CAPITOLO OTTAVO Un'altra strada per Orgoreyn

Passai l'estate più come un Investigatore che come un Mobile, vagabondando per il territorio di Karhide di città in città, di villaggio in villaggio, di Dominio in Dominio, osservando e ascoltando… cose che un Mobile non può fare da principio, quando ancora egli è un fenomeno e un mostro, uno spettacolo da circo, sempre sul palcoscenico e pronto a recitare la sua parte. Io dicevo ai miei ospiti, in quei Focolari e villaggi rurali, chi ero; quasi tutti avevano sentito parlare di me, per radio, e avevano una vaga idea di chi io fossi. Erano curiosi, alcuni di più, altri di meno. Pochissimi erano spaventati da me, personalmente, o mostravano segni della ripulsione xenofoba. Un nemico, in Karhide, non è uno straniero, un invasore. Lo straniero che viene sconosciuto è un ospite. Il vostro nemico è sempre il vostro vicino.

Durante il mese di Kus abitai sulla costa orientale, in un Clan-Focolare chiamato Gorinhering, una casa-città-fortezza-fattoria costruita su una collina, sopra le eterne nebbie dell'Oceano Hodomin. Là vivevano circa cinquecento persone. Se fossi venuto quattromila anni prima, avrei trovato i loro antenati là, nello stesso luogo, nello stesso tipo di casa. Nel corso di questi quattro millenni il motore elettrico era stato inventato e sviluppato, le radio e i telai meccanici e i veicoli a motore e i macchinari agricoli e tutto il resto avevano cominciato a essere usati, e un'Età della Macchina si era messa in movimento, gradualmente, senza nessuna rivoluzione industriale, senza alcuna rivoluzione di alcun genere. Inverno non ha raggiunto in trenta secoli ciò che la Terra ha raggiunto in trenta decadi. Né Inverno ha mai pagato il prezzo che la Terra ha pagato.

Inverno è un mondo nemico; la sua punizione, per chi fa le cose sbagliate è pronta e certa: morte per il freddo, o morte per la fame. Non ci sono margini d'errore, non ci sono ammonimenti o rimproveri. Un uomo può confidare nella sua fortuna, ma una società no; e il cambiamento culturale, come la mutazione casuale, può rendere le cose più azzardate, rischiose; può essere come sfidare la fortuna. Così i getheniani hanno proceduto nella maniera più lenta. In qualsiasi punto della loro storia, un osservatore frettoloso avrebbe potuto dire che tutto il loro progresso tecnologico, e la loro espansione, sono cessati. Eppure non è mai stato così. Non c'è mai stata una fermata, un ristagno. Confrontate il torrente e il ghiacciaio. L'uno e l'altro arrivano là dove stanno andando.

Parlai a lungo con i vecchi di Gorinhering, e anche con i bambini. Era la mia prima possibilità di vedere i bambini getheniani, perché a Erhenrang essi sono tutti nei Focolari e nelle scuole pubbliche e private. Un quarto, o perfino un terzo, della popolazione urbana adulta è impegnata a orario pieno nell'assistenza e nell'educazione dei bambini. In questo luogo, invece, il clan accudiva da solo i propri bambini; nessuno e tutti ne erano responsabili. I bambini erano liberi e vivevano quasi allo stato selvaggio, andavano qua e là, in gruppi, per tutto il territorio, tra quelle colline velate dalla nebbia e per quelle spiagge che la nebbia ingrigiva. Quando riuscii a fermarne uno per il tempo sufficiente a farmi parlare, scoprii che si trattava di bambini ritrosi, schivi, orgogliosi, e con un immenso senso della fiducia.

L'istinto di genitori varia largamente su Gethen come in qualsiasi altro luogo dell'universo. È impossibile generalizzare. Non ho mai visto un karhidiano picchiare un bambino. La loro tenerezza verso i loro figli mi ha colpito, particolarmente perché essa è profonda, autentica, costruttiva, e quasi completamente priva di quel senso di possesso che in genere si associa a questo. Solo in questa assenza di possessività il sentimento differisce, forse, da quello che noi chiamiamo istinto «materno». Sospetto che la distinzione tra l'istinto paterno e materno non si possa neppure tentare, tanto è sottile; l'istinto del genitore, il desiderio di proteggere, di accudire, non è una caratteristica dai precisi legami o vincoli sessuali…

Nei primi giorni di Hakanna apprendemmo, a Gorinhering, attraverso molte scariche di statica, dal Bollettino di Palazzo, che Re Argaven aveva annunciato di essere in attesa di un erede. Non un altro figlio di kemmeri, di questi ne aveva già sette, ma un erede del corpo, un figlio del re. Il re era incinto.

Trovai questo divertente, e così pure gli uomini del clan di Gorinhering, ma per motivi diversi. Dissero che il re era troppo vecchio per portare un figlio, e sull'argomento crebbe una grande ilarità, condita di molte battute salaci, perfino oscene. I vecchi continuarono a ridere e a fare battute pungenti per giorni e giorni. Ridevano del re, ma per il resto non s'interessavano molto a lui. «I Dominii sono Karhide,» aveva detto Estraven, e come tante cose che Estraven mi aveva detto, questa continuava a tornarmi in mente, mano a mano che apprendevo di più su quel grande paese. Quella che apparentemente era una nazione, unificata già da secoli e secoli, era un calderone ribollente di principati, città, villaggi, «pseudo-feudali unità economiche tribali» prive di qualsiasi coordinazione, tutto un ribollire e uno schizzare di individualità vigorose, competenti, litigiose sopra le quali era stato posato leggermente, e senza alcuna sicurezza, un fragile coperchio di autorità. Nulla, lo sapevo, avrebbe mai potuto unire Karhide in una vera nazione. La diffusione totale di apparecchi per comunicazione rapida, che in teoria dovrebbe portare quasi inevitabilmente al nazionalismo, non aveva compiuto questo miracolo. L'Ecumene non poteva rivolgersi a questa gente come ad un'unità sociale, un'entità mobilitabile: doveva piuttosto parlare, al loro senso dell'unità umana. A questo pensiero, fui pervaso da una certa emozione. Naturalmente mi sbagliavo; eppure avevo appreso qualcosa sui getheniani che, a lungo andare, si dimostrò un'utile conoscenza.

A meno che io non volessi trascorrere tutto l'anno nella Vecchia Karhide, dovevo ritornare alla Barriera d'Occidente prima che i passi del Kargav fossero chiusi. Perfino qui, sulla costa, c'erano state due leggere spruzzate di neve, nell'ultimo mese d'estate. Con una certa riluttanza, mi avviai di nuovo verso occidente, e giunsi a Erhenrang nei primi giorni di Gor, il primo mese dell'autunno. Argaven era ormai in ritiro nel palazzo estivo di Warrever, e aveva nominato Pemmer Hage rem ir Tibe suo Reggente durante il periodo di ritiro. Tibe stava già sfruttando al massimo la sua posizione d'autorità. Dopo un paio d'ore dal mio arrivo cominciai a vedere l'errore commesso nella mia analisi di Karhide… era già superata, antiquata… e cominciai anche a sentirmi a disagio, forse perfino in pericolo, a Erhenrang.

Argaven non era sano di mente; la sinistra incoerenza della sua mente incupiva l'umore della sua capitale; egli si nutriva di paura. Tutto il buono del suo regno era stato fatto dai suoi ministri e dal kyorremy. Ma egli non aveva fatto del male, non molto, almeno. Le sue schermaglie con i propri incubi non avevano danneggiato il suo regno. Suo cugino Tibe era un tipo completamente diverso, perché la sua pazzia possedeva una profonda logica. Tibe sapeva quando agire, e come agire. Lui non sapeva soltanto quando fermarsi.

Tibe parlava moltissimo alla radio. Estraven, quando era stato al potere, non l'aveva mai fatto, e la cosa non era di stile karhidiano: il governo karhidi non era uno spettacolo pubblico, normalmente; era coperto, nascosto e indiretto. Tibe, invece, si abbandonava a copiosi sfoghi oratorii. Ascoltando la sua voce in onda rividi quel sorriso dai lunghi denti e il viso mascherato da un reticolato di rughe sottili. I suoi discorsi erano lunghi e roboanti: lodi di Karhide, disprezzo di Orgoreyn, infamia sulle «fazioni sleali», discussioni sulla «integrità delle frontiere del Regno», conferenze di storia e di etica e di economia, tutto in tono cantilenante, graffiante, sovraccarico di emotività che si faceva acutissimo negli accenti di vituperio o di adulazione. Parlava moltissimo di orgoglio per la propria terra, di amore per la patria, ma pochissimo di shifgrethor, di orgoglio o di prestigio personali. Karhide aveva perduto a tal punto il proprio prestigio, nell'affare della Valle di Sinoth, da impedire di sollevare più la questione? No; perché Tibe parlava spesso, spessissimo della Valle di Sinoth. Conclusi che egli stava deliberatamente evitando ogni discorso sul shifgrethor, perché desiderava suscitare delle emozioni di natura più elementare, più incontrollabile. Voleva sollevare, dare vita a qualcosa della quale l'intero disegno del shifgrethor era un'elaborazione, una sublimazione. Voleva che i suoi ascoltatori fossero spaventati, e sdegnati, e in collera. I suoi temi non erano né orgoglio né amore, benché egli usasse perpetuamente quelle parole; come lui le usava, esse significavano autocompiacimento, presunzione e odio. Egli parlava anche molto di Verità, perché, secondo le sue parole, egli stava «andando diritto al cuore che si celava sotto la patina della civiltà».

È una metafora durevole, onnipresente, speciosa, quella della patina (o vernice, o pellicola, e quel che volete) che nasconde la realtà più nobile celata di sotto. Può nascondere subito una decina di discrepanze, di errori, di difetti. Una delle cose più erronee e più pericolose è l'implicazione secondo la quale la civiltà, essendo artificiale, debba essere innaturale: che sia l'opposto del primitivismo… Naturalmente non esiste una patina, il processo è semplicemente di crescita, e primitivismo e civiltà sono gradi della medesima cosa. Se la civiltà ha un opposto, questo è la guerra. Di queste due cose, ne avete o una, o l'altra. Non entrambe. Mi parve, nell'ascoltare i cupi discorsi di Tibe, quelle frasi che dovevano infiammare il popolo, che quel che egli stesse cercando di ottenere, grazie alla paura e alla persuasione, fosse costringere il suo popolo a cambiare una scelta operata ancor prima dell'inizio della sua storia, la scelta tra quegli opposti.

Il tempo era maturo, forse. Benché il loro progresso materiale e tecnologico fosse stato lento, per quanto considerassero scarsamente il «progresso» in se stesso, alla fine, negli ultimi cinque, o dieci, o quindici secoli, erano arrivati un po' più avanti della Natura. Non erano più totalmente alla mercé del clima spietato; un raccolto andato a male o povero non avrebbe più fatto morire un'intera provincia, né un cattivo inverno avrebbe più isolato ogni città. Su questa base di stabilità materiale Orgoreyn aveva costruito gradualmente uno stato centralizzato unificato e sempre più efficiente. Ora Karhide doveva riunirsi, e fare lo stesso; e il modo per indurre la nazione a fare questo non era quello di accenderne l'orgoglio, o potenziarne il commercio, o migliorarne le strade, le fattorie, le scuole, e così via; no, no, niente di tutto questo; questa era civiltà, solo civiltà, una patina, e Tibe la scartava con disprezzo. Lui cercava qualcosa di più sicuro, la maniera più sicura, rapida, e durevole per fare di un popolo una nazione: la guerra. Le sue idee a questo riguardo forse non erano precise, ma erano abbastanza solide. L'unico altro mezzo per mobilitare rapidamente e totalmente il popolo era una nuova religione; non ce n'era alcuna disponibile; così la guerra sarebbe dovuta bastare.

Inviai al Reggente un messaggio, nel quale gli citavo la domanda che avevo posto ai Profeti di Otherhord, e la risposta che avevo ottenuto. Tibe non rispose affatto. Allora andai all'Ambasciata Orgota, e chiesi il permesso di entrare in Orgoreyn.

Ci sono meno persone a condurre gli uffici degli Stabili dell'Ecumene su Hain, di quante non conducessero quell'ambasciata di una piccola nazione in un'altra piccola nazione, e tutte queste persone erano armate di chilometri di nastri e di registratori e di documenti. Erano lenti, erano accurati; non c'era nulla dell'arroganza trascurata e dell'improvvisa obliquità che contrassegnano la burocrazia karhidi. Aspettai, mentre loro compilavano i loro interminabili moduli.

L'attesa si fece piuttosto nervosa. Provai un certo disagio. Il numero delle Guardie di Palazzo e di agenti della polizia cittadina, nelle strade di Erhenrang, pareva moltiplicarsi di giorno in giorno; questi uomini erano armati, e stavano addirittura sviluppando una specie di uniforme. L'umore generale della città era grigio, cupo, benché gli affari andassero bene, la prosperità fosse generale, e il tempo buono. Nessuno voleva avere molto a che fare con me. La mia «locandiera» non conduceva più i curiosi a visitare la mia camera, ma piuttosto si lamentava per il continuo disturbo dovuto al fatto di essere ormai sospetto presso la «gente del Palazzo», e mi trattava ormai non come uno spettacolo bizzarro, e onorato, bensì come un sospettato politico. Tibe fece un discorso su un assalto nella Valle di Sinoth: «coraggiosi contadini karhidi, veri patrioti,» avevano varcato la frontiera a sud di Sassinoth, avevano assalito un villaggio Orgota, lo avevano bruciato, e ucciso nove abitanti del villaggio, e poi, trascinando i cadaveri con loro, li avevano gettati nel Fiume Ey, «la degna tomba,» disse il Reggente, «che tutti i nemici della nostra nazione troveranno!» Ascoltai questa trasmissione nella sala da pranzo della mia isola. Alcune persone apparvero cupe, nell'ascoltare, altre disinteressate, altre ancora soddisfatte, ma in quelle varie espressioni c'era un elemento comune, un piccolo guizzo muscolare, una piccola contrazione del viso, che non c'era mai stata, un'espressione ansiosa.

Quella sera un uomo venne nella mia camera, il mio primo visitatore da quando ero ritornato a Erhenrang. Era piccolo, snello, dalla carnagione liscia e dai modi schivi, timido, e indossava la catena d'oro dei Profeti, di uno dei Celibi.

— Sono amico di una persona che vi è stata amica — disse, con le maniere brusche dei timidi. — Sono venuto a chiedervi un favore, per amor suo.

— Intendete parlare di Faxe?…

— No. Di Estraven.

La mia espressione servizievole doveva essere cambiata. Ci fu una pausa, dopo la quale lo straniero disse:

— Estraven, il traditore. Lo ricordate… forse?

La collera aveva sostituito la timidezza, e lui stava per giocare al shifgrethor con me. Se avessi voluto giocare, la mia mossa sarebbe stata quella di dire una frase, sul tipo di «Non ne sono sicuro; ditemi qualcosa di lui.» Ma io non volevo giocare, e ormai ero avvezzo ai caratteri vulcanici dei karhidiani. Fronteggiai la sua collera con aria di rimprovero, e dissi:

— Naturalmente lo ricordo.

— Ma non con amicizia. — I suoi occhi neri, piegati all'ingiù come tutti quelli dei getheniani, avevano uno sguardo diretto e penetrante.

— Ebbene, lo ricordo piuttosto, forse più con gratitudine, e con delusione. È stato lui a mandarvi da me?

— No.

Aspettai che si spiegasse.

Lui disse:

— Scusatemi. Ho avuto la leggerezza di presumere. Ora accetto ciò che la presunzione mi ha procurato.

Fermai quel piccolo, rigido individuo, mentre già lui si stava dirigendo verso la porta.

— Vi prego: io non so chi voi siate, né quel che volete. Non ho rifiutato. Semplicemente, non ho acconsentito. Dovete concedermi il diritto di usare una ragionevole prudenza. Estraven è stato esiliato per aver appoggiato la mia missione, qui, e…

— Vi considerate in debito con lui, per questo?

— Bene, in un certo senso. Comunque, la missione che sto compiendo trascende tutti i debiti e le lealtà personali.

— Se è così — disse lo straniero, con fiera certezza, — è una missione immortale.

Questo mi fermò. Egli pareva un Avvocato dell'Ecumene, parlando così, e non avevo risposta da offrirgli.

— Non credo che lo sia — dissi, alla fine. — Le manchevolezze sono nel messaggero, e non nel messaggio. Ma vi prego, ditemi che cosa volete.

— Ho certe somme di denaro, interessi e debiti, che sono riuscito a raccogliere dalla rovina del patrimonio e delle fortune del mio amico. Apprendendo che stavate per andare in Orgoreyn, pensavo di chiedervi di portargli il denaro, se riuscirete a trovarlo. Come sapete, sarebbe un delitto punibile fare questo. Potrebbe anche essere inutile. Egli può trovarsi a Mishnory, oppure in una delle loro inqualificabili Fattorie, o essere morto. Non ho alcuna maniera di scoprirlo. Non ho amici in Orgoreyn, e non ho nessuno, qui, cui possa osare di chiedere una cosa simile. Non mi sono fermato a riflettere che anche voi avete, naturalmente, la vostra politica. Chiedo scusa per la mia stupidità.

— Ebbene, prenderò il denaro per lui. Ma se è morto o se non posso trovarlo, a chi devo restituirlo?

Mi fissò, attonito. Il suo viso cambiò espressione, quasi dolorosamente, ed egli tirò il fiato, e fu quasi un singhiozzo. Quasi tutti i karhidiani piangono con estrema facilità, non vergognandosi delle lacrime più di quanto non si vergognino delle risate. Mi disse:

— Grazie. Il mio nome è Foreth. Sono un Abitante della Fortezza di Orgny.

— Siete del clan di Estraven?

— No. Foreth rem ir Osboth; ero il suo kemmeri.

Estraven non aveva avuto alcun kemmeri, quando l'avevo conosciuto, ma non riuscii a suscitare dentro di me alcun sospetto sul conto di quel nuovo arrivato. Forse egli stava servendo involontariamente i propositi di qualcuno, ma era sincero. E mi aveva insegnato proprio in quel momento una lezione: che lo shifgrethor può essere giocato sul livello dell'etica, e che il giocatore esperto vincerà sempre. Mi aveva costretto con le spalle al muro in appena due mosse…

Aveva con sé il denaro, e me lo diede, una bella somma in note di credito del Regio Commercio Karhidi, nulla che potesse incriminarmi, e di conseguenza che potesse impedirmi, semplicemente, di spendere il denaro.

— Se riuscite a trovarlo… — Si interruppe.

— Un messaggio?

— No. Solo se io sapessi…

— Se lo troverò, cercherò di mandarvi delle notizie.

— Grazie — disse, e tese entrambe le mani verso di me, un gesto di amicizia che in Karhide non viene mai fatto con leggerezza. — Auguro successo alla vostra missione, signor Ai. Lui… Estraven… lui credeva che foste venuto qui per fare del bene, lo so. Lo credeva con grande fermezza.

Non c'era niente al mondo, per quest'uomo, all'infuori di Estraven. Era uno di coloro che sono condannati ad amare una sola volta. Dissi di nuovo:

— Non c'è qualche messaggio che io possa portargli?

— Ditegli che i bambini stanno bene — disse, poi esitò, e disse, piano — Nusuth, non importa — e mi lasciò.

Due giorni più tardi io presi la strada che usciva da Erhenrang, la strada di nord-ovest, questa volta, a piedi. Il mio permesso per entrare in Orgoreyn era arrivato assai prima di quanto gli impiegati e gli ufficiali-burocratici dell'Ambasciata Orgota mi avessero indotto ad aspettare, o che essi stessi avessero aspettato; quando andai a ritirare i documenti, essi mi trattarono come una specie di velenoso rispetto, offesi perché il protocollo e i regolamenti erano stati, in virtù dell'autorità di qualcuno, messi da parte nel mio caso. Poiché Karhide non aveva regolamenti di sorta che impedissero, o condizionassero l'uscita dal paese, partii immediatamente. Nel corso dell'estate avevo scoperto quale terra piacevole e ospitale potesse essere Karhide per il viandante e il viaggiatore. Strade e taverne e luoghi di ristoro sono tutti approntati per il traffico a piedi, oltre che per i veicoli a motore, e dove le taverne mancano, e le locande sono assenti, si può infallibilmente contare sul codice dell'ospitalità. Cittadini e paesani dei Condominii, e la gente dei villaggi, i contadini, o gli stessi Lord di qualsiasi Dominio, daranno a un viaggiatore cibo e alloggio per tre giorni, secondo il codice, in qualsiasi evenienza, e, in pratica, per un periodo assai più lungo; e quel che è ancor meglio, si è sempre ricevuti senza brontolii e senza riserve, si è sempre i benvenuti, come se avessero aspettato il vostro arrivo.

Vagabondai per la splendida terra digradante tra il Sess e l'Ey, senza badare al trascorrere del tempo, con calma, guadagnandomi il vitto e l'alloggio, un paio di giorni, con il lavoro nei campi dei grandi Dominii, dove era tempo di raccolto, per il quale erano mobilitate tutte le braccia e tutti gli attrezzi e tutte le macchine, per mietere i campi dorati prima che il tempo cambiasse e il gelo pungente dell'autunno vincesse il tepore della stagione più mite. Era tutto dorato, tutto benigno; quella settimana di cammino fu una lunga strada sorridente tra messi d'oro e amichevoli; e di notte, prima di dormire, io uscivo dalla buia fattoria o dalla Sala del Focolare illuminata dove io ero alloggiato, e camminavo per qualche tempo tra i covoni profumati, tra i rami ormai secchi, fino al punto dove sollevando lo sguardo potevo guardare le stelle, che brillavano come lontane città nel buio ventoso dell'autunno.

In realtà pensavo con riluttanza all'idea di lasciare questa terra, che io avevo trovato, pur così indifferente per l'Inviato, così gentile verso lo straniero. Pensavo con un senso di gelo, di squallore, all'idea di ricominciare tutto, di cercare di ripetere la notizia che io portavo in una lingua nuova per ascoltatori nuovi, forse fallendo di nuovo. Mi spinsi nel mio vagabondare più a nord che a occidente, giustificando la strada che avevo preso, di fronte a me stesso, con la curiosità di vedere la regione della Valle di Sinoth, il cuore e la regione della rivalità esistente tra Karhide e Orgoreyn. Benché il tempo rimanesse chiaro e sereno, cominciava a fare più freddo, e infine mi diressi a occidente prima di giungere a Sassinoth, ricordando che esisteva una barriera che attraversava quel punto della frontiera, e che là forse non avrei con tanta facilità ottenuto il permesso di lasciare Karhide. Qui la frontiera era l'Ey, un fiume stretto ma fiero e tumultuoso, alimentato dai ghiacciai come tutti i fiumi del Grande Continente. Discesi a sud per alcuni chilometri, prima di trovare un ponte, e mi imbattei in uno che univa due piccoli villaggi, Passerer sulla riva di Karhide, e Siuwensin in Orgoreyn, che si fissavano pigramente attraverso il rumoroso, impetuoso Ey.

Il guardiano del ponte karhidi mi chiese soltanto se avevo intenzione di ritornare quella notte, e mi fece segno di passare. Sul lato Orgota un Ispettore venne chiamato a ispezionare il mio passaporto e i documenti, cosa che egli fece per quasi un'ora, un'ora karhidi. Trattenne il passaporto, dicendomi che avrei dovuto richiederlo il mattino dopo, e mi fornì, al suo posto, un foglio di permesso che mi concedeva di avere vitto e alloggio nella Casa di Transito Commensale di Siuwensin. Passai un'altra ora nell'ufficio del sovrintendente della Casa di Transito, mentre il sovrintendente leggeva i miei documenti e controllava l'autenticità del mio permesso telefonando all'Ispettore della Stazione di Frontiera Commensale dalla quale ero appena venuto.

Non posso definire propriamente la parola Orgota che qui viene tradotta come «commensale», «commensalità». La sua radice è una parola che significa «mangiare insieme». Il suo uso comprende tutte le istituzioni nazionali/governative di Orgoreyn, dello Stato come totalità e come unità ai suoi sottostati componenti, trentatré, chiamati Distretti, fino ai sottosottostati, le contee, le fattorie comuni, le miniere, le fabbriche, e così via, che compongono i Distretti. Come aggettivo, è applicato a tutto quel che ho già descritto; nella forma «i Commensali», esso usualmente significa i trentatré Capi di Distretto, che formano il corpo governativo, esecutivo e legislativo, della Grande Commensalità di Orgoreyn, ma può anche significare i cittadini, lo stesso popolo. In questa curiosa mancanza di distinzione tra l'applicazione generale e specifica della parola, nel suo uso sia per l'intero che per la parte, lo stato e l'individuo, nella sua imprecisione c'è il suo più preciso significato.

I miei documenti e la mia presenza furono finalmente approvati, e alla Quarta Ora consumai il mio primo pasto, dopo la prima colazione… una cena: kadik e pane, freddo e poco gradevole. Malgrado tutto il suo dispiego di burocrati e di ufficiali, Siuwensin era un luogo piccolo e semplice, immerso profondamente nel torpore rurale. La Casa di Transito Commensale era più piccola del suo nome. La sua camera da pranzo aveva un solo tavolo, cinque sedie, e nessun focolare; il cibo veniva portato dalla locanda del villaggio. L'altra camera era il dormitorio: sei letti, uno strato di polvere, molta ruggine intorno. L'avevo tutto per me, quel dormitorio. Poiché tutti, a Siuwensin, apparentemente erano andati a letto subito dopo cena, io feci lo stesso. Mi addormentai in quel totale silenzio della campagna, quel silenzio così intenso che vi fa ronzare gli orecchi. Dormii per un'ora, e mi svegliai stretto da un incubo pieno di esplosioni, d'invasione, di delitti, e di conflitti.

Fu un sogno particolarmente brutto, lo stesso tipo d'incubo nel quale voi correte e correte per una strada ignota al buio, con tante persone che non hanno volto, mentre le case scoppiano e bruciano in grandi lingue di fiamma subito dietro di voi, e i bambini gridano di orrore e di dolore.

Finii in un campo aperto, in piedi, nella sterpaglia secca, accanto a un covone nero, e a una stalla buia. Attraverso squarci tra le nubi che gravavano in alto, apparivano la mezzaluna cupa e sanguigna, e poche stelle pallide. Il vento era freddo e pungente. Accanto a me, una grande stalla, o granaio, era una massa torreggiante nell'oscurità, e in lontananza, oltre quella sagoma nera, vidi piccole scintille volare alte nel vento.

Ero scalzo e a gambe nude, avevo solo la camicia, senza pantaloni, hieb, o soprabito; ma avevo la mia bisaccia. Essa conteneva non solo i miei abiti di ricambio, ma anche i miei rubini, il denaro, i documenti, le carte, e l'ansible, e viaggiando dormivo usandola come cuscino. Evidentemente rimanevo aggrappato ad essa anche durante i brutti sogni. Estrassi le scarpe e i calzoni e il mio hieb invernale di pelliccia, e mi vestii, là nella capagna fredda, buia, nel silenzio, mentre Siuwensin ardeva a mezzo miglio dietro di me. Allora mi mossi, alla ricerca di una strada, e ben presto ne trovai una, e su di essa altre persone. Erano fuggiaschi, come me, ma loro sapevano dove stavano andando. Io li seguii, non avendo alcuna direzione personale da seguire, se non quella che mi portava lontano da Siuwensin; che, così riuscii a capire durante il cammino, era stata colpita da un assalto partito da Passerer, dall'altra parte del ponte.

Gli assalitori avevano colpito, appiccato il fuoco, e se ne erano subito andati; non c'era stato alcuno scontro. Poi, improvvisamente, delle luci brillarono nel buio, davanti a noi, e facendoci frettolosamente sul bordo della strada, osservammo il passaggio di una carovana di corriere, venti grossi automezzi, che venivano a grande velocità da occidente, dirigendosi verso Siuwensin, e ci passò accanto con un lampo luminoso e un sibilo di ruote ripetuto per venti volte; poi silenzio, e di nuovo il buio.

Ben presto giungemmo a un centro agricolo comune, dove venimmo fermati e interrogati. Cercai di restare unito al gruppo che avevo seguito lungo la strada, ma non ebbi fortuna; e non c'era fortuna neppure per loro, se non avevano portato i loro documenti d'identificazione. Loro, e io — un forestiero senza passaporto — fummo isolati dal gruppo, e ci furono forniti quartieri separati per la notte, in un grande capannone, una specie di scantinato assai ampio, di pietra, con una porta chiusa a chiave dall'esterno, e nessuna finestra. Di quando in quando la porta veniva aperta, e un altro profugo veniva spinto all'interno da un poliziotto del centro agricolo, armato di «pistola» sonica getheniana. Chiusa la porta, nel locale regnava il buio più completo; niente luce. Gli occhi, in quell'oscurità fittissima, dopo un poco nel buio vedevano scintille e punticini rossi. L'aria era fredda, e pervasa da un pesante odore di polvere e di grano. Nessuno aveva una torcia portatile; si trattava di gente strappata bruscamente dal suo letto, come me; un paio di persone erano completamente, letteralmente nude, e lungo la strada qualcuno aveva dato loro delle coperte. Non avevano niente. Se avessero dovuto avere qualcosa, avrebbe dovuto trattarsi dei documenti. Meglio essere nudi che sprovvisti di documenti, in Orgoreyn.

Erano seduti, sparpagliati in quelle tenebre cupe, spaziose, polverose. A volte due conversavano per qualche minuto, a voce bassa. Non c'era il senso di comunanza dato dall'essere prigionieri insieme. Non c'era cameratismo. Non c'erano lamentele.

Sentii qualcuno mormorare, alla mia sinistra:

— L'ho visto nella strada, davanti alla mia porta. Gli era scoppiata la testa. Portata via di netto.

— Usano quei fucili che sparano pezzi di metallo. Fucili da assalto.

— Tiena ha detto che non venivano da Passerer, ma dal Dominio di Oword, che sono venuti con dei carri.

— Ma non c'è alcuna lite tra Oword e Siuwensin…

Non capivano; non si lamentavano. Non protestavano per essere rinchiusi in una specie di cantina, dai loro concittadini, dopo essere stati presi di mira a fucilate e scacciati col fuoco dalle loro case. Non cercavano di scoprire alcun motivo per quel che era loro accaduto. I mormoni nel buio, casuali e sommessi, in quel linguaggio Orgota morbido e sinuoso, che fa sembrare al confronto il karhidi come il rumore di sassi sbattuti in una latta vuota, cessò gradualmente, poco a poco. Molti si addormentarono. Un bambino pianse per un poco, lontano, nel buio, gridando al suono dell'eco delle sue grida.

La porta si aprì, ed era giorno, luce del sole che arrivava come la lama di un coltello negli occhi, accecante e angosciosa. Uscii barcollando, dietro gli altri, e li stavo seguendo meccanicamente quando udii il mio nome. Non l'avevo riconosciuto; per prima cosa, in Orgota la «elle» si pronuncia. Qualcuno lo aveva chiamato a intervalli, da quando la porta era stata aperta.

— Da questa parte, prego, signor Ai — disse una persona frettolosa, vestita di rosso, e io non fui più un profugo. Fui separato da quelle persone senza nome con le quali ero fuggito lungo una strada buia, e la cui mancanza d'identità avevo condiviso per tutta la notte in una stanza buia. Avevo un nome, con il quale mi chiamavano, ero conosciuto, e riconosciuto; esistevo. Era un enorme sollievo. Seguii la mia guida quasi con gioia.

L'ufficio della Centralità locale Agricola Commensale era disordinato e frenetico, in preda alla massima agitazione, ma trovarono il tempo di occuparsi di me, e di chiedermi scusa per le scomodità subite nella notte appena trascorsa.

— Se solo non aveste scelto di entrare nella Commensalità a Siuwensin! — si lamentò un grasso Ispettore. — Se almeno aveste preso la strada più consueta!

Non sapevano chi io fossi né perché dovesse essermi concesso un trattamento particolare; la loro ignoranza era evidente, ma non faceva alcuna differenza. Genly Ai, l'Inviato, doveva essere trattato come un ospite importante, di riguardo. Lo era. A metà pomeriggio ero già sulla strada per Mishnory, a bordo di un'auto messa a mia disposizione dalla Centralità Agricola Commensale dell'Est Homsvashom, Ottavo Distretto. Avevo un nuovo passaporto, e un salvacondotto per tutte le Case di Transito che avrei incontrato lungo la strada, e un invito telegrafico nella residenza di Mishnory del Commissario del Primo Distretto Commensale per le Strade d'Accesso e i Porti, il signor Uth Shusgis.

La radio della piccola automobile si accese con il motore, e funzionò mentre l'auto funzionava; così per tutto il pomeriggio, mentre io viaggiavo attraverso le grandi campagne uniformi e piatte dell'Est Orgoreyn, campi di grano senza recinti (perché non ci sono animali da pascolo) e pieni di corsi d'acqua, ascoltai la radio. Mi parlò del tempo, del raccolto, delle condizioni delle strade; mi avvertì di guidare con prudenza; mi diede notizie di diversi generi da tutti e trentatré i Distretti, la produzione di certe fabbriche, le notizie di carico e scarico provenienti da diversi porti marittimi e fluviali; salmodiò alcuni canti Yomesh, e poi ricominciò a parlarmi del tempo. Era tutto molto blando, diluito, tranquillo, dopo la sfrenata propaganda che avevo udito per radio a Erhenrang. Non veniva fatto alcun cenno dell'incursione a Siuwensin; il governo Orgota, evidentemente, intendeva prevenire, e non provocare, l'eccitazione popolare. Un breve bollettino ufficiale, ripetuto di quando in quando, diceva semplicemente che l'ordine era e sarebbe stato mantenuto lungo la Frontiera Orientale. Questo mi piacque; era rassicurante, e per nulla provocatorio, e possedeva la quieta forza che avevo sempre ammirato nei getheniani: l'Ordine sarà mantenuto… Ero lieto, adesso, di essere uscito da Karhide, una terra incoerente spinta in direzione della violenza da un re paranoico e incinto, e da un Reggente egomaniaco. Ero felice di guidare con calma, a una velocità di trentacinque chilometri all'ora, attraverso vasti campi di grano diritti, sotto un quieto cielo grigio e uniforme, verso una capitale il cui governo credeva nell'Ordine.

Lungo la strada c'erano frequenti cartelli e segnali indicatori (a differenza delle strade karhidiane, prive di contrassegni di sorta, lungo le quali era necessario chiedere la strada da seguire, o indovinarla) con le istruzioni di prepararsi a una fermata nella Stazione d'Ispezione, della tale Area o Regione Commensale; in queste dogane interne era necessario mostrare i propri documenti d'identificazione, e registrare il proprio passaggio. I miei documenti erano validi per tutti gli esami, e così dopo il minimo indugio mi veniva cortesemente fatto cenno di proseguire, e venivo cortesemente informato sulla distanza della prossima Casa di Transito, se per caso avessi voluto mangiare o dormire. A trentacinque chilometri orari è un viaggio considerevole, quello che dalla Barriera Settentrionale porta a Mishnory, e passai due notti lungo la strada. Il cibo, nelle case di Transito, era insipido ma abbondante, l'alloggio era decente, e l'unica cosa che mancava era l'intimità. Perfino questa era fornita, in una certa misura, dalla reticenza dei miei colleghi viaggiatori. Non feci amicizia con nessuno, non feci conoscenze, e neppure ebbi una conversazione vera e propria, durante le mie soste, benché tentassi diverse volte. Gli Orgota non parevano un popolo ostile, o poco amichevole; erano semplicemente privi di curiosità. Erano incolori, fermi, sottomessi. Mi piacevano. Avevo già vissuto due anni di colore, di instabilità, e di passione, in Karhide. Un cambiamento era il benvenuto.

Seguendo la riva est del grande Fiume Kunderer, raggiunsi il terzo mattino della mia permanenza in Orgoreyn la città di Mishnory, certo la più grande di quel mondo.

Nella luce di un sole malato, tra i rapidi, copiosi rovesci di pioggia dell'autunno, mi pareva una città dall'aspetto strano, fatta di pareti di pietra spoglia, con poche finestre strette poste troppo in alto, ampie strade che facevano parere piccole le folle e minuscole le figure umane, lampioni stradali posti in cima a piloni ridicolmente alti, tetti che si univano nella punta dai lati ripidi, come mani giunte per pregare, tettoie che sporgevano dalle pareti degli edifici a cinque, sei metri da terra, come grandi scaffali di biblioteche vuote… una città grottesca, dalle proporzioni assurde, bizzarre, nella luce del sole. Non era stata costruita per la luce del sole. Era stata costruita per l'inverno. D'inverno, con quelle strade colme di tre metri di neve compressa, dura, solida, con i tetti aguzzi circondati da una corona di ghiaccioli, con le slitte parcheggiate sotto le tettoie, con le strette fessure gialle delle finestre che brillavano nella tormenta e nel buio del gelo, ebbene, solo d'inverno si poteva vedere come fosse adeguata quella città, quale valore economico avesse, quale bellezza.

Mishnory era più pulita, più grande, più luminosa di Erhenrang, più aperta e imponente. Grandi edifici di pietra bianco-giallognola la dominavano, semplici blocchi massicci, costruiti tutti secondo lo stesso schema, edifici che ospitavano gli uffici e i servizi del Governo Commensale, e anche i templi più grandi del culto Yomesh, un culto considerato religione di stato dalla Commensalità. Non c'era tumulto, non c'erano confusione e disordine, non c'era il senso di trovarsi sempre sotto l'ombra di qualcosa di alto e cupo, come a Erhenrang; tutto era semplice, di concezione grandiosa, e ordinato. Mi pareva di essere uscito da un'età oscura, e provai il desiderio di conoscere meglio quel luogo, e mi pentii di avere trascorso due anni interi in Karhide. Questo, ora, pareva un paese già pronto a entrare nell'Era Ecumenica.

Girai in auto per la città, per qualche tempo, poi restituii l'auto all'Ufficio Regionale competente, e andai a piedi verso la residenza del Commissario del Primo Distretto Commensale per le Strade d'Accesso e i Porti. Non mi ero assicurato se l'invito fosse una richiesta, o un ordine cortese. Nusuth. Ero in Orgoreyn per parlare a nome dell'Ecumene, e potevo cominciare qui, come in qualsiasi altro posto.

I miei concetti sulla flemma e sul compassato autocontrollo Orgota furono quasi distrutti dal Commissario Shusgis, che avanzò verso di me sorridendo e gridando, mi afferrò entrambe le mani nel gesto che i karhidiani riservano per i momenti d'intensa emozione personale, mi sollevò e abbassò le braccia come se avesse cercato di avviare il mio motore, e a gran voce ruggì un saluto all'Ambasciatore dell'Ecumene dei Mondi Conosciuti sul pianeta Gethen.

Quella fu una sorpresa, poiché nessuno dei dieci, dodici o quattordici Ispettori che avevano studiato i miei documenti aveva mostrato alcun segno di riconoscere il mio nome, o i termini Inviato ed Ecumene… cose, queste, che erano state per lo meno vagamente familiari per tutti i karhidiani che avevo incontrato in quei due anni. Avevo concluso che Karhide non aveva mai permesso l'uso delle notizie che mi riguardavano alle stazioni Orgota, tentando di mantenermi un segreto nazionale.

— Non Ambasciatore, signor Shusgis. Solo un inviato.

— Futuro Ambasciatore, allora. Sì, per Meshe! — Shusgis, un uomo solido, raggiante, mi guardò a lungo, e rise di nuovo. — Non siete come mi ero aspettato, signor Ai! Neppure un poco. Alto come un lampione stradale, dicevano, sottile come una slitta veloce, nero come l'inchiostro e dagli occhi obliqui… mi aspettavo un orco dei ghiacci, un mostro! Niente del genere. Solo che siete un po' più scuro della maggior parte di noi.

— Colore della Terra — dissi.

— Ed eravate a Siuwensin, la notte dell'assalto? Per tutte le mammelle di Meshe! in quale mondo viviamo. Avreste potuto essere ucciso attraversando il ponte sull'Ey, dopo avere attraversato tutto lo spazio, per arrivare qui. Bene! Bene! Siete qui. E moltissime persone vogliono vedervi, e ascoltarvi, e darvi finalmente il benvenuto in Orgoreyn!

Mi installò immediatamente, e niente discussioni!, in un appartamento della sua casa. Essendo un alto burocrate e un uomo ricco, viveva in uno stile che non ha equivalente in Karhide, neppure tra i Lords dei grandi Dominii. La casa di Shusgis era un'intera isola, che ospitava più di cento dipendenti, di servitori domestici, di impiegati, di consulenti tecnici, e così via… ma nessun parente, nessun familiare. Il sistema di estesi clan familiari, di Focolari e Dominii, benché fosse ancora vagamente distinguibile nella struttura Commensale, era stato «nazionalizzato» diversi secoli prima, in Orgoreyn. Nessun bambino di età superiore a un anno vive con il suo genitore, o i genitori; tutti sono allevati nei Focolari Commensali. Non c'è alcun titolo né alcun rango per discendenza. I testamenti privati non sono legali; un uomo, morendo, lascia il suo patrimonio allo stato. Tutti iniziano sullo stesso piano di uguaglianza. Ma ovviamente non continuano allo stesso modo. Shusgis era ricco, e liberale con le sue ricchezze. C'erano dei lussi, nelle mie stanze, che io non avevo mai pensato esistessero su Inverno… per esempio, una doccia. C'era una stufa elettrica, insieme a un caminetto ben fornito. Shusgis rise:

— Mi hanno detto, tieni al caldo l'Inviato, lui viene da un mondo caldo, un mondo che è un forno, e non può sopportare il nostro freddo. Trattalo come se fosse incinto, metti delle pellicce sul suo letto e riscalda bene la sua stanza, riscalda l'acqua con la quale si lava e tieni chiuse le sue finestre! Basta così? Sarete a vostro agio? Vi prego di dirmi cos'altro vorreste avere qui.

A mio agio! Nessuno, in Karhide, mi aveva mai chiesto, in nessuna circostanza, se io mi fossi sentito a mio agio.

— Signor Shusgis — dissi, con una certa emozione, — mi sento perfettamente a mio agio… come se fossi nella mia casa.

Lui non fu soddisfatto, fino a quando non ebbe messo un'altra preziosa pelliccia sul letto, e degli altri ceppi nel caminetto.

— So come ci si sente — disse. — Quando io ero incinto, non riuscivo a scaldarmi… i miei piedi erano come ghiaccio, sono rimasto seduto sul fuoco per tutto quell'inverno. È stato molto tempo fa, naturalmente, ma lo ricordo bene! — … I getheniani tendono ad avere i loro figli quando sono giovani; quasi tutti, dopo l'età di ventiquattro anni, usano dei contraccettivi, e cessano di essere fertili, nella fase femminile, a circa quarant'anni. Shusgis era sulla cinquantina, perciò aveva detto «molto tempo fa, naturalmente,» e certamente era difficile immaginarlo come una giovane madre. Era un politicante navigato, duro, astuto e gioviale, le cui gentilezze servivano i suoi interessi, e il cui massimo interesse era in se stesso. Il suo era un tipo panumano. Lo avevo incontrato sulla Terra, e su Hain, e su Ollul. Mi aspettavo di incontrarlo anche all'Inferno.

— Voi siete bene informato sul mio aspetto e sui miei gusti, signor Shusgis. Ne sono lusingato; credevo che la mia reputazione non mi avesse preceduto.

— No — disse lui, comprendendo perfettamente ciò che intendevo dire, — avrebbero preferito tenervi sepolto sotto una valanga, laggiù a Erhenrang, vero? Ma vi hanno lasciato andare, vi hanno lasciato andare; ed è stato proprio il momento in cui ci siamo resi conto, qui, che voi non eravate solo un altro pazzoide karhidi, ma qualcosa d'importante… qualcosa di vero.

— Temo di non seguirvi.

— Bene, Argaven e i suoi accoliti avevano paura di voi, signor Ai… avevano paura di voi, e non vedevano l'ora di vedervi partire. Avevano paura che, se vi avessero trattato male, o vi avessero ridotto al silenzio, ci fosse stata qualche rappresaglia. Un assalto dallo spazio esterno, eh! Così non osavano toccarvi. E hanno tentato di ridurvi al silenzio. Perché hanno paura di voi, e di quello che portate a Gethen!

Era un'esagerazione; certo io non ero stato censurato, nei notiziari karhidi, per lo meno fino a quando Estraven era stato al potere. Ma avevo già ricevuto l'impressione che le notizie su di me non avessero girato molto, in Orgoreyn, e Shusgis confermava ora i miei sospetti.

— Allora voi non avete paura di ciò che io porto a Gethen?

— No, non abbiamo paura, signore!

— A volte io ne ho, invece.

Decise di ridere giovialmente, a quell'osservazione. Non spiegai ulteriormente le mie parole. Io non sono un venditore ambulante. Non vado a vendere il Progresso agli Aborigeni. Noi dobbiamo incontrarci come uguali, conoscerci con una certa comprensione e fiducia e innocenza reciproche, prima ancora che la mia missione abbia realmente inizio.

— Signor Ai, moltissime persone aspettano di conoscervi, pezzi grossi e personaggi meno importanti, e alcuni sono proprio gli individui con i quali vorrete parlare, qui, gli individui che fanno muovere le cose, che prendono le decisioni. Io ho chiesto l'onore di ricevervi, perché ho una casa grande, e perché godo una grande reputazione d'individuo neutrale, né un Dominatore né un Libero Mercante, semplicemente un tranquillo Commissario che fa il suo lavoro e che vi terrà riparato dalle domande e dalle chiacchiere sulla casa nella quale abitate. — Rise. — Ma questo significa che mangerete molto fuori, se non vi dispiace.

— Allora, questa sera il programma prevede una cenetta con Vanake Slose.

— Commensale di Kuwera… Terzo Distretto, vero? — Nauralmente avevo svolto qualche piccola ricerca preparatoria, prima di venire in quella nazione. Lui parve entusiasta, e si gonfiò tutto per la condiscendenza da me dimostrata nel degnarmi d'imparare qualcosa sulla sua nazione. Le maniere erano assai diverse, qui, da quelle di Karhide; in Karhide, il suo entusiasmo sarebbe stato degradante per il suo shifgrethor, o per il mio; non ero sicuro di quale sarebbe stato, ma uno dei due certamente… in pratica, tutto offendeva lo shifgrethor.

Avevo bisogno di abiti per una cena-ricevimento, avendo perduto il mio abito buono di Erhenrang nell'incursione di Siuwensin, così quel pomeriggio presi un tassi governativo, che mi portò nella parte alta della città, dove acquistai un abito Orgota. Hieb e camicia erano quasi uguali a quelli karhidiani, ma invece di calzoni estivi essi indossavano per tutto l'anno dei gambali che arrivavano alla coscia, gonfi e ingombranti; i colori erano chiassosi, azzurro o rosso, e stoffa, taglio e fattura erano tutti un po' troppo appariscenti, e scadenti. Si trattava di un lavoro standardizzato. Gli abiti mi mostrarono quel che mancava a quella città massiccia, imponente e grandiosa: eleganza. L'eleganza è un prezzo ridicolo da pagare, per il successo, e io ero lieto di pagarlo. Tornai nella casa di Shusgis e indugiai pigramente nella doccia, che mi irrorava di una fittissima trama d'acqua e vapore, che veniva da tutti e quattro i lati, ed era stimolante e gradevole. Pensai alle docce fredde, piccole nell'Est Karhide, che avevo usato per tutta l'estate tremando e battendo i denti, e ricordai la vasca dai bordi coperti di ghiaccio della mia stanza di Erhenrang. Era eleganza, quella? Evviva la comodità! Indossai i miei chiassosi paramenti rossi, e fui accompagnato, insieme a Shusgis, alla cena-ricevimento, a bordo dell'auto con autista del mio ospite. Un'auto privata. Ci sono molti più servitori, molti più servizi in Orgoreyn che in Karhide. Questo è perché tutti gli Orgota sono dipendenti dello stato; lo stato deve trovare un lavoro per tutti i cittadini, e ci riesce. Questa, almeno, è la spiegazione accettata, benché a somiglianza della maggior parte delle spiegazioni economiche essa sembri, sotto certi aspetti, trascurare totalmente il punto più importante.

La sala dei ricevimenti alta, bianca, vividamente illuminata, del Commensale Slose conteneva venti o trenta ospiti, tre dei quali Commensali, e tutti visibilmente dei notabili, di un tipo o di un altro. Questo era più di un semplice gruppo di Orgota curiosi di vedere «l'alieno». Io non ero una curiosità, come lo ero stato per un anno intero in Karhide; non ero un fenomeno; non ero un enigma. Ero, a quanto sembrava, una chiave.

Quale porta avrei dovuto aprire? Alcuni di loro ne avevano un'idea… alcuni degli uomini di stato e degli alti burocrati che mi accolsero con effusione… ma io non ne avevo nessuna.

Certo non avrei potuto scoprirlo durante la cena. Su tutto Inverno, perfino nel gelido, barbaro Perunter, è considerato esecrabilmente volgare parlare di lavoro mentre si mangia. Poiché la cena venne subito servita, rimandai le mie domande e mi occupai di una zuppa di pesce gommosa, del mio ospite, e dei miei compagni di mensa. Slose era una persona fragile, di aspetto giovanile, con occhi insolitamente luminosi, intelligenti, e una voce sommessa e intensa; aveva l'aspetto di un idealista, di un'anima devota a una missione. Il suo atteggiamento mi piaceva, come pure i suoi modi, ma mi chiesi a quale missione fosse devota la sua anima. Alla mia sinistra sedeva un altro Commensale, un individuo dal viso grasso che si chiamava Obsle. Era rozzo, grossolano, gioviale, e interrogativo. Aveva l'aria dell'inquisitore, in realtà. Quando fummo al terzo cucchiaio della zuppa di pesce, mi stava già chiedendo che cosa diavolo fosse, il fatto che io ero nato davvero su qualche altro mondo… com'era, là… più caldo di Gethen, dicevano tutti… quanto più caldo?

— Bene, sulla Terra, a questa stessa latitudine, non nevica mai.

— Non nevica mai. Non nevica mai? — rise con autentico divertimento, come un bambino ride di una buona bugia, incoraggiando ulteriori voli di fantasia.

— Le nostre regioni sub-artiche somigliano alla vostra zona abitabile; siamo più lontani di voi dalla nostra ultima Era Glaciale, ma non ne siamo usciti completamente, vedete. Fondamentalmente la Terra e Gethen sono molto simili. Tutti i mondi abitati lo sono. Gli uomini possono vivere solo entro una stretta gamma di ambienti, Gethen si trova a un estremo…

— Allora esistono dei mondi più torridi del vostro?

— Sono quasi tutti più caldi. Alcuni sono torridi; Gde, per esempio. È quasi completamente fatto di sabbia, e di deserti rocciosi. Era già caldo all'inizio, e una civiltà tecnologica ha rovinato il suo equilibrio naturale cinquanta o sessantamila anni fa, consumando tutti i boschi, per usarli come legna da ardere, e così via. Esistono ancora degli abitanti, lassù, ma il pianeta somiglia… se ho ben compreso il Testo… all'idea Yomesh del luogo in cui i ladri vanno dopo la morte.

Questo fece sorridere Obsle, un sorriso calmo, di approvazione, che mi fece bruscamente rivedere la valutazione che avevo dato dell'uomo.

— Alcuni culti minori ritengono che quei Passaggi del Dopomorte siano realmente, fisicamente situati su altri mondi, altri pianeti dell'universo reale. Avete già incontrato questa idea, signor Ai?

— No; sono stato descritto in maniere diverse, ma nessuno ha cercato di liquidarmi spiegandomi come un fantasma. — Parlando, arrischiai un'occhiata alla mia destra, e dicendo fantasma ne vidi uno. Scuro, in un abito scuro, immobile e simile a un'ombra, era seduto accanto a me, lo spettro della festa.

L'attenzione di Obsle era stata attirata dall'altro vicino, e quasi tutti stavano ascoltando Slose, che era a capotavola. Io dissi, a bassa voce:

— Non mi aspettavo di vedervi qui, Lord Estraven.

— L'inaspettato è ciò che rende possibile la vita — mi disse.

— Mi è stato affidato un messaggio per voi.

Mi guardò, con aria interrogativa.

— Esso prende la forma di denaro… denaro vostro… Foreth rem ir Osboth lo manda. L'ho con me, nella casa del signor Shusgis. Farò in modo che vi giunga.

— È cortese da parte vostra, signor Ai.

Era calmo, sottomesso, rimpicciolito… un uomo bandito, esiliato, che viveva e si consumava in una terra straniera. Non pareva incline a parlare con me, e io ero lieto di non parlare con lui. Eppure di quando in quando, durante quella cena-ricevimento lunga, pesante, intensa e piena di conversazioni, benché tutta la mia attenzione fosse rivolta su quei complicati e potenti Orgota che intendevano essermi amici oppure usarmi, mi rendevo acutamente conto della sua presenza: del suo silenzio: del suo viso scuro e rivolto altrove. E mi attraversò la mente, anche se subito scartai l'idea ritenendola senza base alcuna, il pensiero di non essere venuto a Mishnory per mangiare del pesce arrostito con i Commensali di mia spontanea, libera volontà; né erano stati loro a portarmi in quel luogo. Era stato lui.

Загрузка...