PROEMIO

DICHIARAZIONE IN FORMA DI GRAFFITI
scritta con un pennarello nero su un muro rosso
nel retro di un bar chiamato Dracula’s Daughter a
San Francisco

Figli delle Tenebre
sappiate quanto segue:

Il primo libro, Intervista con il Vampiro, pubblicato nel 1976, era una storia vera. Potrebbe averlo scritto uno qualunque di noi: è il racconto di come si diventa ciò che siamo, dell’infelicità e della ricerca. Tuttavia Louis, l’immortale bicentenario che rivela tutto, insiste sulla simpatia per i mortali. Lestat, il malvagio che fece a Louis il Dono Tenebroso, gli diede ben poco di più in fatto di spiegazioni o di consolazione. Tutto ciò vi sembra familiare? Louis non ha ancora rinunciato alla ricerca della salvazione, sebbene anche Armand, l’immortale più vecchio che avesse conosciuto, non potesse dirgli perché esistiamo e chi ci ha creati. Non è molto sorprendente, vero, vampiri e vampire? Dopotutto, un catechismo per vampiri non è mai esistito.


Cioè, non è esistito fino alla pubblicazione del

secondo libro, Scelti dalle tenebre, pubblicato proprio questa settimana. Sottotitolo «educazione e prime avventure del vampiro Lestat». Non ci credete? Andate a controllare nella più vicina libreria dei mortali. Poi andate nel più vicino negozio di dischi e chiedete di vedere l’album appena uscito, intitolato Il vampiro Lestat con prevedibile modestia. Se questo non vi basta, accendete il televisore via cavo e, se non disprezzate questo genere di cose, aspettate che vada in onda uno dei tanti video rock di Lestat, che hanno cominciato a venire trasmessi appena ieri con frequenza nauseante. Riconoscerete subito Lestat per ciò che è. E forse non vi sorprenderà sentirvi dire che intende aggravare questi oltraggi inauditi presentandosi «dal vivo» sul palcoscenico in un concerto, proprio in questa città. Sì, in occasione della festa di Halloween, avete indovinato.


Ma dimentichiamo per il momento l’evidente follia dei suoi straordinari occhi che lampeggiano dalle vetrine dei negozi di dischi, o la sua voce potente che canta nomi segreti e storie molto più antiche di noi. Perché fa tutto ciò? Che cosa ci dicono le sue canzoni? È scritto chiaramente nel suo libro. Ci ha dato non soltanto un catechismo, ma una bibbia.

E proprio in tempi biblici veniamo condotti a conoscere i nostri progenitori, Enkil e Akasha, sovrani della valle del Nilo prima che venisse chiamata Egitto. Dimenticate quell’assurda storia di come, sulla faccia della terra, apparvero i primi bevitori di sangue; ha appena un po’ di senso in più della storia circa il modo in cui la vita prese a esistere su questo pianeta, o in cui i feti umani si svilupparono da cellule microscopiche nel grembo di madri mortali. La verità è che discendiamo da quella coppia venerabile e, ci piaccia o no, c’è motivo di credere che il generatore primordiale di tutti i nostri poteri deliziosi e indispensabili risieda nell’uno o nell’altro dei loro corpi antichissimi. Che cosa significa? Per dirla in parole povere, se Enkil e Akasha dovessero entrare in una fornace tenendosi per mano, bruceremmo con loro. Schiacciateli e riduceteli in polvere scintillante, e noi verremo annientati.

Ah, ma c’è una speranza. Loro due non si sono mossi da più di cinque secoli! Sì, è esatto. A parte il fatto che Lestat sostiene di averli destati entrambi suonando un violino ai piedi del loro sacrario. Ma se respingiamo la favola stravagante secondo la quale Akasha l’avrebbe preso tra le braccia e l’avrebbe fatto partecipe del suo sangue primordiale, restiamo con la versione più verosimile, corroborata dalle antiche storie, secondo la quale i due non hanno più battuto ciglio da prima della caduta dell’Impero Romano. Per tutto questo tempo sono stati custoditi in una cripta privata da Marius, un antico vampiro romano, il quale sa certamente cos’è meglio per tutti noi. E fu lui a raccomandare al vampiro Lestat di non rivelare mai il segreto.

Il vampiro Lestat non è un confidente degno di fiducia. E quali sono i motivi per cui ha realizzato il libro, l’album, i video e il concerto? È impossibile sapere cosa passa per la mente di quel demonio, ma è certo che, con notevole coerenza, vuole fare ciò che fa. Dopotutto, non aveva creato una bimba vampira? E non ha trasformato in vampira sua madre Gabrielle, che per anni è stata la sua amorosa compagna? Forse questo diavolo ha messo gli occhi sul papato, così per divertirsi!

Dunque, ecco la situazione: Louis, un filosofo vagabondo che nessuno di noi riesce a trovare, ha confidato i nostri più profondi segreti morali a innumerevoli sconosciuti. E Lestat ha osato rivelare la nostra storia al mondo, mentre esibisce i suoi poteri sovrannaturali davanti al pubblico mortale.

E ora, ecco il problema: perché quei due continuano a esistere? Perché non li abbiamo annientati? Oh, il pericolo rappresentato per noi dalla grande mandria non è affatto una certezza. I paesani non sono ancora alle porte, torce alla mano, per incendiare il castello. Ma il mostro sta cercando di cambiare la prospettiva dei mortali. E sebbene noi siamo troppo astuti per confermare agli umani le sue sciocche invenzioni, l’oltraggio supera ogni precedente. Non può rimanere impunito.

Altre osservazioni: se la storia narrata dal vampiro Lestat è vera — e sono in molti a giurarlo anche se non sanno spiegarsi il perché — non è possibile che il bimillenario Marius si faccia avanti per punire la disobbedienza di Lestat? O forse il re o la regina, se hanno orecchi per udire, si sveglieranno nel sentire i loro nomi diffusi per tutto il pianeta dalle eteree onde della radio. Cosa potrebbe accadere a tutti noi, se ciò avvenisse? Prospereremo sotto il loro nuovo regno? Oppure stabiliranno il tempo della distruzione universale? In ogni caso, il rapido annientamento del vampiro Lestat non potrebbe scongiurarla?

Ecco il piano: annientare il vampiro Lestat e tutte le sue coorti non appena oseranno mostrarsi. Annientare tutti coloro che gli sono fedeli.

Un avvertimento: è inevitabile che vi siano altri vecchissimi bevitori di sangue. Ogni tanto tutti noi li abbiamo intravisti o abbiamo percepito la loro presenza. Le rivelazioni di Lestat, più che scandalizzare, destano in noi una consapevolezza inconscia. E senza dubbio, con i loro grandi poteri, gli antichi possono udire la musica di Lestat. Quali esseri vecchissimi e terribili, incitati dalla storia, dalla finalità o dal semplice riconoscimento, potrebbero avanzare lentamente e inesorabilmente per rispondere al suo appello?


Copie di questa dichiarazione sono state inviate in tutti i luoghi di ritrovo della comunità dei vampiri e in tutte le sedi delle congreghe in questo mondo. Ma abbiate cura di diffondere l’annuncio: è necessario annientare il vampiro Lestat e con lui sua madre Gabrielle, le sue coorti, Louis e Armand, e tutti gli immortali che gli sono fedeli.

Felice Halloween a voi, vampiri e vampire. Arnvederci al concerto. Faremo in modo che il vampiro Lestat non possa più nuocere a nessuno.


L’uomo biondo con la giacca di velluto rosso rilesse la dichiarazione dall’angolo più lontano. Gli occhi erano quasi invisibili dietro le lenti scure e sotto la tesa del cappello grigio. Calzava guanti di nappa grigia e teneva le braccia incrociate sul petto mentre stava appoggiato ai pannelli di legno nero, con un tacco dello stivale agganciato alla traversa della sedia.

«Lestat, sei il più dannato degli esseri», mormorò sottovoce. «Sei un principino viziato.» E rise tra sé. Poi girò lo sguardo sulla grande stanza in ombra.

L’intricato affresco a inchiostro nero, tracciato con abilità come una grande ragnatela sull’intonaco bianco del muro, non gli dispiaceva. Apprezzava il castello in rovina, il camposanto, l’albero rattrappito che artigliava la luna piena. Era un cliché reinventato come se non fosse un cliché, un gesto artistico che apprezzava invariabilmente. E altrettanto ammirevole era il soffitto modanato con i fregi che ritraevano diavoli danzanti e megere a cavallo delle scope. E l’incenso era dolce… una vecchia mistura indiana che anche lui, un tempo, aveva bruciato, ma si trattava di secoli prima, nel sacrario di Coloro-che-devono-essere-conservati.

Sì, era uno dei più belli tra i luoghi di ritrovo clandestini.

Meno gradevoli erano gli abitanti, le esili figure bianche che attorniavano le candele accese sui piccoli tavoli d’ebano. Erano troppi per quella città moderna e civile. E lo sapevano. Per andare a caccia quella notte avrebbero dovuto spingersi molto lontano; e i giovani hanno sempre bisogno di andare a caccia. I giovani devono uccidere. Sono troppo affamati per ricorrere ad altri sistemi.

Ma in quel momento pensavano soltanto a lui… Chi era, e da dove veniva? Era molto vecchio e molto forte, e che cosa avrebbe fatto prima di andarsene? Erano sempre gli stessi interrogativi, sebbene tentasse di insinuarsi nei loro bar di vampiri come un semplice bevitore di sangue vagabondo, con gli occhi distolti e la mente chiusa.

Era meglio lasciare senza risposta le loro domande. Aveva scoperto ciò che cercava e si era fatto un’idea delle loro intenzioni. La cassetta audio di Lestat era custodita nella tasca della giacca. Prima di tornare a casa avrebbe avuto anche una registrazione dei video-rock.

Si alzò per uscire. Nello stesso momento anche uno dei giovani si alzò. Scese un silenzio teso che incombeva sui pensieri, non solo sulle parole, mentre lui e il giovane si avvicinavano alla porta. Lampeggiavano solo le fiamme delle candele, lanciando i loro bagliori sul pavimento di piastrelle nere come se fosse una distesa d’acqua.

«Da dove vieni, straniero?» chiese educatamente il giovane. Non aveva più di vent’anni quand’era morto, e questo non più di un decennio prima. Si dipingeva gli occhi, si truccava le labbra e si striava i capelli di colori barbari, come se i doni sovrannaturali non fossero sufficienti. Appariva stravagante e diverso da ciò che era, un revenant scarno e poderoso che, con un po’ di fortuna, avrebbe potuto sopravvivere ai millenni.

Che cosa gli avevano promesso con il loro gergo moderno? Che avrebbe conosciuto il Bardo, il Piano Astrale, i reami eterici, la musica delle sfere, il suono dell’applauso d’una mano sola?

Il giovane parlò di nuovo. «Qual è la tua posizione sulla vicenda del vampiro Lestat e sulla Dichiarazione?»

«Perdonami. Devo andare.»

«Ma saprai senza dubbio cos’ha fatto Lestat», insistette il giovane, insinuandosi tra lui e la porta. E questo non era un gesto educato.

L’uomo studiò più attentamente il giovane. Doveva fare qualcosa che li sconvolgesse per fare in modo che ne parlassero per secoli? Non seppe reprimere un sorriso. Ma no, molto presto vi sarebbe stata eccitazione a sufficienza, grazie al suo amato Lestat.

«Permettimi di darti un piccolo consiglio», disse con voce calma al giovane che l’aveva interrogato. «Non potete annientare il vampiro Lestat: nessuno può farlo. Ma sinceramente, non so dirti perché sia così.»

Il giovane sembrò colto di sorpresa e un po’ irritato.

«Ma lascia che ora ti faccia una domanda», continuò l’altro. «Perché questa ossessione per il vampiro Lestat? E il contenuto delle sue rivelazioni? Voi novellini non desiderate cercare Marius, il custode di Coloro-che-devono-essere-conservati? Non volete vedere con i vostri occhi la Madre e il Padre?»

Il giovane apparve dapprima confuso e quindi sprezzante. Non era capace di dare una risposta intelligente: ma la risposta vera era evidente nella sua anima… nelle anime di tutti coloro che ascoltavano e osservavano. Coloro-che-devono-essere-conservati potevano esistere o non esistere; e forse non esisteva neppure Marius. Ma il vampiro Lestat era reale, era la cosa più reale che conoscesse quell’immortale inesperto; e il vampiro Lestat era un avido demonio che metteva in pericolo la prosperità segreta della sua specie solo per farsi vedere, amare e ammirare dai mortali.

Per poco non rise in faccia al giovane. Era una battaglia così insignificante. Lestat comprendeva così bene quei tempi privi di fede, bisognava ammetterlo. Sì, aveva rivelato segreti che avrebbe dovuto custodire: ma così facendo non aveva tradito nulla e nessuno.

«Guardati dal vampiro Lestat», disse finalmente al giovane con un sorriso. «Su questa terra vi sono pochissimi immortali veri. Forse è uno di loro.»

Poi sollevò di peso il giovane e lo scostò. Varcò la porta e passò nella taverna.

Il locale, spazioso e ricco con i drappeggi di velluto nero e le appliques di bronzo laccato, era pieno di mortali chiassosi. I vampiri dello schermo si affacciavano dalle cornici dorate appese alle pareti rivestite di raso. Un organo suonava l’appassionata Toccata e fuga di Bach, tra un brusio di conversazioni e scrosci violenti di risate ebbre. La vista di quella vita esuberante gli piaceva. Gli piacevano persino l’odore antichissimo del malto e del vino e il rumo delle sigarette. E mentre si avviava all’uscita, si compiacque del contatto degli umani fragranti che lo sfioravano. Amava il fatto che i viventi non badassero affatto a lui.

E finalmente uscì nell’aria umida, tra i marciapiedi affollati della prima sera in Castro Street. Il cielo aveva ancora una levigata lucentezza argentea. Uomini e donne andavano e venivano in fretta per sfuggire alla pioggerella obliqua, ma s’intruppavano agli angoli in attesa che i grandi semafori colorati lampeggiassero e lanciassero i loro segnali.

Gli altoparlanti del negozio di dischi dall’altra parte della strada trasmettevano a tutto volume la voce di Lestat fra il rombo degli autobus che passavano e il sibilo delle ruote sull’asfalto bagnato

Nei miei sogni la tengo ancora fra le braccia,

Angelo, amore, madre,

E nei miei sogni bado le sue labbra,

amante, musa, figlia.

Lei mi diede la vita,

Io le diedi la morte,

Alla mia bella marchesa.

E sulla Strada del Diavolo ci avviammo,

Insieme come due orfani.

E questa notte ode i miei inni

di re e regine e antiche verità?

Di voti infranti e sofferenze?

Oppure è avviata su un sentiero lontano,

Dove le rime e il canto non possono trovarla?

Ritorna a me, mia Gabrielle,

Mia bellissima marchesa.

Il castello è in rovina in cima al colle,

Il villaggio è sepolto dalla neve,

Ma tu sei mia per sempre.

Dov’era la madre di Lestat?

La voce si spense in un sommesso zampillare di note elettriche che furono inghiottite dai rumori caotici. L’uomo si avviò nella brezza umida e raggiunse l’angolo. Era piacevole, quella viuzza affollata. Il fioraio vendeva ancora la sua mercé sotto il tendone. La macelleria era piena di gente che si recava a fare la spesa dopo il lavoro. Dietro le vetrate del caffè, i mortali consumavano il pasto della sera o indugiavano per leggere i giornali. Dozzine di persone attendevano l’autobus, e davanti al vecchio cinema di fronte s’era formata la fila.

Gabrielle era lì. Ne aveva la sensazione, vaga ma infallibile.

Quando arrivò sull’orlo del marciapiedi, si fermò con le spalle contro il lampione di ferro e respirò il vento fresco che scendeva dalla montagna. C’era una bella veduta della parte bassa della città, lungo l’ampia dirittura di Market Street. Ricordava un po’ un boulevard di Parigi. E tutto intorno, i dolci pendii urbani erano coperti dalle luci gaie delle finestre.

Sì: ma dov’era, esattamente? «Gabrielle», sussurrò. Chiuse gli occhi. Ascoltò. Dapprima gli giunse il rombo sconfinato di migliaia di voci, e le immagini si affollarono. L’intero mondo minacciava di schiudersi e di inghiottirlo con le sue lamentazioni incessanti. Gabrielle. Il clamore tonante si spense lentamente. L’uomo captò un lampo di sofferenza in un mortale che gli passava accanto. E in un edificio sulla collina, una donna morente sognava l’infanzia mentre stava seduta, apatica, alla finestra. Poi, nel silenzio fioco e costante, l’uomo vide ciò che desiderava vedere: Gabrielle che s’era fermata di colpo. Aveva udito la sua voce. Sapeva d’essere osservata. Era alta e bionda, con i capelli raccolti in un’unica treccia sulla schiena, e stava in una delle vie pulite e deserte della città bassa, non lontano da lui. Indossava giacca e pantaloni kaki e un logoro maglione color bruciato. E un cappello non dissimile dal suo, che le copriva gli occhi e lasciava visibile solo una parte del viso al di sopra del colletto rialzato. In quel momento Gabrielle chiuse la propria mente, circondandosi con molta efficienza d’una barriera invisibile. L’immagine svanì.

Sì, è qui in attesa del figlio, Lestat. Non aveva mai temuto per lei… creatura fredda che non aveva paura per sé, ma solo per Lestat. Bene. Era soddisfatto. Anche Lestat lo sarebbe stato.

Ma l’altro? Louis il gentile, con i capelli neri e gli occhi verdi, i passi dal suono noncurante, che fischiettava sommessamente nelle strade buie in modo che i mortali lo sentissero avvicinarsi. Louis, dove sei?

Quasi immediatamente vide Louis entrare in un salotto vuoto. Aveva appena salito le scale della cantina dove aveva dormito durante il giorno in una cripta. Non s’era accorto d’essere osservato. Attraversò con passi armoniosi la stanza impolverata e si fermò a guardare, oltre il vetro sporco, le macchine che transitavano. Era la stessa vecchia casa in Divisadero Street. In effetti non era cambiato molto per essere quell’elegante e sensuale creatura che aveva causato un piccolo tumulto con la sua storia in Intervista con il Vampiro. Ma adesso attendeva Lestat. Aveva fatto sogni sconvolgenti; temeva per Lestat ed era assillato da impulsi antichi e sconosciuti.

Con riluttanza lasciò svanire l’immagine. Aveva un grande affetto per Louis. E non era un affetto saggio perché Louis aveva un’anima tenera e colta, ma non aveva nulla del potere abbagliante di Gabrielle o del figlio diabolico di questa. Tuttavia poteva darsi che Louis sopravvivesse a lungo, tanto quanto loro: ne era certo. Erano strane e diverse le varie forme di coraggio che permettevano di durare. Forse avevano qualcosa a che fare con la rassegnazione. Ma come spiegare allora Lestat che, sconfìtto e straziato, era comunque risorto? Lestat che non s’era mai rassegnato a nulla?

Non s’erano ancora trovati, Gabrielle e Louis. Ma andava bene così. Cosa doveva fare? Farli incontrare? Solo l’idea… E poi, presto l’avrebbe fatto Lestat.

Ma l’uomo aveva ripreso a sorridere. «Lestat, sei la più dannata delle creature! Sì, un principino viziato.» A poco a poco rievocò ogni dettaglio del volto e della figura di Lestat. Gli occhi come il ghiaccio che si oscuravano nella risata, il sorriso generoso, le sopracciglia che si inarcavano in un cipiglio infantile, i lampi improvvisi di ottimismo e di spirito blasfemo. Riusciva a immaginare anche il portamento felino, così raro in un uomo dalla struttura muscolosa. Tanta forza, sempre tanta forza e quell’ottimismo insopprimibile.

Il fatto era che non sapeva come giudicare quella sorpresa: sapeva soltanto che era divertito e affascinato. Naturalmente non pensava a vendicarsi di Lestat perché aveva rivelato i suoi segreti. E sicuramente Lestat aveva contato su questo… ma non si poteva mai sapere. Forse non se ne curava affatto. E a questo proposito, lui non ne sapeva più di quanto ne sapessero gli sciocchi nel bar.

L’importante, per lui, era che per la prima volta, dopo tanti anni, si sorprendeva a pensare in termini di passato e futuro; si ritrovava acutamente consapevole della natura di quell’epoca. Coloro-che-devono-essere-conservati erano una favola perfino per i loro figli! Erano passati i giorni in cui i vagabondi bevitori di sangue cercavano il loro sacrario e il loro sangue possente. Nessuno credeva più in loro, nessuno se ne curava!

E in ciò stava l’essenza di quel tempo; i suoi mortali, di una schiatta ancora più pratica, rifiutavano il miracoloso in ogni forma e misura. Con un coraggio senza precedenti, avevano basato saldamente il loro più grande progresso etico sulle verità radicate nella realtà fìsica.

Erano trascorsi duecento anni da quando aveva discusso con Lestat degli stessi argomenti su un’isola del Mediterraneo… il sogno di un mondo senza dio ma veramente morale, dove l’amore per il prossimo fosse l’unico dogma. Un mondo nel quale non c’è posto per noi. E adesso quel mondo s’era quasi realizzato. E il vampiro Lestat era passato all’arte popolare, dove avrebbero dovuto finire tutti i vecchi diavoli, e dove avrebbe dovuto portare con sé l’intera tribù maledetta, inclusi Coloro-che-devono-essere-conservati, anche se forse non l’avrebbero mai saputo.

La simmetria di tutto ciò lo fece sorridere. Non soltanto provava soggezione, ma era anche sedotto dall’idea di ciò che aveva fatto Lestat. Poteva comprendere molto bene il richiamo della fama.

Ah, lo aveva smodatamente eccitato vedere il suo nome scarabocchiato sulla parete del bar. Aveva riso, ma quella risata gli aveva fatto piacere.

Bisognava riconoscere che Lestat era stato abilissimo nel costruire quel dramma così ispirato… e infatti di questo si trattava. Lestat, l’attore boulevardier dell’Ancien regime, asceso al ruolo di star in quell’era splendida e innocente.

Ma aveva avuto ragione nel suo discorsetto al novellino, nel bar, quando aveva detto che nessuno poteva annientare il principino viziato? Era una pura invenzione. Un’ottima pubblicità. Il fatto è che ognuno di noi può venire annientato… in un modo o nell’altro. Inclusi Coloro-che-devono-essere-conservati, senza dubbio.

Erano deboli, naturalmente, i novellini «Figli delle tenebre», come si autodefinivano. Il numero non ne accresceva la forza in modo significativo. Ma… e i più vecchi? Se almeno Lestat non avesse usato i nomi di Mael e Pandora. Ma non c’erano bevitori di sangue ancora più vecchi, dei quali persino lui non sapeva nulla? Pensò al monito sul muro: «Esseri vecchissimi e terribili… che potrebbero avanzare lentamente e inesorabilmente per rispondere al suo appello».

Un fremito lo scosse. Era un senso di freddo, tuttavia per un istante gli parve di vedere una giungla, un luogo verde e fetido, pieno di calore, malsano e soffocante. Poi la visione sparì senza spiegazioni, come tanti segnali e messaggi improvvisi che gli pervenivano. Molto tempo prima aveva imparato a escludere il flusso incessante di voci e di immagini che i poteri mentali gli permettevano di captare; e tuttavia ogni tanto gli giungeva qualcosa di violento e d’inaspettato, come un grido acutissimo.

Comunque, era rimasto abbastanza a lungo in quella città. Non sapeva ancora che sarebbe intervenuto, comunque e qualunque cosa accadesse! Era incollerito per l’improvviso calore dei suoi sentimenti. Voleva tornare a casa. Per troppo tempo era rimasto lontano da Coloro-che-devono-essere-conservati.

Ma amava osservare la dinamica folla umana, la parata goffa del traffico. Persino gli odori velenosi della città non lo infastidivano. Non erano peggio del puzzo dell’antica Roma o di Antiochia o di Atene… dove i mucchi dei rifiuti umani erano coperti di mosche dovunque si guardasse, e l’aria era inevitabilmente satura del lezzo delle malattie e della fame. No, gli piacevano le città della California, pulite e dai colori pastello. Avrebbe gradito indugiare per sempre fra i loro abitanti dagli occhi così limpidi.

Ma doveva tornare a casa. Il concerto avrebbe avuto luogo tra diverse sere, e allora avrebbe riveduto Lestat, se così avesse deciso… Era delizioso non sapere esattamente cosa avrebbe fatto, come pensavano invece di saperlo altri, altri che neppure credevano in lui!

Attraversò Castro Street e si avviò a passo svelto in Market Street. Il vento s’era placato e l’aria era quasi tiepida. Continuò con quell’andatura sostenuta, fischiettando tra sé come faceva spesso Louis. Si sentiva piacevolmente umano. Poi si fermò davanti a un negozio di radio e televisori. Lestat cantava in ogni schermo, grande o piccolo che fosse.

Rise tra sé del grandioso concerto di gesti e movimenti. L’audio era spento, sepolto in minuscoli semi splendenti negli apparecchi. Avrebbe dovuto cercare per captarlo. Ma non era già affascinante limitarsi a osservare in uno spietato silenzio le smanie del principino dai capelli biondi?

La telecamera indietreggiò per inquadrare la figura intera di Lestat che suonava il violino come sospeso nel vuoto. Ogni tanto una tenebra stellare l’avvolgeva. Poi all’improvviso si schiusero due battenti… era una riproduzione esatta del sacrario di Coloro-che-devono-essere-conservati! E c’erano… c’erano Akasha ed Enkil, o meglio due attori truccati per sostenere quelle parti, egizi dalla pelle bianca, i capelli neri lunghi, come strisce di seta, e i gioielli scintillanti.

Era ovvio. Perché non aveva intuito che Lestat si sarebbe spinto fino a quell’estremo volgare e tentatore? Si protese, per captare la trasmissione del suono. Udì la voce di Lestat, un po’ più forte del violino.

Akasha! Enkil!

Conservate i vostri segreti

Conservate il vostro silenzio,

È un dono migliore della verità.

Il suonatore di violino chiuse gli occhi e sprofondò nella musica. Lentamente, Akasha si alzò dal trono. Il violino cadde dalle mani di Lestat quando la vide: come una danzatrice, lei lo cinse con le braccia, l’attirò a sé, si chinò per donargli il suo sangue mentre gli faceva premere i denti contro la propria gola.

Era meglio di quanto avesse immaginato… e molto ingegnoso. La figura di Enkil si destò, si alzò e prese a camminare come un fantoccio meccanico. Avanzò per riprendere la sua regina. Lestat fu scagliato sul pavimento del sacrario. Il video terminò. Il salvataggio da parte di Marius non era incluso.

«Ah, dunque non sono destinato a essere una celebrità televisiva», mormorò con un vago sorriso. Si avvicinò all’entrata del negozio buio.

Una giovane donna attendeva per farlo entrare. Aveva in mano la cassetta di plastica nera.

«Tutti e dodici», disse. Aveva una bella carnagione scura e grandi occhi castani e sonnolenti. Il cerchio d’argento che le cingeva il polso brillava nella luce. Gli sembrò affascinante. La ragazza prese il denaro senza contarlo. «Lo trasmettono su una dozzina di canali. Per la verità li ho seguiti tutti. Sono finiti ieri pomeriggio.»

«Mi ha servito molto bene», rispose l’uomo. «Grazie.» E tirò fuori un altro rotolo di biglietti di banca.

«Non è stato niente d’importante.» La ragazza non voleva accettare dell’altro denaro.

Lo prenderai.

La ragazza lo prese con una scrollata di spalle e lo mise in tasca.

Niente d’importante. Gli piacevano quelle espressioni moderne ed eloquenti. Amava quel movimento dei seni, quando lei aveva alzato le spalle, e l’agile guizzo dei fianchi sotto la ruvida stoffa jeans che la faceva sembrare ancora più fragile. Un fiore incandescente. E quando lei aprì la porta, le toccò il nido morbido di capelli bruni. Era impensabile nutrirsi di qualcuna che ti aveva servito… e poi, così innocente! Non l’avrebbe fatto. Tuttavia la fece voltare, e le insinuò tra i capelli le dita inguantate per sostenerle la testa.

«Un piccolo bacio, mia cara.»

La ragazza chiuse gli occhi. I denti dell’uomo trapassarono istantaneamente l’arteria e la lingua lambì il sangue. Solo un assaggio. Un minuscolo lampo di calore si consumò nel cuore in un secondo. Poi si tirò indietro, con le labbra posate sulla gola delicata. Sentiva il palpito del suo sangue. La bramosia di berlo fino in fondo era quasi irresistibile. Peccato ed espiazione. La lasciò. Le assestò i riccioli morbidi e la guardò negli occhi annebbiati.

Non ricordare.

«Arnvederci», disse lei con un sorriso.


Rimase immobile sul marciapiedi deserto. E la sete, cupa e ignorata, si spense lentamente. Guardò la custodia di cartone della videocassetta.

«Una dozzina di canali», aveva detto la ragazza. «Li ho seguiti tutti.» Se era così, gli esseri affidati alle sue cure avevano già visto inevitabilmente Lestat sul grande schermo piazzato nel sacrario di fronte a loro. Molto tempo prima aveva installato l’antenna del satellite sul pendio sopra il tetto per captare le trasmissioni di tutto il mondo. Un piccolo congegno computerizzato cambiava il canale ogni ora. Per anni, avevano osservato impassibili mentre le immagini e i colori scorrevano davanti ai loro occhi senza vita. C’era stato un guizzo lievissimo quando avevano udito la voce di Lestat o avevano visto le loro immagini? O quando avevano udito i loro nomi cantati come in un inno?

Bene, presto l’avrebbe scoperto. Avrebbe mostrato loro la videocassetta. Avrebbe studiato i loro visi lucidi e immoti in cerca di qualcosa, qualunque cosa che non fosse soltanto il riflesso della luce.

«Ah, Marius, tu non disperi mai, vero? Non sei migliore di Lestat, con i tuoi sogni assurdi.»


Era mezzanotte, quando arrivò a casa.

Chiuse la porta d’acciaio sotto la neve turbinante. Rimase immobile per un momento e lasciò che l’aria calda lo avvolgesse. La tormenta che aveva attraversato gli aveva lacerato il viso, le orecchie e persino le dita guantate. Il tepore era così piacevole.

Ascoltò nel silenzio il suono familiare dei generatori giganteschi e la lieve pulsazione elettronica del televisore nel sacrario, molte decine di metri sotto di lui. Era Lestat che cantava? Sì. Senza dubbio erano le ultime, lugubri parole di un’altra canzone.

Si sfilò piano piano i guanti. Si tolse il copricapo e si passò le dita fra i capelli. Studiò il grande atrio e il salotto adiacente, cercando di scoprire se qualcuno era stato lì.

Naturalmente era quasi impossibile. Era a molti chilometri dall’ultimo avamposto del mondo moderno, in una grande distesa gelida e coperta di neve. Ma, spinto dalla forza dell’abitudine, osservava sempre tutto con attenzione. C’erano alcuni che avrebbero potuto penetrare nella fortezza, se avessero saputo dove si trovava.

Andava tutto bene. Si fermò davanti all’acquario gigantesco, la vasca grande come una stanza che confinava con la parte sud. L’aveva costruita con estrema cura, con vetro robustissimo e con l’equipaggiamento migliore. Guardò i banchi di pesci multicolori che gli passavano davanti, quindi cambiavano di colpo direzione nell’oscurità artificiale. Le colossali alghe ondeggiavano dolcemente, come una foresta colta in un ritmo ipnotico e sospinta dal soffio dolce dell’aeratore. Era uno spettacolo che non mancava mai di affascinarlo con la sua monotonia spettacolare. Gli occhi neri e tondi dei pesci gli ispiravano un brivido, e le fronde alte e agili delle alghe, con le affusolate foglie gialle, lo emozionavano vagamente: ma l’elemento principale era il movimento, il movimento costante.

Alla fine se ne distaccò, e tornò a guardare quel mondo puro, inconscio e incidentalmente bellissimo.

Sì, era tutto lì.

Era bello, trovarsi in quelle stanze calde. Non c’era nulla che non andasse nei mobili di pelle morbida sparsi sulla moquette color vino. Il camino era pieno di legna. Le pareti erano ricoperte da librerie. E c’era il grande banco delle apparecchiature elettroniche dove poteva inserire la registrazione di Lestat. Era ciò che desiderava fare: sedere accanto al fuoco e guardare i video rock in sequenza. L’arte con cui erano stati realizzati l’affascinava non meno delle canzoni, il miscuglio di vecchio e di nuovo… e il modo in cui Lestat s’era servito delle distorsioni dei media per camuffarsi perfettamente da mortale cantante rock che aspira a sembrare un dio.

Si tolse il lungo mantello grigio e lo buttò sulla poltrona. Perché l’intera faccenda gli dava un piacere così inaspettato? Tutti noi aspiriamo a bestemmiare, ad agitare i pugni contro il volto degli dèi? Forse è vero. Secoli prima, in quella che veniva chiamata «l’antica Roma», anche lui, giovane beneducato, aveva sempre riso delle buffonate dei bambini cattivi.

Sapeva che doveva andare nel sacrario prima di ogni altra cosa. Almeno per un attimo, per assicurarsi che tutto fosse come doveva essere. Per controllare la televisione, la temperatura, tutti i complessi sistemi elettrici, per mettere nel braciere altro carbone e altro incenso. Era facile mantenere un paradiso tutto per loro, adesso che era possibile far ricorso a livide luci che donavano il nutrimento del sole ad alberi e fiori che non avevano mai visto la luce naturale del cielo. Ma l’incenso… quello doveva essere fatto a mano, come sempre. E non accadeva mai che lo spargesse sulle braci senza pensare alla prima volta in cui aveva compiuto il gesto.

Era venuto il momento di prendere un panno morbido e, con rispettosa cura, togliere la polvere dai progenitori… dai loro corpi rigidi e inflessibili, dalle labbra e dagli occhi, gli occhi freddi che non battevano mai. Era passato un mese intero. Gli sembrava una vergogna.

Avete sentito la mia mancanza, miei amatissimi Akasha ed Enkil? Ah, la vecchia battuta scherzosa.

La ragione gli diceva, come sempre, che non sapevano se andava e veniva o non se ne curavano. Ma l’orgoglio gli suggeriva sempre un’altra possibilità. Il pazzo rinchiuso nella cella del manicomio non prova qualcosa per lo schiavo che gli porta l’acqua? Forse non era un paragone calzante. E senza dubbio non era generoso.

Sì, si erano mossi per Lestat, il principino viziato, questo era vero… Akasha per offrire il sangue della potenza, Enkil per vendicarsi. E Lestat poteva fare in eterno i suoi video su quell’episodio. Ma non era già stato provato una volta per tutte che in nessuno dei due era rimasto un barlume di lucidità? Senza dubbio, al massimo era una scintilla atavica che aveva balenato per un istante: era stato troppo facile ricacciarli nel silenzio e nell’immobilità, sul loro trono sterile.

Tuttavia l’episodio l’aveva amareggiato. Dopotutto non era mai stata sua intenzione trascendere le emozioni di un uomo pensante, ma piuttosto affinarle, reinventarle, goderne con una comprensione infinitamente perfettibile. E in quel momento aveva provato l’impulso di scagliarsi contro Lestat con un furore fin troppo umano.

O giovane, perché non prendi Coloro-che-devono-essere-conservati, dato che ti hanno dimostrato questo eccezionale favore? Ormai mi piacerebbe sbarazzarmi di loro. Porto addosso questo peso fin dagli albori dell’era cristiana.

Ma in verità, non era quello il suo sentimento più sottile. Né allora, né adesso. Era soltanto un’indulgenza temporanea. Amava Lestat come l’aveva amato sempre. Ogni regno ha bisogno di un principino viziato. E il silenzio del re e della regina era una benedizione non meno di una maledizione, forse. La canzone di Lestat diceva la verità in proposito. Ma chi avrebbe mai risolto il dubbio?

Oh, più tardi sarebbe sceso con la videocassetta e avrebbe osservato con i suoi occhi, naturalmente. E se vi fosse stato il minimo guizzo, il minimo cambiamento nei loro sguardi eterni…

Ma ecco che ricominci… Lestat ti fa ritornare giovane e stupido. E tendi a nutrirti dell’innocenza e dei sogni della catastrofe.

Quante volte, nel corso dei secoli, erano nate simili speranze che poi l’avevano lasciato ferito, addirittura distrutto? Anni prima aveva portato loro i filmati a colori del levar del sole, del cielo azzurro, delle piramidi egizie. Ah, quale miracolo! Davanti ai loro occhi scorrevano le acque del Nilo, inondate dal sole. Lui stesso aveva pianto per l’illusione perfetta; aveva persino temuto che il sole filmato gli facesse male, sebbene ovviamente sapesse che era impossibile. Ma il potere dell’invenzione era tale che lui poteva stare a guardare il sorgere del sole, come non l’aveva più visto dai tempi in cui era mortale.

Ma Coloro-che-devono-essere-conservati avevano guardato con ininterrotta indifferenza… o forse era meraviglia, una grande meraviglia indifferenziata che considerava motivo di fascino perenne persino le particelle di polvere sospese nell’aria.

Chi lo saprà mai? Erano vissuti per quattromila anni prima della sua nascita. Forse le voci del mondo rombavano nelle loro menti, tanto era acuto il loro udito telepatico: forse un miliardo di immagini mutevoli li rendeva ciechi a tutto il resto. Senza dubbio erano idee che avevano minacciato di farlo impazzire fino a che non aveva imparato a controllarle.

Aveva addirittura pensato di procurarsi strumenti medici moderni per chiarire la cosa, di fissare gli elettrodi alle loro teste per scoprire le emanazioni dei loro cervelli. Ma era stata troppo disgustosa l’idea di quegli apparecchi sgraziati e offensivi. Dopotutto erano il suo re e la sua regina, il Padre e la Madre di tutti. Sotto il suo tetto avevano regnato incontrastati per due millenni.

Doveva ammettere un suo torto. Da qualche tempo, quando parlava con loro, usava toni acidi. Non era più il sommo sacerdote, quando entrava nel sacrario. No, c’era qualcosa d’insolente e sarcastico nella sua voce, ed era indegno di lui. Forse era ciò che chiamavano «il carattere moderno». Come si poteva vivere nel mondo dei missili che superavano la luna senza che una intollerabile coscienza di sé minacciasse ogni sillaba, anche la più banale? E non aveva mai ignorato il secolo in cui si trovava a vivere.

Di qualsiasi cosa si trattasse, doveva recarsi subito al sacrario. E avrebbe purificato adeguatamente i suoi pensieri. Non si sarebbe presentato con l’animo colmo di risentimento o di disperazione. Più tardi, dopo aver visionato i video, avrebbe proiettato per loro la registrazione. E sarebbe rimasto a guardare. Ma non se la sentiva di farlo adesso.

Entrò nell’ascensore d’acciaio e premette il pulsante. Il ronzio elettronico e l’improvvisa perdita del senso di gravita gli diedero un vago piacere sensuale. Il mondo del presente era pieno di tanti suoni che prima nessuno aveva mai udito. Era molto gradevole. E poi c’era la piacevole facilità di precipitare per decine di metri in un pozzo scavato nel ghiaccio compatto per raggiungere le camere sottostanti, illuminate elettricamente.

Aprì la porta ed entrò nel corridoio dal pavimento coperto di tappeti. Era di nuovo Lestat che cantava nel sacrario, una canzone più rapida e gioiosa, mentre la voce battagliava con un rullo di tamburi e con i convulsi gemiti elettronici.

Ma c’era qualcosa che non andava. I battenti erano spalancati. Com’era possibile? Lui solo conosceva il codice per la minuscola serie di pulsanti. La seconda coppia di battenti era aperta, e così pure la terza. In effetti poteva vedere il sacrario, anche se la visuale era in parte ostacolata dal muro di marmo bianco della piccola alcova. I lampi rossi e azzurri del teleschermo erano come la luce di un vecchio camino a gas.

E la voce di Lestat echeggiava possente tra i muri marmorei e i soffitti a volta.

Uccideteci, miei fratelli e sorelle,

La guerra è incominciata.

Comprendete che cosa vedete

Quando vedete me.

Trasse un respiro lento e profondo. Non c’era altro suono oltre a quello della musica, che ora si dissolveva per lasciare il posto allo scialbo chiacchiericcio dei mortali. E lì non c’erano estranei. No, se ne sarebbe accorto. Non c’era nessuno nel suo covo. L’istinto glielo confermava con certezza.

Una fìtta dolorosa gli trapassò il petto. Una vampata di caldo gli salì al volto. Straordinario.

Attraversò le anticamere di marmo e si fermò sulla soglia dell’alcova. Stava pregando? Oppure sognava? Sapeva che cosa avrebbe veduto tra poco… Coloro-che-devono-essere-conservati. Li avrebbe visti come erano da sempre. E ci sarebbe stata una spiegazione semplice per le porte, un corto circuito o una valvola saltata.

Eppure non provava paura, ma solo l’emozione che prova il giovane mistico sull’orlo di una visione, in procinto di vedere finalmente il dio vivente o di trovarsi sulle mani le stigmate sanguinanti.

Con calma entrò nel sacrario.

Per un momento non si rese conto. Vide ciò che si aspettava di vedere, la lunga sala piena di alberi e di fiori, la panca di pietra che fungeva da trono e più oltre il grande schermo televisivo che palpitava d’occhi e di bocche e di risate prive d’importanza. Poi prese atto della realtà. C’era una sola figura seduta sul trono, ed era quasi del tutto trasparente! I colori violenti del teleschermo lontano l’attraversavano.

No, questo è impossibile. Marius, guarda attentamente. Persino i tuoi sensi non sono infallibili… Come un mortale sconcertato si prese la testa fra le mani per escludere ogni distrazione.

Fissava il dorso di Enkil che, a parte i capelli neri, era divenuto una sorta di statua di vetro opalescente attraverso la quale i colori e le luci si muovevano con una lieve distorsione. All’improvviso un bagliore fece sì che la figura diventasse la sorgente di fiochi raggi danzanti.

Scosse la testa. Non era possibile. Poi si scrollò. «Bene, Marius», si disse. «Procedi lentamente.»

Ma una dozzina di dubbi informi gli turbinava nella mente. Qualcuno era venuto lì, qualcuno più vecchio e più potente di lui, qualcuno che aveva scoperto Coloro-che-devono-essere-conservati e aveva fatto qualcosa d’indicibile! E tutto ciò era opera di Lestat! Lestat che aveva rivelato al mondo il suo segreto.

Gli tremavano le ginocchia. Incredibile! Non aveva provato simili debolezze mortali da tanto di quel tempo che ormai le aveva dimenticate. Prese dalla tasca un fazzoletto di lino e asciugò il velo di sudore sanguigno che gli copriva la fronte. Si avviò verso il trono, gli girò intorno e si trovò davanti alla figura del re.

Enkil era quale era stato per duemila anni, con i capelli neri stretti in lunghe trecciole sottili che gli cadevano sulle spalle. L’ampio collare d’oro spiccava sul petto glabro, il gonnellino di lino era immacolato e pieghettato con cura e gli anelli ornavano ancora le dita inerti.

Ma il corpo era vetro! Ed era completamente vuoto. Persino i grandi globi degli occhi erano trasparenti, e soltanto i cerchi indistinti definivano le iridi. No, un momento. Doveva osservare tutto. Là si vedevano le ossa, trasformate nella stessa sostanza della carne, la rete finissima delle vene e delle arterie e qualcosa di simile ai polmoni, ma ormai era tutto trasparente, tutto aveva la medesima consistenza. Che cosa gli avevano fatto?

E l’essere non aveva ancora concluso la metamorfosi. Sotto i suoi occhi stava perdendo i riflessi lattiginosi. Si prosciugava e diventava ancora più trasparente.

Lo toccò, incerto. Non era vetro. Era un guscio.

Ma quel gesto imprudente aveva sconvolto la cosa. Il corpo vacillò e poi cadde sulle lastre marmoree con gli occhi sbarrati, le membra irrigidite nella posizione precedente. Quando si abbandonò, emise un suono simile al frinire di un insetto.

Solo i capelli si muovevano. I morbidi capelli neri. Ma erano cambiati anch’essi. Si spezzavano in frammenti, in minuscole schegge lucenti. Una corrente fresca li disperdeva come fili di paglia. E quando i capelli si staccarono dalla gola, scorse due ferite scure, due trafitture. Due ferite che non erano guarite come avrebbero potuto guarire perché tutto il sangue risanatore era stato sottratto all’essere.

«Chi ha fatto questo?» mormorò a voce alta, stringendo il pugno destro come se questo potesse impedirgli di urlare. Chi poteva avergli sottratto l’ultima goccia di vita?

E l’essere era morto. Non c’erano dubbi. Cosa rivelava quell’orribile spettacolo?

Il nostro re, nostro Padre, è stato annientato. E io vivo ancora e respiro. E ciò può significare soltanto che lei racchiude in sé il potere primordiale. Lei fu la prima, ed è sempre risieduto in lei. E qualcuno gliel’ha tolto!

Cerca nel sotterraneo. Cerca nella casa. Ma erano pensieri frenetici e folli. Nessuno era entrato lì, e lo sapeva. Una sola creatura poteva averlo fatto! Una sola creatura poteva sapere che una cosa simile era finalmente possibile.

Non si mosse. Fissò la figura distesa sul pavimento e la guardò perdere l’ultima traccia di opacità. Avrebbe voluto piangere per quell’essere, poiché qualcuno doveva farlo. Ormai era sparito con tutto ciò che aveva conosciuto, tutto ciò cui aveva assistito. Anche questo era giunto alla fine. Sembrava trascendere la sua capacità di accettarlo.

Ma non era solo. Qualcuno o qualcosa era appena uscito dall’alcova, e sentiva che lo stava osservando.

Per un momento, un momento chiaramente irrazionale, tenne lo sguardo sul re caduto. Tentò di comprendere con tutta la calma possibile ciò che accadeva intorno a lui. Ora la cosa gli si avvicinava senza il minimo suono, stava diventando un’ombra aggraziata nell’angolo della sua visuale, mentre girava intorno al trono e si fermava al suo fianco.

Sapeva chi era, chi doveva essere, e sapeva che si era avvicinata con l’atteggiamento naturale di un essere vivente. Eppure quando alzò gli occhi nulla l’aveva preparato per quel momento.

Akasha era ritta a pochi centimetri da lui. La pelle era bianca e dura e opaca com’era sempre stata. La guancia splendeva come la madreperla mentre sorrideva, e gli occhi scuri erano umidi e vivi, mentre le palpebre si contraevano leggermente. Brillavano di vitalità.

L’osservò ammutolito. Restò a osservarla quando lei alzò le dita ingioiellate per toccargli la spalla. Chiuse gli occhi e li riaprì. Nel corso dei millenni le aveva parlato in tanti linguaggi, preghiere, suppliche, lamenti, confessioni, ma adesso non diceva una parola. Si limitava a guardare le labbra mobili, il lampo dei denti candidi e acuminati, e la luce fredda del riconoscimento negli occhi, la morbida fossetta del seno che si muoveva sotto la collana d’oro.

«Mi hai servito bene», disse. «Ti ringrazio.» La voce era bassa, roca, bellissima. Ma l’intonazione, le parole… erano ciò che lui aveva detto poche ore prima alla commessa nel negozio semibuio, in città!

Le dita si strinsero più forti sulla sua spalla.

«Ah, Marius», disse lei, imitando di nuovo il suo tono in modo perfetto, «tu non disperi mai, vero? Non sei migliore di Lestat, con i tuoi sogni sciocchi.»

Ancora una volta erano le sue parole, quelle che aveva rivolto a se stesso in una via di San Francisco. Si burlava di lui!

Era terrore? Oppure era odio, ciò che provava… odio perché lei gli aveva teso un agguato per secoli, un odio misto a risentimento e a stanchezza, e angoscia per il suo cuore così umano, un odio che adesso ribolliva in un ardore inimmaginabile. Non osava muoversi e non osava parlare. L’odio era nuovo e sorprendente, s’era impossessato completamente di lui e non poteva far nulla per dominarlo o per comprenderlo. Ogni capacità di giudizio l’aveva abbandonato.

Ma lei sapeva. Naturalmente. Conosceva ogni cosa, ogni pensiero, parola, azione ed era quanto gli stava dicendo. Aveva sempre saputo tutto ciò che decideva di sapere! E aveva saputo che la cosa demente al suo fianco era il passato che tentava di difendersi. E quello che avrebbe dovuto essere un momento di trionfo, era invece un momento d’orrore!

Lei rise sommessamente mentre lo guardava. Era un suono insopportabile. Avrebbe voluto farle male. Avrebbe desiderato annientarla, e fossero pure dannati tutti i suoi figli mostruosi! «È meglio che tutti noi periamo con lei!» pensò. Se avesse potuto, l’avrebbe annientata.

Gli parve di vederla annuire, come se volesse dirgli che comprendeva. Era un insulto mostruoso. Ebbene, non capiva. E tra un momento si sarebbe messo a piangere come un bambino. Era stato commesso un errore atroce, una distorsione terribile.

«Mio caro servitore», disse lei, stirando le labbra in un sorriso lievemente amaro, «non hai mai avuto il potere di fermarmi.»

«Che cosa vuoi? Che cosa intendi fare?»

«Devi perdonarmi», disse lei, oh, educatamente come lui l’aveva detto al giovane nella sala riservata del bar. «Ora devo andare.»

L’uomo sentì il rumore prima che il pavimento si muovesse con uno stridore di metallo dilaniato. Stava precipitando, lo schermo del televisore era esploso e le schegge di vetro gli trapassavano la carne come tanti pugnali minuscoli. Gridò come un mortale, questa volta per paura. Il ghiaccio s’incrinava e scricchiolava e rombava e gli precipitava addosso.

Stava cadendo in un crepaccio gigantesco, in un gelo scottante.

«Akasha!» gridò di nuovo.

Ma lei era scomparsa, e Marius continuava a precipitare. Poi il ghiaccio lo travolse, lo circondò e lo seppellì, gli frantumò le ossa delle braccia, delle gambe e del viso. Sentì il sangue scorrere sulla superficie bruciante e poi raggelarsi. Non poteva muoversi. Non poteva respirare. E la sofferenza era intensa, insopportabile. Rivide inesplicabilmente la giungla per un istante, come l’aveva vista in precedenza. La giungla calda e fetida, e qualcosa che l’attraversava. Poi sparì. E quando gridò, questa volta, lo fece per chiamare Lestat. Pericolo. Lestat, stai in guardia. Siamo tutti in pericolo.

Poi rimasero soltanto il freddo e la sofferenza. Perse i sensi. Stava giungendo un sogno, un sogno bellissimo, un sole caldo che splendeva in una radura erbosa. Sì, il sole benedetto. Il sogno s’era impadronito di lui. E le donne avevano i capelli rossi davvero incantevoli. Ma cos’era, ciò che giaceva sull’altare sotto le foglie appassite?

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