PARTE QUINTA …MONDI SENZA FINE, AMEN

Certe cose illuminano la notte

e trasformano un’angoscia in un Rembrandt.

Ma quasi sempre il volo rapido del tempo

è uno scherzo a nostro danno. La falena

non pud ridere. Che fortuna.

I miti sono morti.

Stan Rice

«Poem on Crawling into Bed: Bitterness»

Body of Work (1983)


Miami.

Una città per vampiri… calda, brulicante, bellissima. Crogiolo, mercato, campo da gioco. Dove i disperati e gli avidi sono uniti in un commercio sovversivo, il cielo appartiene a tutti, la spiaggia si stende all’infinito, le luci brillano più del cielo e il mare è caldo come il sangue.

Miami. Il felice terreno di caccia del diavolo.

Ecco perché siamo qui, nella grande, elegante villa bianca di Armand su Night Island, circondati da ogni lusso concepibile e dalla notte del sud.

Là fuori, al di là dell’acqua, Miami chiama; le vittime attendono; i magnaccia, i ladri, i re della droga e gli assassini. Gli individui senza nome, i molti che sono malvagi quasi quanto me.

Armand era andato là al tramonto, con Marius; e adesso erano tornati. Armand giocava a scacchi con Santino nel salotto; Marius leggeva, come sempre, sulla poltrona di pelle accanto alla finestra affacciata sulla spiaggia.

Gabrielle non era comparsa, quella sera. Dopo che Jesse se n’era andata, stava spesso sola.

Khayman sedeva nello studio al piano terreno e parlava con Daniel: Daniel che amava lasciare ingigantire la sete, Daniel che voleva sapere tutto ciò che era accaduto nell’antica Mileto, ad Atene e a Troia. Ah, non dimenticate Troia. Era un’idea che affascinava un poco anche me.

Daniel mi piaceva, Daniel che più tardi sarebbe venuto con me se glielo avessi chiesto, se mi fossi deciso a lasciare l’isola, come avevo fatto una sola volta da quando ero arrivato. Daniel che rideva ancora della scia tracciata sull’acqua dalla luna, e degli spruzzi tiepidi che gli piovevano sul volto. Per Daniel tutto, persino la morte di lei, era stato uno spettacolo. Ma non potevo dargli torto.

Pandora non si staccava quasi mai dallo schermo della televisione. Marius le aveva portato gli eleganti capi moderni che ora indossava: camicetta di raso, stivali al ginocchio, gonna di velluto aderente. Aveva messo braccialetti ai polsi e anelli alle dita, e ogni sera Marius le spazzolava i lunghi capelli bruni. A volte le portava in dono qualche profumo. Se non apriva lui le boccette, restavano intatte sul tavolo. Come Armand, anche Pandora guardava la successione interminabile di telefilm, e solo ogni tanto s’interrompeva per andare al piano nella sala da musica dove, in sordina suonava per un poco.

Mi piaceva il suo modo di esprimere la musica; erano variazioni che ricordavano l’Arte della Fuga. Ma mi preoccupava, mentre non mi preoccupavano gli altri. Tutti gli altri s’erano ripresi da quanto era accaduto, e molto più in fretta di quanto avessi immaginato. Lei era rimasta ferita, profondamente e prima che tutto incominciasse.

Eppure le piaceva stare lì, lo sapevo. Com’era possibile che non le piacesse? Anche se non ascoltava mai una parola di ciò che le diceva Marius.

Piaceva a tutti noi. Anche a Gabrielle.

Stanze bianche piene di splendidi tappeti persiani e di quadri affascinanti… Matisse, Monet, Picasso, Ciotto, Géricault. Si sarebbe potuto trascorrere un secolo solo guardandoli; Armand li cambiava di continuo, li spostava, portava su dalle cantine qualche nuovo tesoro o aggiungeva qualche disegno qua e là.

Anche a Jesse la villa era piaciuta molto, sebbene adesso se ne fosse andata per raggiungere Maharet a Rangoon.

Era entrata nel mio studio e mi aveva raccontato con molta franchezza la sua versione; mi aveva chiesto di cambiare i nomi che avevo usato e di escludere completamente il Talamasca; naturalmente io non volevo. Ero rimasto in silenzio mentre parlava, cercando di scoprire nella sua mente tutte le piccole cose che ometteva. Poi avevo passato tutto al computer mentre Jesse osservava e rifletteva e fissava le tende di velluto grigio e l’orologio veneziano e i colori freddi del Morandi appeso alla parete.

Credo sapesse che non avrei fatto quanto mi chiedeva. E sapeva che non aveva importanza. Difficilmente il pubblico avrebbe creduto al Talamasca più di quanto credesse in noi. A meno che, naturalmente, David Talbot o Aaron Lightner si fossero fatti avanti come Aaron aveva fatto con Jesse.

Per quanto riguardava la Grande Famiglia, era improbabile che per qualcuno di loro fosse qualcosa di più che un’invenzione, con un tocco di verità qua e là… ammesso che gli capitasse di trovarsi il libro fra le mani.

Era ciò che avevano pensato tutti i lettori di Intervista con il Vampiro e della mia autobiografia; e l’avrebbero pensato anche della Regina dei Dannati.

E così doveva essere. Anch’io sono d’accordo, ormai. Maharet aveva ragione. Non c’era spazio per noi, non c’era spazio per Dio e per il Diavolo: doveva essere una metafora, il sovrannaturale… sia la messa solenne nella cattedrale di St. Patrick, sia Faust che vende l’anima a Mefistofele in un’opera, o un divo del rock che finge d’essere il vampiro Lestat.


Nessuno sapeva dove Maharet avesse condotto Mekare. Probabilmente lo ignorava persino Eric, anche se era partito con loro e aveva promesso di attendere Jesse a Rangoon.

Prima di lasciare il complesso di Sonoma, Maharet mi aveva sconcertato con il suo sussurro: «Racconta tutto chiaramente quando narrerai la Leggenda delle gemelle».

Era un’autorizzazione, no? Oppure un’indifferenza cosmica: non so. Non avevo parlato con nessuno del libro; mi ero limitato a rimuginarvi nelle lunghe ore dolorose, quando in realtà non riuscivo a pensare se non in termini di capitoli, di un ordine da dare al mistero, una cronaca di seduzione e di sofferenza.

Maharet era apparsa molto terrena e tuttavia misteriosa quell’ultima sera. Era venuta a trovarmi nella foresta, tutta vestita di nero e con la sua «pittura alla moda», come la chiamava… l’abile maschera cosmetica che la trasformava in un’affascinante donna mortale, capace di muoversi solo tra sguardi di ammirazione nel mondo reale. Aveva la vita sottile e le mani affusolate, rese ancora più aggraziate dai guanti di capretto nero. S’era mossa con tanta leggerezza tra le felci e i virgulti, quando avrebbe potuto scostare gli alberi dal suo cammino.

Era stata a San Francisco con Jessica e Gabrielle. Erano passate fra le case dalle luci accese, sui marciapiedi stretti e puliti; dove viveva la gente, aveva detto. Aveva parlato con scioltezza e in termini contemporanei; non sembrava la donna fuori del tempo che avevo incontrato per la prima volta nella stanza in cima alla montagna.

«E perché sei di nuovo solo?» aveva chiesto mentre sedeva accanto a me in riva al ruscelletto che scorreva fra le sequoie. Perché non volevo parlare con gli altri? Sapevo come erano protettivi e spaventati?

Ancora adesso continuo a farmi le stesse domande.

Anche Gabrielle, che solitamente non parla molto. Vogliono sapere quando mi riprenderò, quando parlerò dell’accaduto, quando smetterò di scrivere tutta la notte.

Maharet aveva detto che l’avremmo rivista molto presto. In primavera, forse, avremmo dovuto andare nella sua casa in Birmania. O forse una sera ci avrebbe fatto una sorpresa. Ma il fatto era che non dovevamo essere mai isolati gli uni dagli altri; avevamo modi per trovarci, per quanto vagassimo lontani.

Sì, su questo punto fondamentale, almeno, tutti s’erano dichiarati d’accordo. Persino Gabrielle, la viaggiatrice solitaria.

Nessuno voleva più smarrirsi nel tempo.

E Mekare? L’avremmo rivista? Si sarebbe mai seduta con noi intorno a un tavolo? Ci avrebbe mai parlato nel suo linguaggio di gesti e di segni?

L’avevo veduta una sola volta dopo quella notte terribile. Era stato del tutto inaspettato, mentre attraversavo la foresta per tornare al complesso nella tenue luce violacea che precede l’aurora.

C’era una nebbia che si stendeva sul terreno e si diradava sopra le felci e i pochi fiori selvatici invernali, e sbiadiva nella fosforescenza mentre ascendeva tra gli alberi giganteschi.

E le gemelle erano uscite insieme dalla nebbia, s’erano avviate lungo il letto del ruscello tra le pietre, tenendosi abbracciate. Mekare indossava una lunga veste di lana, magnifica come quella della sorella, con i capelli ben spazzolati e lucenti, sciolti sulle spalle e sul seno. Mi sembrava che Maharet le parlasse sottovoce all’orecchio. Mekare si fermò a guardarmi con gli occhi verdi spalancati e il viso che per un momento sembrava impiegabilmente atterrito e vacuo; e io avevo sentito l’angoscia come un vento arroventato che soffiasse sul cuore.

Ero rimasto affascinato a guardarla, a guardarle entrambe; la sofferenza era soffocante, come se i miei polmoni si fossero inariditi.

Non so quali fossero i miei pensieri, ma il dolore era insopportabile. Maharet mi aveva rivolto un tenero cenno di saluto, come per indicarmi che dovevo andarmene. Stava per spuntare il mattino. La foresta si destava intorno a noi. I nostri momenti preziosi volavano via. La mia sofferenza s’era finalmente liberata, come un gemito che mi uscisse dalle labbra; e io l’avevo trattenuta, mentre mi voltavo per allontanarmi.

M’ero voltato indietro e avevo visto le due figure muoversi verso est, lungo il letto del ruscello argenteo, e sparire come se fossero inghiottite dalla musica rombante dell’acqua che seguiva implacabile il suo corso tra i sassi.

La vecchia immagine del sogno era un po’ sbiadita. E quando ora penso a loro, non penso più ai banchetti funebri, ma a quel momento, le due silfidi nella foresta, poche notti prima che Maharet lasciasse il complesso di Sonoma e portasse con sé Mekare.

Mi rallegrai quando se ne andarono perché significava che ce ne saremo andati anche noi. E non mi sarebbe dispiaciuto se non avessi mai più visto il complesso di Sonoma. Il mio soggiorno era stato un tormento, anche se le prime notti dopo la catastrofe erano state le peggiori.

Rapidamente il silenzio straziato degli altri aveva lasciato il posto ad analisi interminabili, mentre si sforzavano d’interpretare ciò che avevano visto e provato. Com’era stata trasferita esattamente la «cosa»? Aveva abbandonato i tessuti cerebrali quando s’erano disintegrati, ed era corsa nel sangue di Mekare fino a che aveva trovato in lei l’organo corrispondente? E il cuore? Aveva avuto qualche importanza?

Molecolare; nucleonica; protoplasma: scintillanti parole moderne. Suvvia, noi siamo vampiri. Ci nutriamo del sangue dei vivi; uccidiamo; e ci piace. Indipendentemente dal fatto che ne abbiamo necessità o no.

Non sopportavo ascoltarli; non sopportavo la loro curiosità silenziosa e ossessiva: com’era, stare con lei? Che cosa hai provato in quelle poche notti? Non potevo neppure lasciarli; non avevo la forza di volontà che mi sarebbe servita per andare via. Tremavo quand’ero con loro, tremavo quand’ero solo.

La foresta non era abbastanza profonda per me; vagavo per chilometri e chilometri fra le sequoie gigantesche, e poi fra le querce e i campi aperti, e poi di nuovo nei boschi umidi e intransitabili. Era impossibile sottrarmi alle loro voci: Louis confessava che aveva perduto conoscenza durante quei momenti spaventosi; Daniel diceva che aveva udito le nostre voci ma non aveva visto nulla; Jesse, fra le braccia di Khayman, aveva assistito a tutto.

Quante volte avevano discusso l’ironia del fatto che Mekare avesse abbattuto la nemica con un gesto umano; che, senza saper nulla dei poteri invisibili, avesse colpito come avrebbe fatto un umano, ma con una sveltezza e una forza disumane.

Qualcosa di lei era sopravvissuto in Mekare? Continuavo a domandarmelo. Senza pensare alla «poesia della scienza», come l’aveva chiamata Maharet: era ciò che volevo sapere. Oppure finalmente la sua anima s’era liberata quando il cervello era stato strappato via?

A volte nell’oscurità, nella cantina dalle pareti di lamiera e le innumerevoli stanze impersonali, mi svegliavo con la certezza che lei mi fosse accanto, a un paio di centimetri da me; sentivo di nuovo il contatto dei suoi capelli, vedevo lo scintillare nero dei suoi occhi. Brancolavo nell’oscurità e non trovavo altro che gli umidi muri di mattoni.

Allora restavo immobile e pensavo alla povera, piccola Baby Jenks come lei me l’aveva mostrata, mentre ascendeva verso il cielo; vedevo le luci multicolori che avvolgevano Baby Jenks mentre guardava la terra per l’ultima volta. Com’era possibile che Baby Jenks, la povera ragazzina motociclista, avesse inventato una simile visione? Forse è vero che alla fine andiamo tutti a casa.

Come possiamo saperlo?

Perciò restiamo immortali e continuiamo ad aver paura; rimaniamo ancorati a ciò che possiamo controllare. Tutto ricomincia: la ruota gira, noi siamo i vampiri perché non ne esistono altri, e si forma la nuova congrega.


Come una carovana di zingari lasciammo il complesso di Sonoma con un corteo di lucide macchine nere che sfrecciavano a velocità pazzesca su strade immacolate nella notte americana. Durante quella lunga corsa mi dissero tutto, spontaneamente e a volte involontariamente, mentre conversavano tra loro. Tutto si componeva come un mosaico, tutto ciò che era accaduto prima. Anche mentre sonnecchiavo sul sedile di velluto blu, continuavo a udirli e a vedere ciò che avevano visto.

Via, verso le paludi della Florida meridionale, verso la grande, decadente Miami, parodia del paradiso e dell’inferno.

Mi chiusi immediatamente in questo piccolo appartamento arredato con gusto: divano, moquette, quadri dai colori pastello che riproducevano opere di Piero della Francesca; il computer sul tavolo; la musica di Vivaldi che usciva da minuscoli altoparlanti nascosti nelle pareti tappezzate. Una scala privata per raggiungere la cantina, dove la bara attendeva nella cripta rivestita d’acciaio: lacca nera, maniglie di bronzo, un fiammifero e un mozzicone di candela; fodera ornata di pizzo bianco.

La sete di sangue: come faceva soffrire! Ma non ne hai bisogno: tuttavia non riesci a resistere, e sarà così per sempre; non puoi mai liberartene; lo desideri più di prima.

Quando non scrivevo, stavo sdraiato sul divano di broccato grigio e guardavo le fronde di palma che si muovevano nella brezza, e ascoltavo le loro voci, sotto la terrazza.

Louis supplicava educatamente Jesse di descrivergli ancora una volta l’apparizione di Claudia. E la voce di Jesse, sollecita e confidenziale gli ripeteva: «Ma Louis, non era reale».

Gabrielle sentiva la mancanza di Jesse, ora che se n’era andata. Jesse e Gabrielle avevano passeggiato per ore sulla spiaggia. Sembrava che non si scambiassero mai una parola: ma come potevo esserne sicuro?

Gabrielle faceva piccole cose per rendermi felice. Portava i capelli sciolti perché sapeva che mi piaceva; saliva nella mia camera prima di sparire al mattino. Ogni tanto mi guardava, intenta e ansiosa.

«Vuoi andartene da qui, vero?» le chiedevo intimorito.

«No», diceva. «Qui mi piace. Mi va bene.» Quando diventava inquieta andava alle isole, che non erano molto lontane. Le isole le piacevano. Ma non era di questo che voleva parlare. Aveva sempre in mente qualcosa d’altro. Una volta stava addirittura per parlarne. «Ma, dimmi…» Poi s’interruppe.

«L’amavo?» chiesi. «È questo che vuoi sapere? Sì, l’amavo.»

E ancora una volta non ero stato capace di pronunciare il suo nome.


Mael andava e veniva.

Era stato via una settimana, e quella notte era tornato; era al piano terreno e cercava di indurre Khayman a conversare; Khayman, che affascinava tutti. La Prima Stirpe. Tutto quel potere. E pensare che aveva camminato per le vie di Troia.

La sua vista era sempre sorprendente, una contraddizione in termini.

Faceva di tutto per sembrare umano. Non era facile, in un luogo caldo come questo, dove gli indumenti pesanti danno nell’occhio. A volte si copriva di un pigmento scuro, terra di Siena bruciata e mescolata a un po’ d’olio profumato. Mi sembrava un delitto rovinare tanta bellezza; ma altrimenti come avrebbe potuto fendere la folla umana come un coltello ingrassato?

Ogni tanto bussava alla mia porta. «Non hai intenzione di uscire più?» chiedeva. Guardava il mucchio delle pagine accanto al computer, le lettere nere: La Regina dei Dannati. Restava in attesa mentre cercavo nella mia mente tutti i minuscoli frammenti, gli attimi ricordati vagamente: non se la prendeva. Sembrava che lo sconcertassi, ma non capivo il perché. Cosa voleva da me? Poi sorrideva, quello sconvolgente sorriso da santo.

A volte usciva con il motoscafo nero da corsa di Armand, e lo lasciava andare alla deriva sul golfo mentre stava sdraiato sotto le stelle. Una volta Gabrielle andò con lui, e io fui tentato di ascoltare, da lontano, le loro voci così intime. Ma non lo feci. Non mi sembrava giusto.

E a volte Khayman mi diceva che temeva la perdita della memoria: sarebbe venuta all’improvviso e allora non avrebbe più saputo trovare la strada per tornare da noi. Ma in passato gli era accaduto per la grande sofferenza, mentre adesso era felice. Voleva che lo sapessimo: era felice di stare con noi.

Sembrava che avessero raggiunto una specie d’intesa: dovunque andassero, sarebbero sempre tornati. Quella sarebbe stata la casa della congrega, il santuario: e nulla sarebbe mai più stato come prima.

C’erano tante cose da sistemare. Nessuno di noi doveva creare altri vampiri, e nessuno doveva più scrivere libri, anche se naturalmente sapevano che era appunto quel che stavo facendo mentre raccoglievo in silenzio da loro tutto ciò che potevo; e sapevano che non intendevo obbedire alle regole imposte da altri, come non avevo mai fatto.

Per loro era un sollievo che il vampiro Lestat non avesse più spazio nelle pagine dei giornali, e che la catastrofe del concerto fosse stata dimenticata. Non c’erano state morti dimostrate, né lesioni gravi: tutti furono adeguatamente risarciti; il complesso, che aveva ricevuto anche la mia parte, era partito in tournée sotto il vecchio nome.

E anche i disordini, la breve era dei miracoli, erano stati dimenticati, anche se non avevano mai avuto una spiegazione soddisfacente.

No, niente più rivelazioni, sovversioni, interventi; era il loro impegno collettivo… e per favore, ricordate di seppellire le vostre vittime.

Continuavano a ripeterlo al delirante Daniel: persino in una giungla urbana e putrescente come Miami non si era mai abbastanza prudenti con gli avanzi di un pasto.

Ah, Miami. Potevo udire il nuovo rombo sordo di tanti umani disperati, il fragore di quelle macchine grandi e piccole. In passato avevo lasciato che le voci mi investissero mentre stavo immobile sul divano. Per me non era impossibile guidare quella facoltà: setacciare e concentrare e potenziare un intero coro di suoni diversi. Tuttavia me ne astenevo; non ero ancora veramente capace di usarla con convinzione, come non potevo usare la mia nuova forza.

Ah, ma mi piaceva stare vicino a quella città. Mi piacevano la sua corruzione e il suo fascino: i vecchi alberi e i grattacieli splendenti, i venti afosi, la decadenza flagrante. Ora ascoltavo quell’interminabile musica urbana, un ronzio palpitante e sommesso.

«Allora perché non ci vai?»

Marius.

Alzai gli occhi dal computer. Lentamente, per punzecchiarlo un po’, sebbene fosse il più paziente degli immortali.

Era incorniciato nel vano della porta della terrazza, con le braccia conserte e le caviglie incrociate. Le luci splendevano dietro di lui. Nel mondo antico c’era mai stato nulla di simile? Lo spettacolo di una città elettrificata, piena di torri che brillavano come le griglie di un vecchio fuoco a gas?

S’era tagliato i capelli, e portava indumenti del ventesimo secolo, semplici ma eleganti: blazer e pantaloni di seta grigia… e questa volta il rosso, poiché portava sempre qualcosa di rosso, era quello del maglioncino a collo alto.

«Voglio che lasci stare il libro e che vieni con noi», disse. «Sei chiuso qui da più di un mese.»

«Esco ogni tanto», dissi. Mi piaceva guardare l’azzurro-neon dei suoi occhi.

«Il libro», disse Marius. «Che scopo ha? Sei disposto a dirmelo?»

Non risposi. Insistette, sia pure con molto tatto.

«Non sono bastate le canzoni e l’autobiografia?»

Cercai di capire che cosa lo faceva apparire tanto amabile. Forse le grinze minuscole che spuntavano intorno ai suoi occhi quando parlava.

Gli occhi grandi come quelli di Khayman avevano un effetto sorprendente.

Mi voltai a guardare lo schermo del computer. Immagine elettronica del linguaggio. Quasi finito. E tutti lo sapevano, l’avevano sempre saputo. Perciò mi avevano dato spontaneamente tante informazioni: bussavano, entravano, parlavano e poi se ne andavano.

«Allora perché parlarne?» chiesi. «Voglio fare una cronaca di quanto è avvenuto. Lo sapevate quando mi avete raccontato tutto.»

«Sì, ma per chi fai la cronaca?»

Pensai di nuovo ai fan nell’auditorium e poi a quei momenti terribili, nei villaggi, quando ero stato un dio senza nome. Sentii freddo nonostante il tepore carezzevole della brezza che spirava dal mare. Aveva avuto ragione lei quando ci aveva accusati d’essere avidi ed egoisti? Quando aveva detto che era interessato da parte nostra, volere che il mondo rimanesse immutato?

«Conosci la risposta a questo interrogativo», disse Marius. Si avvicinò. Posò la mano sulla spalliera della sedia.

«Era un sogno assurdo, no?» chiesi. Dirlo mi faceva soffrire. «Non sarebbe mai stato possibile realizzarlo, neppure se l’avessimo acclamata dea e avessimo obbedito a ogni suo comando.»

«Era una follia», rispose Marius. «L’avrebbero fermata, annientata, più in fretta di quanto potesse immaginare.»

Silenzio.

«Il mondo non l’avrebbe voluta», soggiunse Marius. «Ecco ciò che non poteva comprendere.»

«Penso che alla fine lo sapesse: non c’era posto per lei, non aveva la possibilità di avere un valore e di essere ciò che era. Lo aveva capito quando ci aveva guardati negli occhi e aveva visto il muro che non avrebbe mai potuto sfondare. Era stata prudente nella scelta dei luoghi delle sue apparizioni, primitivi e immutabili, com’era lei stessa.»

Marius annuì. «Come ho detto: conosci le risposte ai tuoi interrogativi. Perché continui a insistere? Perché ti chiudi qui dentro con il tuo dolore?»

Non dissi nulla. Rivedevo i suoi occhi. Perché non puoi credere in me?

«Mi avete perdonato?» chiesi all’improvviso.

«Non è stata colpa tua», disse Marius. «Lei attendeva e ascoltava. Prima o poi qualcosa avrebbe suscitato in lei la volontà. Il pericolo era sempre presente. È stato un caso, come l’inizio di tutto in realtà, il fatto che si sia destata quando si è destata.» Sospirò. Aveva di nuovo un tono amareggiato, come le prime notti dopo la fine, quando anche lui era angosciato. «Ho sempre conosciuto il pericolo», mormorò. «Forse volevo credere che fosse una dea… fino a quando si è svegliata, e mi ha parlato e ha sorriso.»

Era di nuovo assorto nel ricordo del momento prima che il ghiaccio precipitasse e lo imprigionasse così a lungo.

Si allontanò a passo lento e indeciso, uscì sulla terrazza e guardò la spiaggia. Aveva un modo di muoversi così casuale. Gli antichi avevano appoggiato i gomiti nello stesso modo sulle balaustrate di pietra?

Mi alzai e lo seguii. Guardai, al di là della grande distesa d’acqua nera, i riflessi scintillanti dell’orizzonte. Guardai Marius.

«Sai cosa significa non portare più quel fardello?» mormorò. «Sapere che per la prima volta sono libero?»

Non risposi. Ma lo sentivo, certamente. Tuttavia avevo paura per lui, forse temevo che fosse stato un’ancora, come la Grande Famiglia era l’ancora per Maharet.

«No», disse Marius scuotendo la testa. «È come se fosse finita una maledizione. Mi sveglio, penso che devo scendere nel sacrario, bruciare l’incenso, portare i fiori, e stare davanti a loro e parlare e cercare di confortarli come se soffrissero. Poi ricordo che non esistono più. È finita. Sono libero di andare dove voglio e di fare ciò che preferisco.» Tacque, riflettendo e guardò di nuovo le luci. Poi: «E tu? Perché non sei libero? Vorrei capirti».

«Mi capisci. Mi hai sempre capito», dissi e scrollai le spalle.

«Bruci d’insoddisfazione. E noi non possiamo confortarti, vero? È il loro amore che vuoi.» Marius indicò la città con un cenno della mano.

«Tu mi conforti», risposi. «E tutti voi. Non posso pensare di lasciarvi, almeno per molto tempo. Ma sai, quando ero sul palcoscenico, a San Francisco…» Non finii. A che serviva dirlo, se lui non sapeva? Era stato tutto ciò che avevo desiderato fino a che il grande turbine era disceso e mi aveva portato via.

«Anche se non ti avevano mai creduto?» chiese Marius. «Pensavano che fossi soltanto un divo astuto.»

«Conoscevano il mio nome!» esclamai. «Udivano la mia voce. Vedevano me al di là delle luci della ribalta.»

Marius annuì. «E da questo è nato il libro, La Regina dei Dannati», disse.

Non risposi.

«Scendi con noi. Lascia che cerchiamo di tenerti compagnia. Parlaci di quanto è accaduto.»

«L’avete visto tutti.»

All’improvviso percepii una certa confusione, una curiosità che esitava a rivelare. Marius continuava a guardarmi.

Pensai a Gabrielle, che incominciava a farmi qualche domanda e poi si fermava. E compresi. Ero stato sciocco a non rendermene conto. Volevano sapere quali poteri lei mi aveva dato; volevano sapere fino a che punto il suo sangue aveva influito su di me; e per tutto il tempo m’ero tenuto chiuso dentro quei segreti. E continuavo a tenerli chiusi in me, con l’immagine dei cadaveri sparsi ovunque nel tempio di Azim, con il ricordo dell’estasi che avevo provato mentre uccidevo ogni uomo incontrato sul mio cammino. E un altro momento terribile e indimenticabile; la sua morte, quando non avevo usato i suoi doni per aiutarla!

E adesso ricominciava l’ossessione della fine. Mi aveva visto giacere così vicino a lei? Aveva intuito il mio rifiuto di aiutarla? Oppure la sua anima era ascesa al primo colpo?

Marius guardava l’oceano, le barche minuscole che correvano verso il porto a sud. Pensava a tutti i secoli che aveva impiegato per acquisire i suoi poteri attuali. Non erano bastate le infusioni del sangue di lei. Solo dopo mille anni aveva potuto ascendere verso le nubi come fosse uno di loro, libero e senza paura. Pensava che certe cose variano da un immortale all’altro: nessuno sa quale potere è racchiuso in un suo simile, e nessuno sa, forse, quale potere è racchiuso in se stesso.

Era molto cortese: ma per il momento non potevo confidarmi con lui o con altri.

«Ascolta», dissi. «Lasciatemi piangere ancora un po’. Lasciatemi creare le mie immagini tenebrose, e scrivere per gli amici. Più tardi verrò a voi: vi raggiungerò. Forse obbedirò alle regole. Almeno ad alcune, chissà! Che cosa farete, fra l’altro, se non obbedirò? Finora non ve l’ho chiesto.»

Marius era chiaramente sbigottito.

«Sei il più dannato degli esseri!» mormorò. «Mi fai pensare al vecchio aneddotto su Alessandro il Grande, che pianse quando non vi furono altri mondi da conquistare. Tu piangerai quando non vi saranno più regole da infrangere?»

«Ah, ma regole da infrangere ce ne sono sempre.»

Rise sommessamente. «Brucia il libro.»

«No.»

Ci guardammo per un momento, quindi l’abbracciai con calore e sorrisi. Non sapevo neppure perché l’avevo fatto, se non perché era così paziente e così serio; e in lui s’era compiuto un cambiamento profondo come in tutti noi… ma per lui era buio e doloroso come era stato per me.

Doveva essere causato dalla lotta fra il bene e il male che Marius capiva esattamente come la capivo io, perché era stato lui a farmela comprendere molti anni prima. Era stato lui a dirmi che dobbiamo lottare sempre con questi problemi, che la soluzione più semplice non era ciò che volevamo, anzi era ciò che dovevamo sempre temere.

E l’avevo abbracciato anche perché l’amavo e volevo essergli vicino, e non volevo che se ne andasse irritato con me e deluso.

«Obbedirai alle regole, vero?» mi chiese all’improvviso, con un miscuglio di minaccia e di sarcasmo. E anche d’affetto, forse.

«Certo.» Alzai di nuovo le spalle. «Quali sono, fra l’altro? L’ho dimenticato. Oh, non dobbiamo creare nuovi vampiri; non ce ne andiamo in giro senza far sapere agli altri dove siamo: facciamo sparire le prede.»

«Sei un folletto, Lestat. Lo sai? Un marmocchio.»

«Lascia che ti faccia una domanda», dissi. Strinsi il pugno e lo toccai leggermente sul braccio. «Il tuo quadro, La tentazione di Amadeo, quello nella cripta del Talamasca…»

«Sì?»

«Non ti piacerebbe riaverlo?»

«Per tutti gli dèi, no. È molto lugubre, per la verità. Potresti dire che appartiene al mio periodo nero. Ma vorrei che lo togliessero dal sotterraneo, che l’appendessero nell’atrio, che so, in qualche posto decente.»

Risi.

Marius divenne di colpo serio. Sospettoso.

«Lestat», disse bruscamente.

«Sì, Marius.»

«Lascia in pace il Talamasca.»

«Certo.» Un’altra scrollata di spalle. Un altro sorriso. Perché no?

«Parlo sul serio, Lestat. Molto sul serio. Non impicciarti del Talamasca. Ci siamo capiti?»

«Marius, capirti è straordinariamente facile. Hai sentito? L’orologio sta suonando mezzanotte. A quest’ora faccio sempre una passeggiata intorno a Night Island. Vuoi venire con me?»

Non attesi la sua risposta. Lo sentii prorompere in uno dei suoi amabili sospiri di sopportazione mentre uscivo dalla porta.


Mezzanotte. Night Island cantava. Camminavo nella galleria affollata. Giubbotto, T-shirt bianca, faccia semicoperta da giganteschi occhiali scuri, mani nelle tasche dei jeans. Guardavo i visitatori che entravano, esaminavano montagne di valigie lucide, camicie di seta negli involucri di plastica, uno snello manichino nero avvolto nel visone.

Accanto alla fontana con i suoi pennacchi composti da una miriade di gocce, una vecchia stava raggomitolata su una panchina, con un bicchiere di caffè caldo nella mano tremante. Faticava a portarselo alle labbra; quando le sorrisi nel passarle accanto disse con voce tremula: «Quando si è vecchi non si ha più bisogno di dormire».

Dalla hall usciva una musica in sordina. I giovani «duri» si aggiravano nell’emporio dei video: sete di sangue! Il chiasso della galleria si attenuò quando girai la testa. Attraverso la porta del ristorante francese notai il movimento di una donna che alzava un bicchiere di champagne: risate sommesse. Il teatro era pieno di giganti bianchi e neri che parlavano francese.

Una donna giovane mi passò accanto: pelle scura, fianchi voluttuosi, boccuccia imbronciata. La sete di sangue ingigantì. Continuai a camminare, ricacciando quella smania nella gabbia. Non hai bisogno del sangue. Ora sei forte come gli antichi. Ma mi sembrava di sentirne il sapore. Mi voltai a guardare la donna, la vidi seduta sulla panchina di pietra, con le ginocchia nude che sporgevano dalla gonna corta e attillata. Gli occhi erano fìssi su di me.

Oh, Marius aveva ragione; aveva ragione in tutto. Ardevo d’insoddisfazione, ardevo di solitudine. Avrei voluto strappare la donna dalla panchina. Sai che cosa sono? No, non devi: non attirarla fuori da qui, non farlo; non condurla giù sulla sabbia bianca, lontano dalle luci della galleria, dove gli scogli sono pericolosi e le onde s’infrangono con violenza nella piccola baia.

Pensai a ciò che lei aveva detto a proposito del nostro egoismo, della nostra avidità. Sapore di sangue sulla mia lingua. Qualcuno morirà se indugerò qui…

In fondo al corridoio, inserii la chiave nella porta d’acciaio fra il negozio che vendeva tappeti cinesi confezionati da bambine e il tabaccaio che dormiva fra le pipe olandesi, con la rivista sulla faccia.

Il corridoio silenzioso che si addentrava nella villa, fino alle viscere più interne.

Uno di loro suonava il piano. Ascoltai per un lungo momento. Pandora: e la musica aveva come sempre un dolce splendore cupo, ma era più che mai un eterno inizio… un tema che ascendeva sempre verso un culmine irraggiungibile.

Salii la scala ed entrai nel soggiorno. Ah, si capisce che è una casa per vampiri: chi altri potrebbe vivere alla luce delle stelle e di poche candele. Lusso di marmi e velluti. Lo choc di Miami, là fuori, dove le luci non si spengono mai.

Armand giocava ancora a scacchi con Khayman e perdeva. Daniel, con la cuffia in testa, ascoltava Bach e ogni tanto sbirciava la scacchiera per vedere se era stato mosso un pezzo.

Sulla terrazza, con i pollici infilati nelle tasche posteriori, Gabrielle guardava il mare. Sola. La raggiunsi, le baciai la guancia e la guardai negli occhi; e quando finalmente ottenni il piccolo sorriso imbronciato che desideravo, mi voltai e rientrai in casa.

Marius, sulla poltrona di pelle nera, leggeva il giornale e lo piegava come avrebbe fatto un gentiluomo in un club privato.

«Louis se n’è andato», disse senza alzare gli occhi.

«Come sarebbe a dire?»

«A New Orleans», disse Armand, e non staccò gli occhi dalla scacchiera. «Nell’appartamento che avevate là. Dove Jesse vide Claudia.»

«L’aereo sta aspettando», disse Marius, con lo sguardo sempre fisso sul giornale.

«Il mio autista può portarti fino alla pista», disse Armand, senza distogliere gli occhi dal gioco.

«Che cosa significa? Perché siete così premurosi? Perché dovrei seguire Louis?»

«Penso che dovresti ricondurlo qui», disse Marius. «Non è bene che stia nel vecchio appartamento di New Orleans.»

«E io penso che dovresti fare qualcosa», disse Armand. «Sei rimasto rintanato qui per troppo tempo.»

«Ah, ho già capito come sarà questa congrega: consigli da ogni parte, e ognuno che sorveglia con la coda dell’occhio tutti quanti. Perché avete lasciato che Louis andasse a New Orleans, comunque? Non potevate fermarlo?»

Atterrai a New Orleans alle due. Lasciai la berlina in Jackson Square.

Era tutto così pulito: con la pavimentazione nuova e le catene ai cancelli, pensate, perché i barboni non potessero dormire sull’erba della piazza come avevano fatto per duecento anni. E i turisti che affollavano il Café du Monde, dove un tempo c’erano le taverne del lungofiume; quei deliziosi posti perversi dove la caccia era stata irresistibile, e dove le donne erano dure quanto gli uomini.

Ma l’amavo; l’avrei sempre amata. I colori erano gli stessi. E anche nel freddo di gennaio aveva la stessa atmosfera tropicale, forse dovuta alla piattezza delle strade, agli edifici bassi, al cielo sempre in movimento, e ai tetti obliqui che luccicavano sotto la pioggia gelida.

Mi allontanai a passo lento dal fiume, lasciando che i ricordi si levassero intorno a me; ascoltai la musica fragorosa di Rue Bourbon e poi svoltai nel buio silenzioso e umido di Rue Royale.

Quante volte avevo seguito quel percorso, a quei tempi, quando tornavo dal lungofiume, dall’opera o dal teatro, e mi fermavo in quel punto per aprire con la chiave la porta carraia?

Ah, la casa dove avevo vissuto la durata d’una esistenza umana, la casa dove ero quasi morto due volte.

Qualcuno, lassù nel vecchio appartamento. Qualcuno che cammina con passo lieve ma fa scricchiolare l’assito.

Il negozietto al piano terreno era lindo e buio dietro le vetrine sbarrate: gingilli di porcellana, bambole, ventagli di pizzo. Alzai lo sguardo verso il balcone dalla ringhiera di ferro battuto; immaginavo Claudia, lassù, in punta di piedi, con le dita strette sulla ringhiera, i capelli d’oro che le spiovevano sulle spalle, il lungo nastro violetto. La mia piccola bellezza immortale di sei anni. Lestat, dove sei stato?

Era ciò che lui stava facendo, no? Evocava quelle immagini.

C’era un gran silenzio. Cioè, se non si ascoltava la televisione che parlava dietro le persiane verdi, i vecchi muri coperti di rampicanti, il chiasso che veniva da Rue Bourbon e un uomo e una donna che litigavano in una casa dall’altra parte della strada.

Ma non c’era nessuno in giro: solo i marciapiedi lucidi e i negozi chiusi, e le grosse macchine parcheggiate e la pioggia che cadeva senza far rumore sui tettucci curvilinei.

Non c’era nessuno che potesse vedermi mentre mi allontanavo, e poi mi voltavo e spiccavo un balzo felino, come allora, verso il balcone, e sbirciavo attraverso il vetro sporco della porta-finestra.

Tutto vuoto; pareti sfregiate, come le aveva lasciate Jesse. Le assi inchiodate, come se qualcuno avesse tentato di entrare e fosse stato scoperto; odore di legno bruciato, all’interno, dopo tanti anni.

Spinsi le assi senza far rumore; ma adesso c’era la serratura dall’altra parte. Potevo servirmi del mio nuovo potere? Potevo aprire? Perché mi faceva tanto soffrire… pensare a lei, pensare che in quell’ultimo istante io avrei potuto aiutarla, avrei potuto aiutare la testa e il corpo a ricongiungersi, anche se lei intendeva annientarmi, anche se non aveva invocato il mio nome.

Fissai la piccola serratura. Gira, apriti. E con le lacrime agli occhi sentii lo scricchiolio del metallo e vidi il chiavistello muoversi. Un piccolo spasimo nel cervello mentre tenevo fisso lo sguardo; quindi la vecchia porta si staccò dall’intelaiatura deformata con un gemito dei cardini, come se una corrente l’avesse sospinta dall’interno.

Lui era nel corridoio e guardava al di là della porta della camera di Claudia.

La giacca era un po’ più corta e meno ampia delle vecchie marsine: ma era così simile al se stesso dell’altro secolo che la sofferenza dentro di me ingigantì insopportabilmente. Per un attimo non riuscii a muovermi. Era come se fosse uno spettro; i capelli neri scompigliati come sempre a quei tempi, gli occhi verdi colmi di stupore malinconico, le braccia abbandonate lungo i fianchi.

Sicuramente non aveva fatto uno sforzo consapevole per inserirsi in modo tanto perfetto nel vecchio contesto. Tuttavia era uno spettro in quell’appartamento dove Jesse s’era tanto spaventata, dove aveva colto, in squarci agghiaccianti, l’antica atmosfera che non avrei mai dimenticato.

Sessant’anni lì dentro, l’empia famiglia. Sessant’anni… Louis, Claudia, Lestat.

Avrei potuto sentire il clavicembalo, se mi fossi sforzato? Claudia che suonava il suo Haydn; e gli uccellini che cantavano perché il suono li eccitava sempre; e la musica che vibrava nelle gocce di cristallo dei paralumi di vetro dipinto e nelle campanelle a vento appese alla porta del retro, davanti alla scala curvilinea di ferro.

Claudia. Un viso per un medaglione, o un piccolo ritratto ovale dipinto su porcellana e conservato con un ricciolo dei suoi capelli d’oro dentro un cassetto. Ma come avrebbe odiato quell’immagine, quell’immagine spietata.

Claudia che mi affondava il coltello nel cuore e lo rigirava e restava a guardare mentre il sangue mi scorreva sulla camicia. Muori, padre. Ti metterò nella bara per sempre. Prima ti ucciderò, mio principe.

Vedevo la bambina mortale che giaceva sulle coperte insudiciate, sentivo l’odore del vomito. Vedevo la regina dai capelli neri, immobile sul trono. E io avevo baciato entrambe le Belle Addormentate! Claudia, Claudia, rinvieni, Claudia… Ecco, cara, devi berlo per guarire. Akasha!

Qualcuno mi scuoteva. «Lestat.» Confusione.

«Ah, Louis, perdonami.» Il corridoio buio e negletto. Rabbrividii. «Sono venuto perché ero tanto preoccupato… per te.»

«Non era il caso», disse lui. «Era semplicemente un pellegrinaggio che dovevo compiere.»

Gli toccai il volto con le dita; era così caldo, dopo l’uccisione di una vittima.

«Lei non è qui, Louis», dissi. «Era un’illusione di Jesse.»

«Sì, così sembra», disse Louis.

«Noi viviamo per sempre; ma loro non possono ritornare.»

Mi scrutò a lungo, poi annuì. «Vieni», disse.

Ci avviammo insieme nel lungo corridoio; no, non mi piaceva, non volevo stare lì. Era un luogo infestato; ma le vere infestazioni non hanno nulla a che fare con gli spettri; hanno a che fare con la minaccia del ricordo. Quella era stata la mia camera; la mia camera.

Louis era alle prese con la porta sul retro e cercava di costringere la vecchia intelaiatura imbarcata a comportarsi ragionevolmente. Gli accennai di uscire sotto il portico e poi diedi la spinta necessaria. Adesso era ben chiusa.

Era triste vedere il cortile invaso dalle erbacce, la fontana rovinata, la vecchia cucina di mattoni che andava a pezzi e i mattoni che ridiventavano terra.

«Riparerò tutto, se vuoi», dissi. «Sai, lo farò tornare com’era allora.»

«Ormai non ha importanza», disse Louis. «Vuoi venire con me a passeggiare un poco?»

Percorremmo insieme il passaggio coperto per le carrozze, mentre l’acqua scorreva nel fossato. Mi voltai una sola volta. Lo vidi, con l’abito bianco e la fusciacca azzurra. Ma non mi guardava. Ero morto, pensava, avvolto nel lenzuolo che Louis aveva spinto nella carrozza; stava portando via i miei resti per seppellirmi. Eppure era là, ferma, e i nostri occhi s’incontravano.

Sentii che Louis mi tirava per la manica. «È inutile restare ancora qui», disse.

Lo guardai chiudere il cancello. Poi il suo sguardo si levò pigramente verso le finestre, i balconi e gli abbaini. Stava dicendo addio a tutto? Forse no.

Percorremmo assieme Rue St. Anne, e ci allontanammo dal fiume. Non parlavamo; camminavamo in silenzio come avevamo fatto tante volte a quel tempo. Il freddo lo pungeva, gli mordeva le mani. Non gli piaceva mettere le mani in tasca, come facevano gli uomini adesso. Non lo riteneva elegante.

La pioggia s’era attenuata in una nebbiolina.

Finalmente disse: «Mi hai spaventato un po’. Non credevo che fossi reale quando ti ho visto nel corridoio; non hai risposto quando ti ho chiamato per nome».

«E ora dove andiamo?» chiesi. Mi abbottonai il giubbotto. Non perché avevo freddo, ma perché trovavo molto piacevole stare al caldo.

«Ancora in un ultimo posto, e poi andremo dove vorrai. Torneremo alla casa della congrega, credo. Non abbiamo molto tempo. Oppure potrai lasciarmi ai miei vagabondaggi; ritornerò fra un paio di notti.»

«Non possiamo vagabondare insieme?»

«Sì», disse Louis, di slancio.

Che cosa volevo, in nome di Dio? Ci avviammo sotto i vecchi portici, davanti alle vecchie, solide imposte verdi, i muri dagli intonaci scrostati e dai mattoni nudi, nelle luci sgargianti di Rue Bourbon… e poi vidi il St. Louis Cemetery, là davanti, con i solidi muri imbiancati.

Ero felice di stare con lui, felice di camminare per quelle vecchie strade; ma perché non era abbastanza?

Un altro cancello da aprire; lo vidi spezzare la serratura con le dita. Entrammo nella piccola città di tombe bianche con i tetti spioventi e le urne e le soglie di marmo, e l’erba alta che scricchiolava sotto le scarpe. La pioggia rendeva luminosa ogni superficie; le luci della città conferivano uno splendore perlaceo alle nubi che si spostavano silenziose sopra le nostre teste.

Cercai di trovare le stelle. Ma non ci riuscii. Quando abbassai lo sguardo, vidi Claudia; sentii la sua mano toccare la mia.

Poi guardai di nuovo Louis, e vidi i suoi occhi cogliere la luce lontana. Rabbrividii. Toccai di nuovo il suo viso, gli zigomi, l’arco sotto il sopracciglio nero. Era fatto splendidamente.

«Benedetta la tenebra!» dissi all’improvviso. «Benedetta la tenebra che è ritornata.»

«Sì», disse mestamente Louis. «E noi vi regniamo come abbiamo sempre fatto.»

Non era abbastanza?

Mi prese la mano (che sensazione dava, adesso) e mi condusse lungo uno stretto corridoio verso le tombe più vecchie e venerabili; le tombe che risalivano ai tempi più remoti della colonia, quando io e lui avevamo vagato insieme per le paludi, le paludi che minacciavano d’inghiottire tutto, e c’eravamo nutriti del sangue dei tagliagole.

La sua tomba. Mi accorsi che stavo guardando il suo nome inciso nel marmo, in grandi caratteri obliqui.


LOUIS DE POINT DU LAC
[1766-1794]

Si appoggiò alla tomba che gli stava dietro, un altro tempietto come il suo con il tetto a peristilio.

«Volevo rivederla», disse. Tese la mano e toccò la scritta con l’indice.

Era leggermente sbiadita dalle intemperie, sulla superficie della pietra. La polvere e il sudiciume l’avevano resa più nitida, scurendo ogni lettera e ogni numero. Stava pensando a ciò che era stato il mondo in quegli anni?

Pensai ai sogni di lei, al suo giardino di pace sulla terra, con i fiori che spuntavano dal suolo intriso di sangue.

«Ora possiamo andare a casa», disse Louis.

A casa. Sorrisi. Toccai le tombe ai miei lati: alzai lo sguardo verso lo splendore tenue delle luci della città, riflesso dalle nubi increspate.

«Non hai intenzione di lasciarci, vero?» chiese all’improvviso Louis con la voce resa tagliente dall’angoscia.

«No», risposi. Avrei voluto parlare di tutte le cose che c’erano nel libro. «Sai, eravamo amanti, io e lei, sicuramente come potevano esserlo un uomo e una donna mortali.»

«Certo, lo so», disse Louis.

Sorrisi. Lo baciai, esaltato dal suo calore, dalla sensazione morbida della sua carnagione quasi umana. Dio, come odiavo il biancore delle mie dita che lo toccavano, le dita che adesso avrebbero potuto stritolarlo senza sforzo. Mi chiesi se lo intuiva.

C’erano tante cose che volevo dirgli e chiedergli. Tuttavia non riuscivo a trovare le parole o un modo per iniziare. Aveva sempre avuto tanti interrogativi; e adesso conosceva le risposte, forse più numerose di quanto avesse mai desiderato. E quali erano le conseguenze per la sua anima? Lo fissavo, stupidamente. Come mi sembrava perfetto mentre attendeva con tanta gentilezza, con tanta pazienza. E io, come uno sciocco, lo dissi.

«Mi ami?» chiesi.

Sorrise. Oh, era straziante vedere la sua faccia addolcirsi e illuminarsi simultaneamente nel sorriso. «Sì», disse.

«Vuoi che andiamo in cerca di una piccola avventura?» Il mio cuore batteva forte. Sarebbe stato magnifico se… «Vuoi infrangere le nuove regole?»

«Che cosa intendi?» mormorò.

Cominciai a ridere, una risata sommessa e febbrile; era così piacevole ridere e vedere i cambiamenti sottili del suo volto. L’avevo veramente preoccupato. E per la verità, non sapevo se avrei potuto farlo. Senza di lei. E se fossi precipitato come Icaro…?

«Oh, suvvia, Louis», dissi. «Una piccola avventura. Ti assicuro che questa volta non ho disegni sulla civiltà occidentale e neppure sulle attenzioni di due milioni di fan della musica rock. Pensavo a qualcosa di molto modesto. Un po’ malizioso, ecco. E piuttosto elegante. Voglio dire, sono stato straordinariamente tranquillo negli ultimi due mesi, non pensi?»

«Di cosa stai parlando?»

«Sei con me o no?»

Scosse di nuovo la testa, ma non era un no. Rifletteva. Si passò le dita fra i capelli. Erano splendidi capelli neri. La prima cosa che avevo notato in lui, dopo gli occhi verdi, erano i capelli neri. No, era una menzogna. Era stata la sua espressione: la passione e l’innocenza e la delicatezza della coscienza. L’adoravo!

«Quando incomincia questa piccola avventura?»

«Subito», dissi. «Hai quattro secondi per decidere.»

«Lestat, è quasi l’alba.»

«È quasi l’alba qui», ribattei.

«Cosa intendi?»

«Louis, mettiti nelle mie mani. Senti, se non ce la faccio, non ti succederà nulla di male. O quasi. Ci stai? Decidi. Voglio andare subito.»

Non disse nulla. Mi guardava con tanto affetto che quasi non lo sopportavo.

«Sì o no?»

«Probabilmente me ne pentirò ma…»

«Allora, d’accordo.» Gli posai le mani sulle braccia e lo sollevai. Louis mi guardò sbalordito. Era come se non pesasse nulla. Tornai a posarlo.

«Mon Dieu», bisbigliò.

Bene, cosa stavo aspettando? Se non avessi tentato, non l’avrei mai scoperto. Poi venne un momento di dolore sordo e tenebroso: il ricordo di lei, di noi due che ascendevamo insieme. Lasciai che passasse lentamente.

Gli cinsi la vita con un braccio. Su, in alto. Alzai la mano destra, ma non era necessario. Salivamo rapidi nel vento.

Il cimitero roteava sotto di noi e sembrava un modellino di se stesso, con quei frammenti bianchi sparsi tra gli alberi scuri.

Sentii all’orecchio l’esclamazione sbalordita.

«Lestat!»

«Passami il braccio intorno al collo», dissi. «Tieniti stretto. Stiamo andando verso ovest, naturalmente, e poi verso nord, e copriremo una grande distanza, e forse per un po’ ci lasceremo andare alla deriva. Il sole non sorgerà per qualche tempo ancora nel luogo dove siamo diretti.»

Il vento era gelido. Avrei pensato che Louis ne soffrisse; ma non ne dava segno. Guardava in alto, mentre trapassavamo la grande nebbia nivea delle nubi.

Quando vide le stelle lo sentii tendersi contro di me. Il suo volto era perfettamente levigato e sereno; e se piangeva, il vento portava via le lacrime. La paura che aveva provato era svanita completamente; era smarrito mentre guardava in alto, mentre la cupola del firmamento ci avvolgeva e la luna piena brillava sulla distesa interminabile e bianca sotto di noi.

Non era necessario dirgli cosa doveva osservare, cosa doveva ricordare. Sapeva sempre queste cose. Anni prima, quando avevo operato per lui la magia tenebrosa, non avevo dovuto dirgli nulla; ne aveva assaporato da sé ogni minimo aspetto. E più tardi mi aveva rimproverato perché non lo avevo guidato: non sapeva che era sempre stato superfluo?

Ma ora andavo alla deriva, mentalmente e fisicamente: sentivo una cosa senza peso contro di me, la pura presenza di Louis, Louis che mi apparteneva ed era con me. E non era un peso.

Stavo tracciando la rotta con una piccola parte della mia mente, come lei mi aveva insegnato; e ricordavo anche tante cose; la prima volta, per esempio, che avevo visto Louis in una taverna di New Orleans. Era ubriaco e stava litigando; e io l’avevo seguito nella notte. E nell’ultimo istante, prima che me lo lasciassi sfuggire dalle mani, mentre i suoi occhi si chiudevano, aveva detto: «Ma tu chi sei?»

Avevo capito che sarei tornato per lui al tramonto, e che l’avrei trovato a costo di cercarlo in tutta la città, sebbene l’avessi abbandonato mezzo morto sul selciato della via. Dovevo averlo, dovevo. Come dovevo avere tutto ciò che desideravo, come dovevo fare tutto ciò che volevo fare.

Quello era il problema: e tutto ciò che lei mi aveva dato, la sofferenza, il potere, il terrore, non aveva cambiato nulla.


Sei chilometri da Londra.

Un’ora dopo il tramonto. Eravamo distesi insieme sull’erba, nel buio freddo sotto la quercia. C’era un po’ di luce che filtrava dalla grande casa al centro del parco, ma non molta. Le finestre erano piccole e sembravano tenerla tutta all’interno. Là dentro c’era un’atmosfera intima, invitante, con gli scaffali pieni di libri, le fiamme che guizzavano in tutti i camini e il fumo che eruttava dai comignoli nell’oscurità nebbiosa.

Ogni tanto una macchina percorreva la strada tortuosa davanti al cancello, i fari investivano la facciata regale del vecchio edifìcio e rivelavano i mascheroni e le arcate massicce sopra le finestre e i picchiotti lucidi sulle porte massicce.

Avevo sempre amato le vecchie dimore europee, grandi come paesaggi; non è sorprendente che invitino gli spiriti dei morti a ritornare.

Louis si sollevò a sedere all’improvviso, si guardò intorno e si scosse l’erba dalla giacca. Aveva dormito per ore, inevitabilmente, sul seno del vento, e nei luoghi dove avevo riposato un poco, in attesa che il mondo girasse. «Dove siamo?» sussurrò con una sfumatura d’allarme.

«La casa madre del Talamasca, nei pressi di Londra», risposi. Ero sdraiato, con la testa fra le mani. Luci nella soffitta. Luci nelle sale del piano terreno. E mi domandavo quale sistema sarebbe stato più divertente.

«Cosa facciamo qui?»

«È un’avventura, te l’ho detto.»

«Aspetta un momento. Non vorrai entrare!»

«No? Hanno il diario di Claudia nella cantina, e il quadro di Marius. Lo sai, no? L’ha raccontato Jesse.»

«Bene, cosa intendi fare? Entrare con l’effrazione e frugare nelle cantine fino a che troverai ciò che vuoi?»

Risi. «Non sarebbe molto divertente, ti pare? Mi sembra una fatica noiosa. E poi, non è il diario che voglio. Possono tenerlo. Era di Claudia. Voglio parlare con uno di loro, David Talbot, il capo. Sono gli unici mortali al mondo, sai, che credono veramente in noi.»

Una fìtta dolorosa. Ignorala. Incomincia il divertimento.

Louis era troppo turbato per rispondere, e questo era ancora più delizioso di quanto avessi sognato.

«Non puoi dire sul serio!» Si stava indignando. «Lestat, lascia in pace quella gente. Credono che Jesse sia morta. Hanno ricevuto una lettera da qualcuno della sua famiglia.»

«Sì, certo. Non li distoglierò da questa convinzione morbosa. Perché dovrei? Ma quello che venne al concerto… David Talbot, il più anziano… mi affascina. Forse voglio sapere… Ma perché dirlo? È meglio entrare e scoprirlo.»

«Lestat!»

«Louis!» esclamai, scimmiottando il suo tono. Mi alzai e l’aiutai ad alzarsi, non perché ne avesse bisogno, ma perché era lì seduto, mi guardava cupo, opponeva resistenza e cercava di capire come poteva controllarmi… ed era tutto tempo sprecato.

«Lestat, Marius s’infurierà se lo farai», disse. Il suo viso divenne più tagliente, gli occhi verdi s’incendiarono. «La regola fondamentale è…»

«Louis, lo rendi irresistibile!» dissi. Mi prese il braccio. «E Maharet? Questi erano amici di Jesse!»

«E che cosa farà? Manderà Mekare a fracassarmi la testa come fosse un uovo?»

«Sei davvero insopportabile!» disse Louis. «Non hai imparato niente?»

«Vieni con me o no?»

«Non entrerai in quella casa.»

«Vedi la finestra lassù?» Gli passai il braccio intorno alla vita. Ora non poteva staccarsi da me. «David Talbot è in quella stanza. Sta scrivendo sul suo diario da circa un’ora. È turbato; non sa cos’è successo a noi. Sa che è accaduto qualcosa, ma non è riuscito a comprendere. Ora entreremo nella camera da letto accanto passando dalla finestrella a sinistra.»

Louis tentò un’ultima protesta, ma io mi ero concentrato sulla finestra e cercavo di visualizzare una serratura. A quale altezza era? Sentii lo spasimo e poi vidi, lassù, il piccolo rettangolo di vetro che si apriva. Anche Louis lo vide; e mentre restava immobile e ammutolito, lo strinsi più forte e salii.

Un secondo più tardi eravamo nella stanza. Una cameretta elisabettiana con i pannelli scuri e bei mobili antichi, e un piccolo fuoco acceso.

Louis era indignato. Mi fìsso cupo mentre si rassettava gli indumenti con gesti svelti e furiosi. Quella stanza mi piaceva. I libri di David Talbot; il suo letto.

E David Talbot ci fissava attraverso la porta semiaperta dello studio dov’era seduto alla scrivania, nella luce di una lampada dal paralume verde. Indossava una bella giacca da casa di seta grigia, trattenuta da una cintura. Aveva una penna in mano. Era ancora una creatura della foresta che sentiva la presenza del predatore, prima dell’inevitabile tentativo di fuga.

Ah, era magnifico!

Lo studiai per un momento; capelli grigioscuri, limpidi occhi neri, volto segnato; molto espressivo e caloroso. Ed era senza dubbio intelligente. Corrispondeva alle descrizioni di Jesse e Khayman.

Entrai nello studio.

«Mi perdoni», dissi, «avrei dovuto bussare alla porta d’ingresso. Ma volevo che questo incontro restasse privato. Lei sa chi sono, naturalmente.»

Era ammutolito.

Guardai la scrivania. I nostri dossier con vari nomi ben noti: «Teatro dei Vampiri» e «Armand» e «Benjamin, il Diavolo». E «Jesse».

Jesse. Accanto al fascicolo c’era la lettera della zia di Jesse, Maharet. La lettera diceva che Jesse era morta.

Attendevo, chiedendomi se dovevo costringerlo a parlare per primo. Ma non era mai stato il mio gioco preferito. Mi studiava con grande intensità, molto più intensamente di quanto io studiassi lui. Mi imprimeva nella sua memoria, usando piccoli sistemi che aveva imparato per registrare i dettagli, in modo da poterli rammentare più tardi, per quanto fosse grande lo choc dell’esperienza mentre si svolgeva.

Era alto, non grasso ma neppure snello. Una buona struttura. Mani grandi, ben fatte. Ed era molto curato. Un vero gentiluomo britannico, amante dei tweed, del cuoio e del legno scuro, del tè, dell’umidità e del parco buio, e dell’atmosfera sana e gradevole di quella casa.

Era sui sessantacinque anni. Un’ottima età. Sapeva cose che gli uomini più giovani non potevano conoscere. Era l’equivalente moderno dell’età di Marius nei tempi antichi. Non era affatto vecchio, per il ventesimo secolo.

Louis era ancora nell’altra camera, ma Talbot sapeva che c’era. Guardò in direzione della porta, poi guardò me.

Si alzò, e fece un gesto che mi sbalordì. Mi tese la mano.

«Molto lieto», disse.

Risi. Gli strinsi la mano con cortesia, osservando le sue reazioni, il suo sbalordimento quando sentì che ero gelido, privo di vita in senso convenzionale.

Sì, era spaventato. Ma era anche profondamente incuriosito e interessato.

Poi, con molta compitezza, disse: «Jesse non è morta, vero?»

È sorprendente ciò che i britannici sanno fare con il linguaggio: le sfumature della cortesia. Sono senza dubbio i più grandi diplomatici del mondo. Mi chiesi che tipi erano i loro gangster. Eppure provavo un dolore sincero per Jesse, e come potevo trascurare la sofferenza di un altro essere?

Lo guardai con aria solenne. «Oh, sì», dissi. «Non si faccia illusioni. Jesse è morta.» Sostenni con fermezza il suo sguardo. Non vi furono malintesi. «Dimentichi Jesse», dissi.

Annuì, distolse gli occhi per un momento, quindi tornò a guardarmi con la stessa curiosità.

Girai su me stesso al centro della stanza. Vidi Louis nell’ombra, accanto al camino della stanza da letto. Mi fissava con disprezzo e disapprovazione. Ma non era il momento di ridere. Non avevo voglia di ridere. Stavo pensando a qualcosa che mi aveva detto Khayman.

«Ho una domanda da rivolgerle», dissi.

«Sì.»

«Sono io. Sotto il suo tetto. Immaginiamo che al sorgere del sole io scenda nelle vostre cantine, e piombi nell’incoscienza. Lo sa.» Feci un piccolo gesto noncurante. «Cosa farebbe? Mi ucciderebbe mentre dormo?»

Talbot rifletté per meno di due secondi.

«No.»

«Ma sa chi sono. Non c’è il minimo dubbio nella sua mente, vero? Perché non lo farebbe?»

«Per molte ragioni», disse Talbot. «Voglio sapere molte cose di lei. Voglio parlarle. No, non la ucciderei. Niente potrebbe indurmi a farlo.»

Lo studiai. Stava dicendo la verità. Non lo spiegava, ma avrebbe ritenuto spaventosamente irrispettoso e volgare uccidermi, uccidere un essere tanto antico e misterioso.

«Sì, appunto», disse con un sorriso.

Era un lettore del pensiero. Non molto potente, comunque: sapeva leggere solo i pensieri superficiali.

«Ho una seconda domanda per lei», dissi.

«Prego.» Era davvero affascinato. La paura era scomparsa completamente.

«Vuole il Dono Tenebroso? Lo sa… diventare uno di noi.» Con la coda dell’occhio vidi che Louis scuoteva la testa e poi voltava le spalle. «Non sto dicendo che io glielo darei. Con ogni probabilità non glielo darei affatto. Ma lo vuole? Se io fossi disposto, l’accetterebbe da me?»

«No.»

«Oh, suvvia!»

«Non l’accetterei neppure in un milione di anni. No, e Dio mi è testimone.»

«Lei non crede in Dio, e lo sa.»

«Era solo un modo di esprimermi. Ma il sentimento è sincero.»

Sorrisi. Un volto così affabile e intenso. E io ero esilarato; il sangue mi scorreva nelle vene con un nuovo vigore. Mi chiedevo se se ne accorgeva: sembravo un po’ meno un mostro? Erano tutti i piccoli segni di umanità che scorgevo negli altri della nostra specie quando erano esuberanti o assorti?

«Non credo che impiegherà un milione d’anni per cambiare idea», dissi. «Non ha molto tempo a disposizione, in realtà, se ci pensa bene.»

«Non cambierò mai idea», disse Talbot. Sorrise, schiettamente. Teneva la penna con entrambe le mani. Giocherellò per un secondo, senza accorgersene, poi restò immobile.

«Non le credo», dissi. Girai lo sguardo su un piccolo quadro olandese dalla cornice laccata: una casa di Amsterdam su un canale. Guardai il ghiaccio sulla finestra: non si vedeva nulla della notte, là fuori. All’improvviso mi sentii triste: ma non era terribile come prima. Era solo il riconoscimento della solitudine amara che mi aveva portato lì, il bisogno per il quale ero entrato in quella piccola camera. E adesso sentivo il suo sguardo su di me, lo sentivo dire che sapeva chi ero.

Il momento s’incupì. Non riuscivo a parlare.

«Sì», disse timidamente Talbot alle mie spalle. «Io so chi è lei.»

Mi voltai a guardarlo. Mi sembrava d’essere sul punto di piangere per il calore che c’era lì dentro e l’odore delle cose umane, la vista di un uomo vivo dietro una scrivania. Deglutii. Non intendevo perdere la compostezza; sarebbe stato assurdo.

«È affascinante, per la verità», dissi. «Non mi ucciderebbe. Ma non vorrebbe diventare ciò che sono.»

«Appunto.»

«No, non le credo», ripetei.

Un’ombra gli passò sul viso; ma era un’ombra interessante. Temeva che avessi scorto in lui una debolezza di cui non era consapevole.

Tesi la mano verso la sua penna. «Posso? E un pezzo di carta, per favore.»

Me li diede prontamente. Sedetti alla scrivania, sulla sua sedia. Era tutto immacolato, il sottomano, il cilindretto di cuoio dove teneva le penne, persino i fascicoli. Anche lui era immacolato. Rimase in piedi accanto a me mentre scrivevo.

«È un numero telefonico», dissi. Gli misi il foglio in mano. «È lo studio parigino di un avvocato che mi conosce sotto il mio vero nome, Lestat de Lioncourt, che credo figuri nei vostri archivi. Naturalmente non sa di me nulla di ciò che lei sa. Ma può contattarmi. O forse è più esatto dire che io sono sempre in contatto con lui.»

Talbot non disse nulla; tuttavia guardò il foglio e s’impresse il numero nella mente.

«Lo tenga», dissi. «E quando cambierà idea, quando vorrà essere immortale e sarà disposto ad ammetterlo, chiami questo numero. E io tornerò.»

Stava per protestare. Gli accennai di tacere.

«Non si sa mai cosa può accadere», dissi. Mi appoggiai alla spalliera della sedia e incrociai le mani sul petto. «Forse scoprirà di avere una malattia mortale, oppure resterà invalido a causa d’una brutta caduta. Forse incomincerà ad avere incubi al pensiero d’essere morto, di essere nulla e nessuno. Non ha importanza. Quando deciderà di desiderare ciò che io ho da darle, mi cerchi. E lo ricordi: non ho detto che glielo darò. Forse non lo farò mai. Dico solo che, quando deciderà di volerlo, il dialogo potrà incominciare.»

«Ma è già incominciato.»

«No, non è incominciato affatto.»

«Non pensa di tornare?» chiese Talbot. «Io lo credo, sia che io la chiami, sia che non lo faccia.»

Un’altra piccola sorpresa. Una fitta di umiliazione. Gli sorrisi, controvoglia. Era un uomo molto interessante. «Un bastardo britannico dalla lingua d’argento», dissi. «Come osa dirmi una cosa simile con tanta disinvoltura? Forse dovrei ucciderla subito.»

Questo bastò per sgomentarlo. Lo nascose piuttosto bene ma me ne accorsi. Sapevo quanto potevo essere spaventoso, soprattutto quando sorridevo.

Si riprese con sorprendente rapidità. Piegò il foglio con il numero telefonico e lo mise in tasca.

«La prego di accettare le mie scuse», disse. «Intendevo solo esprimere la speranza che lei ritorni.»

«Telefoni a quel numero», dissi. Ci guardammo per un lungo istante, quindi gli rivolsi un altro sorrisetto. Mi alzai per prendere commiato. Poi abbassai lo sguardo sulla scrivania.

«Perché non ho un fascicolo?» chiesi.

Per un secondo il viso di Talbot divenne inespressivo. Poi si riprese, miracolosamente. «Ah, però ha il libro!» Indicò II Vampiro Lestat sullo scaffale.

«Ah, sì, è vero. Grazie per avermelo ricordato.» Esitai. «Ma, vede, penso che dovrei avere un fascicolo.»

«Sono d’accordo con lei», disse Talbot. «Lo preparerò immediatamente. È sempre stata… solo una questione di tempo.»

Risi sommessamente, nonostante tutto. Era così cerimonioso. Accennai un piccolo inchino di congedo, e Talbot lo ricambiò con garbo.

Poi gli passai accanto con tutta la velocità di cui ero capace; afferrai Louis e me ne andai passando dalla finestra; e salii e salii al di sopra del parco fino a quando discesi su un tratto solitario della strada per Londra.

Lì era più buio e più freddo, con le querce che nascondevano la luna, e mi piaceva. Mi piaceva la pura oscurità! Rimasi così, con le mani affondate nelle tasche, a guardare la lontana, fioca aureola di luce che aleggiava sopra Londra. E risi tra me, con una gaiezza insopprimibile.

«Oh, è stato meraviglioso, è stato perfetto!» esclamai fregandomi le mani; poi strinsi quelle di Louis, che erano ancora più fredde delle mie.

L’espressione di Louis mi mandò in estasi. Stavo per essere assalito da una crisi d’ilarità.

«Sei un bastardo, lo sai?» disse. «Come hai potuto fare una cosa simile a quel pover’uomo! Sei un diavolo, Lestat. Dovresti essere rinchiuso in una segreta!»

«Oh, suvvia, Louis», dissi. Non riuscivo a smettere di ridere. «Cosa ti aspettavi da me? E quell’uomo è uno studioso del sovrannaturale. Non perderà la ragione. Cosa si aspettano tutti da me?» Gli passai il braccio intorno alle spalle. «Vieni, andiamo a Londra. È una camminata lunga, ma è ancora presto. Non sono mai stato a Londra: lo sapevi? Voglio vedere il West End e Mayfair e la Torre, sì, andiamo alla Torre. E a Londra intendo nutrirmi! Andiamo.»

«Lestat, non c’è niente da ridere. Marius sarà furioso. Saranno tutti furiosi!»

La mia crisi d’ilarità stava peggiorando. Ci avviammo lungo la strada, di buon passo. Era così piacevole camminare. Nulla avrebbe mai potuto prendere il posto del semplice atto del camminare… sentire l’erba sotto i piedi e l’odore dolce dei comignoli sparsi nel buio e il sentore freddo e umido dell’inverno nei boschi. Oh, era bellissimo. E avremmo procurato a Louis un soprabito decente, quando fossimo arrivati a Londra, un bel cappotto nero e lungo, con il collo di pelliccia perché potesse stare caldo come adesso stavo caldo io.

«Senti quello che ti sto dicendo?» chiese Louis. «Non hai imparato proprio nulla, vero? Sei ancora più incorreggibile di prima!»

Ricominciai a ridere, incapace di trattenermi.

Poi, più seriamente, rievocai la faccia di David Talbot e il momento in cui mi aveva sfidato. Bene, forse aveva ragione: sarei ritornato. Chi diceva che non potevo tornare a parlargli, se volevo? Chi lo diceva? Ma avrei dovuto lasciargli un po’ di tempo per pensare a quel numero telefonico e per perdersi di coraggio a poco a poco.

L’amarezza ritornò, e una grande tristezza sonnolenta che all’improvviso minacciava di travolgere il mio piccolo trionfo. Ma non l’avrei permesso. La notte era troppo bella. E la diatriba di Louis diventava sempre più animata e divertente.

«Sei un diavolo perfetto, Lestat!» stava dicendo. «Ecco che cosa sei! Il diavolo in persona!»

«Sì, lo so», dissi. Mi piaceva guardarlo e vedere che la collera lo saturava di vita. «E mi piace sentire quando lo dici, Louis. Ho bisogno di sentirtelo dire. Non credo che nessuno saprà mai dirlo come te. Suvvia, ripetilo. Sono un diavolo perfetto. Dimmi quanto sono malvagio. Mi fa piacere!»


FINE
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