel non conosceva, Armand aveva fatto una lunga registrazione di se stesso disteso nella bara durante il sonno diurno. Per Daniel era impossibile guardarla. Armand assisteva per ore e ore a quel film, e guardava i suoi capelli, tagliati al levar del sole, che crescevano lentamente sullo sfondo del cuscino di raso mentre giaceva immobile, con gli occhi chiusi.

Poi erano venuti i computer. Riempiva un dischetto dopo l’altro con i suoi scritti segreti. Prendeva in affitto altri appartamenti a Manhattan per sistemarvi i word processors e i videogames.

Alla fine si era dedicato agli aerei.

Daniel aveva sempre avuto la mania dei viaggi, era fuggito da Armand rifugiandosi in cento città, e lui e Armand avevano preso spesso l’aereo insieme. In questo non c’era niente di nuovo. Ma adesso era un’esplorazione: dovevano passare l’intera notte in volo. Non era insolito che volassero a Boston e poi a Washington e quindi a Chicago per tornare a New York. Armand osservava tutto, passeggeri e hostess; parlava con i piloti; si assestava comodamente sui sedili di prima classe e ascoltava il rombo dei motori. Era affascinato in particolare dai jet a due piani. Doveva provare avventure più lunghe e audaci, fino a Port-au-Prince o a San Francisco, o a Roma o Madrid o Lisbona… non aveva importanza, purché potesse atterrare prima dell’alba.

All’alba Armand scompariva. Daniel non sapeva mai dove dormiva. Ma allo spuntar del sole Daniel non si reggeva più. Per cinque anni Daniel non aveva mai visto mezzogiorno.

Spesso Armand arrivava nella stanza prima che Daniel si svegliasse. Il caffè era pronto, la musica suonava (Vivaldi oppure Honky-tonk piano, dato che li amava egualmente) e Armand camminava avanti e indietro, in attesa che Daniel si alzasse.

«Vieni, amore, stanotte andiamo al balletto. Voglio vedere Barišnikov. Poi andremo al Village. Ricordi il complesso jazz che mi è piaciuto tanto l’estate scorsa? È tornato. Vieni. Ho fame, amor mio. Dobbiamo andare.»

E se Daniel esitava, Armand lo spingeva sotto la doccia, lo insaponava e lo sciacquava, lo trascinava fuori, l’asciugava e poi gli radeva amorosamente la faccia come un barbiere all’antica, e alla fine lo vestiva dopo aver scelto gli indumenti adatti nel guardaroba di abiti sporchi e sciupati.

Daniel amava il contatto delle mani dure, lucenti e bianche che si muovevano sul suo corpo nudo come guanti di raso. E gli occhi scuri sembravano attirarlo fuori da se stesso, ah, un disorientamento delizioso, la certezza di venire trascinato lontano dalla realtà fisica, e finalmente le mani si stringevano delicatamente sulla sua gola, e i denti trafiggevano la pelle.

Chiudeva gli occhi e si sentiva riscaldare lentamente, e ardeva quando il sangue di Armand gli toccava le labbra. Udiva di nuovo i sospiri lontani, i pianti… erano le anime perdute? Sembrava esistesse una grande continuità luminosa, come se tutti i suoi sogni fossero improvvisamente connessi e importanti, ma come se tutto gli sfuggisse…

Una volta aveva afferrato Armand con tutta la sua forza e aveva cercato di lacerargli la pelle della gola. Armand era stato paziente, aveva lasciato che chiudesse la bocca sullo squarcio a lungo, sì… e poi l’aveva scostato gentilmente.

Daniel non era più in grado di decidere. Viveva solo in due stati alternati: infelicità ed estasi, unite dall’amore. Non sapeva mai quando gli veniva dato il sangue. Non sapeva mai se le cose gli sembravano, di conseguenza, diverse… i garofani che li fissavano dai vasi, i grattacieli orrendamente visibili come piante scaturite di notte da semi d’acciaio… o se stava semplicemente perdendo la ragione.

Poi era venuta la notte in cui Armand aveva detto d’essere pronto a entrare veramente in quel secolo perché ormai lo comprendeva abbastanza. Voleva una ricchezza «incalcolabile», voleva un’abitazione immensa, piena di tutte le cose che aveva imparato ad apprezzare. E yacht, aerei, automobili… milioni di dollari. Voleva comprare a Daniel tutto ciò che poteva desiderare.

«Come, milioni!» aveva riso Daniel. «Butti via i vestiti dopo averli indossati, prendi in affitto gli appartamenti e dimentichi dove sono. Sai cos’è un codice fiscale o un livello di reddito? Sono io quello che compra tutti i maledetti biglietti aerei. Milioni. Come faremo a guadagnare milioni? Ruba un’altra Maserati e falla finita, santo Dio!»

«Daniel, tu sei un dono che mi è venuto da Louis», aveva detto teneramente Armand. «Cosa farei senza di te? Fraintendi tutto.» I suoi occhi erano grandi e infantili. «Voglio essere nel centro vitale delle cose, com’ero anni fa a Parigi nel Teatro dei Vampiri. Sicuramente ricorderai. Voglio essere una piaga nell’occhio del mondo.»

Daniel era rimasto abbagliato dalla rapidità con cui era accaduto tutto.

Era incominciato con il ritrovamento d’un tesoro nelle acque della Giamaica. Armand aveva noleggiato un’imbarcazione per mostrare a Daniel dove dovevano iniziare le operazioni di recupero. Pochi giorni dopo era stato scoperto un galeone spagnolo carico di lingotti d’oro e di preziose gemme. Poi c’era stato il ritrovamento di inestimabili statuette: altre due navi affondate erano state identificate in rapida successione. Una proprietà sudamericana acquistata a poco prezzo aveva rivelato una miniera di smeraldi dimenticata da moltissimo tempo.

Avevano acquistato una villa in Florida, yacht, motoscafi da corsa, un piccolo aereo a reazione squisitamente arredato.

Adesso dovevano essere vestiti come principi per tutte le occasioni. Armand sorvegliava personalmente quando venivano prese le misure per le camicie, gli abiti, le scarpe di Daniel. Sceglieva le stoffe per la serie interminabile di giacche sportive, pantaloni, vestaglie, foulard di seta. Naturalmente, per i climi più freddi Daniel doveva avere impermeabili foderati di visone, e smoking per Montecarlo, polsini ingemmati e persino un lungo mantello di nappa nera che Daniel, «con la sua figura da ventesimo secolo», poteva vestire con molto stile.

Al tramonto, quando Daniel si svegliava, i suoi abiti erano pronti, e guai a lui se cambiava qualcosa, dal fazzoletto ai calzini di seta nera. La cena attendeva nell’immensa sala da pranzo con le finestre aperte sulla piscina. Armand era già alla scrivania dello studio. C’era sempre da fare: mappe da consultare, altre ricchezze da conquistare.

«Ma come fai?» aveva chiesto Daniel mentre guardava Armand che prendeva appunti e scriveva istruzioni per i nuovi acquisti.

«Quando puoi leggere nelle menti degli uomini, puoi avere tutto ciò che vuoi», aveva risposto pazientemente Armand. Ah, quella voce sommessa e ragionevole, quel volto fanciullesco, aperto e quasi fiducioso, i capelli fulvi che ricadevano sempre sugli occhi, la figura che faceva pensare alla serenità umana, alla disinvoltura.

«Dai a me ciò che voglio», aveva detto Daniel.

«Ti sto dando tutto ciò che potresti chiedere.»

«Sì, ma non è ciò che ho chiesto, non è ciò che voglio!»

«Resta vivo, Daniel.» Un sussurro sommesso come un bacio. «Te lo dico sinceramente, la vita è preferibile alla morte.»

«Non voglio essere vivo, Armand. Voglio vivere in eterno, e allora potrò essere io a dirti se la vita è preferibile alla morte.»

Il fatto era che le ricchezze lo esasperavano, gli facevano sentire più che mai il peso della mortalità. Navigava sulla calda Corrente del Golfo con Armand, sotto il cielo notturno tempestato di stelle, e smaniava dal desiderio di possedere tutto questo per sempre. Con odio e amore guardava Armand che reggeva il timone. Armand l’avrebbe lasciato veramente morire?

Il gioco delle acquisizioni continuava.

Picasso, Degas, Van Gogh, erano soltanto alcuni dei quadri rubati che Armand recuperava senza spiegazioni e consegnava a Daniel perché li rivendesse o li restituisse dietro compenso. Naturalmente gli ultimi proprietari non osavano farsi avanti, se pure erano sopravvissuti alle visite notturne compiute da Armand nei sacrari dove avevano conservato i tesori rubati. A volte non esisteva un titolo inequivocabile sull’opera in questione. Alle aste rendevano milioni di dollari. Ma neppure questo era abbastanza.

Perle, rubini, smeraldi, tiare di diamanti: Armand li portava a Daniel. «Non preoccuparti, erano rubati, nessuno li richiederà.» E ai feroci trafficanti di droga della costa di Miami, Armand rubava di tutto, armi, valigie piene di denaro, persino imbarcazioni.

Daniel guardava i mucchi di banconote verdi mentre le segretarie le contavano e le fascettavano per spedirle ai conti numerati nelle banche europee.

Spesso Daniel vedeva Armand uscire solo, a caccia sulle tiepide acque del sud, un giovane dalla morbida camicia di seta nera e i pantaloni neri, alla guida di un motoscafo veloce a luci spente, con il vento che gli scompigliava i capelli lunghi. Un nemico esiziale. Chissà dove, là al largo, lontano dalla vista della terraferma, trova i contrabbandieri e colpisce… il pirata solitario, il signore della morte. Getta le vittime nell’abisso, con i capelli che ondeggiano per un momento, quando la luna può ancora illuminarli mentre guardano per l’ultima volta ciò che è stata la loro rovina? Quel ragazzo! E credevano d’essere loro, i malvagi…

«Mi lasci venire con te? Mi lasci vedere quando lo fai?»

«No.»

Finalmente Armand aveva ammassato un capitale sufficiente ed era pronto ad agire davvero.

Aveva ordinato a Daniel di fare acquisti, senza esitare e senza chiedere consigli: una flotta di navi da crociera, una catena di ristoranti e alberghi. Adesso avevano a disposizione quattro aerei privati. Armand aveva otto telefoni.

Poi era venuto il sogno finale: Night Island, la creazione personale di Armand con cinque abbaglianti piani tutti di vetro, pieni di teatri, ristoranti, negozi. Aveva disegnato i progetti per gli architetti che aveva scelto. Consegnava loro elenchi interminabili di materiali che voleva, le stoffe, le statue per le fontane e persino i fiori, gli alberi in vaso.

Ecco, Night Island. Dal tramonto all’alba i turisti la prendevano d’assalto, un’imbarcazione dopo l’altra li portava dai moli di Miami. La musica suonava in continuazione nei saloni, nelle piste da ballo. Gli ascensori di vetro non smettevano mai di salire verso il cielo, i laghetti, i fiumicelli e le cascate scintillavano fra bordure di fiori delicati.

Su Night Island si poteva comprare di tutto: diamanti, una Coca-Cola, libri, pianoforti, pappagalli, modelli firmati, bambole di porcellana. Le migliori cucine del mondo vi attendevano. Ogni sera i cinema proiettavano cinque film. Vi si trovavano tweed inglesi e cuoio spagnolo, sete indiane, tappeti cinesi, argenti, gelati e zucchero filato, porcellane finissime e scarpe italiane.

Oppure si poteva vivere accanto a tutto questo, in un lusso segreto, entrando e uscendo a volontà dal turbine.

«È tutto tuo, Daniel», diceva Armand, mentre si aggirava nelle stanze ariose della sua Villa dei Misteri che occupava tre piani, più le cantine vietate a Daniel, con le finestre aperte sul lontano, splendente panorama notturno di Miami, sulle nubi alte.

Era affascinante l’abile mescolanza del vecchio e del nuovo. Le porte degli ascensori si aprivano su grandi stanze rettangolari piene di arazzi medievali e di antichi candelieri; in ogni ambiente c’era un televisore gigantesco. Quadri rinascimentali riempivano l’appartamento di Daniel, dove i tappeti persiani coprivano il parquet. Il meglio della scuola veneta circondava Armand nel suo studio bianco, popolato di computer, intercom, monitor. I libri, le riviste e i giornali venivano da tutto il mondo.

«Questa è casa tua, Daniel.»

E così era stato, e a Daniel era piaciuto; doveva ammetterlo. E amava ancora di più la libertà, il potere e il lusso che l’accompagnavano dovunque andasse.

Era andato con Armand nell’interno delle giungle centroamericane, di notte, per vedere le rovine maya; avevano salito le pendici dell’Annapurna per ammirare la vetta lontana sotto la luce della luna. Avevano vagato insieme per le vie affollate di Tokyo, e a Bangkok e al Cairo e Damasco, a Lima e Rio e Katmandu. Di giorno, Daniel aveva sguazzato negli agi dei migliori alberghi locali; di notte aveva vagato senza paura con Armand al fianco.

Ogni tanto, tuttavia, l’illusione della vita civile si spezzava. A volte, in qualche luogo remoto, Armand percepiva la presenza di altri immortali. Spiegava di aver circondato Daniel con il suo scudo; tuttavia si preoccupava. Daniel doveva restargli al fianco.

«Fammi diventare come te e non dovrai più preoccuparti.»

«Non sai ciò che dici», aveva risposto Armand. «Ora sei uno dei miliardi di umani senza volto. Se fossi uno di noi, saresti una candela che arde nella notte.»

Daniel non voleva crederlo.

«Ti individuerebbero infallibilmente», aveva continuato Armand. Era in collera, ma non con Daniel. Detestava parlare dei non-morti. «Non sai che i vecchi annientano i giovani senza riflettere?» aveva chiesto. «Il tuo caro Louis non te l’ha spiegato? È ciò che faccio io dovunque andiamo… li anniento, i giovani infestatori. Ma non sono invincibile.» Aveva indugiato come se stesse decidendo se continuare o no. Poi: «Sono come una belva in caccia. Ho nemici più vecchi e più forti, e cercherebbero di annientarmi se ne avessero l’interesse, ne sono sicuro».

«Più vecchi di te? Ma ti credevo il più vecchio», aveva detto Daniel. Da anni non parlavano di Intervista con il Vampiro. Anzi, non avevano mai discusso dettagliatamente del suo contenuto.

«No, naturalmente non sono il più vecchio», aveva risposto Armand. Sembrava a disagio. «Soltanto il più vecchio che il tuo amico Louis aveva trovato. Ce ne sono altri. Non conosco il loro nome e raramente ho visto le loro facce. Ma a volte li sento. Potresti dire che ci percepiamo a vicenda. Irradiamo i nostri segnali, silenziosi ma potenti: stai lontano da me.»

La notte seguente aveva dato a Daniel il medaglione, o l’amuleto come lo chiamava. Prima l’aveva baciato e l’aveva strofinato fra le mani come per scaldarlo. Era strano, assistere al rituale. E ancora più strano vedere l’oggetto con la lettera A incisa e, all’interno, la minuscola boccetta con il sangue di Armand.

«Ecco, aprila se quelli si avvicinano. Aprila immediatamente: sentiranno il potere che ti protegge. Non oseranno…»

«Ah, tu lascerai che mi uccidano. Lo sai», aveva detto freddamente Daniel. «Dammi il potere di battermi per me stesso.»

Ma da allora aveva sempre portato il medaglione. Alla luce della lampada aveva esaminato la A e le complesse incisioni, e aveva scoperto che erano minuscole figure umane contorte, alcune mutilate, altre stravolte dalla sofferenza, altre morte. In realtà era un oggetto orrido. Aveva lasciato cadere la catena all’interno della camicia: il medaglione era freddo contro il suo petto, ma almeno era nascosto.

Tuttavia Daniel non avrebbe mai veduto o percepito la presenza di un altro essere sovrannaturale. Ricordava Louis come un’allucinazione incontrata in una febbre. Armand era il suo unico oracolo, il suo dio-demone spietato e affettuoso.

La sua amarezza era ingigantita. La vita con Armand l’infiammava, lo esasperava. Da anni Daniel non pensava più alla famiglia, agli amici di un tempo. Si assicurava che partissero gli assegni per i parenti, ma erano soltanto nomi su un elenco.

«Tu non morirai mai, eppure mi guardi e mi vedi morire, notte dopo notte.»

Litigi rabbiosi, terribili, e Armand che crollava, con gli occhi vitrei per la rabbia, e poi piangeva sommessamente ma irrefrenabilmente come se avesse riscoperto un’emozione perduta che minacciava di dilaniarlo. «Non lo farò. Non posso. Chiedimi di ucciderti: sarebbe più facile. Non sai che cosa chiedi, non capisci? È sempre stato un maledetto errore. Non comprendi che ognuno di noi vi rinuncerebbe pur di vivere una normale esistenza umana?»

«Rinunciare all’immortalità per vivere una sola vita? Non ti credo. È la prima volta che mi dici una spudorata menzogna.»

«Come ti permetti?»

«Non picchiarmi. Potresti uccidermi. Sei troppo forte.»

«Io rinuncerei. Se non fossi un vigliacco, se dopo cinquecento anni nel turbine non avessi ancora terrore della morte.»

«No, no. La paura non c’entra affatto. Immagina una vita, ai tempi in cui sei nato. E perdere tutto questo? Il futuro nel quale hai conosciuto un potere e un lusso mai sognati neppure da Genghis Khan? Ma dimentica i miracoli tecnici. Accetteresti di ignorare il destino del mondo? Ah, non dirmi che saresti disposto.»

Non giungeva mai una soluzione a parole. Finiva tutto con un abbraccio, il bacio, il sangue che lo sferzava, il sudario dei sogni che l’avvolgeva come una grande rete, e il desiderio! Ti amo! Di più! Sì, dammi di più. Ma non era mai abbastanza.

Era inutile.

Che cosa avevano fatto quelle trasfusioni al suo corpo e alla sua anima? Gli avevano permesso di vedere più dettagliatamente i particolari della vita? Armand non aveva comunque intenzione di donargli l’immortalità!

Armand avrebbe voluto vedere Daniel andarsene spesso e avventurarsi fra i terrori del mondo quotidiano: avrebbe corso quel rischio, piuttosto. Non c’era nulla che Daniel potesse fare, non c’era nulla che potesse dare.

Ed erano incominciati i vagabondaggi, le fughe, e Armand non l’aveva seguito. Attendeva ogni volta fino a che Daniel implorava di ritornare. O fino a quando non aveva più la forza di chiamare, fino a quando era sull’orlo della morte. Allora e soltanto allora Armand lo riportava indietro.


La pioggia batteva sull’ampio marciapiedi di Michigan Avenue. La libreria era deserta, le luci s’erano spente. Chissà dove, un orologio battè le nove. Daniel restò accanto alla vetrina e guardò il traffico che scorreva davanti a lui. Non sapeva dove andare. Bevi la goccia di sangue racchiusa nel medaglione. Perché no?

E Lestat era in California, era già a caccia e forse in quel momento pedinava una vittima. E stavano preparando la sala per il concerto, no? I mortali sistemavano le luci, i microfoni, i chioschetti, ignari dei codici segreti, del pubblico sinistro che si sarebbe mimetizzato tra la folla umana, indifferente e inevitabilmente isterica. Ah, forse Daniel aveva commesso un orribile errore di calcolo. Forse Armand era là!

In un primo momento gli sembrò impossibile; poi divenne una certezza. Perché non l’aveva compreso prima?

Senza dubbio Armand era andato là! Se c’era qualcosa di vero in ciò che aveva scritto Lestat, Armand sarebbe andato alla resa dei conti, per assistere, forse per cercare coloro che aveva perso di vista nei secoli e che adesso erano attratti verso Lestat dallo stesso richiamo.

E che importanza avrebbe avuto, allora, un amante mortale, un umano che per un decennio non era stato altro che un giocattolo? No, Armand era andato senza di lui. E questa volta nessuno l’avrebbe recuperato.

Si sentiva piccolo e infreddolito. Spaventosamente solo. Non aveva importanza… le sue premonizioni, il sogno delle gemelle che discendeva su di lui e lo colmava di presentimenti. Erano cose che lo sfioravano appena come grandi ali nere. E mentre passavano, sentiva il vento indifferente. Armand s’era avviato senza di lui verso un destino che Daniel non avrebbe mai compreso.

Lo colmava d’orrore, di tristezza. Le porte sbarrate. L’ansia destata dal sogno, frammista a una paura sorda, nauseante. Era arrivato alla fine. Che cosa avrebbe fatto? Stancamente, immaginò Night Island chiusa e inaccessibile. Vedeva la villa dietro i muri bianchi, alta sopra la spiaggia, impossibile da raggiungere. Immaginava il suo passato perduto come il suo futuro. La morte era la comprensione del presente immediato: non esiste niente altro.

Proseguì per qualche passo. Aveva le mani intirizzite. La pioggia gli aveva infradiciato la maglietta. Voleva sdraiarsi sul marciapiedi e lasciare che ricomparissero le gemelle. E le frasi di Lestat gli echeggiavano nella testa. Chiamava «il Trucco tenebroso» il momento della rinascita. Chiamava «il Giardino Selvaggio» il mondo che poteva accogliere quei mostri squisiti, ah, sì.

Ma lascia che sia un amante nel Giardino Selvaggio, con te, e allora la luce che ha abbandonato la vita ritornerà in un grande sprazzo di fulgore. Dalla carne mortale, io passerei all’eternità. Sarei uno di voi.

La vertigine. Stava per cadere? Qualcuno gli parlava, qualcuno gli chiedeva se stava bene. No, naturalmente. Perché dovrei star bene?

Ma una mano s’era posata sulla sua spalla. Daniel. Alzò la testa.

Armand era lì sul marciapiedi.

In un primo momento non riuscì a crederlo: lo desiderava tanto; ma non poteva negare ciò che vedeva. Armand era lì. Lo scrutava muto nel silenzio ultraterreno che sembrava portare con sé, con il viso arrossato sotto un tocco lieve di pallore innaturale. Come sembrava normale, se mai la bellezza è normale. E come appariva stranamente distaccato dalle cose materiali che lo toccavano, la giacca bianca gualcita e i pantaloni che aveva indosso. Dietro di lui attendeva la mole grigia di una Rolls, come una visione ancillare, con le gocce di pioggia che scorrevano sul tettuccio argenteo.

Vieni, Daniel. Questa volta me l’hai reso difficile, non è vero, tanto difficile?

Perché l’urgenza del comando, quando la mano che lo tirava avanti era così forte? Era molto raro vedere Armand veramente in collera. Ah, Daniel amava quella rabbia! Si sentì mancare le ginocchia. Si sentì sollevare. Poi il velluto morbido del sedile posteriore della macchina, sotto di lui. Si puntellò sulle mani. Chiuse gli occhi.

Ma Armand lo sorresse gentilmente. La macchina ondeggiò appena e si mosse. Era così bello, addormentarsi fra le braccia di Armand. Ma c’erano tante cose che doveva dire ad Armand, tante cose sul sogno, sul libro.

«Non credi che lo sappia?» mormorò Armand. Aveva una luce strana negli occhi, no? E appariva indifeso e vulnerabile, come se avesse perduto la compostezza. Prese un bicchiere pieno di cognac e lo mise nella mano di Daniel.

«E tu che sei fuggito lontano da me», disse. «Da Stoccolma a Edimburgo e a Parigi. Come credi che io possa seguirti a una simile velocità lungo tante strade? E il pericolo…»

Le labbra sul viso di Daniel, all’improvviso, ah, così va meglio, mi piacciono i baci. Sì, tienimi stretto. Affondò il viso contro il collo di Armand. Il tuo sangue.

«Non ancora, amor mio.» Armand lo sospinse, gli premette le dita sulle labbra. C’era un sentimento così insolito nella voce bassa e controllata. «Ascolta ciò che ti sto dicendo. In tutto il mondo, quelli della nostra razza vengono annientati.»

Annientati. Daniel si sentì scosso da una corrente di panico, e il suo corpo si tese nonostante lo sfinimento. Si sforzò di concentrare lo sguardo su Armand, ma vide di nuovo le gemelle dai capelli rossi, i soldati, il corpo annerito della madre rovesciato fra le ceneri. Ma il significato, la continuità… Perché?

«Non so dirtelo», mormorò Armand. Quando parlava alludeva al sogno, perché l’aveva avuto anche lui. Accostò il cognac alle labbra di Daniel.

Oh, così caldo, sì. Sarebbe scivolato nell’incoscienza se non avesse resistito. Ora correvano in silenzio sulla superstrada per uscire da Chicago, mentre la pioggia inondava i finestrini, e stavano abbracciati in quel piccolo spazio caldo e vellutato. Ah, la bella pioggia argentea. E Armand s’era distolto come se ascoltasse una musica lontana con le labbra socchiuse, paralizzato sull’orlo della parola.

Sono con te, con te sono al sicuro.

«No, Daniel, non sei al sicuro. Forse neppure per una notte, neppure per un’ora.»

Daniel si sforzò di pensare, di formulare una domanda; ma era troppo debole e assonnato. La macchina era così comoda e il movimento lo cullava. E le gemelle. Le gemelle dai capelli rossi volevano farsi avanti. Chiuse gli occhi per un attimo e si abbandonò contro la spalla di Armand, sentì la mano di Armand sulla schiena.

Sentì la voce come se giungesse da una grande distanza. «Cosa devo fare con te, amor mio? Soprattutto ora, quando anch’io ho tanta paura.»

Di nuovo il buio. Daniel si sforzò di conservare il sapore del cognac nella bocca, la sensazione del contatto della mano di Armand. Ma stava già sognando.

Le gemelle camminavano nel deserto. Il sole era alto. Bruciava le loro braccia bianche, i loro volti. Le labbra erano gonfie, screpolate dalla sete. Le loro vesti erano macchiate di sangue.

«Fate cadere la pioggia», mormorò Daniel. «Voi potete farlo. Fate piovere.» Una delle gemelle cadde in ginocchio, e la sorella si chinò e la cinse con le braccia. Capelli rossi e capelli rossi.

Da lontano, Daniel udì di nuovo la voce di Armand. Armand diceva che s’erano addentrate troppo nel deserto. Neppure i loro spiriti potevano far piovere in un luogo simile.

Ma perché? Gli spiriti non potevano fare qualunque cosa?

Sentì che Armand lo baciava di nuovo, gentilmente.

Ora le gemelle sono entrate in un basso valico montano. Ma non c’è ombra perché il sole è a perpendicolo sopra di loro, e i pendii rocciosi sono troppo infidi per salire. Continuano a camminare. Nessuno può aiutarle? Inciampano e cadono quasi a ogni passo, ormai. Le rocce sembrano troppo roventi per toccarle. Finché una di loro stramazza bocconi sulla sabbia e l’altra le si sdraia sopra, riparandola con la chioma.

Oh, se almeno venisse la sera con i suoi venti freddi.

All’improvviso la gemella che protegge l’altra alza il viso. Un movimento sui dirupi. Poi di nuovo l’immobilità. Cade una pietra, echeggia con un suono nitido. E Daniel vede gli uomini che si muovono sui precipizi: abitanti del deserto, come sono sempre apparsi per millenni, con la carnagione scura e le pesanti vesti bianche.

Le gemelle si sollevano sulle ginocchia all’avvicinarsi degli uomini. Gli uomini offrono loro acqua, ne versano loro addosso per rinfrescarle. All’improvviso le gemelle ridono e parlano istericamente per il sollievo, ma gli uomini non comprendono. Poi vengono i gesti, semplici ed eloquenti: una delle gemelle indica il ventre dell’altra, e piega le braccia in quel gesto universale di chi culla un bambino. Ah, sì. Gli uomini sollevano la donna incinta. E tutti si avviano verso l’oasi circondata dalle tende.

Finalmente, alla luce d’un fuoco acceso davanti alla tenda, le gemelle dormono, al sicuro fra gli abitanti del deserto, i beduini. Possibile che i beduini siano tanto antichi, che la loro storia risalga a migliaia e migliaia di anni addietro? All’alba una delle gemelle si alza, quella che non aspetta un bambino. Solleva le braccia, e in un primo momento sembra che si limiti a salutare il sole. Gli altri si sono svegliati: si avvicinano per vedere. Poi si alza un vento che agita dolcemente i rami degli ulivi. E incomincia a cadere la pioggia, la pioggia dolce e leggera.

Daniel aprì gli occhi. Era sull’aereo.


Riconobbe subito la piccola stanza da letto, dalle pareti di plastica bianca e dalla luce gialla smorzata. Era tutto sintetico, duro e lucente come le grandi costole delle creature preistoriche. Il cerchio s’era chiuso? La tecnologia aveva ricreato la prigione di Giona nel ventre della balena.

Era steso sul letto che non aveva testata né piedi né intelaiatura. Qualcuno gli aveva lavato le mani e la faccia, l’aveva rasato. Ah, era così piacevole. E il rombo dei motori era un silenzio immane, il respiro della balena che fendeva il mare. Poteva vedere chiaramente ciò che gli stava intorno. Una bottiglia. Bourbon. Lo voleva. Ma era troppo sfinito per muoversi. E c’era qualcosa che non andava, qualcosa… Si toccò il collo. L’amuleto non c’era più. Ma non aveva importanza. Era con Armand.

Armand sedeva al tavolino all’altezza dell’occhio della balena, con la palpebra di plastica bianca abbassata completamente. S’era tagliato i capelli. Ed era vestito di lana nera, adesso, in perfetto ordine, come una salma preparata per il funerale, fino alle scarpe nere lucide. Era molto macabro. Ora qualcuno leggerà il Salmo Ventitré. Dove sono finiti gli abiti bianchi?

«Stai morendo», disse sottovoce Armand.

«‘E anche se cammino nella valle dell’ombra della morte’ eccetera», mormorò Daniel. Aveva la gola secca. E gli doleva la testa. Non si faceva scrupolo di dire ciò che pensava veramente. Aveva già detto tutto molto tempo prima.

Armand parlò di nuovo, in silenzio, un raggio laser che toccava la mente di Daniel.

Dobbiamo preoccuparci dei particolari? Ormai non pesi più di cinquantotto chili. E l’alcol ti divora le viscere. Sei quasi impazzito. Non c’è quasi più nulla che tu possa godere nel mondo.

«Se non parlare con te ogni tanto. È così facile udire tutto ciò che dici.»

Se non mi rivedessi più, sarebbe anche peggio. Se continui così, non vivrai per altri cinque giorni.

Un pensiero insopportabile. Ma se è così, allora perché sono fuggito?

Nessuna risposta.

Sembrava tutto chiaro. Non era soltanto il rombo dei motori, era il movimento curioso dell’aereo, l’ondulazione irregolare e incessante, come se viaggiasse sull’aria attraverso dossi e cunette, in discesa e in salita. La balena che sfrecciava lungo il sentiero delle balene, come l’aveva chiamato Beowulf.

I capelli di Armand erano pettinati da una parte. L’orologio d’oro al polso, uno di quegli esemplari d’alta tecnologia che adorava. Pensa a quell’orologio con le cifre che scattano dentro una bara, durante il giorno. E la giacca nera un po’ all’antica, con i risvolti stretti. Il panciotto era di seta nera, o lo sembrava. Ma il volto… ah, s’era nutrito. S’era nutrito abbondantemente.

Ricordi qualcosa di dò che ti ho detto prima?

«Sì», disse Daniel. Ma per la verità faticava a ricordare. Poi un lampo ossessivo. «Qualcosa a proposito dell’annientamento, dovunque. Ma io sto morendo. Loro muoiono, io muoio. Erano immortali prima che accadesse; io sono soltanto vivo. Vedi? Ricordo. Vorrei quel bourbon, adesso.»

Non posso far nulla che ti renda la voglia di vivere, è così?

«Non ricominciare. Se continui, mi butto dall’aereo.»

Vuoi ascoltarmi, allora? Ascoltarmi veramente?

«Come posso evitarlo? Non posso sottrarmi alla tua voce quando vuoi che ti ascolti; è come se avessi dentro la testa un microfono piccolissimo. Che fai, piangi? Piangi per me?»

Per un secondo, Armand sembrò tanto giovane. Che ironia.

«Accidenti a te, Daniel», disse. E Daniel udì le parole.

Un soffio diaccio investì Daniel. Era orribile vederlo soffrire. Non disse nulla.

«Ciò che noi siamo», disse Armand, «non avrebbe mai dovuto esistere, lo sai. Non è necessario leggere il libro di Lestat per scoprirlo. Ognuno di noi avrebbe potuto dirti che è un abominio, una fusione demoniaca…»

«Dunque ciò che ha scritto Lestat è vero.» Un demone che si era impossessato della Madre e del Padre, nell’antico Egitto. O almeno uno spirito. A quei tempi l’avevano chiamato demone.

«Non ha importanza che sia vero o no. L’inizio non conta più nulla. Ciò che conta è che la fine potrebbe essere prossima.»

Un senso di panico profondo, l’atmosfera del sogno che ritornava, le grida stridule delle gemelle.

«Ascoltami», disse paziente Armand, distogliendolo dal pensiero delle due donne. «Lestat ha ridestato qualcosa o qualcuno…»

«Akasha… Enkil.»

«Forse. Potrebbero essere più di uno o due. Nessuno lo sa con certezza. C’è un vago, ripetuto grido di pericolo, ma sembra che nessuno sappia da dove proviene. Sanno soltanto che qualcosa ci cerca e ci annienta; le case delle congreghe, i luoghi di ritrovo sono stati distrutti dalle fiamme.»

«Ho udito il grido di pericolo», sussurrò Daniel. «A volte è foltissimo nel cuore della notte, e in altri momenti è soltanto un’eco.» Rivedeva di nuovo le gemelle. Doveva essere collegato alle gemelle. «Ma come puoi sapere queste cose, le case delle congreghe, il resto…»

«Daniel, non mettermi alla prova. Non rimane molto tempo. Lo so. Gli altri lo sanno. È come una corrente che fluisce attraverso i fili di un’immensa ragnatela.»

«Sì.» Ogni volta che Daniel aveva assaporato il sangue vampiresco, per un istante aveva scorto la grande, risplendente rete di conoscenza, di legami, di visioni comprese parzialmente. Era vero, dunque. La ragnatela aveva avuto inizio con la Madre e il Padre…

«Anni fa», l’interruppe Armand, «per me non avrebbe avuto nessuna importanza, tutto questo.»

«Cosa vorresti dire?»

«Ma non voglio che finisca, adesso. Non voglio continuare a meno che tu…» Sul suo volto apparve un’espressione di sorpresa. «Non voglio che tu muoia.»

Daniel non disse nulla.

Era strano il silenzio di quel momento, mentre l’aereo cavalcava dolcemente le correnti d’aria. Armand era così calmo, così paziente, ma le parole smentivano la tranquillità della voce.

«Io non ho paura perché tu sei qui», disse Daniel.

«Sei uno sciocco. Ma ti rivelerò un altro dettaglio misterioso.»

«Sì.»

«Lestat esiste ancora. Continua con i suoi piani. E coloro che si sono raccolti intorno a lui sono indenni.»

«Ma come lo sai con certezza?»

Una breve risata di velluto. «Ecco che ricominci. Sei così irrimediabilmente umano. Mi sopravvaluti o mi sottovaluti. Raramente colpisci nel segno.»

«Lavoro con armi limitate. Le cellule del mio corpo sono soggette al deterioramento, a un processo chiamato invecchiamento e…»

«Si sono radunati a San Francisco. Affollano il retro di una taverna che si chiama Dracula’s Daughter. Forse lo so perché altri lo sanno e una mente potente coglie immagini da un’altra e, volontariamente o involontariamente, le diffonde. Forse un testimone telegrafa le immagini a molti. Non lo so. Pensieri, sentimenti, voci, ci sono e basta. Percorrono i fili della ragnatela. Alcuni sono chiari, altri appannati. Ogni tanto l’avvertimento soverchia tutto il resto. Pericolo. È come se il nostro mondo piombasse nel silenzio per un istante. Poi si levano di nuovo altre voci.»

«E Lestat. Dov’è Lestat?»

«È stato visto, ma solo di sfuggita. Non riescono a seguirlo fino al suo covo. È troppo astuto per permetterlo. Ma li sfida. Corre per le strade di San Francisco con la Porsche nera. Forse non sa tutto ciò che è accaduto.»

«Spiegati.»

«Il potere di comunicare varia. Ascoltare i pensieri degli altri significa spesso essere uditi. Lestat nasconde la sua presenza. Forse la sua mente è isolata.»

«E le gemelle? Le due donne del sogno… chi sono?»

«Non lo so. Non tutti fanno quei sogni. Ma molti ne hanno notizia, e tutti sembrano temerli, e condividere la convinzione che la responsabilità sia di Lestat. Lestat è colpevole di tutto ciò che è accaduto.»

«Un vero diavolo tra i diavoli», rise sommessamente Daniel.

Con un cenno, Armand prese stancamente atto della battuta. Arrivò persino a sorridere.

Silenzio. Il rombo dei motori.

«Comprendi ciò che ti dico. Vi sono stati attacchi contro la nostra specie, ovunque tranne là.»

«Dove si trova Lestat.»

«Appunto. Ma il distruttore si muove in modo irregolare. Sembra che sia vicino alla cosa che vuole annientare. Forse aspetta il concerto per portare a termine ciò che ha cominciato.»

«Non può farti alcun male. L’avrebbe già fatto…»

Di nuovo la breve risata sarcastica, appena udibile. Una risata telepatica?

«La tua fede mi commuove sempre: ma non essere il mio accolito. Quella cosa non è onnipotente. Non può muoversi a velocità infinita. Devi comprendere la scelta che ho compiuto. Stiamo andando da lui perché non esiste altro posto sicuro. La cosa ha trovato molti vagabondi in luoghi lontanissimi e li ha ridotti in cenere…»

«E perché vuoi essere con Lestat.»

Silenzio.

«Sai che è vero. Vuoi vederlo. Vuoi essere là se avrà bisogno di te. Se vi sarà una battaglia…»

Silenzio.

«E se è Lestat a causare tutto questo, forse potrà anche farlo cessare.»

Armand continuava a non rispondere. Sembrava confuso.

«È molto più semplice», disse finalmente. «Devo andare.»

L’aereo sembrava una cosa sospesa in una spuma di suono. Daniel guardò assonnato il soffitto, la luce che si muoveva.

Vedere Lestat, finalmente. Pensò alla vecchia casa di Lestat a New Orleans, all’orologio d’oro che aveva raccolto sul pavimento polveroso. E adesso c’era il ritorno a San Francisco, il ritorno all’inizio, a Lestat. Dio, come voleva quel bourbon. Perché Armand non glielo dava? Era troppo debole. Sarebbero andati al concerto, avrebbe visto Lestat…

Ma poi la paura lo riassalì, divenne più intensa, la paura ispirata dai sogni. «Non lasciarmi più sognare», mormorò all’improvviso.

Gli parve di sentire Armand che rispondeva «sì».

Adesso Armand era accanto al letto. La sua ombra cadeva su Daniel. Il ventre della balena sembrava più piccolo, nulla più della luce che circondava Armand.

«Guardami, amor mio», disse.

Tenebra. Poi le grandi porte di ferro che si aprivano e la luna inondava il giardino. Cos’è questo luogo?

Oh, doveva essere l’Italia, con l’aria dolce e tiepida e la luna piena che splendeva sugli alberi e sui fiori, e più lontano la Villa dei Misteri, alla periferia dell’antica Pompei.

«Ma come siamo arrivati qui?» Si girò verso Armand che gli stava accanto, abbigliato con strani indumenti antiquati di velluto. Per un momento non poté far altro che fissare Armand e la tunica di velluto nero, i lunghi riccioli fulvi.

«Non siamo veramente qui», disse Armand. «Lo sai.» Si voltò e si avviò nel giardino verso la villa. I suoi passi causavano un suono lieve sulle pietre grigie e consunte.

Ma era reale! Guarda i vecchi muri sgretolati, e i fiori nelle lunghe aiuole, e il sentiero con le orme di Armand! E le stelle in cielo, le stelle! Si voltò, tese la mano verso il limone e ne staccò una foglia fragrante.

Armand si voltò per prendergli il braccio. L’odore della terra appena smossa saliva dalle aiuole. Ah, vorrei morire qui.

«Sì», disse Armand. «E così sarà. Lo sai, non l’avevo mai fatto. Te l’avevo detto ma tu non mi hai mai creduto. Adesso Lestat te l’ha detto nel suo libro. Non l’ho mai fatto. Credi a lui?»

«Naturalmente ti credevo. Il voto che avevi fatto spiegava tutto. Ma, Armand, ecco ciò che voglio sapere: a chi avevi fatto questo voto?»

Una risata.

Le loro voci echeggiavano nel giardino. Le rose e i crisantemi erano enormi. E la luce filtrava dalle porte della Villa dei Misteri. C’era una musica che suonava? Tutto quel luogo in rovina era illuminato fulgidamente sotto il blu incandescente del cielo notturno.

«Dunque vorresti che infrangessi il mio voto. Avresti ciò che credi di volere. Ma guarda bene questo giardino perché quando l’avrò fatto, non leggerai più i miei pensieri e non vedrai più le mie visioni. Scenderà un velo di silenzio.»

«Ma saremo fratelli, non capisci?» chiese Daniel.

Armand gli era così vicino che quasi si baciavano. I fiori erano schiacciati contro di loro, enormi dalie sonnolente e gladioli bianchi, e avevano un profumo delizioso. S’erano fermati sotto un albero morente al quale si attoreigliava un glicine. I grappoli dei fiori delicati fremevano, e le sue grandi braccia erano bianche come ossa. E dalla Villa giungevano le voci. C’era gente che cantava?

«Ma dove siamo in realtà?» chiese Daniel. «Dimmelo!»

«Te l’ho detto. Non è altro che un sogno. Ma se vuoi un nome, lascia che la chiami la porta della vita e della morte. Ti condurrò con me oltre questa soglia. E perché? Perché sono un vigliacco. E ti amo troppo per lasciarti andare.»

Daniel provava una grande gioia, un freddo, splendido trionfo. Quello era il suo momento, e non era più perduto nella spaventosa caduta libera del tempo. Non era più uno dei milioni di esseri destinati a dormire in quella terra umida, sotto i fiori avvizziti, senza nome né conoscenza, perduta ogni visione.

«Non ti prometto nulla. Come posso? Ti ho detto che cosa ti attende.»

«Non importa. L’affronterò con te.»

Gli occhi di Armand erano arrossati, vecchi e stanchi. I suoi indumenti erano delicati, cuciti a mano, polverosi come le vesti d’un fantasma.

«Non piangere! Non è giusto», disse Daniel. «Questa è la mia rinascita. Come puoi piangere? Non sai cosa significa? È possibile che non l’abbia mai saputo?» Alzò la testa per vedere l’intero paesaggio incantato, la Villa lontana, il terreno ondulato. Poi levò il volto verso l’alto e il cielo lo sbalordì. Non aveva mai visto tante stelle.

Sembrava che il cielo si tendesse verso l’infinito, con tante stelle così fulgide da far smarrire le costellazioni. Non c’era un disegno. Non c’era un significato. Soltanto la vittoria dell’energia e della materia. Ma poi vide le Pleiadi… la costellazione amata dalle gemelle del sogno… e sorrise. Vide le gemelle insieme, sulla vetta di una montagna. Erano felici, e questo lo rallegrava.

«Comanda, amore mio», disse Armand. «E lo farò. Saremo insieme all’inferno, dopotutto.»

«Ma non capisci?» disse Daniel. «Tutte le decisioni umane si prendono così. Credi che la madre sappia cosa sarà del figlio che porta in grembo? Dio, siamo perduti, ti dico. Che t’importa se mi fai il dono ed è sbagliato? L’errore non esiste! C’è soltanto la disperazione, e io la voglio. Voglio vivere in eterno con te.»

Aprì gli occhi. Il soffitto della cabina dell’aereo, le luci gialle soffuse e riflesse sulle pareti rivestite di pannelli di legno, e intorno a lui il giardino, il profumo, la vista dei fiori che quasi si staccavano dagli steli.

Erano sotto l’albero morto avvolto dagli aerei tralci violetti del glicine. E i fiori gli accarezzavano il viso, i grappoli di petali cerulei. Ritrovò qualcosa, qualcosa che aveva conosciuto molto tempo prima… nel linguaggio di un popolo antico la parola che significava fiori era la stessa che indicava il sangue. Sentì la fitta acuta dei denti nel collo.

Il suo cuore venne afferrato all’improvviso in una stretta possente. La pressione era insopportabile. Eppure poteva guardare al di sopra della spalla di Armand, e la notte scorreva intorno a lui, le stelle ingrandivano come quei fiori umidi e fragranti. Stavano ascendendo nel cielo!

Per una frazione di secondo vide il vampiro Lestat che si avventava nella notte al volante della lunga macchina nera. Sembrava un leone, con la criniera ributtata indietro dal vento, gli occhi colmi di gaiezza folle e di euforia. Poi si voltava a guardare Daniel, e dalla sua gola usciva una risata sommessa.

C’era anche Louis. Louis era in una stanza di Divisadero Street, e guardava dalla finestra in attesa, e poi diceva: «Sì, Daniel, vieni, se è ciò che deve accadere».

Ma non sapevano degli incendi delle case delle congreghe! Non sapevano delle gemelle, e del grido d’allarme.

Erano tutti in una camera affollata all’interno della Villa, e Louis era in frac e stava appoggiato alla mensola di un camino. C’erano tutti! Persino le gemelle. «Grazie a Dio, siete venute!» disse Daniel. Baciò Louis prima su una guancia e poi sull’altra, decorosamente. «Oh, la mia carnagione è pallida come la tua!»

All’improvviso gettò un grido quando il suo cuore cedette, e l’aria gli riempì i polmoni. Di nuovo il giardino. L’erba era intorno a lui. Il giardino cresceva sopra la sua testa. Non lasciarmi qui, qui contro la terra.

«Bevi, Daniel», disse il prete in latino mentre gli versava tra le labbra il vino della comunione. Le gemelle dai capelli rossi presero i piatti sacri… il cuore, il cervello. «Questi, il cervello e il cuore di mia madre, io li divoro con tutto il rispetto per il suo spirito…»

«Dio, donamelo!» Aveva fatto cadere il calice sul pavimento marmoreo della chiesa, era così goffo… ma, Dio! Il sangue!

Si sollevò a sedere, strinse a sé Armand, e trasse il sangue da lui, sorsata dopo sorsata. Erano caduti insieme sull’aiuola fiorita. Armand gli giaceva accanto. E lui gli teneva la bocca aperta sulla gola e il sangue era una sorgente inarrestabile.

«Vieni nella Villa dei Misteri», gli disse Louis che gli toccava la spalla. «Stiamo aspettando.» Le gemelle si abbracciavano, accarezzavano l’ima i lunghi capelli rossi dell’altra.

I ragazzi urlavano fuori dall’auditorium perché non c’erano più biglietti. Si sarebbero accampati nel parcheggio fino alla sera seguente.

«Abbiamo i biglietti?» chiese Daniel. «Armand, abbiamo i biglietti!»

Pericolo. Il ghiaccio. Proviene da qualcuno prigioniero sotto il ghiaccio!

Qualcosa lo colpì con forza. Stava volteggiando nell’aria.

«Dormi, amor mio.»

«Voglio tornare nel giardino, nella Villa.» Tentò di aprire gli occhi. Gli doleva il ventre. Era un dolore stranissimo e sembrava così lontano.

«Sai che lui è sepolto sotto il ghiaccio?»

«Dormi», disse Armand, avvolgendolo con la coperta. «E quando ti sveglierai, sarai come me. Morto.»


San Francisco. Sapeva di essere là ancora prima di aprire gli occhi. Era un sogno così orrendo, ed era lieto di averlo abbandonato: tenebra soffocante, e la corrente tumultuosa del mare! Ma il sole svaniva. Un sogno senza il senso della vista, soltanto il suono e il contatto dell’acqua. Un sogno di paure indicibili. Vi percepiva la presenza di una donna, indifesa, senza la lingua per urlare.

Lascia che il sogno svanisca.

C’era qualcosa nell’aria invernale che gli sfiorava il volto, una freschezza bianca che quasi poteva assaporare. San Francisco, naturalmente. Il freddo l’avvolgeva come un indumento attillato, ma dentro si sentiva deliziosamente caldo.

Immortale. Per sempre.

Aprì gli occhi. Armand l’aveva portato lì. Attraverso il buio viscido del sogno, aveva udito Armand dirgli di rimanere. Armand gli aveva detto che lì sarebbe stato al sicuro. Lì.

Le porte-finestre erano spalancate lungo la parete più lontana. E la stanza era opulenta, piena di oggetti, uno dei posti splendidi che Armand sapeva trovare e che amava tanto.

Guarda la tenda di merletto che sventola alla porta-finestra. Guarda le piume bianche arricciolate sul tappeto di Aubusson. Si alzò e varcò la soglia.

Un grande intrico di rami si ergeva tra lui e il cielo umido e lucente. Le fronte rigide del cipresso di Monterey. E laggiù, fra i rami, sullo sfondo di una tenebra vellutata, vide il grande arco ardente del ponte del Golden Gate. La nebbia si avvolgeva come denso fumo bianco intorno alle torri immense. Cercava di inghiottire i piloni, i cavi, e poi svaniva come se il ponte, con il suo flusso scintillante di traffico, la consumasse.

Lo spettacolo era troppo magnifico… e i contorni scuri delle colline lontane sotto il manto di luci calde. Ah, poter captare un solo, minuscolo dettaglio… i tetti bagnati che digradavano sotto di lui, i rami nodosi che si ergevano. Era come la pelle di un elefante, quella corteccia, quella epidermide vivente.

Immortale… per sempre.

Si passò le mani fra i capelli e fu pervaso da un fremito delicato. Quando ebbe tolto le mani, sentì le impronte delle dita sul cuoio capelluto. Il vento lo pungeva squisitamente. Ricordò qualcosa. Alzò le mani per cercare le zanne. Sì, erano splendide, lunghe e aguzze.

Qualcuno lo toccò. Si voltò così in fretta che per poco non perse l’equilibrio. Oh, era tutto inconcepibilmente diverso! Si fece forza, ma la vista di Armand gli mise addosso la voglia di piangere. Persino nell’ombra, gli occhi scuri di Armand erano colmi di una luce vibrante. E l’espressione del suo viso, così affettuosa. Cautamente, tese la mano e toccò le ciglia di Armand. Voleva sfiorare le linee finissime sulle labbra. Armand lo baciò. Daniel cominciò a tremare. La sensazione, la bocca fresca e serica, come un bacio della mente, la purezza elettrica di un pensiero!

«Rientra, mio discepolo», disse Armand. «Ci rimane meno di un’ora.»

«Ma gli altri…»

Armand aveva scoperto qualcosa di molto importante. Che cos’era? Avvenimenti terribili, incendi delle case delle congreghe. Eppure al momento nulla sembrava più importante del calore dentro di lui, e del fremito quando muoveva le membra.

«Prosperano e complottano», disse Armand. Stava parlando a voce alta? Doveva essere così. Ma la voce era così chiara! «Hanno paura della distruzione totale, ma San Francisco non è stata toccata. Alcuni dicono che l’ha fatto Lestat per attirare tutti. Altri affermano che è opera di Marius, o addirittura delle gemelle. O di Coloro-che-devono-essere-conservati, e che colpiscono con infinita potenza dal loro sacrario.»

Le gemelle! Daniel sentì di nuovo intorno a sé l’oscurità del sogno, un corpo di donna privo di lingua, il terrore. Oh, nulla ormai poteva fargli male. Né i sogni né i complotti. Era il figlio di Armand.

«Ma tutte queste cose possono attendere», disse gentilmente Armand. «Devi venire con me e fare ciò che ti dico. Dobbiamo portare a termine ciò che è stato incominciato.»

«Portare a termine?» Era già finito: lui era rinato.

Armand lo condusse in casa, al riparo dal vento. Riflessi del letto d’ottone nell’oscurità, d’un vaso di porcellana ornato di draghi dorati. Il pianoforte a gran coda con i tasti simili a denti scoperti in un ghigno. Sì, toccalo, tocca l’avorio, le nappe di velluto che pendono dal paralume…

La musica, da dove veniva la musica? Una tromba che suonava musica jazz, sommessamente, dolorosamente. Quel canto malinconico lo fermò: le note fluivano lentamente una nell’altra. Non voleva muoversi in quel momento. Voleva dire che comprendeva ciò che stava accadendo; ma assorbiva ogni suono spezzato.

Incominciò a ringraziare per la musica, ma la sua voce era inspiegabilmente strana… più acuta e tuttavia più risonante. Persino la sensazione della sua lingua e là fuori la nebbia, guardala… la indicò, la nebbia che avvolgeva la terrazza e divorava la notte.

Armand era paziente. Armand comprendeva. Armand lo condusse lentamente attraverso la stanza buia.

«Ti amo», disse Daniel.

«Ne sei certo?» chiese Armand.

Quelle parole lo fecero ridere.

Erano arrivati in un lungo corridoio. Una scala scendeva nell’ombra. Una balaustra lucida. Armand lo esortò a proseguire. Daniel avrebbe voluto guardare la passatoia, una lunga catena di medaglioni intessuti di gigli: ma Armand l’aveva condotto in una stanza illuminata vivamente.

Trattenne il respiro in quell’illuminazione che splendeva sopra i divani e le poltrone di pelle. Ah, ma il quadro alla parete!

Erano così vivide, le figure dipinte, creature informi che in realtà erano grandi chiazze di colore giallo e rosso. Tutto ciò che sembrava vivo era vivo: quella era una possibilità. Dipingevi esseri privi di braccia che sguazzavano nel colore accecante, e dovevano esistere così per sempre. Potevano vederti con tutti quei minuscoli occhi sparpagliati? Oppure vedevano soltanto il paradiso e l’inferno del loro regno splendente, ancorati ai ganci della parete da un pezzo di filo metallico contorto?

Avrebbe voluto piangere a quel pensiero, piangere del gemito gutturale della tromba… eppure non piangeva. Aveva captato un aroma intenso, seducente. Dio, che cos’è? Tutto il suo corpo parve indurirsi inesplicabilmente. E all’improvviso vide una ragazzina.

Era seduta su una seggioletta dorata e lo fissava, con le caviglie incrociate, i folti capelli bruni che incorniciavano la faccia bianca. Gli abiti succinti erano sporchi. Una piccola fuggitiva con i jeans laceri e la maglietta lurida. Era un’immagine perfetta, con una spruzzata di lentiggini sul naso e lo zaino bisunto ai piedi. Ma la forma delle braccia, il modellato delle gambe! E gli occhi, gli occhi castani! Rideva sommessamente, ma era una risata folle, priva di allegria. Aveva un suono sinistro. Che strano! Daniel si accorse che le aveva sollevato il volto fra le mani, e lei lo guardava sorridendo, e un lieve rossore scarlatto si diffondeva sulle guance calde.

Sangue. Quello era l’aroma. Le dita gli scottavano. Ah, riusciva addirittura a vedere i vasi sanguigni sotto la pelle! E il battito del cuore, poteva udirlo. Diventava più forte, era un… un suono umido. Indietreggiò.

«Dio, portala via!» gridò.

«Prendila», bisbigliò Armand. «E fallo subito.»

5. KHAYMAN, MIO KHAYMAN

Nessuno ascolta,

Ora puoi cantare il canto dell’io,

Come canta l’uccello, non per il territorio

O il dominio,

Ma per l’auto-esaltazione.

Fai in modo che qualcosa

Venga dal nulla

Stan Rice

da «Texas Suite»

Body of Work (1983)


Fino a quella notte, quella notte spaventosa, aveva scherzato a proposito di se stesso. Non sapeva chi era, non sapeva da dove era venuto, sapeva solo che cosa gli piaceva.

E ciò che gli piaceva era intorno a lui… i portafiori negli angoli, i grandi palazzi di acciaio e di vetro pieni della luce opalescente della sera, gli alberi, naturalmente, e l’erba sotto i piedi. E le cose acquistate di plastica lucida e di metallo, giocattoli, computer, telefoni… non aveva importanza. Gli piaceva comprenderli, dominarli, e poi schiacciarli, comprimerli in minuscole sfere multicolori che poteva lanciare nell’aria o scagliare attraverso le vetrate quando non c’era nessuno.

Gli piaceva la musica per pianoforte, i film e le poesie che trovava nei libri.

Gli piacevano anche le automobili che, come le lampade, bruciavano il petrolio estratto dalla terra. E i grandi aerei a reazione che volavano sopra le nuvole sfruttando lo stesso principio scientifico.

Si fermava sempre ad ascoltare la gente che rideva e parlava lassù in alto, quando uno degli aerei gli passava sopra la testa. Guidare era un piacere straordinario. A bordo d’una Mercedes-Benz argentata, avanzava di corsa sulle strade vuote e levigate da Roma a Firenze a Venezia, nel cuore della notte. Gli piaceva anche la televisione, l’intero processo elettronico con i minuscoli bit di luce. Com’era rasserenante avere la compagnia della televisione, l’intimità con tante facce abilmente dipinte che ti parlavano in toni amichevoli dallo schermo luminoso.

Gli piaceva anche il rock and roll. Gli piaceva tutta la musica. Gli piaceva il vampiro Lestat che cantava Requiem per la marchesa. Non prestava molta attenzione alle parole. Era una musica malinconica, con il sottofondo tenebroso dei tamburi e dei cembali. Gli metteva addosso la voglia di ballare.

Gli piacevano le gigantesche macchine gialle che scavavano la terra a notte alta nelle grandi città, con gli uomini in uniforme che brulicavano loro intorno; gli piacevano gli autobus londinesi a due piani, e la gente, i mortali ingegnosi di ogni luogo della terra… gli piacevano anche quelli, ovviamente.

Gli piaceva passeggiare per Damasco, la sera, e vedere nei lampi improvvisi dei ricordi sconnessi la città degli antichi. Romani, greci, persiani, egiziani per quelle vie.

Gli piacevano le biblioteche dove nei grandi volumi che emanavano un buon odore poteva trovare le fotografie degli antichi monumenti. Anche lui fotografava le città nuove e a volte riusciva a imprimere in quelle foto le immagini che provenivano dai suoi pensieri. Per esempio, nella sua fotografia di Roma c’erano romani in tuniche e sandali, con sovraimpresse versioni moderne con uomini dagli abiti sgraziati.

Oh, sì, aveva sempre intorno molte cose che gli piacevano… la musica per violino di Bartók, le bambine vestite di bianco che uscivano a mezzanotte dalla chiesa dopo aver cantato alla messa di Natale.

Gli piaceva anche il sangue delle vittime, naturalmente. Era superfluo dirlo. Questa non era una delle sue battute scherzose. Per lui non era divertente. Seguiva la preda in silenzio: non voleva conoscere le sue vittime. Bastava che un mortale gli parlasse perché si sentisse smontato. Non era corretto, secondo lui, parlare a quegli esseri dolci dagli occhi teneri e poi ingozzarsi del loro sangue, stritolargli le ossa e leccare il midollo, e ridurre le loro membra a una poltiglia gocciolante. Ed era così che banchettava, adesso: con violenza. Cercava il sangue, lo voleva, e il desiderio lo travolgeva con una smaniosa purezza, ben diversa dalla sete. Avrebbe banchettato con tre o quattro mortali per notte.

Tuttavia era sicuro, assolutamente sicuro di essere stato umano, un tempo. Aveva camminato sotto il sole nelle ore più calde del giorno, sì, l’aveva fatto, sebbene adesso gli fosse impossibile. Si vedeva seduto a un semplice tavolo di legno, mentre affettava una pesca matura con un coltellino. Era bello, il frutto che gli stava davanti. Ne conosceva il sapore. Conosceva il sapore del pane e della birra. Vedeva il sole splendere sull’opaca sabbia gialla che si estendeva là fuori per miglia e miglia. «Sdraiati a riposare nelle ore calde del giorno», gli aveva detto qualcuno una volta. Era accaduto l’ultimo giorno in cui era stato vivo? Riposa, sì, perché il re e la regina convocheranno la corte e qualcosa, qualcosa di terribile…

Ma non riusciva a ricordare esattamente.

No, per la verità lo sapeva… cioè, fino a quella notte. Quella notte…

Non aveva ricordato neppure quando aveva ascoltato il vampiro Lestat. Quel personaggio un po’ l’incuriosiva… un cantante rock che si spacciava per un bevitore di sangue. Aveva un aspetto disumano: ma forse era l’effetto della televisione, no? Molti umani, nel mondo vertiginoso della musica rock, sembravano ultraterreni. E c’era un’emozione così umana nella voce del vampiro Lestat.

Non era soltanto emozione: era un’ambizione umana molto particolare. Il vampiro Lestat voleva essere eroico. Quando cantava, diceva: «Riconoscetemi un significato! Io sono il simbolo del male: e se sono un vero simbolo, allora faccio il bene».

Affascinante. Solo un essere umano poteva pensare un paradosso come quello. E lui lo sapeva, perché era stato umano, naturalmente.

Ora possedeva una comprensione sovrannaturale delle cose. Era vero. Gli umani non potevano guardare le macchine e comprenderne i principi, come poteva fare lui. E il modo in cui tutto gli era «familiare»… anche questo poteva avere a che fare con i suoi poteri sovrumani. Oh, non c’era nulla che lo sorprendesse veramente. Né la fisica quantistica, né le teorie sull’evoluzione, né i quadri di Picasso, né i procedimenti con i quali i bambini venivano vaccinati per proteggerli dalle malattie. No, era come se fosse stato a conoscenza delle cose molto tempo prima di quanto ricordasse d’essere lì. Molto tempo prima che potesse dire: «Penso, dunque sono».

Ma a parte tutto ciò, aveva ancora una prospettiva umana. Nessuno poteva negarlo. Sentiva la sofferenza umana con una perfezione strana e dolorosa. Sapeva cosa significava amare ed essere soli, ah, sì, lo sapeva meglio di ogni altra cosa, e lo sentiva più acutamente quando ascoltava le canzoni del vampiro Lestat. Perciò non prestava attenzione alle parole.

E c’era un’altra cosa: più sangue beveva, e più assumeva un aspetto umano.

Quando era apparso per la prima volta in quel tempo, non aveva affatto un aspetto umano. Era uno scheletro lurido, camminava lungo la strada che portava ad Atene, con le ossa avvolte in una compatta rete gommosa di vene, il tutto racchiuso in uno strato di pelle bianca e indurita. Aveva terrorizzato la gente. Erano fuggiti tutti, lanciando le automobili a tutta velocità. Ma aveva letto nelle loro menti, aveva visto se stesso come loro lo vedevano: aveva capito e, naturalmente, si era rattristato.

Ad Atene s’era procurato i guanti, un ampio indumento di lana con i bottoni di plastica, e quelle buffe scarpe moderne che coprivano completamente i piedi. S’era avvolto gli stracci intorno al viso, lasciando un varco solo per gli occhi e la bocca. Aveva nascosto i luridi capelli neri con una lobbia di feltro grigio.

La gente lo guardava ancora in modo strano ma non fuggiva urlando. Quando veniva il buio, si aggirava tra la folla in piazza. Omonia e nessuno gli badava. Com’era piacevole il trambusto moderno della vecchia città che anticamente era stata altrettanto vitale, quando da tutto il mondo accorrevano gli studiosi della filosofìa e dell’arte. Poteva alzare gli occhi verso l’Acropoli e vedere il Partenone com’era stato allora, la perfetta dimora della dea, non la rovina che era adesso.

I greci, come sempre, erano splendidi, gentili e fiduciosi, anche se ora avevano i capelli e la carnagione più scuri, a causa della commistione con il sangue turco. E non facevano caso al suo strano abbigliamento. Quando parlava con la sua voce sommessa e suadente, imitando alla perfezione la lingua a parte qualche errore apparentemente buffo, si mostravano entusiasti. E aveva anche notato che si andava lentamente rimpolpando. La sua carne era dura come la pietra, tuttavia cambiava. Finalmente una notte, quando aveva tolto gli stracci, aveva visto i contorni di una faccia umana. Dunque era così che appariva, no?

Grandi occhi neri con le minuscole grinze agli angoli e le palpebre lisce. La bocca era garbata, sorridente. Il naso era ben disegnato e non gli dispiaceva. Le sopracciglia… gli piacevano particolarmente perché erano nere e diritte, non spezzate o irsute, e abbastanza alte sopra gli occhi per dargli un’espressione aperta, un’espressione di velato stupore che poteva ispirare fiducia. Sì, un bel volto maschile.

Da allora era andato in giro a volto scoperto, aveva indossato camicie e pantaloni moderni. Ma doveva tenersi nell’ombra. Era troppo levigato e troppo bianco.

Quando glielo chiedevano, diceva che il suo nome era Khayman. Ma non sapeva dove l’aveva preso. E una volta, più tardi, era stato chiamato Benjamin… sapeva anche questo. C’erano altri nomi… Ma quando? Khayman. Era il primo nome, il nome segreto, e non l’aveva mai dimenticato. Sapeva disegnare i due minuscoli segni che significavano Khayman, ma non aveva idea da dove provenissero quei simboli.

La sua forza lo sbalordiva forse più d’ogni altra cosa. Era in grado di sfondare un muro, di sollevare un’automobile e di scagliarla lontano. Tuttavia era stranamente fragile e leggero. Se si piantava un coltello lungo e sottile nella mano, provava una strana sensazione. E c’era sangue dappertutto. Poi le ferite si chiudevano e doveva riaprirle per estrarre il coltello.

In quanto alla leggerezza, ebbene, non c’era nulla che non potesse scalare. Era come se la gravita non avesse potere su di lui, quando decideva di sfidarla. E una notte, dopo essere salito in cima a un palazzo altissimo al centro della città, aveva spiccato il volo ed era disceso dolcemente sulla via sottostante.

Era magnifico. Sapeva di poter coprire grandi distanze, purché osasse. Sicuramente una volta l’aveva fatto, s’era avventurato fra le nuvole. Ma forse… forse no.

Possedeva anche altri poteri. Ogni sera, al risveglio, si sorprendeva ad ascoltare voci provenienti da tutto il mondo. Giaceva nell’oscurità, avvolto nei suoni. Sentiva parlare in greco, inglese, romeno, indostano. Sentiva risate, grida di dolore. E se restava immobile, sentiva i pensieri della gente… una corrente sotterranea, confusa, straripante di folli esagerazioni che lo spaventavano. Non sapeva da dove venissero le voci, né perché una di esse sommergesse l’altra. Era come se fosse Dio e ascoltasse le preghiere.

E ogni tanto, distinte da quelle umane, gli giungevano anche voci immortali. C’erano altri come lui, là fuori, e pensavano e provavano sensazioni e lanciavano moniti. Le loro grida possenti erano lontane, tuttavia riusciva facilmente a separarle da quelle della massa umana.

Ma quella ricettività lo faceva soffrire. Gli riportava alla mente il ricordo di essere rinchiuso in un luogo tenebroso, di avere soltanto quelle voci a tenergli compagnia per anni, anni e anni. Panico. E questo non voleva ricordarlo. C’erano cose che non voleva ricordare. Come essere bruciato o imprigionato. Come ricordare tutto e piangere, un terribile pianto d’angoscia.

Sì, gli erano accadute cose atroci. Tutto era avvenuto sempre in quella terra, con altri nomi e in altri tempi. Ma sempre con la stessa indole gentile e ottimista, con lo stesso amore per le cose. Era un’anima migrante? No, aveva sempre avuto quel corpo. Perciò era così leggero e così forte.

Inevitabilmente, escludeva le voci. Anzi, ricordava un’antica ammonizione: se non impari a escludere le voci, ti faranno impazzire. Ma adesso era semplice. Le acquietava alzandosi, aprendo gli occhi. Anzi, avrebbe dovuto compiere uno sforzo per sentirle. Continuavano e continuavano e diventavano un rumore fastidioso.

Lo attendeva lo splendore del momento. Ed era facile annegare i pensieri dei mortali vicini. Poteva cantare, per esempio, o fissare l’attenzione su una cosa qualunque. Il silenzio benedetto. A Roma c’erano distrazioni ovunque. Amava le vecchie case romane dipinte d’ocra e terra di Siena bruciata e verde scuro. Amava le strette vie di pietra. Sapeva guidare a tutta velocità una macchina per i viali pieni di mortali, o aggirarsi per via Veneto fino a quando trovava una donna di cui innamorarsi, per un po’.

E amava la gente ingegnosa di quel tempo. Erano sempre umani, ma sapevano tante cose. Un potente veniva assassinato in India, e nel giro di un’ora tutto il mondo poteva dolersene. Disastri, invenzioni e miracoli medici d’ogni genere pesavano sulle menti dell’umano comune. La gente giocava con la realtà e la fantasia. Le cameriere scrivevano, durante la notte, romanzi che potevano renderle famose. Gli operai s’innamoravano delle regine nude dello schermo nelle videocassette prese a nolo. I ricchi portavano gioielli di carta, i poveri acquistavano minuscoli diamanti. E le principesse giravano per gli Champs Elysées vestite di stracci accuratamente stinti.

Ah, desiderava essere umano. Dopotutto, che cos’era? Com’erano gli altri… quelli di cui escludeva le voci? Non la Prima Stirpe, ne era certo. Quelli della Prima Stirpe non potevano contattarsi tra loro per mezzo esclusivo della mente. Ma cosa diavolo era la Prima Stirpe? Non riusciva a ricordare. Un senso di panico lo assaliva. Non pensava a queste cose. Scriveva poesie su un quaderno… erano moderne e semplici, eppure sapeva che erano nello stile più antico che avesse conosciuto.

Si spostava di continuo in Europa e in Asia Minore, a volte a piedi, a volte librandosi nell’aria e portandosi con la volontà in un determinato luogo. Incantava coloro che avrebbero potuto interferire, e di giorno dormiva in nascondigli bui. Dopotutto, il sole non lo bruciava più. Ma non riusciva a fare nulla nella luce del sole. I suoi occhi incominciavano a chiudersi quando vedeva spuntare la prima luce mattutina. Voci… tutte quelle voci, altri bevitori di sangue che gridavano d’angoscia… e poi nulla. E si svegliava al tramonto, ansioso di leggere l’antica scritta delle stelle.

Finalmente era diventato audace nel volo. Alla periferia di Istanbul era salito in alto sopra i tetti, come un pallone. Aveva turbinato ridendo; poi aveva deciso di recarsi a Vienna, che aveva raggiunto prima dell’alba. Nessuno l’aveva visto. Si muoveva troppo velocemente perché lo vedessero. E comunque, non faceva quegli esperimenti davanti a occhi curiosi.

Aveva anche un altro potere molto interessante: poteva viaggiare senza il proprio corpo. Per la verità, non era esatto dire che poteva viaggiare. Bisognava dire che poteva inviare la sua vista a guardare cose lontane, se è possibile esprimersi così. Restava immobile e pensava, per esempio, a un posto distante che gli sarebbe piaciuto vedere e, all’improvviso, era là. C’erano anche alcuni mortali capaci di farlo, nei sogni o nello stato di veglia, con una grande concentrazione. Ogni tanto passava accanto ai loro corpi addormentati e capiva che le loro anime erano altrove. Ma le anime, non riusciva mai a vederle. Non poteva vedere i fantasmi o altre specie di spiriti…

Ma sapeva che c’erano. Dovevano esserci.

E tornava a lui il ricordo che una volta, quand’era mortale, aveva bevuto nel tempio una pozione potentissima offerta dai sacerdoti, e aveva viaggiato nello stesso modo, fuori dal proprio corpo, nel firmamento. I sacerdoti l’avevano fatto ritornare. Lui non avrebbe voluto. Era stato assieme ai morti che amava. Ma aveva compreso che doveva tornare. Era ciò che ci si aspettava da lui.

A quei tempi era un essere umano. Sì, indubbiamente. Ricordava la sensazione del sudore sul petto nudo quando si era sdraiato nella stanza polverosa e gli avevano portato la pozione. Aveva avuto paura. Ma era accaduto a tutti.

Forse era meglio essere ciò che era adesso, e poter volare con l’anima e con il corpo.

Ma non sapere, non ricordare veramente, non comprendere come poteva fare quelle cose e perché viveva del sangue degli umani… tutto ciò causava un intenso dolore.

A Parigi era andato a vedere i film dei vampiri e s’era interrogato su ciò che sembrava vero e ciò che era falso. Tutto era familiare, anche se in gran parte era stupido. Il vampiro Lestat aveva preso il suo costume dai vecchi film in bianco e nero. Quasi tutte le «creature della notte» vestivano allo stesso modo, con gli stessi indumenti… il mantello nero, la camicia bianca inamidata, la classica giacca nera con le code e i pantaloni neri.

Erano assurdità, certo; tuttavia gli dava conforto. Dopotutto, erano bevitori di sangue, esseri che parlavano gentilmente, come se si esprimessero in poesia, e tuttavia uccidevano continuamente i mortali.

Comprava i fumetti dei vampiri e ritagliava certi disegni di splendidi bevitori di sangue, come il vampiro Lestat. Forse anche lui avrebbe dovuto provare quel bel costume; anche quello sarebbe stato un conforto. Gli avrebbe dato la sensazione di essere parte di qualcosa, anche se quel qualcosa in realtà non esisteva.

A Londra, dopo mezzanotte, in un negozio buio, aveva trovato il suo costume da vampiro. Giacca, pantaloni e lucide scarpe di vernice; una camicia inamidata e una cravatta di seta bianca. E poi, oh, il mantello nero, magnifico, con la fodera di raso bianco, che quasi toccava il pavimento.

S’era girato e rigirato davanti agli specchi. Il vampiro Lestat l’avrebbe invidiato: e pensare che lui, Khayman, non era un umano che fingeva: era autentico. Per la prima volta s’era spazzolato i folti capelli neri. Aveva trovato profumi e unguenti nelle vetrine, e si era preparato adeguatamente per una serata grandiosa. Aveva trovato anelli e gemelli d’oro.

Adesso era magnifico, come lo era stato molto tempo prima, abbigliato di altri indumenti. E subito, per le vie di Londra, la gente l’aveva adorato! Aveva fatto bene. Lo seguivano mentre camminava e lui sorrideva e s’inchinava, e ogni tanto strizzava l’occhio a qualcuno. Anche quando uccideva, era perfetto. La vittima lo fissava come se fosse una visione, come se capisse. Lui si chinava, come faceva il vampiro Lestat nei video alla televisione, e dapprima beveva gentilmente dalla gola, poi dilaniava la vittima.

Naturalmente era tutto un gioco che aveva qualcosa di spaventosamente banale. Non aveva nulla a che vedere con il fatto d’essere un bevitore di sangue; quello era il segreto tenebroso, nulla aveva a che vedere con le cose ricordate vagamente, ogni tanto, e scacciate dal pensiero. Tuttavia era piacevole, per il momento, essere «qualcuno» e «qualcosa».

Sì, il momento, il momento era splendido. E non aveva altro. Dopotutto avrebbe dimenticato anche quel tempo, no? Le notti così piene di dettagli squisiti si sarebbero dileguate; e in un futuro ancora più complesso e impegnativo si sarebbe scatenato di nuovo ricordando soltanto il suo nome.

Finalmente era tornato a casa, ad Atene.

Vagava nel museo, la notte, con un mozzicone di candela, ed esaminava le vecchie lapidi con le figure scolpite che lo facevano piangere. La donna morta, seduta (i morti sono sempre seduti), tende le braccia verso il bambino che ha lasciato e che il marito tiene fra le braccia. I nomi gli tornavano alla mente, come se i pipistrelli gli mormorassero all’orecchio. Vai in Egitto: allora ricorderai. Ma non voleva; era troppo presto per cercare la follia e l’oblio. Ad Atene era al sicuro, vagava nel vecchio cimitero ai piedi dell’Acropoli, da cui avevano tolto tutte le stele. Non badava al traffico che passava rombando. Era una terra bellissima. E apparteneva ancora ai morti.

Aveva acquisito un guardaroba da vampiro. Aveva comprato persino una bara, ma non gli piaceva entrarvi. Innanzitutto la bara non aveva la forma di una persona e non aveva un volto, né scritte per guidare l’anima del morto. Non andava bene. Sembrava piuttosto uno scrigno per gioielli. Ma poiché era un vampiro, ebbene, riteneva di doverla avere, ed era una cosa divertente. I mortali che entravano nell’appartamento se ne entusiasmavano. Offriva loro vino rosso-sangue in bicchieri di cristallo. Recitava la Ballata del vecchio marinaio e cantava canzoni in lingue stranissime. A volte leggeva le sue poesie. Erano umani di buon cuore. E la bara serviva loro per sedersi, in un appartamento dove non c’era quasi nient’altro.

Ma a poco a poco le canzoni del cantante rock americano, il vampiro Lestat, avevano cominciato a turbarlo. Non erano più divertenti. Non lo erano più neppure i vecchi film. Il vampiro Lestat lo infastidiva veramente. Quale bevitore di sangue avrebbe sognato atti di purezza e di coraggio. Le canzoni avevano toni così tragici.

Bevitore di sangue… A volte, quando si svegliava sul pavimento dell’appartamento afoso mentre l’ultima luce del giorno svaniva oltre le finestre, si sentiva abbandonare da un sogno opprimente, popolato di esseri che sospiravano e gemevano per la sofferenza. Aveva seguito in un orrendo paesaggio notturno le orme di due belle donne dai capelli rossi che subivano ingiustizie indicibili, due gemelle che cercava più volte di raggiungere. Dopo che le avevano tagliato la lingua, la donna dai capelli rossi che vedeva nel sogno strappava la lingua dalle mani dei soldati e la mangiava, il suo coraggio li sbigottiva…

Ah, non guardare quelle cose!

Il viso gli doleva, come se fosse stato a lungo contratto, come se avesse pianto o come se fosse tormentato dall’ansia. Si rilassava lentamente. Guardava la lampada. I fiori gialli. Niente. Soltanto Atene, con chilometri e chilometri di edifici di stucco, e il grande tempio di Atena sull’Acropoli che campeggia su tutto, nonostante l’aria satura di fumo. Sera. Il movimento divino mentre migliaia di individui in abito da lavoro scendevano le scale mobili della metropolitana. In piazza Syntagma, i pigri bevitori di retsina e di uzo, oppressi dal caldo della prima sera. E le edicole che vendevano riviste e giornali di tutti i paesi.

Non ascoltava più la musica del vampiro Lestat. Quando la suonavano, lasciava le sale da ballo americane. Si allontanava dagli studenti che portavano i piccoli mangianastri agganciati alla cintura.

Poi una notte nel cuore della Plaka, con le luci sgargianti e le taverne rumorose, vide altri bevitori di sangue che si muovevano in fretta tra la folla. Il suo cuore si fermò. La solitudine e la paura lo sopraffecero. Non riusciva a muoversi e a parlare. Poi li seguì per le vie ripide, dentro e fuori da una sala da ballo dopo l’altra, dove strepitava la musica elettronica. Li studiava attentamente mentre proseguivano fra la ressa dei turisti, ignari della loro presenza.

Due maschi e una femmina dai succinti indumenti di seta nera; i piedi della donna erano calzati da scomode scarpe dal tacco alto. Occhiali da sole argentati coprivano gli occhi; bisbigliavano tra loro e prorompevano in risate improvvise. Carichi di gioielli e di profumi, ostentavano la carnagione e i capelli lucenti e sovrannaturali.

Ma quei dettagli superficiali non contavano: erano diversi da lui. Non erano altrettanto duri e bianchi, tanto per cominciare. Anzi, erano fatti di morbidi tessuti umani, come se fossero ancora cadaveri animati. Straordinariamente rosei e deboli. E come avevano bisogno del sangue delle vittime. In quel momento soffrivano le torture della sete: e sicuramente era il loro destino di ogni notte. Perché il sangue doveva operare senza fine in quei teneri tessuti umani; operava non soltanto per animarli ma anche per trasformarli lentamente in qualcosa d’altro.

In quanto a lui, era fatto interamente di quel qualcosa d’altro: non gli erano rimasti tessuti umani morbidi. Sebbene bramasse il sangue, non gli era necessario per quella conversione. Piuttosto, si rendeva conto che il sangue lo ristorava, accresceva i suoi poteri telepatici, la sua capacità di volare o di viaggiare al di fuori del corpo, o la sua forza prodigiosa. Ah, lo comprendeva! Era ormai un ospite quasi perfetto per il potere senza nome che operava in tutti loro.

Sì, era esattamente così. E quelli erano più giovani, ecco tutto. Avevano appena incominciato il viaggio verso la vera immortalità vampiresca. Non lo ricordava? Ecco, non esattamente: ma lo sapeva, sapeva che erano novellini e avevano iniziato il cammino da non più di cento o duecento anni. Era il periodo pericoloso, quando impazzivi o quando gli altri ti catturavano e ti rinchiudevano o ti bruciavano. Molti non sopravvivevano a quegli anni. Quanto tempo era passato per lui, che apparteneva alla Prima Stirpe? Era quasi inconcepibile. Si fermò accanto al muro dipinto d’un giardino, alzò la mano per appoggiarla a un tronco nodoso e lasciò che le fresche foglie verdi gli toccassero il volto. All’improvviso si sentì inondato da una tristezza più terribile della paura. Sentì qualcuno piangere… non accanto a lui, ma nella sua mente. Chi era? Basta!

Bene, non avrebbe fatto alcun male a quelle tenere creature. No, voleva soltanto conoscerle, abbracciarle. Dopotutto siamo della stessa famiglia, bevitori di sangue, voi e io!

Ma quando si avvicinò e irradiò un saluto silenzioso ma esuberante, si voltarono a guardarlo con aperto terrore. Fuggirono. Discesero un intrico buio di vicoli, lontano dalle luci della Plaka, e nulla di ciò che poteva dire o fare sarebbe bastato a fermarli.

Rimase rigido e silenzioso, colpito da una sofferenza acuta che non aveva mai conosciuto. Poi accadde una cosa strana e, terribile. Li seguì fino a che li vide di nuovo. S’infuriò. Maledetti! Vi punirò perché mi fate soffrire! All’improvviso provò una strana sensazione alla fronte, uno spasimo freddo dietro l’osso. Una forza parve scaturire da lui come una lingua invisibile. Immediatamente trapassò la femmina, rimasta più indietro degli altri: e il suo corpo esplose in fiamme.

Era stupefatto. Tuttavia si rendeva conto di ciò che era accaduto. L’aveva trafitta con una forza concentrata che aveva appiccato il fuoco al potente sangue combustibile che avevano in comune: e subito il fuoco era dilagato nel circuito delle vene. Aveva invaso il midollo delle ossa e aveva fatto esplodere il corpo. In pochi secondi, la donna non esisteva più.

Per gli dèi! Era stato lui a farlo! Angosciato e atterrito, indugiò a osservare gli indumenti vuoti e incombusti, e tuttavia anneriti e chiazzati di grasso. Sulle pietre erano rimasti pochi capelli, che bruciavano in una spira di fumo.

Forse era stato un errore. Ma no, sapeva d’essere stato lui. S’era accorto di farlo. E lei aveva avuto tanta paura!

Ammutolito per l’orrore, si avviò per tornare a casa. Sapeva che non aveva mai usato prima quel potere, non aveva neppure saputo di possederlo. L’aveva acquisito soltanto ora, dopo i secoli in cui il sangue aveva operato, aveva inaridito le cellule, le aveva rese sottili e bianche e forti come le cellette d’un nido di vespe?

Solo nell’appartamento, con le candele e l’incenso che ardevano per confortarlo, si trafisse di nuovo con il coltello e guardò sgorgare il sangue. Era denso e caldo, e formava una pozza sul tavolo davanti a lui, brillava come se fosse vivo nella luce della lampada. E lo era!

Nello specchio, studiò la radiosità che era tornata a lui dopo tante settimane di caccia impegnata. Una lieve sfumatura giallognola sulle guance, una traccia di rosa sulle labbra. Ma non aveva importanza: era come la pelle abbandonata da un serpente sulle rocce… morto e leggero e arido, se non per il pompare continuo di quel sangue. Il sangue vile. E il suo cervello, ah, il suo cervello, che aspetto aveva adesso? Era trasparente come se fosse di cristallo, con il sangue che fluiva nei compartimenti minuscoli? Ed era lì che viveva il potere dalla lingua invisibile?

Uscì di nuovo e mise alla prova quella nuova forza contro gli animali… contro i gatti per i quali provava un odio irragionevole poiché gli sembravano creature malefiche, e contro i topi, che tutti gli uomini disprezzano. Non era la stessa cosa. Uccideva quegli esseri con l’energia guizzante, ma non prendevano fuoco. Il cervello e il cuore subivano una lacerazione fatale, ma il sangue naturale nelle loro vene non era combustibile. Perciò non bruciavano.

Questo l’affascinava in modo freddo, ossessivo. «Sono uno straordinario soggetto per uno studio», mormorò, con gli occhi colmi all’improvviso di lacrime sgradite. Mantelli, cravatte bianche, film di vampiri, cosa significava per lui? Chi diavolo era? Lo zimbello degli dèi che percorreva la strada da un momento all’altro, attraverso l’eternità? Quando vide un grande manifesto del vampiro Lestat che lo irrideva dalla vetrina di un negozio di televisori, si voltò e con un guizzo d’energia infranse il cristallo.

Ah, magnifico, magnifico. Datemi le foreste, le stelle. Quella notte andò a Delfì, ascendendo silenziosamente sopra la terra buia. Discese sull’erba umida e andò a camminare dove un tempo sedeva l’oracolo, nelle rovine della casa del dio.

Ma non intendeva lasciare Atene. Doveva trovare i due bevitori di sangue e dir loro quanto era dispiaciuto, e promettere che mai, mai avrebbe usato il potere contro di loro. Dovevano parlargli! Dovevano essere con lui…! Sì!

La notte seguente, dopo il risveglio, ascoltò per ritrovarli. E un’ora dopo li sentì levarsi dalle loro tombe. Avevano il covo in una casa nella Plaka, in una di quelle taverne chiassose e fumose aperte sulla strada. Di giorno dormivano nelle cantine, e dopo l’imbrunire uscivano a guardare i mortali della taverna che cantavano e ballavano. Lamia, l’antica parola greca che indicava il vampiro, era il nome di quel locale dove le chitarre elettriche suonavano la primitiva musica greca, e i giovani mortali ballavano tra loro, con i fianchi che ondeggiavano seducenti come quelli delle donne, mentre scorreva il retsina. Alle pareti erano appese immagini dei film dei vampiri, Bela Lugosi nella parte di Dracula, la pallida Gloria Holden in quella di sua figlia… e c’erano i manifesti del vampiro Lestat, biondo e con gli occhi di ghiaccio.

Dunque anche loro avevano il senso dell’umorismo, pensò gentilmente. Ma i due vampiri, storditi dall’angoscia e dalla paura, sedevano fianco a fianco e fissavano la porta aperta mentre lui guardava all’interno. Come apparivano indifesi!

Non si mossero quando lo videro sulla soglia, con le spalle al bagliore bianco della strada. Che cosa pensavano nel vedere il suo mantello? Un mostro disceso dai manifesti per annientarli, quando sulla terra ben poche cose avevano lo stesso potere?

Vengo in pace. Voglio soltanto parlare con voi. Non andrò in collera… Vengo… con amore.

I due sembravano paralizzati. Poi uno si alzò ed entrambi proruppero in un grido orrido e spontaneo. Il fuoco lo accecò come accecò i mortali che accanto a lui si precipitavano per fuggire sulla strada. I bevitori di sangue erano avvolti nelle fiamme e morivano, colti in una danza atroce con le braccia e le gambe contorte. Anche la casa bruciava, le travi fumavano, le bottiglie esplodevano, e scintille color arancio sprizzavano verso il cielo nuvoloso.

Era stato lui a fare questo? Era la morte per gli altri, lo desiderasse o no?

Lacrime di sangue gli scorsero sulla faccia bianca, sullo sparato della camicia. Alzò il braccio per ripararsi il viso con il mantello. Era un gesto di rispetto per l’orrore che si compiva davanti a lui… i bevitori di sangue che morivano bruciati dall’interno.

No, non poteva averlo fatto, non poteva. Lasciò che i mortali lo scostassero a spintoni. Le sirene gli ferivano le orecchie. Battè le palpebre mentre tentava di vedere nonostante le luci lampeggianti.

E poi, in un momento di comprensione violenta, intuì che non era stato lui. Perché vide l’essere che l’aveva fatto. Là, avvolto in uno scuro mantello, seminascosto in un vicolo buio, stava un essere che l’osservava in silenzio.

Quando i loro occhi s’incontrarono, lei sussurrò il suo nome.

«Khayman, mio Khayman.»

Si sentì svuotare la mente. Era come se una luce bianca discendesse su di lui e bruciasse ogni dettaglio. Per un momento sereno non provò nulla. Non sentì il fragore del fuoco che divampava, non sentì coloro che l’urtavano nel passargli accanto.

Si limitava a fissare la cosa, l’essere bellissimo e delicato, squisito com’era stato sempre. Un orrore insopportabile lo sopraffece. Ricordava tutto… tutto ciò che aveva visto, tutto ciò che era stato, tutto ciò che aveva saputo.

I secoli si spalancarono davanti a lui. I millenni si protesero fino a risalire all’inizio. La Prima Stirpe. Sapeva tutto. Rabbrividiva e piangeva. Sentì la propria voce dire, con tutto il rancore di un’accusa:

«Tu!»

All’improvviso, in un grande lampo ardente, sentì tutta la forza del potere rivelato. Il calore lo colpì al petto e lo fece arretrare barcollando.

Per gli dèi, ucciderai anche me! Ma lei non poteva udire i suoi pensieri. Si sentì scagliare contro il muro intonacato di bianco. Un dolore rovente lo colpì alla testa.

Tuttavia continuava a vedere, a sentire, a pensare! E il cuore batteva regolarmente come prima. Non bruciava!

E poi, con un calcolo improvviso, chiamò a raccolta le forze e lottò contro l’energia invisibile con un affondo violento della propria.

«Ah! è di nuovo una cattiveria, mia sovrana!» gridò nella lingua antica. Com’era umano il suono della sua voce!

Ma era tutto finito. Il vicolo era deserto. Lei non c’era più.

O più esattamente aveva preso il volo, s’era innalzata verticalmente come spesso aveva fatto anche lui, in modo così veloce che gli occhi non potevano vederla. Sì, sentiva la presenza che si allontanava. Alzò gli occhi e la individuò, senza molto sforzo… un minuscolo tratto di penna che si muoveva verso occidente, al di sopra delle nubi pallide.

I suoni brutali lo sconvolsero… sirene, voci, il crepitio della casa che bruciava, le travi che crollavano. La viuzza stretta era affollata; la musica chiassosa delle altre taverne non era cessata. Si allontanò, si allontanò piangendo, lanciando un ultimo sguardo al regno dei bevitori di sangue che erano morti. Ah, erano passati tanti millenni che non poteva contarli, eppure era sempre la stessa guerra.


Girovagò per ore per i vicoli bui.

Su Atene scese il silenzio. La gente dormiva dietro le pareti di legno. I marciapiedi luccicavano nella nebbia fitta come pioggia. La sua storia era come un gigantesco guscio di lumaca che si avvolgeva sopra di lui e lo inchiodava alla terra con il suo peso impossibile.

Alla fine salì una collina, ed entrò nella taverna fresca e lussuosa d’un grande albergo moderno, tutto vetro e acciaio. Era tutto bianco e nero, proprio come lui, con la pista da ballo a scacchi, i tavolini neri, le banquettes di pelle nera.

Sedette su una panca, senza che nessuno lo notasse, e nella semioscurità palpitante lasciò scorrere le lacrime. Pianse come uno sciocco, con la fronte appoggiata al braccio.

La follia non s’impadronì di lui, e neppure l’oblio. Vagava nei secoli, rivisitava i luoghi che aveva conosciuto con tenera, spensierata intimità. Pianse per tutti coloro che aveva conosciuto e amato.

Ma ciò che lo faceva soffrire soprattutto era il gran senso soffocante dell’inizio, il vero inizio, ancora prima del giorno remoto in cui s’era sdraiato nella sua casa in riva al Nilo, nella quiete meridiana, sapendo che quella sera avrebbe dovuto recarsi alla reggia.

Il vero inizio era venuto un anno prima quando il re aveva detto: «Se non fosse per la mia amata regina, mi prenderei piacere con quelle due donne. Dimostrerei che non sono streghe temibili. Lo farai tu al mio posto».

Era reale come quel momento: i cortigiani radunati, uomini e donne dagli occhi neri, dalle belle vesti di lino e dalle parrucche elaborate, alcuni nascosti dietro le colonne scolpite, altri orgogliosamente vicini al trono. E le gemelle dai capelli rossi che gli stavano davanti, le sue belle prigioniere che aveva finito per amare. Non posso far questo. Ma l’aveva fatto. Mentre la corte attendeva, e il re e la regina attendevano, aveva messo al collo il monile del re con il medaglione d’oro, per agire al posto del sovrano. Era sceso dai gradini del podio mentre le gemelle lo guardavano, e le aveva violate una dopo l’altra.

Sicuramente quella sofferenza non poteva durare.

Avrebbe voluto strisciare nelle viscere della terra, se ne avesse avuto la forza. Aspirava alla benedetta ignoranza. Andare a Delfi, vagare tra l’alta erba verde dal profumo dolce. Cogliere i minuscoli fiori selvatici. Si sarebbero schiusi per lui, come alla luce del sole, se li avesse temuti sotto la lampada?

Ma non voleva dimenticare. Qualcosa era cambiato, qualcosa aveva reso questo momento dissimile da ogni altro. Lei s’era destata dal lungo sonno! L’aveva veduta con i suoi occhi in una via di Atene! Passato e presente erano divenuti una cosa sola.

Mentre le lacrime si asciugavano, rimase in ascolto e pensò.

I ballerini si contorcevano davanti a lui sulla scacchiera illuminata. Le donne gli sorridevano. Lo vedevano come un bel Pierrot di porcellana, con la faccia bianca e le guance macchiate di rosso? Alzò gli occhi verso lo schermo video che palpitava e splendeva. I suoi pensieri divennero forti quanto i suoi poteri fisici.

Era il mese d’ottobre, verso la fine del ventesimo secolo dopo la nascita di Cristo. E appena poche notti prima aveva visto le gemelle in sogno! No. Era impossibile tirarsi indietro. Per lui la vera sofferenza stava appena incominciando, ma non aveva importanza. Era più vivo di quanto fosse mai stato.

Si asciugò lentamente il viso con un fazzoletto. Si lavò le dita nel bicchiere di vino che aveva davanti, come per consacrarle. E alzò di nuovo lo sguardo verso lo schermo video dove il vampiro Lestat cantava la sua tragica canzone.

Un demonio dagli occhi azzurri, con i capelli biondi scarmigliati, e le braccia e il torace possenti di un giovane. I movimenti erano bruschi e tuttavia eleganti, le labbra seducenti, la voce colma di sofferenza modulata.

E tu hai continuato a dirmelo per tutto questo tempo, no? Hai continuato a chiamare me! A chiamare il suo nome!

L’immagine dei video sembrava fissarlo, rispondere, cantare per lui, anche se in realtà non poteva vederlo. Coloro-che-devono-essere-conservati! Il mio re e la mia regina! Eppure ascoltava con attenzione totale ogni sillaba articolata meticolosamente nel frastuono dei corni e dei tamburi.

E solo quando il suono e l’immagine svanirono si alzò e lasciò la taverna per vagare senza meta nei freschi corridoi di marmo dell’hotel e avventurarsi fuori, nell’oscurità.

Le voci lo chiamavano, le voci dei bevitori di sangue di tutto il mondo. Quelle voci erano sempre esistite. Parlavano di una calamità, della necessità di convergere per prevenire un orrido disastro. La Madre si è levata! Parlavano dei sogni delle gemelle, e non li comprendevano. E lui era stato sordo e cieco a tutto questo!

«Quante cose non comprendi, Lestat!» mormorò.

Finalmente salì su un promontorio buio e guardò l’Acropoli e i templi… i marmi bianchi spezzati che splendevano sotto le stelle fioche.

«Che tu sia maledetta, mia sovrana!» sussurrò. «Che tu sia dannata per ciò che hai fatto a tutti noi!» E pensare che in questo mondo d’acciaio e di benzina, di ruggenti sinfonie elettroniche e di silenziosi circuiti di computer, noi esistiamo ancora.

Ma un’altra maledizione ritornò, molto più forte di questa. Era venuta un anno dopo il momento terribile in cui aveva violentato le due donne… una maledizione urlata nel cortile della reggia, sotto un cielo notturno distante e indifferente come questo.

«Gli spiriti siano testimoni: perché a essi appartiene la conoscenza del futuro, di ciò che sarebbe e di ciò che io voglio: tu sei la Regina dei Dannati, ecco ciò che sei. Il male è il tuo unico destino. Ma nella tua ora più grande, sarò io a sconfiggerti. Guardami bene in faccia. Sono io che ti abbatterò.»

Quante volte, durante i primi secoli, aveva ricordato quelle parole? In quanti luoghi, fra i deserti e le montagne e le fertili valli fluviali, aveva cercato le sorelle dai capelli rossi? Fra i beduini che un tempo le avevano ospitate, tra i cacciatori che ancora vestivano di pelli, e tra gli abitanti di Gerico, la città più antica del mondo. Appartenevano già alla leggenda.

E poi era discesa la follia benedetta: aveva perduto la conoscenza, il rancore e il dolore. Era Khayman, colmo d’amore per tutto ciò che vedeva intorno a sé: un essere che comprendeva la parola gioia.

Possibile che fosse giunta l’ora? Possibile che le gemelle fossero sopravvissute come lui? E che la memoria gli fosse stata restituita per quel grande scopo?

Ah, che pensiero splendido e travolgente, l’idea che la Prima Stirpe si ritrovasse, che la Prima Stirpe conoscesse finalmente la vittoria.

Ma con un sorriso amaro pensò alle umane aspirazioni eroiche del vampiro Lestat. Sì, fratello mio, perdona il mio disprezzo. Anch’io desidero il bene e la gloria. Ma probabilmente non esiste un destino e non esiste la redenzione. Solo ciò che vedo davanti a me, mentre sto al di sopra di questo antico paesaggio contaminato… soltanto la nascita e la morte, e gli orrori che ci attendono tutti.

Rivolse un’ultima occhiata alla città addormentata, al luogo moderno e sgraziato e divorato dagli affanni dove era stato così contento e dove aveva vagato su innumerevoli tombe antiche.

E poi ascese, e in pochi secondi s’innalzò sopra le nubi. Ora sarebbe venuta la prova più grande del dono magnifico: amava quel senso di finalità, per quanto fosse illusorio. Si diresse verso ovest, verso il vampiro Lestat, verso le voci che invocavano di comprendere i sogni delle gemelle. Si diresse verso ovest, come già lei aveva fatto.

Il suo mantello si allargò come un paio d’ali e la deliziosa aria fredda l’investì e lo fece ridere all’improvviso, come se per un momento fosse ridiventato il sempliciotto felice.

6. LA STORIA DI JESSE, LA GRANDE FAMIGLIA E IL TALAMASCA

I morti non partecipano.

Sebbene si protendano verso di noi

dalla tomba (e giuro

che lo fanno) non ci affidano

i loro cuori.

Ci porgono le loro teste,

la parte che osserva.

Stan Rice

da «Their Share»

Body of Work (1983)


Coprile il volto; i miei occhi sono abbagliati; è morta giovane.

John Webster




IL TALAMASCA
Investigatori del Paranormale
Noi osserviamo
E siamo sempre qui.
Londra Amsterdam Roma

Jesse gemeva nel sonno. Era una donna delicata di trentacinque anni, dai lunghi riccioli rossi. Era sprofondata su un materasso di piume, in un letto di legno appeso al soffitto da quattro catene arrugginite. Nella grande casa suonò un orologio. Doveva svegliarsi. Mancavano due ore al concerto del vampiro Lestat. Ma proprio in quel momento non poteva lasciare le gemelle.

Quella era una nuova parte che le si rivelava tanto rapidamente, sebbene il sogno fosse indistinto, come sempre i sogni delle gemelle. Tuttavia sapeva che le gemelle erano di nuovo nel regno del deserto. La folla che le stava attorno era molto pericolosa. Come apparivano diverse e pallide ora le gemelle. Forse quel fulgore fosforescente era un’illusione, ma parevano risplendere nella semioscurità, e i loro movimenti erano languidi, quasi fossero presi dal ritmo di una danza. Le torce venivano protese verso di loro mentre si abbracciavano: ma ecco, qualcosa non andava, non andava affatto. Adesso una di loro era cieca.

Le palpebre erano chiuse, raggrinzite e infossate. Sì, le avevano strappato gli occhi. E l’altra? Perché l’altra emetteva quei suoni terribili? «Taci, non lottare più», disse la cieca, nell’antica lingua che era sempre comprensibile nei sogni. E dalla gola dell’altra gemella usciva un orrido gemito gutturale. Non poteva parlare. Le avevano tagliato la lingua.

Non voglio vedere altro. Voglio svegliarmi. Ma i soldati avanzavano tra la folla, stava per accadere qualcosa di orribile, e all’improvviso le gemelle restavano immobili. I soldati le afferravano e le separavano.

Non separatele! Non sapete cosa significa per loro? Lasciatele! Gettate via le torce! Non bruciatele! Non bruciate i loro capelli rossi.

La gemella cieca allungò le braccia e tese le mani verso la sorella e gridò il suo nome: «Mekare!» E Mekare, la muta che non poteva rispondere, ruggiva come una belva ferita.

La folla faceva largo a due immensi sarcofaghi di pietra, trasportati su grandi, pesanti lettighe. Erano sarcofaghi rozzi; tuttavia i coperchi avevano le forme rudimentali di volti e membra umani. Che cos’hanno fatto le gemelle, perché le mettano in quelle bare? Non lo sopporto: le bare vengono deposte a terra, le gemelle vengono trascinate avanti, i coperchi di pietra vengono sollevati. Non fatelo! La cieca lotta come se vedesse, eppure la sopraffanno, la sollevano, la depongono all’interno. In preda a un muto terrore, Mekare osserva, mentre viene trascinata all’altra bara. Non abbassate il coperchio, o io urlerò anche per Mekare! Urlerò per entrambe…

Jesse si mise a sedere, con gli occhi aperti. Aveva urlato.

Sola, in quella casa dove nessuno poteva udirla, aveva urlato e sentiva ancora l’eco. Poi più nulla, se non il silenzio che discendeva intorno a lei, il lieve scricchiolio del letto che ondeggiava appeso alle catene e il canto degli uccelli fuori nella foresta, la foresta fitta. Jesse aveva la curiosa consapevolezza che l’orologio aveva suonato le sei.

Il sogno si dileguava rapidamente. Cercò di fermarlo, disperatamente, di vedere i dettagli che sfuggivano sempre più rapidamente… le vesti di quella gente, le armi dei soldati, i volti delle gemelle! Ma tutto era ormai svanito. Restavano soltanto l’incantesimo e una coscienza acuta di ciò che era accaduto… e la certezza che il vampiro Lestat fosse legato a quei sogni.

Controllò l’orologio. Non le restava più tempo. Voleva essere all’auditorium quando fosse entrato il vampiro Lestat; voleva trovarsi ai piedi del palcoscenico.

Eppure esitava, fissando le rose bianche sul comodino. Dalla finestra aperta vedeva il cielo meridionale, pieno di un fievole chiarore arancio. Prese il biglietto accanto ai fiori e lo rilesse ancora una volta.


Mia cara,

ho appena ricevuto la tua lettera; dato che sono lontana da casa ha impiegato diverso tempo per raggiungermi. Capisco il fascino che quell’essere, Lestat, esercita su di te. Suonano la sua musica persino a Rio. Ho già letto i libri che mi hai inviato. E so delle tue indagini su quell’essere per conto del Talamasca. In quanto ai tuoi sogni sulle gemelle, dovremo parlarne. È della massima importanza. Perché vi sono altri che hanno gli stessi sogni. Ma ti prego… anzi no, ti ordino di non andare a quel concerto. Devi rimanere nel complesso di Sonoma fino al mio arrivo. Lascerò il Brasile al più presto possibile. Aspettami. Ti voglio bene.

Tua zia Maharet


«Maharet, mi dispiace», mormorò Jesse tra sé. Ma era impensabile per lei non andare al concerto. E se al mondo c’era qualcuno che avrebbe capito, era Maharet.

Il Talamasca, per il quale aveva lavorato per dodici lunghi anni, non le avrebbe perdonato se avesse disobbedito agli ordini. Ma Maharet conosceva la ragione. Maharet era la ragione. Maharet avrebbe perdonato.

Era stordita. L’incubo non aveva ancora cessato il suo effetto. Gli oggetti sparsi nella stanza sparivano nell’ombra, e tuttavia il crepuscolo splendeva così fulgido e improvviso, che persino le colline boscose restituivano la luce. E le rose erano fosforescenti, come la pelle bianca delle gemelle nel sogno.

Rose bianche… Si sforzò di ricordare qualcosa che aveva sentito dire a proposito delle rose bianche. Si mandano le rose bianche a un funerale. Ma no, Maharet non poteva averlo pensato davvero.

Jesse prese uno dei fiori con entrambe le mani e i petali si staccarono immediatamente. Che dolcezza. Se le portò alle labbra: e ritornò a lei un’immagine fievole e tuttavia lucente da un’estate lontana, l’immagine di Maharet in quella casa, in una stanza illuminata dalle candele, distesa su un letto di petali di rose, tanti petali bianchi, gialli e rosa, che aveva raccolto e accostato al volto e alla gola.

Jesse l’aveva veduto veramente? Tanti petali di rosa impigliati nei lunghi capelli rossi di Maharet. Capelli come quelli di Jesse. Come quelli delle gemelle del sogno… folti e ondulati e striati d’oro.

Era uno dei cento ricordi frammentari che successivamente non sarebbe riuscita a inserire in un quadro generale. Ma non aveva più importanza, ciò che poteva o non poteva ricordare di quell’estate sognante e perduta. Il vampiro Lestat attendeva: vi sarebbe stata una conclusione, se non una risposta.

Si alzò. Indossò il giubbotto liso, che era come la sua seconda pelle, sopra la camicia da uomo aperta sul collo, e i jeans. Infilò gli stivali logori. Si passò la spazzola sui capelli.

E adesso doveva prendere congedo dalla casa vuota che aveva occupato quella mattina. Le dispiaceva lasciarla. Ma venire lì l’aveva fatta soffrire ancora di più.


Alla prima luce era arrivata al margine della radura, ed era rimasta sorpresa nello scoprire che era immutata dopo quindici anni: un ampio edificio costruito ai piedi della montagna, con i tetti e i colonnati velati dai tralci dei convolvoli azzurri. In alto, seminascoste sui pendii erbosi, alcune finestrelle segrete rispecchiavano i primi bagliori della luce mattutina.

S’era sentita come una spia, quando aveva salito i gradini tenendo in mano la vecchia chiave. A quanto pareva nessuno era stato lì da mesi. C’erano foglie e polvere ovunque.

Eppure c’erano le rose che attendevano nel vaso di cristallo, e la lettera destinata a lei appuntata alla porta, in una busta che conteneva anche la nuova chiave per la porta d’ingresso.

Per ore e ore aveva vagato, esplorato, rivisitato. Non aveva importanza che fosse stanca, e che avesse guidato per tutta la notte. Doveva percorrere le lunghe gallerie in ombra, muoversi nelle stanze spaziose e imponenti. La casa non le era mai sembrata tanto simile a un palazzo rudimentale, con le enormi travi di legno che reggevano i soffitti a tavolato, e i comignoli arrugginiti che salivano dai focolai rotondi di pietra.

Anche i mobili erano massicci, i tavoli, le poltrone e i divani di legno non rifinito carichi di soffici cuscini di piuma, scaffali e nicchie ricavati nelle pareti di adobe.

Quel luogo aveva una rozza grandiosità medievale. Gli oggetti d’arte maya, le coppe etnische e le statuette ittite sembravano perfettamente inseriti tra le finestre incassate e i pavimenti di pietra. Era come una fortezza. Dava una sensazione di sicurezza.

Solo le creazioni di Maharet erano piene di colori brillanti come se li avessero sottratti agli alberi e al cielo. Il ricordo non ne aveva esagerato la bellezza. I tappeti di lana morbidi e spessi che ripetevano il motivo dei fiori e delle erbe dei boschi, come se il tappeto fosse la terra. E gli innumerevoli cuscini con le bizzarre figure stilizzate e gli strani simboli, e infine le gigantesche trapunte appese, arazzi moderni che coprivano le pareti con immagini infantili di campi, ruscelli, montagne e foreste, cieli dove troneggiavano insieme il sole e la luna, e nubi splendide e pioggia. Avevano la potenza vibrante della pittura primitiva con quella miriade di pezzetti di stoffa, cuciti così meticolosamente da creare il dettaglio dell’acqua che precipitava e della foglia che cadeva.

Jesse s’era sentita morire nel rivedere tutto ciò.


A mezzogiorno, affamata e stordita dalla lunga notte di veglia, aveva trovato il coraggio di alzare il paletto della porta sul retro, che portava alle stanze prive di finestre all’interno della montagna. Aveva seguito il passaggio di pietra trattenendo il respiro. Il cuore le batteva forte quando aveva trovato la biblioteca e aveva acceso le lampade.

Ah, quindici anni prima, l’estate più felice della sua vita. Tutte le successive avventure meravigliose, la caccia ai fantasmi per conto del Talamasca, non erano paragonabili a quel periodo magico e indimenticabile.

Lei e Maharet insieme in quella biblioteca, con il fuoco acceso. E gli innumerevoli volumi della storia della famiglia che la sbalordivano e l’entusiasmavano. L’albero genealogico della «Grande Famiglia», come la chiamava sempre Maharet, «il filo al quale ci aggrappiamo nel labirinto che è la vita». Con quanta affettuosa cura aveva preso i libri per Jesse e le aveva aperto i forzieri che contenevano i vecchi rotoli di pergamena.

Jesse non aveva accettato completamente, quell’estate, le implicazioni di tutto ciò che aveva visto. C’era stata una lenta confusione, una deliziosa sospensione della realtà ordinaria, come se i papiri coperti da una scrittura inclassificabile appartenessero più giustamente al sogno. Dopotutto, Jesse era già diventata un’esperta archeologa, a quel tempo. Aveva partecipato agli scavi in Egitto e a Gerico. Eppure non riusciva a decifrare quegli strani glifi. In nome di Dio, quanto erano antichi?

Poi, per anni, aveva cercato di ricordare altri documenti che aveva veduto. Sicuramente una mattina era entrata nella biblioteca e aveva scoperto una stanza sul retro, con una porta aperta.

S’era avviata in un lungo corridoio, passando davanti ad altre stanze buie. Aveva trovato un interruttore della luce, e infine aveva visto un grande magazzino pieno di tavolette d’argilla… tavolette coperte di minuscole figure! Senza dubbio, le aveva tenute fra le mani.

Era accaduto anche qualcos’altro, qualcosa che non aveva mai desiderato veramente rievocare. C’era un altro corridoio? Sapeva con certezza che c’era una scala ricurva, in ferro, che l’aveva portata giù, nelle camere inferiori dalle semplici pareti di terra. C’erano minuscole lampadine in vecchi portalampada di porcellana. Per accenderle, aveva tirato le catenelle che penzolavano da ciascuno.

Sicuramente l’aveva fatto. Sicuramente aveva aperto una pesante porta di legno di sequoia…

Poi, per anni, le immagini le erano tornate fulminee alla mente, come dei piccoli lampi… un’immensa camera bassa con sedie di quercia, un tavolo e panche che sembravano di pietra. E che altro? Qualcosa che in un primo momento le era parso molto familiare. E poi…

Più tardi non aveva ricordato altro che la scala. All’improvviso erano le dieci, lei s’era appena svegliata e Maharet era ai piedi del letto. Maharet s’era avvicinata e l’aveva baciata. Un bacio caldo, meraviglioso che l’aveva pervasa di una sensazione palpitante. Maharet le disse che l’avevano trovata accanto al ruscello, addormentata nella radura e al tramonto l’avevano portata in casa.

In riva al ruscello? Per mesi e mesi, Jesse aveva «ricordato» di essersi addormentata là. In effetti era un vero e proprio ricordo, ricco dei dettagli della pace e del silenzio della foresta, dell’acqua che cantava sulle pietre. Tutto questo non era mai accaduto: adesso ne era sicura.

Ma dopo quindici anni non aveva trovato prove, in un senso o nell’altro, di quelle cose vagamente riaffiorate alla memoria. Le stanze erano sbarrate. Persino i volumi con la storia della famiglia erano chiusi nelle vetrine che lei non osava toccare.

Tuttavia aveva creduto con tanta fermezza in ciò che riusciva a ricordare. Sì, tavolette d’argilla coperte di minuscole figure filiformi per rappresentare persone, alberi, animali. Le aveva viste, le aveva tolte dagli scaffali, le aveva tenute sotto la lampada fioca. La scala e la stanza la spaventavano, no, anzi, la terrorizzavano… sì, con tutto il resto.

Eppure era stato un paradiso, in quei caldi giorni e in quelle calde notti d’estate, quando per ore e ore aveva parlato con Maharet e aveva danzato con Mael e Maharet alla luce della luna. Per ora era meglio dimenticare la sofferenza che aveva provato più tardi quando aveva cercato di comprendere perché Maharet l’aveva rimandata a casa a New York e non l’aveva più fatta ritornare.


Mia cara,

la verità è che ti amo troppo. La mia vita assorbirà la tua se non saremo separate. Devi avere la libertà, Jesse, la libertà di realizzare i tuoi piani, le ambizioni e i sogni…


Non era per rivivere la vecchia sofferenza che era ritornata, ma per conoscere ancora, solo per un poco, la gioia che l’aveva preceduta.


Quel pomeriggio, lottando contro la debolezza, era uscita dalla casa, aveva percorso il lungo viottolo fra le querce. Era così facile ritrovare i vecchi sentieri fra le sequoie. E la radura, cinta di felci e di trifoglio sulle scoscese rive sassose del ruscello tumultuoso e poco profondo.

Lì, una volta, Maharet l’aveva guidata attraverso l’oscurità assoluta, nell’acqua e lungo un sentiero di pietre. Mael le aveva raggiunte. Maharet aveva versato il vino per Jesse, e avevano cantato insieme un canto che più tardi Jesse non era riuscita a ricordare, anche se ogni tanto si sorprendeva a canticchiare quella bizzarra melodia con inesplicabile esattezza; ma poi s’interrompeva quando ne diventava cosciente e non riusciva a ritrovare la nota giusta.

Forse si sarebbe addormentata in riva al ruscello, tra i suoni profondi della foresta: era tutto così simile a quella specie di «ricordo» di tanti anni prima.

Il verde brillante degli aceri era così fulgido nei rari raggi di luce. E come apparivano mostruose le sequoie nella quiete ininterrotta: colossali, indifferenti, svettavano a decine e decine di metri prima che la trina cupa delle loro fronde si chiudesse sul margine sfrangiato del cielo.

E lei aveva saputo cosa le sarebbe costato il concerto di quella sera, con i fans urlanti di Lestat. Ma aveva avuto paura che ricominciasse il sogno delle gemelle.


Finalmente era tornata in casa e aveva portato con sé le rose e la lettera. La sua vecchia camera. Le tre. Chi caricava gli orologi di quel luogo? Il sogno delle gemelle la perseguitava. Ed era troppo stanca per continuare a lottare. Quel posto le sembrava così sereno. Non c’erano fantasmi del genere che aveva incontrato tante volte nel suo lavoro. Soltanto la pace. S’era sdraiata sul vecchio letto sospeso, sopra la trapunta che lei stessa aveva confezionato accuratamente con Maharet, quell’estate. E il sonno e le gemelle erano venuti nello stesso istante.


Adesso aveva due ore per raggiungere San Francisco, e doveva lasciare di nuovo quella casa, forse piangendo. Controllò le tasche. Passaporto, documenti, denaro, chiavi.

Prese la borsa di pelle, l’appese alla spalla e si avviò nel lungo corridoio che portava alla scala. L’oscurità scendeva rapidamente: e quando avesse avvolto la foresta, nulla sarebbe più stato visibile.

C’era ancora un po’ di sole nella sala principale quando vi entrò. Dalle finestre a occidente, altri raggi polverosi illuminavano l’immenso arazzo appeso alla parete.

Jesse lo guardò e trattenne il respiro. Era sempre stato il suo preferito, perché era grande e complesso. In un primo momento sembrava una massa di toppe piazzate a caso… e poi, gradualmente, il paesaggio boscoso emergeva dalla miriade di pezzetti di tessuto. Lo si vedeva per un istante, e un attimo dopo spariva. Era accaduto tante volte durante quell’estate quando, ubriaca di vino, aveva camminato avanti e indietro di fronte a esso, e aveva perso l’immagine e l’aveva ritrovata: la montagna, la foresta, un minuscolo villaggio annidato nella valle sottostante.

«Mi dispiace, Maharet», sussurrò di nuovo, a voce bassa. Doveva andare. Il suo viaggio era quasi terminato.

Ma mentre distoglieva lo sguardo, qualcosa nel paesaggio trapunto attirò la sua attenzione. Tornò a voltarsi, a studiarlo. C’erano figure che non aveva mai visto? Ancora una volta era uno sciame di frammenti cuciti insieme. Poi, lentamente, emerse il fianco della montagna, gli ulivi e infine i tetti del villaggio, solo delle casupole gialle sparse sul fondovalle. Le figure? Non riusciva a trovarle. Cioè, fino a quando girò di nuovo la testa. Con la coda dell’occhio le scorse per una frazione di secondo. Due figurine minuscole che si tenevano abbracciate: due donne dai capelli rossi.

Lentamente, cautamente, tornò a girarsi verso il paesaggio. Il suo cuore batteva forte. Sì, là. Ma era un’illusione?

Attraversò la stanza e si fermò davanti alla trapunta. Tese la mano e la toccò. Sì! Ogni pupazzetto aveva un paio di bottoncini verdi per occhi, un naso cucito meticolosamente e una bocca rossa! E i capelli, i capelli erano di filato rosso, disposto in onde irregolari e cucito delicatamente sulle spalle bianche.

Restò a fissare la scena, come incredula. Eppure erano lì… le gemelle! E lei era impietrita. Nella stanza incominciò a scendere l’oscurità. L’ultima luce era calata sotto l’orizzonte. Davanti ai suoi occhi, la trapunta sbiadiva in un complesso illeggibile.

Stordita, sentì l’orologio suonare il quarto. Chiama il Talamasca. Chiama David a Londra. Raccontagli una parte dell’accaduto, qualunque cosa… Ma era fuori questione e lo sapeva. E le spezzava il cuore rendersi conto che, qualunque cosa le accadesse quella notte, il Talamasca non sarebbe mai venuto a conoscenza dell’intera storia.

S’impose di andarsene, di chiudersi la porta alle spalle, di attraversare il portico, e di avviarsi per il lungo sentiero.

Non comprendeva pienamente i suoi sentimenti, non capiva perché era così sconvolta e sull’orlo delle lacrime. Confermava i suoi sospetti, tutto ciò che credeva di sapere. Eppure era spaventata. E piangeva.

Attendi Maharet.

Ma non poteva. Maharet l’avrebbe incantata e confusa, l’avrebbe allontanata dal mistero in nome dell’amore. Era quanto era avvenuto in quell’estate di tanto tempo prima. Il vampiro Lestat non nascondeva nulla. Il vampiro Lestat era l’elemento cruciale del mosaico. Vederlo e toccarlo avrebbe significato convalidare tutto.

La rossa Mercedes spider partì immediatamente. In uno zampillo di ghiaia fece marcia indietro, girò, si diresse verso la stretta via sterrata. La cappotta era abbassata: si sarebbe gelata prima di arrivare a San Francisco. Le piaceva l’aria fredda sul volto e le piaceva correre.

La strada affondò subito nel buio dei boschi. Lì non poteva penetrare neppure la luce della luna nascente. Jesse accelerò affrontando con disinvoltura le curve improvvise. La sua tristezza si appesantì: ma non pianse più. Il vampiro Lestat… fra poco l’avrebbe raggiunto.

La nebbia saliva dalla costa, trasformava in fantasmi le colline scure a est e a ovest. Tuttavia i fari illuminavano la strada davanti a lei. La sua eccitazione cresceva. Fra un’ora sarebbe arrivata al Golden Gate. La tristezza si dileguava. Per tutta la vita era stata fiduciosa e aveva avuto fortuna; a volte s’era spazientita con le persone troppo caute che aveva conosciuto. E nonostante il senso di fatalità di quella notte e l’acuta consapevolezza dei pericoli cui andava incontro, sentiva che forse la solita fortuna l’accompagnava. Non aveva paura.


Secondo lei era nata fortunata. Era stata trovata sul bordo della strada pochi minuti dopo l’incidente che aveva ucciso la madre adolescente, incinta di sette mesi… una neonata espulsa prematuramente dall’utero, che strillava per liberarsi i minuscoli polmoni, quando era sopraggiunta l’ambulanza.

Non aveva avuto nome, durante le due settimane in cui aveva languito nell’ospedale della contea, condannata per ora alla sterilità e al freddo delle macchine; ma le infermiere l’adoravano, l’avevano soprannominata passerottina, la coccolavano e appena potevano cantavano per lei.

Ancora dopo molti anni le avrebbero scritto, le avrebbero mandato fotografie, le avrebbero raccontato piccoli aneddoti che avevano aumentato in lei la sensazione di essere amata.

E alla fine Maharet era venuta a prenderla; l’aveva identificata come l’unica superstite della famiglia Reeves del South Carolina, e l’aveva portata a New York, a vivere con certi cugini dal cognome e dall’origine diversa. Là sarebbe cresciuta in un vecchio, lussuoso appartamento a due piani in Lexington Avenue, con Maria e Matthew Godwin, che le avevano dato non soltanto affetto, ma anche tutto ciò che poteva desiderare. Una governante inglese avrebbe dormito nella sua camera fino a quando non avesse compiuto dodici anni.

Non riusciva a ricordare quando era venuta a conoscenza che sua zia Maharet aveva provveduto a lei, che avrebbe potuto frequentare qualunque università e dedicarsi a qualunque carriera desiderasse. Matthew Godwin era dottore; Maria era stata ballerina e insegnante; ammettevano con franchezza di essere attaccati a Jesse, di avere bisogno di lei. Era la figlia che avevano sempre desiderato, e quelli erano stati anni piacevoli e felici.

Le lettere di Maharet avevano incominciato ad arrivare quando era diventata abbastanza grande per leggerle. Erano meravigliose, spesso piene di cartoline coloratissime e di strane banconote dei paesi dove viveva Maharet. Jesse aveva un cassetto pieno di rupie e di lire, prima ancora di raggiungere i diciassette anni. Ma soprattutto aveva in Maharet un’amica che rispondeva con sentimento e attenzione a ogni riga scritta da lei.

Era Maharet che la ispirava nella lettura, la incoraggiava a prendere lezioni di musica e di pittura, le organizzava le visite estive in Europa: e alla fine l’aveva fatta ammettere alla Columbia University, dove aveva studiato lingue e arte antiche.

Era Maharet che combinava le visite natalizie presso i cugini europei, gli Scartino in Italia, una potente famiglia di banchieri che viveva in una villa nei pressi di Siena, e i Borchardt parigini, che l’accoglievano con entusiasmo nella loro casa sovraffollata e sempre gaia.

L’estate in cui Jesse aveva compiuto i diciassette anni era andata a Vienna per conoscere il ramo russo emigrato della famiglia, giovani intellettuali e musicisti che le erano molto simpatici. Poi era andata in Inghilterra a conoscere la famiglia Reeves imparentata direttamente con i Reeves del South Carolina, che avevano lasciato secoli prima il vecchio continente.

A diciotto anni era andata a trovare i cugini Petralona nella loro villa di Santorini. Erano greci molto ricchi e dall’aria esotica che vivevano in uno splendore quasi feudale, circondati da servitori contadini; e con una decisione improvvisa avevano portato Jesse sul loro yacht in una crociera a Istanbul, Alessandria e Creta.

Jesse s’era quasi innamorata del giovane Constantin Petralona. Maharet le aveva fatto sapere che il matrimonio sarebbe stato approvato da tutti, ma che doveva decidere da sé. Jesse aveva detto addio all’innamorato ed era tornata in America e all’università, per prepararsi al suo primo scavo archeologico in Iraq.

Ma anche durante gli anni degli studi era rimasta vicina alla famiglia. Tutti erano buoni con lei. Ma erano buoni anche con gli altri. Tutti credevano nella famiglia. Si scambiavano molte visite e i frequenti matrimoni tra loro avevano creato inestricabili intrichi di parentela; in ogni casa c’erano sempre stanze a disposizione dei parenti che potevano capitare. Gli alberi genealogici sembravano risalire a tempi antichissimi; tutti raccontavano aneddoti su parenti famosi morti da tre o quattrocento anni. Jesse aveva sempre provato una grande comunione con quella gente, anche se sembrava così diversa.

A Roma poi era rimasta affascinata dai cugini che lanciavano le loro Ferrari a velocità vertiginose, con gli stereo al massimo, e la notte rincasavano in un vecchio palazzo meraviglioso dove gli impianti igienici funzionavano male e il tetto sgocciolava. I cugini ebrei della California meridionale erano un adorabile assortimento di musicisti, stilisti e produttori che in un modo o nell’altro erano legati da cinquant’anni al cinema. La loro vecchia casa presso Hollywood Boulevard ospitava una ventina di attori disoccupati. Jesse poteva vivere nell’attico, se voleva; la cena veniva servita alle sei a chiunque capitasse.

Ma chi era Maharet, che era sempre stata la tutrice lontana e attenta di Jesse, che guidava i suoi studi con lettere frequenti e premurose e le dava l’orientamento personale cui reagiva in modo tanto produttivo?

Per tutti i cugini che Jesse visitava, Maharet era una presenza concreta, anche se le sue visite erano così poco frequenti da apparire memorabili. Era lei che custodiva gli archivi della Grande Famiglia, di tutti i rami che esistevano sotto molti cognomi in tutto il mondo. Era lei che spesso faceva incontrare i vari componenti, e combinava matrimoni per unire i diversi rami; era lei che poteva dare aiuto nei momenti difficili… un aiuto che a volte significava la differenza fra la vita e la morte.

Prima di Maharet c’era stata sua madre, che adesso veniva chiamata la Vecchia Maharet, e prima ancora la Prozia Maharet, e così via, e questo era nella memoria di tutti. «Ci sarà sempre una Maharet», era un detto di famiglia, ripetuto in italiano, in tedesco, in russo, in yiddish o in greco. In ogni generazione c’era sempre una discendente che portava quel nome e si addossava il compito di tenere la documentazione: o almeno così sembrava, perché nessuno, tranne la stessa Maharet, conosceva quei dettagli.

«Quando ti conoscerò?» aveva scritto molte volte Jesse nel corso degli anni. Aveva raccolto i francobolli staccandoli dalle buste giunte da Delhi e Rio e Città del Messico, da Bangkok e Tokyo e Lima e Saigon e Mosca.

Tutta la famiglia era affezionata a quella donna; ma per Jesse c’era un altro legame segreto e potente.

Fin dai primi anni di vita Jesse aveva avuto esperienze «insolite», diverse da quelle della gente che le stava intorno.

Per esempio, Jesse sapeva leggere i pensieri altrui in modo vago, nebuloso. «Sapeva» quando qualcuno la detestava o le mentiva. Aveva il dono delle lingue perché spesso comprendeva il senso di un discorso anche quando non conosceva il vocabolario.

E vedeva i fantasmi… persone e cose che non potevano esistere.

Quand’era molto piccola, spesso vedeva l’indistinta sagoma grigia di una casa elegante di fronte alla sua finestra, a Manhattan. Sapeva che non era reale; e all’inizio l’aveva fatta ridere il modo in cui appariva e spariva, a volte sembrava trasparente, a volte solida come la strada, con le luci accese dietro le tende di pizzo. Erano passati anni prima che scoprisse che quella casa, un tempo, era di proprietà dell’architetto Stanford White, e che era stata demolita diversi decenni prima.

Le immagini umane che vedeva non le si presentavano, all’inizio, altrettanto ben formate. Al contrario, erano brevi apparizioni indistinte e spesso aggravavano il disagio inesplicabile che provava in certi luoghi particolari.

Ma con il passare del tempo i fantasmi erano diventati più visibili, più permanenti. Una volta, in un buio pomeriggio piovoso, la figura trasparente d’una vecchia s’era avviata verso di lei e l’aveva addirittura attraversata. In preda all’isteria, Jesse era entrata correndo in un negozio, dove i commessi avevano telefonato a Matthew e Maria. Jesse aveva cercato più volte di descrivere il viso turbato della vecchia, gli occhi sbarrati che sembravano non vedere il mondo reale circostante.

Spesso gli amici non le credevano quando descriveva queste cose. Ma restavano affascinati e la pregavano di ripetere i suoi racconti. A Jesse rimaneva una spiacevole sensazione di vulnerabilità. Perciò cercava di non parlare dei fantasmi, anche se nell’adolescenza vedeva sempre più spesso quelle anime perdute.

Persino quando camminava tra la folla della Quinta Strada, a mezzogiorno, vedeva quegli esseri pallidi. Poi una mattina in Central Park, quando aveva sedici anni, aveva visto l’apparizione di un giovane, seduto su una panchina poco lontano da lei. Il parco era affollato e rumoroso: tuttavia la figura pareva distaccata, come se non fosse partecipe di quanto l’attorniava. I suoni intorno a Jesse avevano incominciato a smorzarsi, come se quell’essere li assorbisse. Aveva pregato perché scomparisse; e subito il giovane s’era voltato, l’aveva fissata e aveva tentato di parlarle.

Jesse era corsa a casa, in preda al panico. Ora quegli esseri la conoscevano, aveva detto a Matthew e a Maria. Aveva paura di uscire dall’appartamento. Matthew le aveva dato un sedativo e le aveva detto che sarebbe riuscita a dormire. E aveva lasciato aperta la porta, in modo che non avesse paura.

Mentre Jesse era semiaddormentata, era entrata una ragazza. Jesse si rendeva conto di conoscerla: naturalmente faceva parte della famiglia, era sempre stata accanto a lei e avevano parlato molte volte, non era una sorpresa che fosse così giovane e affettuosa e familiare. Era un’adolescente, non più vecchia di lei.

La ragazza s’era seduta sul letto e aveva detto a Jesse che non doveva preoccuparsi, e che gli spiriti non potevano farle del male. Nessun fantasma aveva mai fatto del male a qualcuno. Non ne avevano il potere. Erano povere cose deboli e patetiche. «Scrivi alla zia Maharet», aveva detto la ragazza; aveva baciato Jesse e le aveva scostato i capelli dal viso. Il sedativo aveva fatto effetto; Jesse non riusciva a tenere gli occhi aperti. Voleva chiedere qualcosa a proposito dell’incidente d’auto quand’era nata, ma non le veniva in mente. «Ciao, tesoro», aveva detto la ragazza, e Jesse s’era addormentata prima che l’altra se ne andasse.

Quando s’era svegliata erano le due del mattino. L’appartamento era buio. Aveva subito cominciato a scrivere a Maharet, per raccontare tutti gli episodi strani che ricordava.

Solo all’ora di cena aveva pensato alla ragazza con un trasalimento. Era impossibile che avesse vissuto lì e fosse sempre stata presente. Come aveva potuto crederlo? Persino nella lettera aveva scritto: «Naturalmente Miriam era qui, e ha detto…» E chi era Miriam? Un nome sul certificato di nascita di Jesse. Sua madre.

Jesse non aveva detto a nessuno quanto era accaduto. Tuttavia si sentiva avvolta da un senso di calore confortante. Poteva sentire la presenza di Miriam, ne era sicura.

La lettera di Maharet era arrivata dopo cinque giorni. Maharet le credeva. Le apparizioni degli spiriti non erano per nulla sorprendenti. Esistevano, senza dubbio, e Jesse non era la sola persona che li vedeva.


Nella nostra famiglia per generazioni sono stati in molti quelli capaci di vedere gli spiriti. E come sai, erano i maghi e le streghe delle epoche passate. Spesso questo potere appartiene a coloro che hanno i tuoi stessi attributi fisici, gli occhi verdi, la pelle chiara e i capelli rossi. Sembra che tali geni siano indissolubili. Forse un giorno la scienza spiegherà questa caratteristica. Ma per ora sii certa che i tuoi poteri sono del tutto naturali. Ciò non significa, tuttavia, che siano costruttivi. Sebbene gli spiriti siano reali, non comportano molte differenze nello schema delle cose. Possono essere puerili, vendicativi e ingannevoli. In generale non puoi aiutare le entità che tentano di comunicare con te, e a volte vedi soltanto uno spettro privo di vita… cioè un’eco visuale di una personalità non più presente da molto tempo.

Non temerli, ma non permettere che ti facciano sprecare tempo. È ciò che amano fare, quando sanno che puoi vederli. In quanto a Miriam, devi dirmi se la rivedrai. Ma poiché mi hai scritto come ti aveva chiesto, non credo che riterrà necessario ritornare. Con ogni probabilità è molto al di sopra delle tristi frenesie di coloro che vedi così spesso. Scrivimi di queste cose, quando ti spaventano. Ma non dirlo ad altri. Coloro che non vedono non ti crederanno mai.


La lettera aveva avuto per Jesse un valore inestimabile. Per anni l’aveva portata con sé nella borsa o in tasca, dovunque andasse. Maharet non solo le aveva creduto, ma le aveva dato la possibilità di comprendere quel potere inquietante. Tutto ciò che diceva Maharet aveva senso.

In seguito, Jesse era stata spaventata ogni tanto dagli spiriti; e si era confidata con gli amici più intimi. Ma in generale si comportava come le aveva raccomandato Maharet; e i poteri non l’avevano più turbata. Sembrava che fossero diventati latenti; per lunghi periodi se ne dimenticava.

Le lettere di Maharet giungevano con frequenza anche maggiore. Maharet era la sua confidente, la sua migliore amica. Quando Jesse era andata al college, aveva dovuto ammettere che Maharet era più reale per lei, per mezzo delle lettere, di qualunque altra persona che aveva conosciuto. Ma da molto tempo aveva finito per rassegnarsi all’idea che forse non si sarebbero mai viste.

Poi una sera, quando Jesse frequentava il terzo anno alla Columbia, aveva aperto la porta del suo appartamento e aveva trovato le luci accese, il fuoco che scoppiettava nel camino e una donna alta e magra dai capelli rossi che lo ravvivava con un attizzatoio.

Com’era bella! Era stata la prima impressione di Jesse. Truccata alla perfezione, la sua faccia aveva un’artificiosità orientale, a parte l’intensità straordinaria degli occhi verdi e i fitti riccioli rossi che le spiovevano sulle spalle.

«Carissima», aveva detto la donna. «Sono Maharet.»

Jesse s’era precipitata ad abbracciarla. Ma Maharet l’aveva trattenuta, come per guardarla meglio. Poi l’aveva coperta di baci, come se non osasse toccarla in altro modo. Teneva leggermente le braccia di Jesse con le mani inguantate. Era stato un momento bellissimo, delicato. Jesse aveva accarezzato i folti, morbidi capelli rossi di Maharet, così simili ai suoi.

«Tu sei mia figlia», aveva bisbigliato Maharet. «Sei ciò che avevo sperato che fossi. Sai quanto sono felice?»

Quella notte Maharet le era sembrata di fuoco e di ghiaccio. Immensamente forte e straordinariamente calda. Una creatura esile e tuttavia statuaria, con la vita sottile e la gonna ampia: aveva la misteriosità aristocratica delle indossatrici, il fascino strano delle donne che si sono trasformate in scultura. Il lungo mantello di lana marrone ondeggiava con grazia mentre lasciavano insieme l’appartamento. Tuttavia s’erano subito trovate a loro agio.

Era stata una lunga notte: erano andate alle gallerie, a teatro, e poi a cena, anche se Maharet non aveva mangiato nulla. Era troppo emozionata, aveva detto. Non s’era neppure sfilati i guanti. Voleva solo ascoltare ciò che Jesse aveva da dirle. E Jesse aveva parlato e parlato di tutto… la Columbia, i suoi studi archeologici, il sogno di lavorare agli scavi in Mesopotamia.

Era così diverso dall’intimità delle lettere. Avevano passeggiato insieme al buio in Central Park, e Maharet aveva detto a Jesse che non c’era motivo di aver paura. Ed era sembrato del tutto normale. E così bello, come se percorressero i sentieri di una foresta incantata, senza temere nulla, parlando con voci eccitate ma sommesse. Era divino sentirsi così sicura! Verso l’alba, Maharet aveva lasciato Jesse all’appartamento promettendole di portarla presto in California. Maharet aveva una casa, là, tra i monti di Sonoma.

Ma dovevano passare due anni prima che arrivasse l’invito. Jesse s’era appena laureata. In luglio avrebbe incominciato a lavorare a uno scavo in Libano.

«Devi venire per due settimane», aveva scritto Maharet. Alla lettera era allegato il biglietto d’aereo. Mael, «un caro amico», sarebbe andato a prenderla all’aeroporto.


Sebbene a quel tempo Jesse non l’ammettesse, fin dall’inizio erano accadute cose strane.

Mael, per esempio, un uomo alto e imponente dai lunghi capelli biondi e ondulati e i profondi occhi azzurri: c’era qualcosa di strano nel modo in cui si muoveva, nel timbro della voce, nel modo meticoloso in cui guidava la macchina vèrso nord, verso Sonoma County. Vestiva di pelle come un rancher e portava gli stivali di coccodrillo: aveva un paio di splendidi guanti di capretto nero e gli occhiali con le lenti azzurrate e la montatura d’oro.

Eppure era così allegro, così lieto di vederla, e Jesse l’aveva trovato subito simpatico. Gli aveva raccontato la storia della sua vita prima che arrivassero a Santa Rosa. Mael aveva una risata incantevole. Ma Jesse s’era sentita venire le vertigini, un paio di volte, mentre lo guardava. Perché?

Il complesso era incredibile. Chi poteva aver costruito un posto come quello? Era in fondo a un’impossibile strada sterrata, e le stanze sul retro erano scavate nella montagna, come se fossero state usate macchine enormi. Poi c’erano le travi del tetto. Erano di sequoia? Dovevano avere una circonferenza di tre metri e mezzo. E i muri di adobe erano indubbiamente antichi. Gli europei erano giunti in California in tempi così remoti da poter… Ma che importanza aveva? Il posto era magnifico. Jesse s’era entusiasmata per i focolari rotondi di ferro e per i tappeti di pelli, per l’enorme biblioteca e per il rudimentale osservatorio con il vecchissimo telescopio d’ottone.

Aveva apprezzato i cordiali servitori che ogni mattina arrivavano da Santa Rosa per pulire, fare il bucato, preparare i sontuosi pasti. Non l’infastidiva neppure essere da sola così spesso. Amava passeggiare nella foresta. Andava a Santa Rosa per comprare romanzi e giornali. Studiava trapunte e arazzi: c’erano oggetti antichi che non sapeva classificare ma che le piaceva esaminare.

Il complesso aveva tutte le comodità. Le antenne collocate sulla montagna captavano le trasmissioni televisive. C’era un cinema sotterraneo con proiettore, schermo, e una collezione inesauribile di film. Nei pomeriggi caldi andava a nuotare nel laghetto a sud della casa. Quando l’imbrunire portava il freddo inevitabile della California settentrionale, in ogni focolare fiammeggiavano grossi ceppi.

Naturalmente, per lei la più grande scoperta era stata la storia della famiglia. C’erano innumerevoli volumi rilegati in pelle che documentavano tutti i rami della Grande Famiglia per secoli e secoli. Era affascinante scoprire centinaia di album di fotografìe, e bauli pieni di ritratti dipinti; alcuni non erano più grandi di minuscole miniature ovali, altri erano tele coperte di polvere.

Aveva divorato la storia dei Reeves del South Carolina, il suo ramo della famiglia… ricchi prima della guerra di Secessione, poi caduti in rovina. Le loro fotografie le apparivano quasi insopportabili. Finalmente vedeva gli antenati cui somigliava: riconosceva i propri lineamenti, in quelle facce; avevano la sua carnagione pallida e persino la sua espressione! E due di loro avevano i capelli rossi, lunghi e ricciuti. Per Jesse, figlia adottiva, tutto questo aveva un significato speciale.

Solo verso la conclusione del suo soggiorno la documentazione di famiglia aveva incominciato ad apparirle in tutte le implicazioni, mentre apriva uno dopo l’altro i rotoli scritti in latino, in greco antico e indietro nel tempo fino ai geroglifici egizi. In seguito non sarebbe mai più riuscita a collocare con precisione la scoperta delle tavolette d’argilla nella camera sotterranea. Ma il ricordo delle sue conversazioni con Maharet non s’era mai appannato. Avevano parlato per ore delle cronache della famiglia.

Jesse aveva chiesto di potersi occupare della storia familiare: avrebbe rinunciato agli studi, per quella biblioteca. Voleva tradurre e adattare i vecchi documenti e passarli al computer. Perché non pubblicare la storia della Grande Famiglia? Sicuramente una simile discendenza era insolita, per non dire unica. Persino i sovrani europei non erano in grado di rintracciare i loro antenati oltre il medioevo.

Maharet aveva accolto con pazienza l’entusiasmo di Jesse, le aveva ricordato che quel lavoro portava via molto tempo e non dava molte soddisfazioni. Dopotutto era solo la storia di una famiglia attraverso i secoli; e a volte c’erano soltanto elenchi di nomi, o brevi descrizioni di vite prive di eventi sensazionali, notizie di nascite e di morti e di migrazioni.

Quelle conversazioni erano ricordi piacevoli. E la luce dolce della biblioteca, l’odore delizioso del vecchio cuoio e della pergamena, delle candele e del fuoco. E Maharet accanto al camino, la bellissima indossatrice con gli occhi verdi protetti da occhiali scuri, che avvertiva Jesse che il lavoro avrebbe potuto assorbirla e tenerla lontana da cose migliori. Era la Grande Famiglia, ciò che contava, non la sua documentazione; era la vitalità d’ogni generazione, e la conoscenza e l’amore dei parenti. La documentazione si limitava a rendere tutto ciò possibile.

Jesse desiderava quel lavoro più di quanto avesse mai desiderato qualcosa. Sicuramente Maharet le avrebbe permesso di restare! Avrebbe trascorso anni in quella biblioteca, per scoprire finalmente le origini della famiglia.

Solo più tardi l’aveva visto come un mistero sorprendente, uno dei tanti di quell’estate. Solo più tardi tante piccole cose avrebbero ossessionato la sua mente.


Per esempio, Maharet e Mael non comparivano mai prima dell’imbrunire; e la spiegazione secondo la quale dormivano tutto il giorno non era proprio una spiegazione sufficiente. E dove dormivano? Era questo un altro interrogativo. Le loro stanze restavano vuote tutto il giorno, con le porte aperte, gli armadi traboccanti di indumenti esotici e vistosi. Al tramonto apparivano come se si materializzassero. Jesse alzava la testa, e Maharet era accanto al camino, truccata in modo impeccabile, vestita in modo sensazionale, e la collana e gli orecchini scintillavano nella luce spezzata. Mael, vestito come al solito di pelle scamosciata marrone, stava in silenzio accanto alla parete.

Ma quando Jesse chiedeva spiegazione dei loro strani orari, le risposte di Maharet erano convincenti. Erano pallidi, detestavano la luce del sole e restavano alzati fino a tardi. Era vero. Alle quattro del mattino discutevano ancora di politica o di storia, e da una prospettiva così grandiosa e bizzarra, chiamando le città con i nomi antichi e parlando a volte in una lingua sconosciuta che Jesse non riusciva a classificare né tanto meno a capire. Con il suo dono psichico, a volte sapeva cosa dicevano, ma quei suoni stranissimi la sconcertavano.

E in Mael c’era qualcosa che irritava Maharet, questo era ovvio. Era il suo amante? Non sembrava.

E poi c’era il modo in cui Mael e Maharet continuavano a parlarsi, come se leggessero l’uno nella mente dell’altro. All’improvviso Mael diceva: «Ma ho già detto che non è proprio il caso di preoccuparsi», quando Maharet non aveva pronunciato una sola parola a voce alta. A volte lo facevano anche con Jesse. Una sera, e Jesse ne era certa, Maharet l’aveva chiamata, le aveva detto di scendere nella sala da pranzo principale, sebbene Jesse fosse pronta a giurare di aver udito il richiamo solo con la mente.

Naturalmente, Jesse era una sensitiva. Ma lo erano anche Mael e Maharet?

La cena poi era un altro mistero… il modo in cui apparivano i piatti preferiti di Jesse. Non aveva bisogno di dire ai servitori cosa le piaceva e cosa non le piaceva. Lo sapevano! Lumache, ostriche stufate, spaghetti alla Carbonara, filetto alla Wellington: la sera non mancava mai qualcosa tra quello che lei prediligeva. E il vino! Non aveva mai assaggiato niente di più delizioso. Tuttavia Maharet e Mael mangiavano come uccellini, o almeno così sembrava. A volte venivano a tavola senza neppure togliersi i guanti.

E gli strani visitatori? Santino, per esempio, un italiano dai capelli neri che una sera era arrivato a piedi, con un giovane compagno che si chiamava Eric. Santino aveva fissato Jesse come se fosse un animale estinto, poi le aveva baciato la mano e le aveva regalato uno splendido anello con uno smeraldo, che diverse notti più tardi era sparito impiegabilmente. Santino aveva discusso per due ore con Maharet in quella lingua strana, e poi se ne era andato irritatissimo, trascinandosi dietro l’agitato compagno.

Poi c’erano le strane feste notturne. Due o tre volte, Jesse s’era svegliata alle quattro del mattino e aveva trovato la casa piena di gente. C’erano persone che ridevano e parlavano in ogni stanza. E tutti avevano qualcosa in comune. Erano pallidissimi e avevano occhi straordinari, come Mael e Maharet. Ma Jesse aveva sempre così sonno, e non ricordava neppure di essere tornata a letto. Ricordava solo che a un certo punto era stata attorniata da giovani bellissimi che le avevano offerto un bicchiere di vino. E s’era svegliata alla mattina, nel suo letto. Il sole entrava dalla finestra e la casa era vuota.

E poi Jesse aveva sentito certi suoni alle ore più strane. Il rombo di elicotteri, di piccoli aerei. Tuttavia nessuno ne parlava mai.

Ma era così felice! Le sembrava che quelle cose non avessero importanza. Le risposte di Maharet scacciavano in un attimo i suoi dubbi. Eppure era strano che cambiasse idea tanto in fretta. Spesso si rendeva conto dei propri sentimenti. Era piuttosto ostinata; tuttavia aveva sempre due atteggiamenti nei confronti delle varie cose che le diceva Maharet. Da una parte la liquidava con un semplice «Oh, è ridicolo»; dall’altra, confermava con un «Ma naturalmente!»

Comunque si divertiva troppo per curarsene. Aveva trascorso le prime sere del suo soggiorno parlando d’archeologia con Maharet e Mael. E Maharet era un pozzo di informazioni e le suggeriva a volte certe idee stranissime.

Per esempio, affermava che la scoperta dell’agricoltura era avvenuta perché le tribù che vivevano benissimo grazie alla caccia volevano avere sempre a disposizione le piante allucinogene per le trance religiose. E volevano la birra. Non aveva importanza il fatto che non esistesse un’ombra di prova archeologica. Jesse le avrebbe trovate, se avesse continuato a cercare.

Mael leggeva poesie a voce alta, in modo splendido: Maharet a volte suonava il piano, lentamente e pensosamente. Eric era riapparso per un paio di notti, e aveva cantato con loro.

Aveva portato qualche film dal Giappone e dall’Italia, e avevano passato momenti magnifici. Kwaidan, in particolare, era sensazionale, anche se spaventoso. E Giulietta degli spiriti aveva fatto piangere Jesse.

Tutti i visitatori sembravano trovare Jesse interessante. Mael, anzi, le rivolgeva domande stranissime. Aveva mai fumato una sigaretta? Che sapore aveva la cioccolata? Come poteva azzardarsi ad andare da sola con qualche giovane in macchina o nel suo appartamento? Non sapeva che potevano ucciderla? Jesse aveva riso. No, sul serio, poteva accadere, aveva insistito Mael. S’era agitato moltissimo. Guarda i giornali. Nelle città moderne, le donne erano oggetto della caccia degli uomini come i cervi nelle foreste.

Era meglio fargli cambiare argomento, farlo parlare dei suoi viaggi: le descrizioni dei posti che aveva visitato erano meravigliose. Per anni aveva vissuto nelle foreste dell’Amazzonia. Tuttavia non voleva volare «su un aeroplano». Era troppo pericoloso. E se fosse scoppiato? E non gli piacevano neanche «gli indumenti di stoffa» perché erano troppo fragili.

Jesse aveva vissuto un momento molto strano con Mael. Stavano parlando seduti al tavolo della sala da pranzo. Lei raccontava degli spettri che a volte vedeva, e lui li aveva chiamati i morti stupidi, o i morti pazzi, e questo l’aveva fatta molto ridere. Ma era vero: gli spettri si comportavano come se fossero un po’ stupidi, e quello era orribile. Smettiamo di esistere al momento della morte? Oppure indugiamo in uno stato di stupidità, per apparire alla gente nei momenti più strani e diciamo sciocchezze ai medium? Quando mai un fantasma aveva detto qualcosa d’interessante?

«Ma sono quelli legati alla terra, naturalmente», aveva detto Mael. «Chissà dove andiamo quando abbandoniamo finalmente la carne e tutti i suoi seducenti piaceri!»

Jesse era completamente sbronza, e si sentiva assalire da una paura terribile… dal pensiero della vecchia casa fantasma di Stanford White e degli spiriti che si aggiravano tra le folle di New York. Aveva fissato Mael, che per una volta non portava i guanti e gli occhiali scuri. Il bel Mael, con gli occhi azzurrissimi e le pupille nere.

«E poi», aveva detto Mael, «vi sono altri spiriti che sono sempre stati qui. Non hanno mai avuto corpo e sangue, e per questo sono tanto adirati.»

Era un’idea bizzarra. «Come fai a saperlo?» aveva chiesto Jesse continuando a fissare Mael. Era bello. Una bellezza particolare, scaturita dalla somma dei difetti… il naso aquilino, la mascella troppo sporgente, la magrezza del viso incorniciato dai capelli biondi. Anche gli occhi erano troppo profondi, e tuttavia ancora più visibili. Sì, era bello… ma abbracciare e baciare e invitare a letto… Anzi, l’attrazione che aveva sempre provato per lui era diventata di colpo travolgente.

Poi una strana certezza l’aveva colpita. Non è un essere umano, fingeva soltanto di esserlo. Era così chiaro. Ma era anche ridicolo. Se non era umano, cosa diavolo era? Non era certamente uno spettro o uno spirito: questo era evidente.

«Immagino che non sappiamo che cos’è reale o irreale», aveva detto impulsivamente. «Se fissi qualcosa abbastanza a lungo, all’improvviso appare mostruosa.» Aveva distolto lo sguardo per fissare la ciotola di fiori al centro del tavolo. Vecchie rose tee che si sfogliavano fra le gipsofile, le felci e le zinnie violacee. E sembravano assolutamente aliene, quelle cose, come sembrano sempre gli insetti, e addirittura orribili! Cos’erano, in realtà? Poi la ciotola s’era spezzata, e l’acqua s’era sparsa dappertutto. E Mael aveva detto sinceramente: «Oh, perdonami. Non intendevo farlo».

Oh, questo era accaduto, indubbiamente. Tuttavia non aveva lasciato la minima traccia. Mael era andato a fare una passeggiata nel bosco; le aveva dato un bacio sulla fronte prima di uscire. Gli tremava la mano quando l’aveva tesa come per toccarle i capelli e poi aveva cambiato idea.

Naturalmente, Jesse aveva bevuto. Anzi, aveva bevuto troppo, durante l’intera permanenza. E sembrava che nessuno lo notasse.

Ogni tanto uscivano a ballare nella radura, sotto la luna. Non era una danza organizzata. Si muovevano in cerchio e guardavano il cielo. Mael canticchiava, oppure Maharet cantava canzoni nella lingua sconosciuta.

Cosa aveva pensato mentre faceva quelle cose per ore e ore? E perché non s’era mai chiesta perché Mael portava i guanti persino in casa e andava in giro al buio con gli occhiali da sole?

Poi una mattina, prima dell’alba, Jesse era andata a letto ubriaca e aveva fatto un sogno terribile. Mael e Maharet litigavano. Mael continuava a ripetere: «E se morisse? Se qualcòsa la uccidesse, se la investisse una macchina? E se, e se, e se…» Era diventato un rombo assordante.

Poi, qualche notte più tardi, era incominciata la catastrofe terribile e definitiva. Mael se n’era andato per un po’, ma poi era tornato. Lei aveva bevuto Borgogna per tutta la serata, e stava sulla terrazza con lui. Mael l’aveva baciata, e lei aveva perso conoscenza; tuttavia sapeva cosa stava succedendo. Mael la teneva fra le braccia e le baciava il seno, ma lei sprofondava in una tenebra senza fondo. Poi era riapparsa la ragazza, l’adolescente che era venuta a lei quella volta a New York. Mael, però, non poteva vederla, e Jesse sapeva chi era, sua madre Miriam, e sapeva che Miriam era impaurita. All’improvviso Mael l’aveva lasciata.

«Dov’è?» aveva gridato rabbiosamente.

Jesse aveva aperto gli occhi. C’era Maharet. Aveva colpito Mael così forte da farlo volare oltre la ringhiera della terrazza. Jesse aveva urlato e aveva spinto in disparte la ragazza, Miriam, per accorrere a guardare.

Là sotto, nella radura, Mael era in piedi, illeso. Impossibile, eppure era vero. Era di nuovo in piedi; e aveva rivolto a Maharet un inchino cerimonioso. Era investito della luce che usciva dalle finestre… e aveva lanciato un bacio a Maharet. Maharet sembrava triste, ma sorrideva. Aveva detto qualcosa sottovoce e aveva fatto a Mael un piccolo cenno, come per spiegare che non era in collera.

Jesse aveva il terrore che Maharet fosse arrabbiata con lei; ma quando l’aveva guardata negli occhi aveva compreso che non aveva motivo di preoccuparsi. Poi aveva abbassato lo sguardo e aveva visto che aveva l’abito strappato. Sentiva un dolore acuto dove l’aveva baciata Mael; e quando s’era girata verso Maharet, s’era sentita disorientata, incapace di ascoltare le proprie parole.

Era seduta sul suo letto, appoggiata ai cuscini, ed era avvolta in una lunga vestaglia di flanella. Stava raccontando a Maharet che sua madre era ritornata; l’aveva vista sulla terrazza. Ma era solo una parte di ciò che aveva detto, perché lei e Maharet avevano parlato per ore dell’accaduto. Ma cosa era accaduto? Maharet le aveva detto che avrebbe dimenticato.

Oh, Dio, come s’era sforzata di ricordare, più tardi! Tanti pensieri frammentari l’avevano tormentata per anni. Maharet aveva i capelli sciolti, lunghissimi. S’erano mosse insieme nella casa buia, lei e Maharet, come fantasmi. Maharet la teneva stretta e ogni tanto si fermava a baciarla, e lei abbracciava Maharet. Il corpo di Maharet sembrava una statua che respirasse.

Erano all’interno della montagna in una stanza segreta. C’erano computer, con le bobine e le spie rosse, ed emettevano un sordo ronzio elettronico. E su un immenso schermo rettangolare che si estendeva per metri e metri, spiccava un enorme albero genealogico disegnato dalle luci. Era la Grande Famiglia, e si estendeva nel passato attraverso i millenni. Ah, sì, l’unica radice! Era una discendenza matrilineare, com’era sempre stato presso i popoli antichi, sì, presso gli egizi, sì, la discendenza attraverso le principesse della casa regnante. E in un certo senso, era così anche per le tribù ebraiche fino ai tempi moderni.

In quel momento tutti i dettagli erano apparsi chiari a Jesse… nomi antichi, luoghi, l’inizio… Dio, aveva conosciuto persino l’inizio?… La sconvolgente realtà di centinaia di generazioni tracciata davanti ai suoi occhi. Aveva visto l’avanzata della famiglia negli antichi paesi dell’Asia Minore e della Macedonia e dell’Italia, e poi in tutta l’Europa e nel Nuovo Mondo! E quello poteva essere l’albero genealogico di una qualunque famiglia.

Più tardi non era mai riuscita a rievocare i dettagli di quella mappa elettronica. No, Maharet le aveva detto che l’avrebbe dimenticata. Era miracoloso che ricordasse qualcosa.

Ma che altro era accaduto? Qual era stato il vero orientamento della lunga conversazione?

Maharet che piangeva… questo lo rammentava. Maharet che piangeva con i singhiozzi sommessi d’una ragazzina. Maharet non era mai apparsa tanto incantevole; il suo viso era addolcito e luminoso, segnato da poche linee delicate. Ma c’era poca luce, e Jesse non vedeva chiaramente. Ricordava la faccia che splendeva come una brace bianca nell’oscurità, gli occhi verdi appannati e vibranti, le ciglia bionde che splendevano come se fossero spennellate d’oro.

Le candele accese nella sua stanza. La foresta al di là della finestra. Jesse aveva implorato e protestato. Ma in nome di Dio, perché la discussione?

Lo dimenticherai. Non ricorderai nulla.

Quando aveva aperto gli occhi nella luce del sole aveva compreso che era finita; se n’erano andati. In quei primi istanti non aveva ricordato nulla, se non il fatto che era stato detto qualcosa d’irrevocabile.

Poi aveva trovato la lettera sul comodino.


Mia cara,

non è bene che tu stia con noi. Temo che ci siamo troppo innamorati di te e che vorremmo portarti via, lontana dalle cose che hai deciso di fare. Perdonaci per averti lasciata così all’improvviso. Sono certa che sarà meglio per te. Ho dato disposizioni perché la macchina ti accompagni all’aeroporto. Il tuo aereo parte alle quattro. I tuoi cugini Maria e Matthew verranno a prenderti a New York.

Stai certa che ti amo più di quanto possano esprimere le parole. La mia lettera ti attenderà quando arriverai a casa. Una notte, fra molti anni, discuteremo di nuovo la storia della famiglia. Potrai aiutarmi con quella documentazione, se lo vorrai ancora. Ma per ora questo non deve prenderti troppo. Non deve allontanarti dalla vita.

Sempre tua

con amore indiscusso

Maharet


Jesse non aveva più rivisto Maharet.

Le sue lettere arrivavano con la regolarità di un tempo, piene d’affetto, di premura, di consigli. Ma non c’erano state altre visite.

Jesse, da quella volta, non era più stata invitata nella casa nella foresta di Sonoma.

Nei mesi seguenti, Jesse aveva ricevuto molti regali: una bella, vecchia casa in Washington Square nel Greenwich Village, una macchina nuova, un aumento vertiginoso della sua rendita e i soliti biglietti d’aereo per andare a trovare i membri della famiglia sparsi per il mondo. Alla fine, Maharet aveva finanziato una parte del lavoro archeologico di Jesse a Gerico. Anzi, con il passare degli anni aveva dato a Jesse tutto ciò che poteva desiderare.

Tuttavia Jesse era rimasta ferita dagli avvenimenti di quell’estate. Una volta, a Damasco, aveva sognato Mael e s’era svegliata in lacrime.


Era a Londra e lavorava al British Museum, quando i ricordi avevano cominciato a ritornare in forze. Non aveva mai saputo cosa li avesse fatti scattare. Forse l’effetto del comando di Maharet, «Dimenticherai», s’era semplicemente esaurito. Ma poteva esserci un’altra ragione. Una sera, in Trafalgar Square, aveva visto Mael o un uomo che gli somigliava moltissimo. L’uomo si trovava piuttosto lontano, e la stava fissando quando i loro occhi s’erano incrociati. Tuttavia appena l’aveva salutato con un cenno, le aveva voltato le spalle e s’era allontanato senza mostrare di averla riconosciuta. L’aveva rincorso per cercare di raggiungerlo, ma era scomparso come se non fosse mai esistito.

Era rimasta delusa e ferita. Eppure tre giorni dopo aveva ricevuto un regalo anonimo, un bracciale d’argento. Era un’antica reliquia celtica, come aveva scoperto, e probabilmente era di inestimabile valore. Era possibile che fosse stato Mael a inviarle quell’oggetto bellissimo e prezioso? Avrebbe desiderato crederlo.

Aveva stretto nella mano il braccialetto e aveva sentito la sua presenza. Aveva ricordato la notte di tanto tempo prima, quando avevano parlato degli spettri stupidi. Aveva sorriso. Era come se Mael fosse presente, la stringesse e la baciasse. Quando aveva scritto a Maharet, aveva parlato del dono. E aveva sempre portato il braccialetto.

Jesse teneva un diario in cui annotava i ricordi man mano che riaffioravano. Trascriveva i sogni, i frammenti che scorgeva a tratti. Ma non ne parlava nelle lettere a Maharet.

Durante la permanenza a Londra aveva avuto una relazione amorosa. Era finita male, e lei si sentiva sola. Era stato a quell’epoca che il Talamasca s’era messo in contatto con lei e il corso della sua vita era cambiato per sempre.


Jesse aveva vissuto ih una vecchia casa a Chelsea, non lontano da dove un tempo aveva abitato Oscar Wilde. E in quella zona aveva vissuto James McNeill Whistler, e anche Bram Stoker, il famoso autore di Dracula. Era un quartiere che Jesse amava. Ma senza saperlo, la casa dove aveva preso in affitto l’appartamento era infestata da molti anni. Durante i primi mesi aveva visto diverse cose strane. C’erano fievoli apparizioni del tipo che si scorgono di frequente in quei luoghi: echi, come li aveva chiamati Maharet, di persone che erano state lì anni prima. Jesse li ignorava.

Tuttavia, quando un pomeriggio un giornalista l’aveva fermata e le aveva spiegato che stava preparando un servizio sulla casa infestata, gli aveva parlato delle cose che aveva visto. Erano spettri piuttosto comuni per Londra… una vecchia che usciva dalla dispensa con una brocca, un uomo in frac e cilindro che appariva sulla scala per un secondo o poco più.

L’articolo era risultato piuttosto melodrammatico. Jesse aveva parlato troppo, ovviamente. Veniva presentata come una «sensitiva» o «medium naturale» che vedeva di continuo quel genere di cose. Uno dei Reeves dello Yorkshire le aveva telefonato prendendola un po’ in giro. Anche Jesse trovava tutto ciò divertente. Ma non vi attribuiva molta importanza. Era troppo presa dagli studi al British Museum. Non aveva importanza, davvero.

Poi era entrato in scena il Talamasca. Avevano letto l’articolo.

Aaron Lightner, un gentiluomo all’antica dai capelli bianchi e i modi tranquilli, aveva invitato Jesse a pranzo. Con una Rolls Royce vecchia ma perfettamente tenuta, l’aveva accompagnata in un piccolo, elegante club privato.

Era stato uno degli incontri più strani della sua vita. Anzi, a Jesse ricordava quell’estate lontana: non perché vi fosse qualche rassomiglianza, ma perché entrambe le esperienze erano così diverse da tutto il resto, da quanto normalmente le accadeva. Lightner era garbato e impeccabile. I capelli bianchi erano folti e ben curati, e l’abito di tweed era d’un taglio perfetto. Era l’unico uomo che Jesse avesse visto con un bastone da passeggio d’argento.

Le aveva spiegato in fretta e cortesemente la situazione, e si era definito un «investigatore psichico» che lavorava per «un ordine segreto chiamato Talamasca», il cui unico scopo era quello di raccogliere dati sulle «esperienze paranormali» e conservare la documentazione per lo studio di tali fenomeni. Il Talamasca tendeva la mano alle persone dotate di facoltà paranormali: e a coloro che avevano doti eccezionali, ogni tanto offriva di intraprendere la carriera dell’«investigazione psichica», che in realtà era più esattamente una vocazione, poiché il Talamasca chiedeva devozione completa, lealtà e obbedienza alle regole.

Per poco, Jesse non era scoppiata a ridere. Ma Lightner sembrava preparato al suo scetticismo. Aveva certi «trucchi» che usava sempre in quegli incontri preliminari. E con estremo sbalordimento di Jesse, era riuscito a far muovere diversi oggetti sul tavolo, senza toccarli. Era un potere molto semplice, aveva detto, che gli serviva da «biglietto da visita».

Mentre Jesse guardava la saliera che danzava avanti e indietro, era troppo sbalordita per parlare. Ma la vera sorpresa era venuta quando Lightner aveva confessato di sapere tutto di lei. Sapeva da dove veniva, dove aveva studiato. Sapeva che vedeva i fantasmi fin da quando era bambina. Aveva attirato l’attenzione dell’ordine anni prima tramite «i soliti canali»; e adesso c’era un intero dossier a suo nome. Non doveva offendersi, ma era così.

Doveva tenere presente che il Talamasca svolgeva le sue indagini nel massimo rispetto per l’individuo. Il dossier conteneva solo rapporti di cose che la stessa Jesse aveva raccontato ai conoscenti, agli insegnanti e ai compagni di studio. E lei avrebbe potuto vedere il fascicolo quando avesse voluto. Era il modo di procedere del Talamasca. I contatti venivano sempre stabiliti con i soggetti in osservazione, prima o poi; e venivano fornite loro le informazioni che altrimenti restavano riservate.

Jesse aveva interrogato Lightner con molta insistenza. E s’era resa conto che sapeva parecchie cose di lei, ma non sapeva nulla di Maharet e della Grande Famiglia.

Quella combinazione di conoscenza e d’ignoranza aveva attratto Jesse. Sarebbe bastato un accenno a Maharet perché voltasse per sempre le spalle al Talamasca, perché era indefettibilmente devota alla Grande Famiglia. Ma al Talamasca interessavano soltanto le facoltà di Jesse. E nonostante i consigli di Maharet, anche a lei erano sempre interessate.

E la storia del Talamasca era affascinante. Quell’uomo diceva la verità? Un ordine segreto che risaliva all’anno 758, un ordine che teneva una documentazione su streghe, maghi, medium e veggenti fin da quel periodo antichissimo? Era sbalordita, come l’aveva sbalordita l’archivio della Grande Famiglia.

Lightner aveva sopportato con buona grazia altre domande incalzanti. Era chiaro che conosceva bene la storia e la geografia. Parlava con disinvolta esattezza delle persecuzioni contro i catari, della soppressione dei templari, dell’esecuzione di Grandier e di dozzine di altri eventi ormai storici. Jesse non era riuscita a coglierlo in errore. Al contrario, le aveva parlato di antichi maghi e di stregoni che lei non aveva mai sentito nominare.

Quella sera, quand’erano arrivati alla Casa Madre nei pressi di Londra, il destino di Jesse era praticamente segnato. Non aveva lasciato la Casa Madre per una settimana; e quando l’aveva fatto, aveva chiuso l’appartamento di Chelsea ed era tornata al Talamasca.

La Casa Madre era una colossale costruzione di pietra che risaliva al Cinquecento e che il Talamasca aveva acquistato «solo» duecento anni prima. Anche se le biblioteche e i salotti lussuosi erano stati creati nel secolo decimottavo e abbelliti di fregi, la sala da pranzo e molte delle camere da letto erano rimaste ferme all’epoca elisabettiana.

Jesse aveva amato subito quell’atmosfera, l’arredamento dignitoso, i camini di pietra e i pavimenti lucidi. Anche i membri dell’ordine erano simpatici: la salutavano cordialmente, e poi tornavano a discutere o a leggere i giornali della sera nelle grandi sale comuni. La ricchezza della sede era sorprendente, e dava sostanza alle affermazioni di Lightner. E quel luogo irradiava sensazioni gradevoli. Fisicamente. Lì la gente era ciò che diceva di essere.

Ma erano state le biblioteche che l’avevano più colpita e l’avevano ricondotta all’estate tragica, quando un’altra biblioteca con i suoi antichi tesori le era stata chiusa, forse per sempre. Lì c’erano innumerevoli volumi con le cronache di processi alle streghe, infestazioni e indagini su poltergeist, casi di possessione, psicocinesi, reincarnazione e via via all’infinito. Nei sotterranei c’erano i musei, sale piene di oggetti misteriosi collegati a eventi paranormali. C’erano cripte in cui venivano ammessi solo i membri più anziani dell’ordine. Era deliziosa, la prospettiva dei segreti rivelati solo dopo un certo periodo di tempo.

«C’è sempre tanto lavoro da fare», aveva detto Aaron con disinvoltura. «Vede tutti questi vecchi documenti? Sono in latino e non possiamo più pretendere che i nuovi membri sappiano leggere e scrivere quella lingua morta. È ormai fuori questione, di questi tempi. E questi magazzini, vede? La documentazione relativa alla maggior parte degli oggetti non è stata rivalutata da circa quattro secoli…»

Naturalmente Aaron sapeva che Jesse leggeva e scriveva non solo il latino, ma anche il greco e l’antico egizio e l’antico sumero. Ma non sapeva che lì Jesse aveva trovato un surrogato per i tesori di quell’estate perduta. Aveva trovato un’altra Grande Famiglia.

Quella sera una macchina era andata a prendere nell’appartamento di Chelsea gli abiti di Jesse e tutto ciò di cui poteva avere bisogno. La sua nuova stanza era nell’angolo sud-ovest della Casa Madre; era piccola e comoda con il soffitto a cassettoni e un camino Tudor.

Jesse non avrebbe mai voluto lasciare quella casa, e Aaron lo sapeva. Il venerdì di quella settimana, appena tre giorni dopo l’arrivo, Jesse era stata ammessa nell’ordine come novizia. Le era stata assegnata una somma cospicua per le spese, più un salotto adiacente alla camera da letto, un autista e una macchina vecchia ma lussuosa. Aveva lasciato frettolosamente il lavoro al British Museum.

Le regole erano semplici. Avrebbe trascorso due anni di preparazione a tempo pieno, viaggiando con altri membri dell’ordine quando e dove era necessario. Poteva parlare dell’ordine con i parenti e gli amici, naturalmente. Ma gli argomenti, gli schedari e i dettagli relativi ai casi dovevano restare confidenziali. E non doveva cercare di pubblicare qualcosa sul Talamasca. Anzi, non doveva mai citare pubblicamente l’ordine. I riferimenti agli incarichi specifici dovevano sempre omettere nomi e luoghi e restare sul vago.

Avrebbe lavorato negli archivi, per tradurre e «adattare» le vecchie cronache e i vecchi documenti. E nei musei poteva lavorare con i manufatti e le reliquie, almeno un giorno la settimana. Ma le indagini sulle infestazioni e fenomeni simili, che poi rappresentavano il vero lavoro sul campo, dovevano avere la precedenza su tutto, sempre.

Era passato un mese prima che scrivesse a Maharet per comunicarle la sua decisione. E nella lettera si era confidata apertamente. Amava quella gente e il suo lavoro. Naturalmente la biblioteca le ricordava l’archivio di famiglia a Sonoma, e l’estate in cui aveva conosciuto tanta felicità. Maharet la capiva?

La risposta di Maharet l’aveva sbalordita. Maharet sapeva cos’era il Talamasca. Anzi, sembrava che ne conoscesse molto bene la storia. Diceva senza preamboli che ammirava immensamente gli sforzi compiuti dall’ordine durante la caccia alle streghe del quindicesimo e del sedicesimo secolo per salvare dal rogo tanti innocenti.


Senza dubbio ti avranno parlato delle loro organizzazioni clandestine, grazie alle quali molti accusati venivano allontanati dai villaggi dove sarebbero stati probabilmente bruciati, e condotti a rifugiarsi ad Amsterdam, una città illuminata dove non s’era prestato fede a lungo alle menzogne e alle assurdità sulla stregoneria.


Jesse non aveva saputo nulla in proposito; ma molto presto ne avrebbe trovato la conferma. Tuttavia Maharet aveva le sue riserve sul Talamasca.


Per quanto ammiri la loro compassione verso i perseguitati di tutte le epoche, devi capire che secondo me le loro indagini non contano molto. Per essere più precisi: spiriti, fantasmi, vampiri, lupi mannari, streghe, entità indescrivibili… tutti questi possono esistere, e il Talamasca può passare un altro millennio a studiarli: ma quale differenza apporterà tutto ciò al destino della razza umana?

Senza dubbio vi sono stati, in un passato remoto, individui che avevano visioni e parlavano agli spiriti. E forse, come streghe o sciamani, costoro avevano un valore per le loro tribù e le loro nazioni. Ma molte religioni complesse e fantasiose si sono basate su queste esperienze semplici e ingannevoli, dando nomi mitici a vaghe entità e creando un enorme veicolo per la superstizione. Forse che queste religioni non sono state più dannose che utili?

Permettimi di suggerire che, comunque si interpreti la storia, ormai siamo andati oltre il punto in cui un qualsiasi contatto con gli spiriti può essere di qualche utilità. Forse è all’opera una giustizia rozza ma inesorabile nello scetticismo degli individui ordinali per quanto riguarda i fantasmi, i medium e così via. Il sovrannaturale, in qualunque forma, non deve interferire con la storia umana.

Insomma, io sostengo che, a parte il dare confono ogni tanto a qualche anima confusa, il Talamasca compila documentazioni di cose che non sono importanti e non devono esserlo. Il Talamasca è un’organizzazione interessante. Ma non può realizzare grandi cose.

Ti amo. Rispetto la tua decisione. Ma spero, per il tuo bene, che tu ti stanchi del Talamasca… e ritorni al mondo reale… molto presto.


Jesse aveva riflettuto molto attentamente prima di rispondere. La faceva soffrire, sapere che Maharet non approvava ciò che aveva fatto. Tuttavia capiva che c’era una recriminazione nella sua decisione. Maharet l’aveva allontanata dai segreti della famiglia: il Talamasca l’aveva accolta.

Nella risposta aveva assicurato Maharet che i membri dell’ordine non si facevano illusioni sull’importanza del loro lavoro. Le avevano detto che era in gran parte segreto, e non dava gloria, a volte non dava neppure vera soddisfazione. Si sarebbero dichiarati tutti d’accordo con le opinioni di Maharet sull’insignifìcanza di medium, spiriti e fantasmi.

Ma non c’erano forse milioni di persone convinte che anche le scoperte archeologiche avessero poco significato? Jesse aveva supplicato Maharet di comprendere ciò che voleva dire per lei. E alla fine aveva scritto, con una certa sorpresa, queste parole.


Non dirò mai nulla al Talamasca della Grande Famiglia. Non parlerò mai della casa di Sonoma e delle cose misteriose che mi sono accadute durante la mia permanenza. Sarebbero troppo assetati di questo genere di mistero. E io sono devota a te. Ma un giorno, ti prego, permettimi di tornare nella casa in California. Lasciami parlare con te delle cose che ho visto. Di recente ho ricordato molti particolari. Faccio sogni sconcertanti. Ma in queste cose mi fido del tuo giudizio. Sei stata così generosa con me. Non dubito che mi ami. Ti prego di capire quanto ti amo io.


La risposta di Maharet era stata breve.


Jesse, io sono un essere eccentrico e capriccioso; ben poco mi è stato negato. Ogni tanto mi illudo circa l’effetto che ho sugli altri. Non avrei mai dovuto condurti nella casa di Sonoma. È stato un gesto egoistico che non so perdonarmi. Tuttavia devi alleviare la mia coscienza. Dimentica che quella visita sia avvenuta. Non negare la verità di ciò che ricordi; ma non insistervi neppure. Vivi la tua vita come se non fosse mai stata interrotta così avventatamente. Un giorno risponderò a tutte le tue domande, ma non cercherò più di sovvertire il tuo destino. Mi congratulo per la tua nuova vocazione. Hai per sempre il mio affetto incondizionato.


Poi erano venuti tanti regali, tutti eleganti. Valigie di pelle per i viaggi e uno splendido cappotto foderato di visone per riscaldarla «nell’abominevole clima britannico», un paese «che solo un druido potrebbe amare», le aveva scritto Maharet.

Jesse adorava quel cappotto perché il visone era all’interno e non attirava l’attenzione. Le valigie erano utili. E Maharet continuava a scrivere due o tre volte la settimana, ed era premurosa come sempre.

Ma con il passare degli anni, era stata Jesse a diventare più distante, a scrivere lettere brevi e a intervalli irregolari, perché il suo lavoro per il Talamasca era confidenziale. Non poteva descrivere ciò che faceva.

Jesse andava ancora a far visita ai membri della Grande Famiglia, per Natale e per Pasqua. Quando i cugini venivano a Londra, li accompagnava a vedere i monumenti e andava a pranzo con loro. Ma erano contatti brevi e superficiali. Molto presto il Talamasca era diventato la vita di Jesse.


Un mondo s’era rivelato a Jesse negli archivi del Talamasca quando aveva incominciato a tradurre dal latino i documenti relativi a famiglie è a sensitivi, casi di «evidente» stregoneria, di «autentici» maleficia, e infine i verbali, ripetitivi e orribilmente affascinanti, dei processi per stregoneria che riguardavano ogni volta degli innocenti indifesi. Lavorava notte e giorno, traducendo direttamente al computer, e recuperava materiale storico inestimabile dalle pagine di pergamena sciupate.

Ma le si stava aprendo un altro mondo, ancora più seducente. Un anno dopo essere entrata nel Talamasca, Jesse aveva visto infestazioni di poltergeist abbastanza spaventose da mettere in fuga uomini esperti. Aveva visto un bambino telecinetico sollevare un tavolo di quercia e scagliarlo da una finestra. Aveva comunicato in silenzio con lettori del pensiero che ricevevano ogni messaggio da lei inviato. Aveva visto fantasmi più concreti di quanto mai avesse immaginato. Esempi di psicometria, scrittura automatica, levitazione, medianità in trance… aveva assistito a tutto e aveva preso appunti, e ogni volta s’era meravigliata della sua stessa sorpresa.

Si sarebbe mai abituata? L’avrebbe dato per scontato? Anche i membri più anziani del Talamasca confessavano di essere continuamente sconvolti da ciò che vedevano.

E senza dubbio in Jesse la facoltà di «vedere» era eccezionalmente forte. Con l’uso costante l’aveva sviluppata moltissimo. Due anni dopo essere entrata nel Talamasca, Jesse veniva mandata nelle case infestate di tutta Europa e anche negli Stati Uniti. Per ogni giorno che trascorreva nella pace e nel silenzio della biblioteca, c’era una settimana in qualche corridoio tutto spifferi, a osservare le apparizioni intermittenti d’uno spettro silenzioso che aveva spaventato molta gente.

Raramente Jesse perveniva a una conclusione a proposito di quelle apparizioni. Anzi, imparava ciò che sapevano tutti i membri del Talamasca: non esisteva un’unica teoria dell’occulto in grado di abbracciare tutte le cose strane che si vedevano o si udivano. Era un lavoro interessante, ma finiva per frustrare. Jesse era insicura di sé quando si rivolgeva a quelle «entità irrequiete» o spiriti stupidi come una volta li aveva descritti esattamente Mael. Eppure Jesse li esortava a portarsi «su livelli più elevati», a cercare la pace e a lasciare in pace anche i mortali.

Sembrava la sola cosa possibile da fare, anche se la spaventava pensare che forse costringeva quegli spiriti ad abbandonare l’unica vita loro rimasta. E se la morte era la fine, e se le infestazioni avvenivano solo quando le anime tenaci non l’accettavano? Era troppo spaventoso pensare al mondo degli spiriti come a un ultimo riflesso, fioco e caotico, prima della tenebra totale.

In ogni caso, Jesse aveva risolto numerosi casi di infestazioni. Ed era costantemente confortata dal sollievo dei vivi. In lei s’era affermato un senso profondo dell’eccezionaiità della sua vita. Era esaltante: e non l’avrebbe scambiato per nulla al mondo.

O quasi. Dopotutto, se ne sarebbe andata in un minuto se Maharet fosse apparsa e le avesse chiesto di tornare nel complesso di Sonoma a occuparsi della documentazione della Grande Famiglia. O forse… forse no.

Jesse, comunque, con la documentazione del Talamasca aveva avuto un’esperienza che le aveva causato una considerevole confusione personale nei confronti della Grande Famiglia.

Mentre trascriveva i documenti aveva scoperto che il Talamasca aveva seguito per secoli alcune «famiglie di streghe», le cui sorti sembravano influenzate da interventi sovrannaturali di un tipo verificabile e prevedibile. Il Talamasca teneva d’occhio tuttora un certo numero di quelle stesse famiglie! Di solito c’era una «strega» in ogni generazione e, secondo i dati raccolti, poteva attrarre e manipolare le forze sovrannaturali in modo da assicurare alla famiglia l’accumulazione costante della ricchezza e altri successi negli affari umani. Il potere sembrava ereditario, quindi aveva una base fisica: ma nessuno lo sapeva con certezza. Alcuni degli eredi di tali famiglie erano ormai del tutto ignari della loro storia, e non capivano le «streghe» che si erano manifestate nel secolo ventesimo. E sebbene il Talamasca tentasse regolarmente di mettersi in contatto con quella gente, spesso incontrava un rifiuto, o constatava che il lavoro era troppo «pericoloso» per proseguirlo. Dopotutto, le streghe erano in grado di operare autentici maleficia.

Turbata e incredula, dopo questa scoperta Jesse non aveva fatto nulla per diverse settimane. Ma non riusciva a togliersi dalla mente quello schema. Era troppo simile allo schema di Maharet e della Grande Famiglia.

Poi aveva fatto l’unica cosa che poteva fare senza venir meno alla lealtà promessa a tutti gli altri: aveva riesaminato con attenzione i documenti d’ogni famiglia di streghe nell’archivio del Talamasca; aveva controllato e ricontrollato, era tornata a consultare i documenti più antichi e li aveva passati minuziosamente in rassegna.

Non si parlava di una Maharet. Non si accennava a qualcuno collegato a un ramo della Grande Famiglia, a uno dei tanti cognomi che Jesse conosceva. Non c’era nessun accenno a qualcosa di vagamente sospetto.

Aveva provato un sollievo immenso. Ma alla fine non era sorpresa. L’istinto le aveva detto che era sulla pista sbagliata. Maharet non era una strega. Almeno, non in quel senso. C’era qualcosa di più.

Ma per la verità Jesse non aveva mai cercato di chiarire tutto. Resisteva alle teorie a proposito di quanto era accaduto, come resisteva a ogni altra teoria. E più di una volta aveva pensato che forse aveva cercato inconsciamente il Talamasca per smarrire il suo mistero personale in una selva di altri misteri. Circondata da fantasmi e poltergeist e bambini indemoniati, pensava sempre meno a Maharet e alla Grande Famiglia.


Quando Jesse era diventata membro di pieno diritto del Talamasca, era ormai esperta nelle regole dell’ordine, nelle procedure, nei modi per documentare le indagini, aiutare la polizia nel caso di delitti, evitando i contatti con la stampa. E aveva compreso che il Talamasca non era un’organizzazione dogmatica. Non imponeva ai suoi membri di credere in qualcosa; chiedeva solo di essere onesti e scrupolosi nei confronti di tutti i fenomeni che osservavano.

Schemi, similarità, ripetizioni… tutto questo affascinava il Talamasca. I termini abbondavano ma non c’era un vocabolario rigido. Le schede erano semplicemente collegate tra loro in dozzine di modi diversi.

E molte volte Jesse pensava al consiglio di Maharet. Ciò che le aveva detto era vero. Spettri, apparizioni, sensitivi capaci di leggere nelle menti altrui e di muovere gli oggetti telecineticamente… era tutto affascinante per chi vi assisteva. Ma, in genere, per la razza umana tutto questo significava assai poco. Non c’era, e non ci sarebbe mai stata, una grande scoperta che dall’occulto avesse potuto modificare la storia dell’umanità.

Ma Jesse non si stancava mai del suo lavoro. S’era assuefatta all’eccitazione e alla segretezza. Era nel grembo del Talamasca, e sebbene si fosse abituata all’eleganza di ciò che la circondava, i pizzi antichi e i letti a colonne e l’argenteria, le macchine con autista e la servitù, era diventata ancora più semplice e riservata.

A trent’anni era una donna dalla carnagione chiara e l’aria fragile, con i capelli rossi e ricciuti divisi in mezzo e tenuti lunghi in modo che le ricadessero dietro le spalle senza darle fastidio. Non usava cosmetici, profumi o gioielli, a parte il braccialetto celtico. Il suo capo preferito era un blazer di cashmere con i pantaloni di flanella, o i jeans se era in America. Eppure era piacente, e attirava l’attenzione degli uomini un po’ più di quanto ritenesse opportuno. Aveva relazioni amorose, ma erano sempre brevi. E di rado erano importanti.

Erano più importanti le amicizie con gli altri membri dell’ordine dove aveva tanti fratelli e sorelle. Le erano affezionati, come lui era affezionata a loro. Amava la sensazione della comunità che la circondava. A qualunque ora della notte poteva scendere in uno dei salotti dove c’era gente sveglia che leggeva, parlava o discuteva. Poteva andare in cucina dove il cuoco del turno di notte era sempre pronto a preparare una colazione in anticipo o una cena in ritardo, a seconda delle preferenze.

Jesse avrebbe potuto rimanere per sempre con il Talamasca. Come un ordine religioso cattolico, aveva cura dei membri vecchi e infermi. Morire nell’ambito dell’ordine significava conoscere ogni lusso e la migliore assistenza medica, trascorrere gli ultimi istanti come preferivi, solo nel tuo letto oppure circondato dai confratelli che ti tenevano la mano e ti confortavano. Potevi andare a casa dai parenti, se lo volevi. Ma quasi tutti decidevano di morire nella Casa Madre. I funerali erano dignitosi e complessi. Nel Talamasca la morte faceva parte della vita. A ogni funerale assisteva una grande folla di uomini e donne in nero.

Sì, era diventata quella, la gente di Jesse. E nel corso naturale degli eventi, lei sarebbe rimasta per sempre.

Ma al termine dell’ottavo anno era accaduto qualcosa che doveva cambiare tutto, qualcosa che aveva finito per portarla a rompere con l’ordine.

Fino a quel punto i risultati ottenuti da Jesse erano stati notevolissimi. Ma nell’estate del 1981 lavorava ancora sotto la direzione di Aaron Lightner e raramente aveva parlato al consiglio che reggeva il Talamasca e al piccolo gruppo di uomini e di donne che avevano veramente la direzione dell’ordine.

Perciò quando David Talbot, il capo del Talamasca, l’aveva convocata nel suo ufficio di Londra, s’era sorpresa. David era un uomo energico di sessantacinque anni, massiccio, con i capelli grigioferro e modi sempre gai. Aveva offerto a Jesse uno sherry e aveva parlato amabilmente del più e del meno per un quarto d’ora prima di venire al dunque.

A Jesse veniva proposto un tipo d’incarico molto diverso dal solito. David le aveva dato un romanzo, Intervista con il Vampiro. «Voglio che legga questo libro», aveva detto.

Jesse era rimasta perplessa. «L’ho già letto», aveva risposto. «Un paio di anni fa. Ma cosa ha a che fare con noi un romanzo del genere?»

Aveva comprato l’edizione tascabile all’aeroporto e l’aveva divorata durante un lungo volo trascontinentale. La storia, che figurava narrata da un vampiro a un giovane giornalista nella San Francisco contemporanea, le aveva fatto l’impressione di un brutto sogno. Non era sicura che le fosse piaciuta. Anzi, più tardi aveva buttato via il volume anziché abbandonarlo su una panchina nell’aeroporto d’arrivo, nel timore che qualche individuo ignaro lo trovasse.

I personaggi principali dell’opera, immortali affascinanti a ben guardare, avevano formato una piccola famiglia perversa nella New Orleans prebellica, e avevano scelto le loro prede tra la popolazione per più di cinquant’anni. Il malvagio, il capo di tutto era proprio lui, Lestat. Louis, il suo subordinato pieno d’angoscia, era l’eroe e il narratore. Claudia, la loro squisita «figlia» vampira, era una figura veramente tragica; la sua mente maturava anno dopo anno mentre il suo corpo restava quello di una bambina. Il tema del libro era la vana ricerca della redenzione da parte di Louis, ovviamente: ma l’odio di Claudia per i due vampiri maschi che l’avevano fatta diventare ciò che era, e il suo annientamento finale, avevano avuto su Jesse un effetto molto più forte.

«Il libro non è inventato», aveva spiegato semplicemente David. «Tuttavia non è chiaro lo scopo per cui è stato scritto. E l’atto di pubblicarlo, sia pure come romanzo, ci ha piuttosto allarmati.»

«Non è inventato?» aveva chiesto Jesse. «Non capisco.»

«Il nome dell’autore è uno pseudonimo», aveva continuato David. «E gli assegni vanno a un giovane vagabondo che resiste a tutti i nostri tentativi di contattarlo. Era un giornalista, comunque, come l’intervistatore del libro. Ma al momento questo non c’entra. Il suo compito è quello di andare a New Orleans e documentare gli eventi della vicenda che vi si svolse prima della guerra di Secessione.»

«Aspetti un momento. Vuol dire che i vampiri esistono? Che quei personaggi, Louis e Lestat e la piccola Claudia… sono reali?»

«Sì, esattamente», aveva risposto David. «E non dimentichi Armand, il mentore del Teatro dei Vampiri di Parigi. Immagino che ricorderà Armand.»

Jesse non faticava a rammentare Armand e il teatro. Armand, l’immortale più vecchio del romanzo, aveva l’aspetto di un adolescente. In quanto al teatro, era stato un macabro locale dove le vittime umane venivano uccise sul palcoscenico di fronte all’ignaro pubblico parigino.

L’atmosfera d’incubo del libro si era riaffacciata alla mente di Jesse, in particolare ciò che riguardava Claudia. Claudia era morta nel Teatro dei Vampiri. La congrega l’aveva annientata per ordine di Armand.

«David, ho capito bene? Mi sta dicendo che quegli esseri esistono?»

«Assolutamente», aveva risposto David. «Osserviamo quegli esseri fin dalla fondazione del nostro ordine. In un senso molto reale, il Talamasca fu creato per studiare quelle creature: ma è un’altra storia. Con ogni probabilità in quel romanzetto non esistono personaggi inventati… ma questo sarà il suo incarico, vede: documentare l’esistenza della congrega di New Orleans, così com’è descritta qui… Claudia, Louis, Lestat.»

Jesse aveva riso. Non aveva saputo trattenersi. Aveva riso apertamente e l’espressione paziente di David l’aveva fatta ridere ancora di più. Ma David non era sorpreso, come non s’era sorpreso Aaron Lightner otto anni prima quando s’erano conosciuti.

«Un atteggiamento degno d’approvazione», aveva detto David con un sorrisetto malizioso. «Non vorremmo che fosse troppo fantasiosa o credulona. Ma questo campo richiede una grande attenzione, Jesse, e la massima obbedienza alle regole. Mi creda quando le dico che può essere estremamente pericoloso. È libera di rifiutare l’incarico, è ovvio.»

«Sto per ricominciare a ridere», aveva detto Jesse. Nel Talamasca non aveva sentito pronunciare quasi mai la parola «pericoloso». L’aveva vista scritta solo nelle schede delle famiglie delle streghe. Ecco, a una famiglia di streghe poteva credere senza troppa difficoltà. Le streghe erano esseri umani, e molto probabilmente gli spiriti potevano venire manipolati. Ma i vampiri…?

«Bene, mettiamola così», aveva detto David, «prima che lei prenda una decisione, esamineremo alcuni oggetti appartenenti a quelle creature e custoditi nelle cripte.»

Era un’idea irresistibile. Sotto la Casa Madre c’erano decine di stanze dove Jesse non era mai stata ammessa, e non intendeva lasciarsi sfuggire l’occasione.

Mentre scendeva la scala insieme a David, inaspettatamente aveva ritrovato l’atmosfera del complesso di Sonoma. Persino il lungo corridoio con le lampadine fioche le ricordava la cantina di Maharet. E il suo interesse era cresciuto maggiormente.

Aveva seguito David in silenzio, in un magazzino dopo l’altro. Aveva visto libri, un teschio su uno scaffale, vecchi indumenti ammucchiati sul pavimento, mobili, quadri a olio, bauli e forzieri, e tanta polvere.

«Tutto questo», aveva detto David, «in un senso o nell’altro è legato ai nostri immortali bevitori di sangue. Per la verità, sono piuttosto materialisti. E si lasciano alle spalle rifiuti d’ogni genere. Sono capaci di abbandonare un’intera casa con i mobili, i vestiti, persino le bare, bare molto ornate, interessanti… quando si stancano di una particolare ubicazione o di un’identità. Ma vi sono diverse cose specifiche che devo mostrarle. Penso che sia tutto piuttosto decisivo.»

Decisivo? C’era qualcosa di particolarmente decisivo in quel lavoro? Sembrava che fosse il pomeriggio delle sorprese.

David l’aveva condotta in un’ultima camera molto grande, con le pareti rivestite di stagno e illuminate da una fila di lampade.

Jesse aveva visto un quadro enorme, contro la parete di fronte. Era senza dubbio rinascimentale, probabilmente veneziano, ed era realizzato in tempera su legno. Aveva lo splendore meraviglioso di quei quadri, una lucentezza che nessun materiale sintetico poteva riprodurre. Aveva letto il titolo e il nome dell’autore, scritti in minuscoli caratteri romani nell’angolo inferiore destro.


LA TENTAZIONE DI AMADEO
di Marius

S’era fermata a osservarlo.

Uno splendido coro di angeli dalle ali nere stava intorno a una figura inginocchiata, un ragazzo dai capelli fulvi. Il cielo di cobalto, visto attraverso una serie di arcate, era eseguito meravigliosamente, e c’erano masse di nubi dorate. Il pavimento marmoreo sotto le figure aveva una perfezione fotografica. Si percepiva la freddezza della pietra, si scorgevano le venature.

Ma erano le figure, il vero trionfo del quadro. I volti degli angeli erano modellati in modo squisito, le vesti dai colori pastello e le ali dalle piume nere erano rese con estrema ricchezza di dettagli. E il ragazzo, il ragazzo era vivo! Gli occhi castani scintillavano, la pelle sembrava umida. Pareva sul punto di muoversi o di parlare.

Per la verità, era troppo realistico per essere un dipinto rinascimentale. Le figure erano più dei particolari che simboli ideali. Gli angeli avevano espressioni di vago divertimento, quasi di amarezza. E la stoffa della tunica e delle calze del ragazzo era resa con eccessiva precisione. Jesse poteva vedere persino i rammendi, un minuscolo strappo, la polvere su una manica. C’erano altri dettagli del genere… foglie morte sul pavimento e due pennelli abbandonati in disparte senza una ragione.

«Chi è questo Marius?» aveva sussurrato. Il nome non le diceva nulla. E non aveva mai visto un quadro italiano con tanti elementi inquietanti. Angeli dalle ali nere…

David non aveva risposto. Aveva additato il ragazzo. «È lui che deve osservare. Non è il vero soggetto della sua indagine, ma è un legame molto importante.»

Il soggetto? Un legame… Jesse era troppo affascinata dal quadro. «E guardi, le ossa nell’angolo, ossa umane coperte di polvere come se qualcuno le avesse spazzate via per toglierle di torno. Ma cosa significa?»

«Sì», aveva mormorato David. «Quando s’incontra la parola ‘tentazione’ di solito si vedono i diavoli che circondano un santo.»

«Esattamente», aveva risposto Jesse. «E l’opera è eseguita con abilità eccezionale.» Più fissava il quadro e più si sentiva turbata. «Dove l’avete trovato?»

«L’ordine l’acquistò secoli fa», aveva risposto David. «Il nostro emissario a Venezia lo recuperò in una casa bruciata sul Canai Grande. I vampiri sono sempre associati agli incendi, fra l’altro. È un’arma che sanno usare con efficienza, l’uno contro l’altro. Ci sono sempre incendi. In Intervista con il Vampiro c’erano diversi incendi, ricorda? Louis appiccò il fuoco a una casa di New Orleans quando cercò di annientare il suo creatore e mentore Lestat. E più tardi, lo stesso Louis bruciò il Teatro dei Vampiri a Parigi, dopo la morte di Claudia.»

La morte di Claudia. Quel pensiero aveva fatto scorrere un brivido nelle vene di Jesse.

«Ma guardi con attenzione il ragazzo», aveva detto David. «È di lui che stiamo parlando.»

Amadeo. Colui che ama Dio. Era molto bello, certo. Aveva sedici, forse diciassette anni, con il viso energico e proporzionato e un’espressione stranamente supplichevole.

David aveva messo qualcosa nella mano di Jesse che, con riluttanza, aveva staccato gli occhi dal dipinto. S’era trovata a guardare una fotografia del tardo Ottocento. Dopo un momento aveva sussurrato: «È lo stesso ragazzo».

«Sì. Ed è il frutto di un esperimento», aveva detto David. «Con ogni probabilità fu fatta poco dopo il tramonto in condizioni di luce quasi impossibili, che con un altro soggetto non avrebbe funzionato. Noterà che non c’è molto di visibile, a parte la faccia.»

Era vero: tuttavia si vedeva che il taglio dei capelli era caratteristico di quel periodo.

«Guardi anche questo», aveva detto David. Questa volta le aveva dato una vecchia rivista ottocentesca, con le strette colonne di stampa a caratteri minuscoli e le illustrazioni al tratto. Anche lì c’era lo stesso ragazzo che scendeva da un veicolo a cavalli… un schizzo frettoloso, anche se il ragazzo sorrideva.

«L’articolo parla di lui e del suo Teatro dei Vampiri. Ecco un giornale inglese del 1789: risale a ottant’anni prima, credo. Ma vi troverà un’altra descrizione dettagliata del teatro e dello stesso giovane.»

«Il Teatro dei Vampiri…» Jesse aveva alzato gli occhi verso il ragazzo dai capelli rossi inginocchiato nel quadro. «Ma è Armand, il personaggio del romanzo.»

«Precisamente. Sembra che quel nome gli piaccia. Forse in Italia si chiamava Amadeo, ma nell’Ottocento diventò Armand, e da allora si è sempre fatto chiamare così.»

«Un momento, la prego», aveva detto Jesse. «Esiste una documentazione sul Teatro dei Vampiri? Una documentazione raccolta dai nostri?»

«Una documentazione meticolosa e monumentale. Vi sono innumerevoli promemoria che descrivono il teatro. Abbiamo anche gli atti di proprietà. E qui viene un altro legame tra i nostri archivi e il romanzo Intervista con il Vampiro. Il proprietario del teatro era Lestat de Lioncourt che l’acquistò nel 1789. E nella Parigi moderna, la proprietà è sempre nelle mani di un uomo che porta lo stesso nome.»

«È stato accertato?»

«C’è tutto nel dossier», aveva risposto David. «Fotocopie dei vecchi documenti e di quelli recenti. Se vuole, può studiare la firma di Lestat… che fa tutto in grande… anche quando firma: copre metà della pagina con i suoi svolazzi. Abbiamo le fotocopie di diversi esempi. Vogliamo che li porti con sé a New Orleans. C’è una notizia di giornale dell’incendio che distrusse il teatro, esattamente come lo ha descritto Louis. La data corrisponde. Deve esaminare tutto, naturalmente. E rilegga il romanzo.»


Alla fine della settimana Jesse prese un aereo per New Orleans. Doveva annotare e documentare il romanzo per quanto era possibile, cercare titoli di proprietà, trasferimenti, vecchi giornali, diari… tutto ciò che poteva trovare a sostegno della teoria secondo cui i personaggi e gli avvenimenti erano reali.

Ma ancora non lo credeva. Senza dubbio «c’era qualcosa»: ma doveva esserci un trucco. Probabilmente il trucco stava nel fatto che un romanziere ingegnoso s’era imbattuto in una ricerca interessante e l’aveva usata come base per una vicenda di fantasia. Dopotutto i biglietti del teatro, gli atti di proprietà, i programmi e altre cose del genere non provavano l’esistenza d’immortali succhiatori di sangue.

In quanto alle regole che doveva rispettare, Jesse le riteneva assurde.

Non doveva restare a New Orleans se non fra l’aurora e le quattro del pomeriggio. Alle quattro doveva dirigersi a nord, raggiungere la città di Baton Rouge e passare la notte al sicuro in una stanza al sedicesimo piano di un hotel moderno. Se avesse avuto la più lontana sensazione che qualcuno la spiasse o la seguisse, doveva mettersi al sicuro in mezzo a una folla numerosa. E da un luogo ben illuminato e pieno di gente doveva chiamare immediatamente il Talamasca a Londra.

In nessun caso doveva tentare un «avvistamento» d’uno dei vampiri. I parametri del potere vampiresco non erano noti al Talamasca. Ma una cosa era certa: quegli esseri potevano leggere i pensieri. Inoltre, potevano creare confusione mentale negli esseri umani. E c’erano indizi attendibili della loro forza eccezionale. Senza il minimo dubbio erano in grado di uccidere.

E alcuni di loro certamente erano a conoscenza del Talamasca. Nel corso dei secoli, diversi membri dell’ordine erano scomparsi durante indagini di quel genere.

Jesse doveva leggere scrupolosamente i giornali. Il Talamasca aveva motivo di credere che al momento non vi fossero vampiri a New Orleans, altrimenti non vi avrebbero mandato Jesse. Ma da un momento all’altro potevano comparire Lestat, Armand o Louis. Se Jesse avesse letto un articolo che parlava di una morte sospetta, doveva lasciare la città e non farvi ritorno.

Jesse pensava che fosse tutto ridicolo. Neppure il mucchietto di notizie che parlava di morti misteriose l’impressionava o la spaventava. Dopotutto, poteva trattarsi di vittime d’un culto satanico. Ed erano tutte troppo umane.

Ma Jesse teneva a quell’incarico.

Mentre l’accompagnava all’aeroporto, David le aveva chiesto perché: «Se non riesce a credere veramente a ciò che le dico, perché vuole fare indagini sul libro?»

Lei aveva riflettuto prima di rispondere. «Nel romanzo c’è qualcosa di osceno. Fa apparire attraenti le vite di quegli esseri. In un primo momento non si nota: è un incubo dal quale non si può uscire. Poi, all’improvviso, ci si sente a proprio agio. Vien voglia di restare. Persino la tragedia di Claudia non costituisce un vero deterrente.»

«Quindi?»

«Voglio provare che è un’invenzione», aveva detto Jesse.

Per il Talamasca andava bene così, soprattutto perché l’aveva detto un’investigatrice esperta.

Ma durante il lungo volo per New Orleans, Jesse s’era resa conto che c’era qualcosa che non poteva dire a David. Lei stessa l’aveva compreso da poco. Intervista con il Vampiro le faceva tornare in mente la lontana estate con Maharet, anche se non sapeva perché. Aveva interrotto più volte la lettura per pensare a quell’estate. E aveva rammentato tante piccole cose. Aveva persino ripreso a sognare quei giorni. Non c’entrava affatto, si diceva. Eppure c’era un nesso; aveva a che fare con l’atmosfera del libro, persino la mentalità dei personaggi, la maniera in cui le cose sembravano stare in un certo modo mentre in realtà erano diverse. Ma Jesse non riusciva a capire. La sua ragione, come la sua memoria, era stranamente bloccata.


I primi giorni a New Orleans erano stati fra i più bizzarri della sua carriera di sensitiva.

La città aveva un’umida bellezza caraibica e una tenace atmosfera coloniale che l’avevano subito incantata. Eppure dovunque andasse, Jesse «sentiva» qualcosa. Sembrava che l’intera città fosse infestata. Le imponenti case che risalivano a prima della guerra di Secessione erano tetre e silenziose. Anche le vie del Quartiere Francese, affollate di turisti, avevano un’atmosfera sensuale e sinistra che la induceva di continuo ad abbandonare il percorso prestabilito o a fermarsi a lungo per sognare, seduta su una panchina in Jackson Square.

Non le andava di lasciare la città alle quattro. Il grande albergo di Baton Rouge offriva tutti i lussi americani, e a Jesse piaceva. Ma l’atmosfera pigra di New Orleans era indimenticabile. Ogni mattina si svegliava con la vaga sensazione di aver sognato i vampiri. E Maharet.

Poi, dopo quattro giorni di ricerche, fece una serie di scoperte che la spinsero a correre al telefono. C’era stato indiscutibilmente un Lestat de Lioncourt tra coloro che pagavano le tasse in Louisiana. Anzi, nel 1862 aveva preso possesso di una casa in Royal Street, una casa del suo socio in affari, Louis de Pointe du Lac, che a sua volta aveva sette diverse proprietà in Louisiana, e una era proprio la piantagione descritta in Intervista con il Vampiro. Jesse era rimasta sbalordita ed estasiata.

Ma c’erano anche altre scoperte. Adesso un certo Lestat de Lioncourt era proprietario di molte case in città. E la sua firma, che appariva in documenti datati 1895 e 1910, era identica alle firme del Settecento.

Ora, era meraviglioso. Jesse si divertiva immensamente.

Decise di fotografare le proprietà di Lestat. Due erano case nel Garden District, decisamente inabitabili e cadenti dietro i cancelli arrugginiti. Ma il resto, inclusa la casa di Royal Street, la stessa passata a Lestat nel 1862, era affittato a un’agenzia locale che effettuava i pagamenti a un procuratore legale di Parigi.

Jesse non resistette più. Telegrafò a David per chiedere una somma consistente. Doveva rilevare il contratto d’affitto, perché quella era sicuramente la casa abitata un tempo da Lestat, Louis e la piccola Claudia. Forse non erano vampiri… ma erano vissuti lì!

David inviò immediatamente il denaro, accompagnandolo con l’ordine di non avvicinarsi in nessun caso alle abitazioni in rovina. Jesse rispose che le aveva già esaminate: nessuno vi aveva messo piede da anni.

Quella che contava era la casa di Royal Street. Prima della fine della settimana, Jesse rilevò il contratto d’affìtto; i vecchi inquilini se ne andarono felici con le tasche piene di denaro. Il lunedì mattina Jesse entrò nell’appartamento deserto al primo piano.

Era deliziosamente cadente. I vecchi camini, le modanature, le porte, c’erano tutti. Jesse si armò di cacciavite e scalpello e si mise al lavoro. Louis aveva descritto un incendio nei salotti, un incendio che aveva ustionato Lestat. Bene, ne avrebbe trovato le tracce.

Dopo meno di un’ora scoprì il legname bruciato! E gli imbianchini, quando erano venuti a riparare i danni, avevano tappato i buchi con vecchi giornali datati 1862. Corrispondeva al racconto di Louis. Aveva ceduto la casa a Lestat, aveva deciso di partire per Parigi: poi c’era stato l’incendio, durante il quale Louis e Claudia erano fuggiti.

Naturalmente Jesse si diceva ancora scettica; ma i personaggi del romanzo stavano diventando reali. Il vecchio telefono nero nell’ingresso era stato staccato. Doveva uscire per chiamare David; e questo la irritava. Voleva raccontargli tutto, e subito.

Ma non uscì. Rimase seduta per ore in salotto, nel tepore del sole, e ascoltò gli scricchiolii dell’edificio. Una casa così vecchia non è mai silenziosa in un clima umido. Sembra viva. Non c’erano spettri: o almeno non poteva vederli. Tuttavia non si sentiva sola. Al contrario, c’era un tepore che l’avviluppava. All’improvviso qualcuno la scuoteva per svegliarla… No, naturalmente. Lì c’era soltanto lei. Un orologio suonava le quattro.

L’indomani prese a nolo un vaporizzatore per staccare la carta da parati e si mise al lavoro nelle altre stanze. Doveva arrivare alla tappezzeria originale. Era possibile datare i disegni, e comunque cercare qualcosa di particolare. Ma c’era un canarino che cantava poco lontano, forse in un altro appartamento o in un negozio, e il cinguettio la distraeva. Era bellissimo. Non dimenticare il canarino. Il canarino morirà se lo dimentichi. Si addormentò di nuovo.

Era già buio quando si svegliò. Sentì, molto vicina, la musica d’un clavicembalo. L’aveva ascoltata a lungo prima di aprire gli occhi. Mozart, suonato velocemente. Troppo velocemente, ma con quanta abilità. Un grande turbine di note d’un virtuosismo sbalorditivo. Alla fine si impose di alzarsi, accendere le luci e rimettere in funzione il vaporizzatore.

Il vaporizzatore era pesante e l’acqua calda le sgocciolava sul braccio. In ogni stanza spogliò un tratto di parete fino all’intonaco originale. Ma il rumore dell’apparecchio l’infastidiva. Sembrava che vi fossero voci… gente che rideva, qualcuno che parlava in francese in un bisbiglio incalzante, e un bambino che piangeva… o era una donna?

Spense il vaporizzatore. Niente. Era solo il rumore nell’appartamento vuoto ed echeggiante.

Si rimise al lavoro senza coscienza del tempo; non ricordava di non aver mangiato e non si rendeva conto di avere sonno. Continuò a spostare il vaporizzatore fino a che, all’improvviso, nella camera da letto centrale trovò quel che cercava… un affresco dipinto a mano su un muro intonacato.

Per un momento si sentì troppo emozionata per muoversi. Poi riprese a lavorare freneticamente. Sì, era l’affresco della «foresta magica» che Lestat aveva commissionato per Claudia. Con rapidi movimenti del vaporizzatore ne scoprì altri tratti.

«Unicorni e uccelli dorati e alberi carichi di frutti lungo i ruscelli scintillanti.» Era esattamente come l’aveva descritto Louis. Alla fine mise allo scoperto gran parte dell’affresco che si snodava sulle quattro pareti. Indubbiamente era la stanza di Claudia. Le girava la testa. Si sentiva debole perché non aveva mangiato. Guardò l’orologio. L’una.

L’una! Era rimasta lì metà della notte. Doveva andarsene immediatamente. Per la prima volta in tanti anni era venuta meno alle regole dell’ordine!

Ma non riusciva a muoversi. Era così stanca, nonostante l’emozione. S’era seduta contro il camino di marmo, la luce della lampadina era tetra e le doleva la testa. Tuttavia continuava a guardare gli uccelli dorati, i fiori e gli alberi dipinti meravigliosamente. Il cielo era di un vermiglio intenso, tuttavia c’era la luna piena e non il sole, e una quantità di stelle minuscole. Alle stelle aderivano ancora frammenti di argento martellato.

A poco a poco notò un muro di pietra dipinto sullo sfondo in un angolo. C’era un castello, là dietro. Come doveva essere bello avviarsi nella foresta per raggiungerlo, varcare la porta di legno, entrare in un altro regno. Sentiva un canto che le risuonava nella mente, qualcosa che aveva quasi dimenticato, qualcosa che Maharet aveva cantato un tempo.

E all’improvviso vide che la porta era dipinta sopra una vera apertura nel muro.

Si tese. Vedeva i segni nell’intonaco. Sì, un’apertura quadrata che non aveva visto mentre azionava il vaporizzatore. S’inginocchiò per toccarla. Una porta di legno. Prese il cacciavite e cercò di forzarla. Inutile. Lavorò da una parte e dall’altra, ma riuscì solo a scalfire l’affresco.

Rimase accosciata a osservarla. Una porta dipinta sopra una porta di legno. E c’era un punto logoro sulla maniglia dipinta. Sì! Tese la mano e diede un colpetto su quel punto. La porta si spalancò. Era molto semplice.

Alzò la torcia elettrica. Uno scomparto rivestito di cedro. E c’erano diversi oggetti. Un libriccino rilegato di pelle bianca! Un rosario, sembrava, e una bambola, una vecchissima bambola di porcellana.

Per un momento non seppe decidersi a toccare gli oggetti. Era come profanare una tomba. E c’era un lieve sentore di profumo. Non sognava, vero? No, la testa le doleva troppo perché fosse un sogno. Infilò la mano nello scomparto ed estrasse la bambola.

Il corpo era rozzo secondo i criteri moderni, tuttavia gli arti di legno erano ben fatti. L’abito bianco e la fusciacca color lavanda stavano andando a pezzi. Ma la testa era incantevole, con i grandi occhi azzurri perfetti, la parrucca di capelli biondi ancora intatta.

«Claudia», mormorò.

La sua voce la rese consapevole del silenzio. Non c’era traffico a quell’ora. Solo le vecchie assi che scricchiolavano. E il palpitare di una lampada a petrolio su un tavolo. Poi il clavicembalo, qualcuno che adesso suonava Chopin, il Valzer di un Minuto, con la stessa abbagliante abilità che aveva già sentito. Rimase immobile a guardare la bambola. Avrebbe voluto spazzolarle i capelli, rammendare la fusciacca.

Ricordò gli avvenimenti fondamentali dell’Intervista con il Vampiro… Claudia uccisa a Parigi, colpita dalla luce mortale del sole sorgente in un pozzo d’aerazione da cui non poteva fuggire. Jesse trasalì, sentì il cuore batterle contro la gola. Claudia non c’era più mentre gli altri continuavano. Lestat, Louis, Armand.

Poi, con un sussulto, si accorse che nello scomparto c’erano altre cose. Prese il libro.

Un diario! Le pagine erano fragili, macchiate. Ma l’antiquata grafia in inchiostro seppia era ancora leggibile, soprattutto ora che le lampade a petrolio erano tutte accese, e nella stanza c’era una luce intima. Jesse sapeva leggere correttamente il francese. La prima annotazione portava la data del 21 settembre 1836.


È il mio regalo di compleanno da parte di Louis. Usalo come vuoi, ha detto. Ma forse mi piacerebbe copiare le poesie che ogni tanto colpiscono la mia fantasia, e leggergliele?

Non capisco bene cosa s’intenda per compleanno. Sono nata in questo mondo il 21 settembre, oppure è quel giorno in cui ho abbandonato tutte le cose umane per diventare quello che sono?

I signori miei padri esitano sempre a illuminare queste cose semplici. Si direbbe che sia di cattivo gusto indugiare su tali argomenti. Louis assume un’aria perplessa e poi avvilita prima di tornare al giornale della sera. E Lestat sorride e suona Mozart per me, quindi risponde con una scrollata di spalle: «È stato il giorno in cui sei nata a noi».

Naturalmente mi ha regalato come al solito una bambola che sembra una mia copia, e che come sempre porta un duplicato del mio vestito più nuovo. Le manda a prendere in Francia, quelle bambole, e tiene a farmelo sapere. E cosa dovrei farne? Dovrei giocarci come se fossi davvero una bambina?

«C’è un messaggio, in questo mio amato padre?» gli ho chiesto questa sera. «Significa che resterò per sempre una bambola?» Mi ha regalato trenta bambole nel corso degli anni, se non ricordo male. E ricordo benissimo. Ogni bambola è esattamente come le altre. Se le tenessi, non ci sarebbe più posto per me nella mia camera da letto. Ma non le tengo. Le brucio, prima o poi. Fracasso le facce di porcellana con l’attizzatoio. Guardo il fuoco che divora i capelli. Non posso dire che mi piaccia. Dopotutto le bambole sono belle e mi somigliano. Sì, è un gesto appropriato. La bambola se l’aspetta. E anch’io.

Adesso me ne ha portata un’altra, e sta sulla soglia della stanza a guardarmi, come se la mia domanda lo ferisse. E all’improvviso si oscura tanto in volto che io penso: Non può essere il mio Lestat.

Vorrei poterlo odiare. Vorrei poterli odiare entrambi. Ma mi sconfiggono, non con la loro forza bensì con la loro debolezza. Sono così affettuosi. E così piacevoli da guardare. Mon Dieu, le donne gli corrono dietro.

Mentre mi guardava esaminare la bambola che mi ha regalato, gli ho chiesto bruscamente:

«Ti piace ciò che vedi?»

«Non le vuoi più, vero?» ha mormorato lui.

«Tu le vorresti, se fossi me?» ho chiesto.

Si è oscurato ancora di più. Non l’avevo mai visto così. Un calore ardente gli ha soffuso la faccia, e ha battuto le ciglia per schiarirsi la vista. La vista perfetta. Mi ha lasciata ed è andato in salotto. L’ho seguito. Per la verità, non sopportavo di vederlo così, ma l’ho seguito.

«Ti piacerebbero», ho domandato, «se fossi me?»

Mi ha fissata come se gli facessi paura: eppure lui è un uomo alto sei piedi e io sono una bambina, la metà di lui.

«Per te sono bella?» ho chiesto.

Mi è passato accanto ed è uscito dalla porta sul fondo. Ma l’ho raggiunto. L’ho afferrato per la manica mentre stava accanto alla scala. «Rispondi» ho detto. «Guardami. Che cosa vedi?»

Era in uno stato spaventoso. Ho pensato che si sarebbe svincolato, avrebbe riso. Invece si è inginocchiato davanti a me e mi ha presa per le braccia. Mi ha baciata bruscamente sulla bocca. «Ti amo», ha mormorato. «Ti amo!» Come se fosse una maledizione scagliata contro di me. Poi mi ha detto questi versi:


Coprile il viso;
abbaglia i miei occhi;
è morta giovane.

È Webster, ne sono quasi certa. Una di quelle tragedie che piacciono tanto a Lestat. Chissà… a Louis piacerà questa poesia? Non vedo perché non dovrebbe. È breve ma molto carina.


Jesse richiuse il diario. Le tremava la mano. Si strinse al seno la bambola, si dondolò leggermente appoggiandosi alla parete dipinta.

«Claudia», sussurrò.

Le doleva la testa ma non aveva importanza. La luce delle lampade a petrolio era così rasserenante, così diversa da quella elettrica. Continuò ad accarezzare la bambola come una cieca: i morbidi capelli di seta, l’abitino inamidato. L’orologio suonò di nuovo, e ogni nota echeggiava cupa nella stanza. Non doveva svenire. Doveva alzarsi. Doveva prendere il diario, la bambola e il rosario e andarsene.

Le finestre vuote erano come specchi, con la notte sullo sfondo. Le regole infrante. Chiama David, sì, chiama subito David. Ma il telefono squillava. A quell’ora, figurarsi. Il telefono squillava. E David non aveva il numero perché il telefono… Si sforzò di ignorarlo; ma l’apparecchio continuò a squillare. Bene, rispondi!

Baciò la fronte della bambola. «Torno subito, tesoro», bisbigliò.

Dov’era quel maledetto telefono? In una nicchia nel corridoio, naturalmente. L’aveva quasi raggiunto quando vide che era avvolto nel cavo con l’estremità sfrangiata. Non era collegato. Vedeva che non era collegato. Eppure squillava e lei lo sentiva, e non era un’allucinazione uditiva: l’apparecchio lanciava un trillo dopo l’altro. E le lampade a petrolio! Dio, non c’erano lampade a petrolio in quell’appartamento!

E va bene, hai già visto accadere cose del genere. Non farti prendere dal panico, per amor di Dio. Rifletti! Cosa devi fare? Ma stava per mettersi a urlare. Il telefono non smetteva! Se cedi al panico perderai completamente il controllo. Devi spegnere le lampade e far tacere il telefono. Ma le lampade non possono essere reali. Il palpito del fuoco non è reale. E la persona che si muove, là, chi è? Un uomo? Non guardarlo! Tese la mano e spinse il telefono fuori dalla nicchia, in modo da farlo cadere sul pavimento. Il ricevitore rotolò. Ne uscì una voce esile di donna.

«Jesse?»

Si precipitò in camera da letto in preda al terrore, inciampò in una sedia, cadde contro il tendaggio inamidato di un letto a baldacchino. Non c’era. Non esisteva. Prendi la bambola, il diario, il rosario! Li mise nella borsa di tela, si rialzò e corse fuori dall’appartamento, verso la scala sul retro. Rischiò di scivolare quando i suoi piedi toccarono il ferro sdrucciolevole. Il giardino, la fontana… ma sai che ci sono soltanto erbacce. C’era un cancello di ferro battuto che le bloccava il passo. È un’illusione. Va’, attraversalo! Fuggì!

Era un incubo e lei ne era prigioniera: il rumore dei cavalli e delle carrozze le martellava nelle orecchie mentre correva sul selciato. Ogni gesto goffo si estendeva nell’eternità. Le sue mani cercavano affannosamente di prendere le chiavi della macchina, di aprire la portiera. E la macchina stentò ad avviarsi.

Quando arrivò alla periferia del Quartiere Francese, singhiozzava ed era madida di sudore. Proseguì lungo le vie pittoresche, verso la superstrada. Bloccata sulla rampa d’accesso, girò la testa. Il sedile posteriore era vuoto. Bene, non la seguivano. E aveva sulle ginocchia la borsa di tela; sentiva contro il seno la testa di porcellana della bambola. Corse a tutta velocità fino a Baton Rouge.

Quando arrivò all’albergo, si sentiva male. Riuscì appena ad arrivare al banco. Un’aspirina, un termometro. La prego, mi aiuti a entrare nell’ascensore.

Quando si svegliò, otto ore dopo, era mezzogiorno. La borsa di tela era ancora fra le sue braccia. Aveva la febbre alta. Chiamò David, ma la comunicazione era disturbata. David la richiamò: ma la situazione non era migliore. Jesse, comunque, si sforzò di spiegarsi. Il diario era indubbiamente di Claudia e confermava tutto. E il telefono non era collegato, eppure aveva sentito la voce di donna. Le lampade a petrolio erano accese quando era fuggita dall’appartamento. E l’appartamento era pieno di mobili: c’erano fuochi accesi nei camini. Potevano bruciare l’appartamento, le lampade e i fuochi? David doveva fare qualcosa! E David le rispondeva, ma Jesse sentiva a malapena la voce. Aveva la borsa, gli disse: non doveva preoccuparsi.

Era buio quando aprì gli occhi. L’aveva svegliata il mal di testa. L’orologio digitale sul comodino segnava le dieci e mezzo. Sete, una sete terribile, e il bicchiere sul comodino era vuoto. C’era qualcun altro nella stanza.

Si girò sul dorso. Una luce entrava dalle sottili tende bianche. Sì, là. Una bambina. Seduta su una sedia contro la parete.

Jesse riusciva a scorgere la figura, i lunghi capelli biondi, l’abito dalle maniche a sbuffo, i piedini che non toccavano il pavimento. Si sforzò di mettere a fuoco lo sguardo. Una bambina… non era possibile. Un’apparizione. No, qualcosa che occupava lo spazio. Qualcosa di malevolo. Una minaccia. E la bambina la guardava.

Claudia.

Si buttò dal letto e per poco non cadde, continuando a stringere la borsa fra le braccia mentre indietreggiava. La bambina si alzò. Si sentì il suono inconfondibile dei passi sul tappeto. Il senso di minaccia divenne più intenso. La bambina avanzò nella luce che entrava dalla finestra e venne verso Jesse. Il chiarore investiva gli occhi azzurri, le guance tonde, le tenere braccia nude.

Jesse urlò. Strinse la borsa e si precipitò verso la porta, afferrò la catena senza osare guardarsi alle spalle. Le urla uscivano incontrollabili dalla sua gola. Qualcuno chiamava dall’altra parte. Finalmente aprì la porta e uscì barcollando nel corridoio.

C’era gente, intorno a lei: ma non poteva impedirle di allontanarsi. Poi qualcuno l’aiutò ad alzarsi: evidentemente era caduta di nuovo. Qualcun altro aveva portato una sedia. Jesse gridava, cercava di calmarsi ma non riusciva a smettere, e teneva con entrambe le mani la borsa con la bambola e il diario.

Quando arrivò l’ambulanza, rifiutò di lasciare che le portassero via la borsa. All’ospedale le diedero, tra antibiotici e sedativi, abbastanza medicinali da far impazzire chiunque. Jesse se ne stava raggomitolata come una bambina, con la borsa sotto le coperte. Se l’infermiera si azzardava a toccarla, Jesse si svegliava immediatamente.

Quando arrivò Aaron due giorni dopo, la consegnò a lui. Stava ancora male quando salì sull’aereo per Londra. Aaron teneva la borsa sulle ginocchia; era premuroso e aveva cura di lei, e Jesse dormì a intermittenza durante il lungo volo di ritorno. Poco prima dell’atterraggio si accorse di aver perduto il braccialetto, il suo bel braccialetto d’argento. Pianse sommessamente a occhi chiusi. Il braccialetto di Mael era scomparso.


Le tolsero l’incarico.

Jesse lo sapeva ancor prima che glielo dicessero. Era troppo giovane per quel lavoro, dissero, e troppo inesperta. Avevano sbagliato a mandarla. Era troppo pericoloso per lei. Naturalmente ciò che aveva fatto aveva «un valore immenso». E l’infestazione s’era rivelata di una potenza insolita. Lo spirito d’un vampiro morto? Era possibile. E il telefono che squillava, ecco, c’erano molte segnalazioni di casi identici… le entità usavano vari mezzi per «comunicare» o incutere paura. Adesso era meglio che riposasse e cercasse di non pensarci. Altri avrebbero continuato l’indagine.

In quanto al diario conteneva poche altre annotazioni, non più significative di quelle che lei aveva letto. Gli psicometristi che avevano esaminato il rosario e la bambola non avevano scoperto nulla. Gli oggetti sarebbero stati conservati con la massima cura. Ma non doveva più pensarci.

Jesse non cedette. Chiese di poter tornare a New Orleans. Finì per fare una scenata. Ma era come parlare con il Vaticano. Un giorno, fra dieci anni o forse venti, avrebbe potuto addentrarsi di nuovo in quel campo. Nessuno escludeva tale possibilità, ma per il momento la risposta era no. Jesse doveva riposare, riprendersi e dimenticare l’accaduto.

Dimenticare l’accaduto…

Stette male per settimane. Tutto il giorno stava avvolta in vestaglie di flanella bianca e beveva una gran quantità di tè caldo. Stava seduta accanto alla finestra della sua stanza. Guardava il verde del parco, le vecchie querce massicce. Guardava le macchine che andavano e venivano, minuscoli frammenti di colore silenzioso che passavano sulla strada lontana. Quella quiete era bellissima. Le portavano cose deliziose da mangiare e da bere. David veniva a trovarla e le parlava di tante cose ma non dei vampiri. Aaron le riempiva la stanza di fiori. Gli altri venivano a trovarla.

Jesse parlava poco o taceva. Non poteva spiegare che tutto ciò la faceva soffrire, le ricordava l’estate di tanto tempo prima quando era stata allontanata da altri segreti, altri misteri, altri documenti nascosti nelle cripte. Era la stessa storia. Aveva intravisto qualcosa dall’importanza inestimabile che le era stato sottratto.

Ormai non avrebbe più compreso ciò che aveva visto e vissuto. Doveva restare lì in silenzio con i suoi rimpianti. Perché non aveva risposto a quel telefono, perché non aveva parlato, non aveva ascoltato la voce?

E la bambina? Cosa voleva lo spirito della bambina? Il diario o la bambola? No, Jesse aveva avuto il compito di trovarli e portarli via. Eppure era fuggita di fronte allo spirito della bambina! Lei che aveva affrontato tante entità senza nome, e nelle stanze buie aveva parlato coraggiosamente a cose deboli e palpitanti quando gli altri ruggivano vinti dal panico, lei che confortava gli altri con la solita affermazione: questi esseri, qualunque cosa siano, non possono farci male!

Un’altra occasione, insisteva. Riesaminò tutto ciò che era accaduto. Doveva tornare in quell’appartamento di New Orleans. David e Aaron tacquero a lungo. Poi David si avvicinò e le cinse le spalle con un braccio.

«Jesse, mia cara», disse, «le vogliamo tutti bene. Ma soprattutto in questo campo non si possono violare le regole.»

La notte sognava Claudia. Una volta si svegliò alle quattro, andò alla finestra e guardò il parco, cercando di vedere oltre la luce fioca delle finestre del pianterreno. C’era una bambina, là fuori, una figuretta sotto gli alberi, con il mantello rosso e il cappuccio, una bambina che la guardava. Scese correndo le scale e si trovò sul prato umido e deserto mentre spuntava un mattino grigio e freddo.


In primavera la mandarono a New Delhi.

Doveva documentare le prove della reincarnazione, le segnalazioni di certi bambini indiani che affermavano di ricordare le loro vite anteriori. In quel campo un certo dottor lan Stevenson aveva fatto un lavoro molto promettente. E Jesse doveva intraprendere uno studio per conto del Talamasca, con la possibilità di produrre risultati altrettanto fruttuosi.

Due membri anziani dell’ordine l’attendevano a Delhi e l’accolsero amichevolmente nella vecchia casa britannica dove abitavano. Jesse trovò interessante il lavoro; e dopo gli choc iniziali e i disagi, si affezionò all’India. Prima della fine dell’anno era di nuovo felice… e si rendeva utile.

Accadde un’altra cosa, una piccolezza che tuttavia sembrava di buon auspicio. In una tasca della vecchia valigia, quella che le aveva regalato Maharet anni prima, trovò il braccialetto d’argento di Mael. Sì, era felice. Ma non dimenticava quanto era accaduto. In certe notti ricordava così nitidamente l’immagine di Claudia, che si alzava e accendeva tutte le luci. In altri momenti credeva di vedere intorno a sé, per le vie della città, strani esseri dalle facce bianche molto simili ai personaggi dell’Intervista con il Vampiro. Si sentiva spiata.

Poiché non poteva raccontare a Maharet quella strana avventura, le sue lettere diventarono ancora più frettolose e superficiali. Eppure Maharet era fedele come sempre. Quando qualcuno della famiglia veniva a Delhi, andava a far visita a Jesse. Si sforzavano di tenerla nell’ambito della famiglia. Le mandavano notizie dei matrimoni, delle nascite, dei funerali. La pregavano di andarli a trovare durante le vacanze. Matthew e Maria scrivevano dall’America e insistevano perché tornasse presto a casa. Sentivano molto la sua mancanza.


Jesse trascorse in India quattro anni felici. Documentò più di trecento casi che includevano prove sorprendenti della reincarnazione. Lavorò con alcuni dei migliori investigatori psichici che avesse mai conosciuto. E la sua attività era soddisfacente. Era molto diversa dalla caccia alle infestazioni che aveva fatto all’inizio.

Nell’autunno del quinto anno cedette alle insistenze di Matthew e Maria. Promise di tornare negli Stati Uniti per quattro settimane. La notizia li rese felici.

La riunione significò per Jesse più di quanto avesse previsto. Era piacevole essere di nuovo nel vecchio appartamento di New York. Amava le cene con i genitori adottivi, che non le facevano domande sul suo lavoro. Durante il giorno, s’incontrava a pranzo con i vecchi compagni di studio o faceva lunghe passeggiate solitàrie nell’affollato paesaggio urbano delle speranze, dei sogni e degli affanni della sua infanzia.


Due settimane dopo il ritorno, Jesse vide Il vampiro Lestat nella vetrina di una libreria. Per un momento pensò di aver sbagliato. Non era possibile. E invece era così. Il commesso le parlò dell’album discografico con lo stesso titolo e dell’imminente concerto a San Francisco. Jesse prese un biglietto prima di tornare a casa, nel negozio di dischi dove comprò l’album.

Per tutto il giorno, sola nella sua camera, Jesse lesse il libro. Era come se l’incubo di Intervista con il Vampiro fosse ritornato e lei non riuscisse a liberarsene. Eppure era stranamente affascinata da ogni parola. Sì, era tutto reale. E la vicenda si attorceva in modo particolare, risaliva al tempo della congrega romana di Santino, al rifugio isolano di Marius, e al bosco druidico di Mael. E a Coloro-che-devono-essere-conservati, vivi e tuttavia bianchi e duri come il marmo.

Ah, sì, aveva toccato quella pietra! Aveva guardato gli occhi di Mael e aveva sentito la stretta della mano di Santino. Aveva visto il quadro dipinto da Marius e custodito nella cripta del Talamasca!

Quando chiudeva gli occhi per addormentarsi, vedeva Maharet sul balcone di Sonoma. La luna era alta sulle cime delle sequoie. E la notte tiepida sembrava inspiegabilmente piena di promesse e di pericoli. Eric e Mael erano là. E c’erano altri che non aveva mai visto se non nelle pagine di Lestat. Appartenevano alla stessa tribù: occhi incandescenti, capelli luminosi, la pelle di una sostanza splendente e priva di pori. Sul braccialetto argenteo aveva rintracciato mille volte i vecchi simboli celtici degli dèi e delle dee ai quali i druidi parlavano nelle foreste, simili a quelle in cui un tempo Marius era stato fatto prigioniero. Di quanti anelli di congiunzione aveva bisogno, tra quelle invenzioni esoteriche e l’estate indimenticabile?

Ancora uno, indubbiamente. Il vampiro Lestat in persona… a San Francisco, dove l’avrebbe visto e l’avrebbe toccato… quello sarebbe stato l’anello finale. E allora, in quel momento, avrebbe conosciuto la risposta.

L’orologio ticchettava. La sua devozione al Talamasca moriva nel silenzio tiepido. Non poteva parlarne con loro. Ed era una tragedia, perché avrebbero provato un interesse grande e privo di egoismo. Non avrebbero dubitato.

Il pomeriggio perduto. Era di nuovo là. Scendeva nella cantina di Maharet per la scala a chiocciola. Non poteva spingere la porta? Ecco. Vedi ciò che vedesti allora. Qualcosa che a prima vista non era orribile… coloro che conosceva e amava addormentati nel buio, addormentati. Mael, però, giace sul pavimento freddo come se fosse morto, e Maharet è seduta contro la parete, rigida come una statua. Ha gli occhi aperti!

Si svegliò con un sussulto, con il viso accaldato. La stanza era buia e fredda. «Miriam», disse a voce alta. A poco a poco il panico si placò. S’era avvicinata, spaventatissima. Aveva toccato Maharet. Fredda, pietrificata. E Mael, morto! Il resto era tenebra.

New York. Era a letto con il libro fra le mani. E Miriam non venne. Si alzò e andò alla finestra.

Là di fronte, nella tetraggine pomeridiana, sorgeva la casa fantasma di Stanford White. La fissò fino a quando l’immagine svanì gradualmente.

Il vampiro Lestat le sorrideva dalla copertina dell’album appoggiato sul comò.

Chiuse gli occhi. Immaginò la tragica coppia, Coloro-che-devono-essere-conservati. Il re e la regina indistruttibili sul trono egizio, coloro per i quali il vampiro Lestat cantava i suoi inni dalla radio e dai jukebox e dai walkman. Vedeva la faccia bianca di Maharet che splendeva nell’ombra. Alabastro. La pietra sempre satura di luce.

L’oscurità che scendeva all’improvviso come avviene nel tardo autunno, il pomeriggio tetro che lasciava il posto allo splendore della sera. Il traffico rombava sulla strada affollata, echeggiava tra i palazzi. Era mai più rumoroso di quanto lo fosse nelle vie di New York? Appoggiò la fronte al vetro. La casa di Stanford White era visibile con la coda dell’occhio. E all’interno c’era qualcuno che si muoveva.


Jesse lasciò New York il pomeriggio seguente con la vecchia decapottabile di Matt. Gli pagò la macchina, nonostante le sue obiezioni, perché sapeva che non gliel’avrebbe mai riportata. Poi li abbracciò e, più casualmente che poté, disse loro tutte le cose semplici e sincere che aveva sempre desiderato dire.

Quella mattina aveva mandato un espresso a Maharet, e i due romanzi sui «vampiri». Le aveva spiegato che aveva lasciato il Talamasca, che sarebbe andata al concerto del vampiro Lestat, e che desiderava fermarsi nel complesso di Sonoma. Doveva vedere Lestat, era fondamentale. La sua vecchia chiave andava ancora bene per aprire la serratura della casa di Sonoma? Maharet le avrebbe permesso di alloggiarvi?

Durante la prima notte, a Pittsburgh, sognò le gemelle. Vide le due donne inginocchiate davanti all’altare. Vide il corpo cotto, pronto per venire divorato. Vide una gemella sollevare il piatto con il cuore, l’altra quello con il cervello. Poi i soldati, il sacrilegio.

Quando arrivò a Salt Lake City aveva sognato le gemelle per tre volte. Le aveva viste violentare in una scena confusa e terrificante. Aveva visto una creatura nata da una delle sorelle. Aveva visto la creaturina nascosta, quando le gemelle venivano nuovamente fatte prigioniere. Erano state uccise? Non lo sapeva. I capelli rossi. Se avesse potuto vedere i loro volti, i loro occhi! I capelli rossi la tormentavano.

Solo quando chiamò David da un telefono lungo la strada seppe che anche altri avevano fatto gli stessi sogni… sensitivi e medium di tutto il mondo. Ogni volta era stato stabilito un nesso con il vampiro Lestat. David chiese a Jesse di tornare a casa immediatamente.

Jesse cercò di spiegare, con gentilezza. Intendeva andare al concerto per vedere con i suoi occhi. Doveva farlo… C’erano altre cose da dire, ma era troppo tardi. David doveva sforzarsi di perdonarla.

«Non lo faccia», disse David. «Ciò che sta succedendo non è una cosa da documentare per gli archivi. Deve tornare, Jessica. La verità è che qui abbiamo bisogno di lei. Un bisogno disperato. È impensabile che tenti questo ‘avvistamento’ da sola, mi dia ascolto!»

«Non posso tornare. Ho sempre voluto bene a tutti voi. Ma mi dica: è l’ultima domanda che le farò. Come mai non può venire personalmente?»

«Jesse, lei non mi sta ascoltando.»

«David, la verità. Mi dica la verità. Ha mai creduto davvero in loro? Oppure è sempre stata una questione di oggetti e dossier e quadri custoditi nelle cripte, cose che può vedere e toccare? Lei sa cosa sto dicendo, David. Pensi al prete cattolico quando pronuncia le parole della consacrazione nella messa. Crede davvero che Cristo sia sull’altare? Oppure è solo una questione di calici e di vino sacramentale e di cori?»

Ah, come aveva mentito per nascondergli tante cose proprio mentre lo incalzava. Ma la risposta non l’aveva delusa.

«Jesse, ha frainteso tutto. So cosa sono quegli esseri. L’ho sempre saputo. Non ho mai avuto il minimo dubbio. E proprio per questo nessuna forza al mondo potrebbe indurmi ad assistere al concerto. È lei, quella che non sa accettare la verità. Deve vedere per credere! Jesse, il pericolo è autentico. Lestat è esattamente ciò che afferma di essere, e vi saranno altri ancora più pericolosi, altri che potranno riconoscerla per ciò che è e cercheranno di farle male. Se ne renda conto e faccia quel che le dico. Torni subito a casa.»

Era un momento doloroso. David si sforzava di convincerla, e lei si limitava a dirgli addio. David disse altre cose, promise di raccontarle «l’intera storia», di aprirle gli archivi, e ripetè che tutti avevano bisogno di lei, per quella vicenda.

Ma la mente di Jesse divagava. Non poteva dirgli «l’intera storia»: e questo era doloroso. Il sonno e il sogno la minacciavano ancora quando posò il ricevitore. Aveva visto i piatti, il corpo sull’altare. La loro madre. Sì, la loro madre. Era tempo di dormire. Il sogno voleva entrare. E poi, c’era da proseguire il viaggio.


Autostrada ioi. Le sette e trentacinque della sera. Mancavano venticinque minuti al concerto.

Aveva appena passato il valico sul Waldo Grade ed era apparso il vecchio miracolo… il grande skyline di San Francisco che sorgeva sulle colline, al di là della lucente distesa nera dell’acqua. Le torri del Golden Gate giganteggiavano davanti a lei, il vento freddo della baia le gelava le mani nude strette convulsamente sul volante.

Il vampiro Lestat sarebbe stato puntuale? La faceva ridere, pensare a un immortale che doveva presentarsi in orario. Bene, lei sarebbe stata puntuale: il viaggio era quasi terminato.

Era svanita la sofferenza per David e Aaron e tutti coloro che aveva amato. Non c’era sofferenza neppure per la Grande Famiglia, soltanto gratitudine. Eppure, forse David aveva ragione. Forse lei non aveva accettato la fredda, spaventosa verità, era scivolata nel regno dei ricordi e dei fantasmi, delle creature pallide che erano la sostanza dei sogni e della follia.

Si stava incamminando verso la casa fantasma di Stanford White, e non aveva nessuna importanza, ormai, chi vi abitava. Sarebbe stata la benvenuta. Avevano cercato di dirglielo fin da quando le riusciva di ricordare.

Загрузка...