CAPITOLO QUINDICESIMO Verso il ghiaccio

Mi destai. Fino a ora era stato strano, incredibile, destarsi in un fioco cono di calore, e sentire la mia ragione dire che quella era una tenda, che io ero disteso là, vivo, che non mi trovavo più nella Fattoria Pulefen. Questa volta non ci fu alcunché di strano nel mio risveglio, ma un senso di pace e di sollievo. Mettendomi a sedere, sbadigliai, e cercai di ravviare i capelli con le dita, ma erano scomposti, ribelli. Guardai Estraven, disteso sul suo sacco a pelo, profondamente addormentato, a meno di mezzo metro da me. Indossava soltanto i calzoni; aveva caldo. Il viso scuro, segreto, era rivolto alla luce, esposto al mio sguardo. Estraven, addormentato, appariva un po' stupido, come tutti quelli che dormono; un viso rotondo, forte, rilassato e remoto, minuscole gocce di sudore sul labbro superiore e sulle folte sopracciglia. Ricordavo come lo avevo visto in piedi, sudato, durante la parata di Erhenrang, sul palco delle autorità, vestito come si conveniva a un Primo Ministro, nella luce del sole. Ora lo vedevo indifeso e seminudo in una luce più fredda, e per la prima volta lo vidi come era.

Si svegliò tardi, e lentamente. Finalmente riuscì ad alzarsi, sbadigliando, prese la camicia, si affacciò a vedere il tempo fuori, e poi si mi chiese se desideravo una tazza di orsh. Quando scoprì che io ero già andato a preparare la bevanda, usando l'acqua che aveva lasciato la notte prima sulla stufa, accettò una tazza, mi ringraziò rigidamente, e sedette a bere.

— Dove andremo da qui, Estraven?

— Dipende da dove voi volete andare, signor Ai. E da quale genere di viaggio voi potete sopportare.

— Qual è la strada più rapida per uscire da Orgoreyn?

— A occidente. Fino alla costa. Trenta miglia, più o meno.

— E poi?

— Le rade saranno già ghiacciate, qui. In ogni caso, d'inverno nessuna nave esce dal porto. Si tratterebbe di attendere, nascosti da qualche parte, l'arrivo della primavera, quando i grandi mercantili partono per Sith o per Perunter. Nessuno partirà per Karhide, se l'embargo sul commercio continua. Potremmo pagare con il lavoro un passaggio su un mercantile. Io non ho più denaro, disgraziatamente.

— C'è qualche alternativa?

— Karhide. Per via di terra.

— Quanto è distante… mille miglia?

— Sì, usando la strada. Ma non potremmo comunque usare le strade. Non riusciremmo a passare l'esame del primo Ispettore. La nostra unica strada sarebbe a nord, attraverso le montagne, a est, attraverso il Gobrin, e poi discendere fino alla frontiera, nella Baia di Guthen.

— Attraverso il Gobrin… la distesa di ghiaccio, volete dire?

Lui annuì.

— Non è possibile d'inverno, vero?

— Credo di sì; con fortuna, come in tutti i viaggi invernali. Sotto un certo aspetto, l'attraversamento di un Ghiacciaio è meglio d'inverno. La buona stagione, come sapete, tende a restare sui grandi ghiacciai, dove il ghiaccio rifletté il calore del sole; le tempeste sono spinte verso la periferia. Da qui vengono le leggende intorno al Luogo nella Tormenta. Questo elemento potrebbe essere a nostro favore. E ben poco d'altro.

— Allora voi pensate seriamente…

— Sarebbe stato inutile portarvi via dalla Fattoria Pulefen, se non l'avessi pensato.

Era ancora rigido, torvo, risentito. La conversazione della notte precedente aveva lasciato scossi entrambi.

— E presumo che voi consideriate l'attraversamento del Ghiaccio un rischio preferibile all'attesa di attraversare il mare, a primavera?

Lui annuì.

— Solitudine — spiegò, laconico.

Riflettei per un poco su quanto mi aveva detto.

— Spero che abbiate preso in considerazione le mie condizioni d'inferiorità. Non sono resistente al freddo come voi, neanche per sogno. Non sono un esperto sciatore. Non sono in buone condizioni… benché sia molto migliorato, da qualche giorno a questa parte.

Lui annuì di nuovo.

— Credo che possiamo farcela — disse, con quella completa semplicità che per tanto tempo avevo scambiato per ironia.

— Va bene.

Mi lanciò un'occhiata, e finì con un sorso la sua tazza di tè. La bevanda può essere chiamata tè; ricavata da grano di perni cotto e tostato, l'orsh è una bevanda bruna, dolceamara, ricca di vitamine A e C, zucchero, e di un piacevole, blando stimolante che ha qualche parentela con la lobelina. Dove non c'è birra, su Inverno, c'è l'orsh; dove non esistono né birra, né orsh, non c'è gente.

— Sarà duro — disse, posando la tazza. — Molto. Senza fortuna, non potremo mai riuscirci.

— Preferirei morire sul Ghiaccio piuttosto che in quella melma dalla quale mi avete tirato fuori.

Tagliò una fetta di «pane» secco, me la offrì, ne tagliò un'altra per sé, e sedette pensieroso, masticando.

— Avremo bisogno di altro cibo — disse.

— Cosa accadrà se riusciamo ad arrivare in Karhide… a voi, intendo? Siete sempre proscritto.

Rivolse su di me il suo sguardo scuro, da lontra.

— Sì. Suppongo che resterò da questa parte.

— E quando essi scopriranno che avete aiutato il loro prigioniero a fuggire?

— Non dovranno scoprirlo. — Sorrise, un sorriso pallido, e disse, — prima di tutto, dobbiamo attraversare il Ghiaccio.

Esclamai:

— Sentite, Estraven, volete perdonarmi per quanto ho detto ieri…

Nusuth. - Si alzò, sempre masticando, indossò lo hieb, il soprabito, e le scarpe, e scivolò, agile come una lontra, dalla porta della tenda, che si chiudeva ermeticamente da sola, proteggendoci dal freddo. Da fuori, si affacciò di nuovo e disse, — potrò tardare, o forse starò via per tutta la notte. Pensate di farcela, qui, da solo?

— Sì.

— Bene. — E con queste parole, se ne andò. Non ho mai conosciuto una persona che reagisse così totalmente e rapidamente a una situazione mutata, come Estraven. Cominciavo a riavermi, ed ero disposto a partire; lui era uscito dal thangen. Nell'istante in cui tutto questo era stato chiaro, lui se ne era andato. Era partito. Non era mai frettoloso, o impulsivo, ma era sempre pronto. Era il segreto, senza dubbio, della straordinaria carriera politica che aveva gettato via per me; era anche la spiegazione del fatto che lui credeva in me, e della sua devozione alla mia missione. Quando ero arrivato, lui era stato pronto. Nessun altro, su Inverno, lo era stato.

Eppure lui si considerava un uomo lento, tardo, inefficace nei casi di emergenza.

Una volta mi aveva detto che, essendo così lento di pensiero, era costretto a guidare le sue azioni con un'intuizione generale di quale corso stava seguendo la sua «fortuna», e che questa intuizione ben raramente lo abbandonava o lo tradiva. Lo aveva detto seriamente; poteva essere perfino la verità. I Profeti delle fortezze non sono le sole persone, su Inverno, capaci di vedere avanti. I Profeti hanno addomesticato e addestrato il presagio, l'indizio e la premonizione, ma non hanno aumentato la sua certezza. In questa materia, gli Yomeshta possono avere ragione a loro volta: il dono non è, forse, solo un semplice, ristretto dono di profezia, ma è piuttosto il potere di vedere (anche se solo per un breve istante, in un lampo) tutto nello stesso tempo: vedere l'intero.

Tenni la piccola stufetta, che serviva per cucinare e per riscaldare, alla massima intensità, mentre Estraven era via, e così ebbi un calore piacevole, autentico, per la prima volta… da quanto tempo? Pensai che ormai doveva essere Thern, il primo mese dell'inverno e di un nuovo Anno Uno, ma a Pulefen avevo quasi perduto il conto.

La stufa era uno di quegli apparecchi economici ed eccellenti che i getheniani hanno perfezionato nel loro millenario sforzo per vincere il freddo. Soltanto l'uso di una carica a fissione, come fonte di alimentazione, avrebbe potuto migliorarla ancora. La sua batteria durava quattordici mesi, di uso continuo… e molto di più se l'uso era discontinuo. Il calore sprigionato era intenso. Era una stufa, un forno, un fornello, e una lanterna, tutto nello stesso tempo, e pesava poco, circa quattro libbre. Senza di essa, non avremmo potuto percorrere nemmeno cinquanta miglia. Doveva essere costata una buona parte del denaro di Estraven, quel denaro che gli avevo dato altezzosamente, quasi sdegnosamente, quando ero giunto a Mishnory. La tenda, che era fatta di materie plastiche, similpelle e altre, trattate in maniera particolare per resistere al freddo, e progettata in maniera da affrontare almeno in parte la condensazione dell'acqua che costituisce il maggiore disagio dell'interno di una tenda, nel clima freddo; i sacchi a pelo di pelliccia di pesthry, che potevano essere usati come unità autonome o come semplici materassi; gli indumenti, gli sci, la slitta, le provviste di cibo, tutto era di primissima qualità, di perfetta fattura, di peso leggero, durevole, costoso. Se lui era andato a procurarsi dell'altro cibo, con che cosa sarebbe riuscito a ottenerlo?

Non ritornò fino al tramonto del giorno successivo. Ero già uscito diverse volte, usando le scarpe da neve, radunando le forze e facendo pratica, percorrendo il pendio nevoso della piccola valle candida che nascondeva la nostra tenda. Le scarpe da neve erano un incrocio tra le racchette e i pattini. Ero uno sciatore discreto, ma non avevo molta pratica di pattinaggio, e non avevo usato spesso quel tipo di scarpe. Non ebbi il coraggio di addentrarmi troppo nel territorio ignoto, perché il timore di perdere le tracce e di smarrirmi mi teneva bloccato; era un territorio selvaggio, deserto, ripido, pieno di crepacci e di burroni e di corsi d'acqua ghiacciati, un territorio ondulato che si sollevava poi rapidissimo, inerpicandosi verso le grandi montagne a est, avvolte in un manto minaccioso di nubi. Ebbi il tempo di domandarmi che cosa avrei potuto fare, in quella landa dimenticata, se Estraven non fosse tornato indietro.

Lui ritornò, scendendo velocemente dal pendio fosco della collina immersa nel crepuscolo… era uno sciatore prodigioso… e si fermò accanto a me, sporco e stanco e carico. Aveva sulla schiena una grossa cesta, un sacco pieno di fagotti; Papà Natale, che scende dai camini della vecchia Terra. I fagotti contenevano pane secco, semi di grano, tè, e zollette, dello zucchero duro, rosso, dal sapore scialbo che i getheniani ricavano da una delle loro tuberacee.

— Come avete ottenuto tutto questo?

— L'ho rubato — mi disse colui che era stato un tempo Primo Ministro di Karhide, tendendo le mani verso la stufa, che non aveva ancora abbassato d'intensità; lui, perfino lui, aveva freddo. — A Turuf. C'è mancato un pelo. — Fu tutto quello che riuscii a sapere. Non era orgoglioso della sua impresa, e non era capace di riderne. Rubare è un delitto vilissimo, su Inverno; in effetti, il solo uomo che viene più disprezzato del ladro è il suicida.

— Prima di tutto useremo questo cibo — mi disse, e io mi misi sulla stufa un boccale pieno di neve, a sciogliersi. — È pesante. — Quasi tutto il cibo che aveva avuto con sé, prima, era composto di razioni di ipercibo, una mistura disidratata, compressa, trattata chimicamente e ridotta in cubi e tavolette solide, di cibi ad alto contenuto energetico… il cui nome Orgota era gichy-michy, un nome che noi stessi avevamo adottato, benché, naturalmente, insieme parlassimo in lingua karhidi. Ne avevamo a sufficienza per sessanta giorni, al minimo delle razioni consuete: una libbra al giorno a testa. Quando si fu lavato ed ebbe mangiato, Estraven restò seduto a lungo accanto alla stufa, quella notte, facendo un preciso inventario di quello che avevamo, e di come, e quando, avremmo dovuto servircene. Non avevamo bilance, e lui fu costretto a effettuare delle valutazioni approssimative, usando una scatola da una libbra di gichy-michy come campione. Lui conosceva, come quasi tutti i getheniani, il valore calorico e nutritivo di ogni cibo; conosceva le proprie esigenze in una gamma completa di condizioni fisiche e ambientali, e sapeva anche valutare le mia con un sufficiente grado di approssimazione. Una conoscenza simile, su Inverno, ha un altissimo valore di sopravvivenza.

Quando alla fine tutte le nostre razioni furono valutate e programmate, Estraven si infilò nel suo sacco a pelo, e si addormentò. Durante la notte, lo sentii mormorare dei numeri, in sogno: pesi, giorni, distanze…

Avevamo (con molta approssimazione, certo) circa ottocento miglia da percorrere. Le prime cento sarebbero state in direzione nord, o nord-est, attraverso la foresta e attraverso gli speroni più settentrionali della catena dei Sembensyens, fino al grande ghiacciaio, la distesa di ghiaccio che copre i due lobi del Grande Continente ovunque, a nord del 45° parallelo, e in alcuni punti affonda verso sud, fin quasi a raggiungere il 35°. Una di queste propaggini meridionali è la regione delle Colline di Fuoco, le ultime vette dei Sembensyens, e quella regione fu la nostra prima mèta. Lassù tra le montagne, era il ragionamento di Estraven, avremmo potuto arrivare sulla superficie della coltre di ghiaccio, o discendendo su di essa dal pendio di una montagna, o salendo fino a essa scalando il pendio di uno dei suoi ghiacciai efferenti. Di là avremmo viaggiato sul Ghiaccio vero e proprio, in direzione est, per circa seicento miglia. Dove il bordo del ghiacciaio si protende verso nord, di nuovo, nelle vicinanze della Baia di Guthen, saremmo discesi dal Ghiaccio e avremmo tagliato a sud-est, percorrendo le ultime cinquanta o cento miglia attraverso le Paludi di Shenshey, che in quell'epoca avrebbero dovuto essere coperte da tre, quattro o perfino sei metri di neve, fino a raggiungere la frontiera karhidi.

Questa strada ci avrebbe mantenuto fin dall'inizio alla larga da territori abitati, o soltanto abitabili, e così sarebbe stato fino al termine del viaggio. Non avremmo incontrato alcun Ispettore. Questo era senza dubbio di primaria importanza. Io non avevo documenti, ed Estraven diceva che i suoi non avrebbero resistito a un'altra falsificazione. In ogni caso, benché io avessi potuto venire scambiato per un getheniano, quando nessuno si aspettava qualcosa d'altro, non potevo essere celato a un occhio che cercava i miei lineamenti. Sotto questo aspetto, perciò, la strada che Estraven proponeva di seguire era altamente pratica.

Sotto tutti gli altri aspetti, però, pareva soltanto una completa pazzia.

Tenni per me questa opinione, perché avevo parlato seriamente, quando avevo affermato di preferire la morte durante la fuga, se tutto fosse risolto a una scelta tra una morte e l'altra. Estraven, però, stava ancora esplorando le alternative. Il giorno successivo, che trascorremmo a caricare e a preparare con grande cura la slitta, egli disse:

— Se voi chiamaste la Nave Stellare, quanto tempo impiegherebbe a venire?

— Tra gli otto giorni e il mezzo-mese; dipende dalla sua posizione, nell'orbita solare che percorre, in relazione a Gethen. Potrebbe trovarsi dall'altra parte del sole.

— Non prima?

— Non prima. La propulsione NAFAL*) non può venire usata all'interno di un sistema solare. La nave può discendere solo usando un motore a razzo, che la pone in ogni caso ad almeno otto giorni di distanza. Perché?

Egli tirò una corda, finché non fu perfettamente tesa, e l'annodò, prima di rispondere.

— Stavo considerando se non fosse più saggio cercare di chiedere aiuto. C'è una stazione radio a Turuf.

— È potente?

— Non molto; la grande trasmittente più vicina, dopo di questa, dovrebbe essere a Kuhumey, circa quattrocento miglia a sud da qui.

— Kuhumey è una grande città, non è vero?

— Circa duecentocinquantamila abitanti.

— Dovremmo ottenere l'uso della stazione radio, in qualche modo, poi nasconderci per almeno otto giorni, con il Sarf già avvertito, e alla nostra ricerca… non vedo molte possibilità.

Egli annuì.

Presi dalla tenda un ultimo sacco di kadik, lo infilai nella sua nicchia, nel carico della slitta, e dissi:

— Se avessi chiamato la nave quella notte, a Mishnory… la notte nella quale mi avete detto di farlo… la notte del mio arresto… Ma Obsle aveva il mio ansible; ce l'ha ancora, suppongo.

— Può usarlo?

— No. Neppure per caso, maneggiandolo. La disposizione delle coordinate è estremamente complessa. Ma se soltanto l'avessi usato!

— Se soltanto avessi saputo che la partita era già finita, quel giorno — disse Estraven, e sorrise. Non era un uomo che provasse troppi rimpianti.

— Penso che voi lo sapeste. Ma io non vi ho creduto.

Quando la slitta fu carica, Estraven insisté, perché trascorressimo il resto della giornata senza fare nulla, immagazzinando energia. Rimase nella tenda, scrivendo, su un piccolo libretto d'appunti, nella sua minuta, rapida, verticale scrittura corsiva karhidi; quello che scrisse fu il resoconto che appare sotto la forma del precedente capitolo. Non era riuscito ad aggiornare il suo diario, durante il mese precedente, e questo lo infastidiva e lo rendeva depresso, a suo modo; era estremamente metodico, per quel che riguardava il diario. Scrivere era, penso, sia un obbligo che un legame, per lui, nei confronti della sua famiglia, il Focolare di Estre. Questo lo appresi più tardi, però; insieme all'apprezzamento di quel suo metodo disordinato, apparentemente, di scrittura, di quella sua veloce alternanza di tempi e di passaggi, di quella sua prosa caotica ed elegante a un tempo, che mi apparve poi affascinante; in quel tempo io ancora non sapevo cosa egli stesse scrivendo, e rimasi seduto, a dare grasso agli sci, o senza fare niente del tutto. Fischiettai un motivetto, e mi interruppi a metà. Avevamo soltanto una tenda, e se dovevamo dividerla senza condurci vicendevolmente alla pazzia e all'esasperazione, una certa quantità di autocontrollo, di cortesia, era evidentemente necessaria… Estraven aveva sollevato lo sguardo, nell'udirmi fischiettare, certo, ma non con irritazione. Mi aveva fissato con aria vagamente sognante, invece, e aveva detto:

— Se avessi saputo della vostra Nave, l'anno passato… Perché vi hanno mandato su questo mondo da solo?

— Il Primo Inviato su di un mondo viene sempre da solo. Un solo alieno è una curiosità, due sono un'invasione.

— La vita del Primo Inviato viene tenuta in poco conto.

— No; in realtà, l'Ecumene non tiene in poco conto la vita di nessun uomo. Ne consegue, perciò, che è meglio porre in pericolo una sola vita che due, o venti. Inoltre, è molto costoso, e occupa molto tempo, sapete, mandare persone nei grandi balzi. Comunque, sono stato io a chiedere il lavoro.

— Nel pericolo, onore — disse lui; evidentemente era un proverbio, perché aggiunse, in tono blando, — saremo pieni di onore, quando raggiungeremo Karhide…

Quando egli parlò, mi ritrovai a credere, d'un tratto, che avremmo veramente raggiunto Karhide, attraverso ottocento miglia di montagne, paludi ghiacciate e baie ghiacciate, ottocento miglia completamente desolate, senza riparo, e senza vita, nelle bufere del cuore dell'inverno, nel cuore di un'Era glaciale. Lui sedeva, scrivendo il suo diario con la stessa pazienza incrollabile, con la stessa esasperante accuratezza che avevo visto in un re pazzo, su di un'impalcatura, intento a dare la calcina a una giunzione, e diceva: — Quando raggiungeremo Karhide…

Il suo quando non era nemmeno una nebulosa speranza senza data. Lui intendeva raggiungere Karhide nel quarto giorno del quarto mese dell'inverno, Arhad Anner. Dovevamo partire domani, il tredicesimo giorno del primo mese, Tormenbod Thern. Le nostre razioni, per quanto egli aveva potuto calcolare, sarebbero durate al massimo per tre mesi getheniani, 78 giorni; cosi avremmo percorso dodici miglia al giorno per settanta giorni, e saremmo arrivati in Karhide per l'Arhad Anner. Questo era tutto risolto e stabilito. Non c'era niente da fare, ora, se non dormire, un buon sonno ristoratore.

Partimmo all'alba, usando le «scarpe da neve», sotto una nevicata minuta, senza vento. La superficie, sulle colline, era bessa, morbida e non ancora pressata, quella che gli sciatori terrestri chiamano, all'incirca, neve «vergine». La slitta era carica, e pesantemente; Estraven calcolava che il peso totale da tirare fosse qualcosa di più di 300 libbre. Era un'impresa dura tirare la slitta, nella neve morbida, benché essa fosse maneggevole come una piccola imbarcazione di perfetto disegno: i pattini erano vere e proprie meraviglie, rivestiti con un polimero che riduceva la resistenza praticamente a zero, ma naturalmente questo non serviva a niente, quando l'intera slitta veniva intrappolata in un cumulo di neve troppo acquosa. Su una superficie simile, e salendo e scendendo per pendii e burroni e crepacci, scoprimmo che era meglio far tirare la slitta a uno, mentre l'altro stava dietro a spingere. La neve cadeva, finissima e lenta, e cadde per tutto il giorno, senza interrompersi. Noi ci fermammo due volte, per mangiare qualcosa. In tutta quella grande regione collinosa, in quel territorio coperto dalla soffice coltre bianca, non si udiva alcun suono. Andammo avanti, e improvvisamente, quasi senza che ci fosse un indizio, un preavviso, cadde il crepuscolo. Ci fermammo in una valle molto simile a quella che avevamo lasciato al mattino, un rifugio tra colline gibbose e candide. Ero così stanco, che barcollavo, eppure non riuscivo a credere che il giorno fosse già finito. Avevamo coperto, secondo il misuratore delle slitte, quasi quindici miglia.

Se eravamo riusciti a fare tanto nella neve soffice, a pieno carico, attraverso un territorio impervio, le cui colline e le cui valli scorrevano tutte traversalmente, sulla nostra strada, certamente avremmo potuto fare ancor meglio sul Ghiaccio, con la neve dura, una superficie uniforme, e un carico sempre più leggero. La mia fiducia in Estraven era stata una cosa più forzata che spontanea; ora gli credevo completamente. Saremmo giunti in Karhide entro settanta giorni.

— Avete già viaggiato a questo modo? — gli chiesi.

— In slitta? Spesso.

— Lunghi viaggi?

— Ho percorso più di duecento miglia in Kermlandia, sul Ghiaccio di Kerm, in autunno, anni fa.

La parte più meridionale di Kermlandia, la montuosa penisola all'estremo sud del sub-continente di Karhide, è, come il nord, una distesa di ghiacci eterni. Il genere umano, sul Grande Continente di Gethen, vive in una striscia di terra tra due pareti bianche. Un'ulteriore diminuzione dell'80% dell'irradiazione solare, si calcola, farebbe avvicinare e infine unire le due pareti; non ci sarebbero più uomini, né terra; soltanto ghiaccio.

— Per quale motivo?

— Curiosità, avventura. — Esitò, e fece un lieve sorriso. — L'accrescimento della complessità e dell'intensità del campo della vita intelligente — disse, citando una delle mie citazioni Ecumeniche.

— Ah: voi stavate estendendo consciamente la tendenza evolutiva proprio dell'Essere; una manifestazione della quale è l'esplorazione. — Eravamo entrambi molto compiaciuti di noi, seduti in quella tenda calda, bevendo tè caldo e aspettando che il porridge di kadik bollisse.

— È così — disse lui. — Eravamo in sei. Tutti molto giovani. Mio fratello e io di Estre, quattro nostri amici di Stok. Quel viaggio non aveva alcuno scopo. Volevamo vedere Teremander, una montagna che sorge dal Ghiaccio, laggiù. Non molte persone l'hanno vista dalla terra.

Il porridge era pronto, ed era completamente diverso dalla sostanza insapore, dura, che ci veniva data nella Fattoria Pulefen; aveva un eccellente sapore, e bruciava splendidamente la bocca. Provando un piacevole senso di calore, benevolo, dissi:

— Il cibo migliore che ho mangiato su Gethen l'ho sempre gustato in vostra compagnia, Estraven.

— Non in quel banchetto, a Mishnory.

— No, è vero… Voi odiate Orgoreyn, vero?

— Pochissimi Orgota sanno cucinare. Odiare Orgoreyn? No, e perché dovrei? Come si fa a odiare una nazione, o ad amarne una? È Tibe che parla di questo; io non conosco l'espediente per farlo. Io conosco la gente, conosco le città, le fattorie, le colline e i fiumi e le rocce, so come il sole al tramonto, d'autunno, discende sul fianco di un certo campo sulle colline; ma qual è il senso di dare un confine a tutto questo, di dare un nome a esso e cessare di amare là dove il nome finisce di essere applicato? Cos'è l'amore per il paese di una persona; è forse l'odio per quello che non è il paese di quella persona? Allora non è una cosa buona. È semplicemente amore di se stessi. Questa è una cosa buona, ma non bisogna farne una virtù, o una professione… Per come io amo la vita, io amo le colline del Dominio di Estre, ma questo tipo di amore non ha una linea di frontiera di odio. E oltre a quello, io sono ignorante, così spero.

Ignorante, nel senso Handdara: ignorare l'astrazione, tenersi stretti alla cosa. C'era in questo atteggiamento qualcosa di femminile, un rifiuto dell'astratto, dell'ideale, una sottomissione allo scontato, che mi riusciva sgradita.

Eppure egli aggiunse, scrupoloso com'era:

— Un uomo che non detesta un cattivo governo è uno stupido. E se esistesse un buon governo, sulla terra, sarebbe una grande gioia servirlo.

In questo, potevamo comprenderci.

— Io so qualcosa di questa gioia — dissi.

— Sì; così ho giudicato.

Lavai le nostre tazze con acqua bollente, e versai la sciacquatura fuori della porta della tenda. Era un'oscurità fittissima, fuori, la neve cadeva fine e rada, appena visibile nell'ovale, fievole ramo di luce che partiva dall'apertura a valvola della tenda. Di nuovo rinchiusi nel calore asciutto della tenda, predisponemmo i nostri sacchi a pelo per la notte. Lui disse qualcosa, — date a me le tazze, signor Ai — o qualche osservazione del genere, e allora io dissi:

— Dovrà essere sempre signore, per tutto il tragitto attraverso il Ghiaccio di Gobrin?

Lui sollevò lo sguardo, e rise;

— Non so come chiamarvi.

— Il mio nome è Genly Ai.

— Lo so. Voi usate il nome che mi viene dalla mia terra.

— Neppure io so come chiamarvi.

— Harth.

— Allora io sono Ai… Chi usa il nome, il primo nome?

— Fratelli di Focolare, o amici — disse, e dicendolo era remoto, fuori della mia portata, a mezzo metro da me in una tenda ampia due metri e mezzo. Era impossibile rispondere a questo. Cosa c'è di più arrogante dell'onestà? Molto raffreddato, entrai nel mio sacco a pelo.

— Buonanotte, Ai — disse l'alieno, e l'altro alieno rispose. — Buonanotte, Harth.

Un amico. Che cos'è un amico, in un mondo dove qualsiasi amico può essere un amante, alla prossima fase della luna? Non io, prigioniero della mia virilità, legato indissolubilmente a essa; non potevo essere amico di Therem Harth, né di qualsiasi altro membro della sua razza. Né uomo né donna, e l'una e l'altra cosa a un tempo, ciclico, lunare, capace di una metamorfosi così radicale al tocco di una mano, fenomeno strano nella culla del genere umano, un getheniano non era carne della mia carne, né poteva essermi amico; non poteva esistere amore, tra noi.

Dormimmo. Mi svegliai una volta, e udii la neve ticchettare, fitta e soffice, sulla tenda.

Estraven si alzò all'alba per preparare la colazione. Il giorno era limpido e luminoso. Togliemmo la tenda e partimmo quando il sole sfiorò con i suoi raggi le cime dei cespugli sparuti che circondavano i bordi della valle; Estraven aveva preso le cinghie e tirava la slitta, io mi ero messo dietro a spingere. La neve cominciava a formare una crosta di ghiaccio; lungo i pendii uniformi, e sgomberi da ostacoli, andammo come cani da slitta, correndo. Quel giorno dapprima costeggiammo, e poi entrammo nella foresta che fa da confine alla Fattoria Pulefen, la foresta di alberi di thore, alberi nani, tozzi, nodosi, coperti di ghiaccio e di cristalli scintillanti di neve. Non osammo servirci della strada principale che portava a nord, ma delle strade secondarie a volte ci servirono per un poco, e poiché la foresta era tenuta pulita, libera degli alberi caduti e del sottobosco, procedemmo bene. Una volta giunti a Tarrenpeth, trovammo un numero minore di crepacci e di costoni ripidi. Il misuratore della slitta, alla fine della giornata, disse che avevamo percorso venti miglia, quel giorno, ed eravamo meno stanchi della notte precedente.

Un parziale compenso per l'intensità dell'inverno su Inverno è dato dal fatto che le giornate rimangono luminose. Il pianeta ha pochissimi gradi di oscillazione, sul piano dell'ellittica, insufficienti a produrre un'apprezzabile differenza stagionale alle latitudini basse. La stagione non è un effetto emisferico, ma un effetto globale, un risultato dell'orbita, avvicinandosi e allontanandosi dall'afelio, c'è solo una perdita di radiazione solare sufficiente a disturbare il già instabile, e turbolento, schema climatico, a raffreddare ciò che è già freddo, e a trasformare l'umida e grigia estate nel bianco inverno violento. Più asciutto del resto dell'anno, l'inverno avrebbe potuto essere più piacevole, se non fosse stato per il freddo. Il sole, quando lo vedete, splende alto; non c'è una lenta, penosa emorragia di luce nelle tenebre, come accade nelle regioni polari della Terra, dove il freddo e la notte discendono insieme. Gethen ha un inverno luminoso, amaro, pungente, terribile e luminoso.

Impiegammo tre giorni ad attraversare la Foresta di Tarrenpeth. Durante l'ultimo giorno, Estraven si fermò ad accamparsi presto, per predisporre delle trappole. Voleva catturare qualche pesthry. I pesthry sono tra i più grandi animali terrestri di Inverno, hanno le dimensioni di una volpe, sono vegetariani ovipari con una splendida pelliccia di pelo bianco o grigio. Lui voleva la loro carne, perché i pesthry sono commestibili. Stavano migrando verso sud in grande numero; sono animali dal passo così leggero e così solitari, che ne vedemmo soltanto due o tre, durante il tragitto, ma la neve era battuta, in ogni angolo della foresta, da centinaia e centinaia di minuscole orme, le orme della grande migrazione annuale, tutte dirette a sud. I lacci posti da Estraven si riempirono, dopo un paio d'ore. Estraven uccise i sei animali, e li ripulì, appese a congelare una parte della carne, ne tenne in serbo un poco per il nostro pasto della sera. I getheniani non sono un popolo di cacciatori, perché esiste ben poca selvaggina… non ci sono grossi erbivori, perciò non esistono grossi carnivori, se non nei mari fertili, e brulicanti di vita. I getheniani sono pescatori e agricoltori. Prima di allora, non avevo mai visto un getheniano con le mani macchiate di sangue.

Estraven guardò le pelli bianche.

— C'è una settimana di vitto e alloggio per un cacciatore di pesthry — disse. — Peccato che vada sprecato. — Tese una delle pelli, perché io la toccassi. La pelliccia era così soffice e profonda e folta che era impossibile dire con sicurezza quando la vostra mano cominciava a toccarla. I nostri sacchi a pelo, i soprabiti, e i cappucci, erano bordati dello stesso pelo, un isolante termico insuperabile, e stupendo da vedersi.

— Non sembra proprio che ne valesse la pena — dissi, — per un pasto.

Estraven mi lanciò quel suo breve sguardo oscuro, e disse:

— Abbiamo bisogno di proteine. — E gettò via le pelli, dove durante la notte i russy, i piccoli, feroci topi-serpenti, le avrebbero divorate, insieme alle ossa e ai rifiuti, e avrebbero leccato la neve insanguinata, ripulendola completamente.

Aveva ragione; in genere, aveva ragione. In un pesthry, c'erano una libbra o due di carne commestibile. Consumai metà della carne, quella sera, e avrei potuto mangiare anche la porzione di Estraven, senza accorgermene. Il mattino dopo, quando ripartimmo tra le montagne, la mia forza era raddoppiata, rispetto al giorno prima.

Quel giorno salimmo e salimmo ancora. La benefica nevicata e il kroxet… un tempo senza vento, tra i -3 e i -12 gradi… che ci avevano accompagnati attraverso Tarrenpeth, e oltre la portata del probabile inseguimento, ora cominciarono a dissolversi, per disgrazia, in temperature al di sopra dello zero, e in pioggia. Ora cominciavo a capire perché i getheniani si lamentano quando d'inverno la temperatura aumenta, e si rallegrano quando diminuisce. Nelle città, la pioggia è un inconveniente, un fastidio; per il viaggiatore, si tratta di una vera catastrofe. Trascinammo la slitta sui fianchi dei Sembensyens per tutta la mattinata, attraverso un freddo, sferzante, intenso miscuglio di pioggia ghiacciata e neve. Nel pomeriggio, sui pendii più ripidi, la neve era quasi del tutto scomparsa. Torrenti di pioggia, miglia di fango e di poltiglia vischiosa. Staccammo i pattini, montammo le ruote sulla slitta, e continuammo a salire. Trasformata in un carro a ruote, la slitta era infida, maledetta, e si bloccava e traballava e minacciava di rovesciarsi a ogni istante. L'oscurità cadde prima che riuscissimo a trovare un riparo, un anfratto o una grotta dove erigere la tenda, e così, malgrado tutte le nostre attenzioni, le cose si bagnarono. Estraven aveva detto che una tenda come la nostra ci avrebbe ospitati con tutte le comodità, in qualsiasi clima, con qualsiasi tempo, purché la mantenessimo asciutta all'interno.

— Se non è possibile essere all'asciutto, nei nostri sacchi a pelo, si perde troppo calore del corpo per tutta la notte, ed è impossibile dormire bene. Le nostre razioni di cibo sono troppo limitate, per permetterci di correre questo rischio. Non possiamo contare sui raggi del sole, per asciugare le cose, così dobbiamo impedire che si bagnino.

Io avevo ascoltato, ed ero stato scrupoloso come lui, nel tenere neve e bagnato fuori della tenda, e così c'era stata soltanto l'inevitabile umidità prodotta dalla nostra «cucina», e dai nostri pori e dai polmoni. Ma quella notte l'umidità aveva pervaso tutto, ancor prima che fossimo riusciti ad alzare la tenda. Ci rannicchiammo, esalando vapore, accanto alla stufa Chabe, e dopo qualche tempo avemmo della carne di Pesthry da mangiare, calda e solida, buona, tanto da compensare qualsiasi altra cosa. Il misuratore della slitta, ignorando il duro lavoro di scalata che avevamo compiuto per tutto il giorno, disse che avevamo percorso soltanto nove miglia.

— È il primo giorno che abbiamo percorso meno della nostra media — dissi.

Estraven annuì, e abilmente spezzò un osso, per succhiarne il midollo. Si era tolto gli indumenti bagnati, ed era rimasto in camicia e calzoni, scalzo, con il colletto aperto. Io avevo ancora troppo freddo per togliermi soprabito e hieb e scarpe. Estraven era là, intento a spezzare le ossa per succhiarne il midollo, il midollo nutriente dei pesthry, abile, preciso, duro, accurato, paziente, con i suoi capelli che somigliavano a una pelliccia preziosa che lo riparavano dall'acqua, come le piume di un uccello; un po' d'acqua gli cadeva sulle spalle, e lui pareva non accorgersene. Non era scoraggiato. Quello era il suo posto. Quello era il suo mondo.

La prima razione di carne mi aveva prodotto dei dolori intestinali, e quella notte essi si fecero forti, insopportabili. Giacqui sveglio, nell'umida oscurità, ascoltando il rumore della pioggia battente.

A colazione, mi disse:

— Avete passato una brutta notte.

— Come fate a saperlo? — Perché lui aveva dormito molto profondamente, senza quasi muoversi, anche quando io avevo lasciato la tenda.

Mi lanciò di nuovo quel suo sguardo.

— Cosa avete avuto?

— Un attacco di diarrea.

Batté le palpebre, e disse, con rabbia:

— È stata la carne.

— Temo di sì.

— Colpa mia. Dovrei…

— Niente di male.

— Siete in grado di viaggiare?

— Sì.

La pioggia cadeva, cadeva, cadeva battente, implacabile, continua. Un vento occidentale, che veniva dal mare, manteneva la temperatura sui quindici gradi, perfino lassù, a mille, milleduecento metri di altitudine. Non riuscivamo a vedere a più di un quarto di miglio, attraverso quella cortina grigia, plumbea, attraverso quella nebbia insidiosa e quella grande massa di pioggia. Non alzai mai lo sguardo, a fissare i pendii che si alzavano davanti a noi: non c'era nulla da vedere… solo la pioggia che cadeva. Procedemmo servendoci della bussola tenendoci a nord, per quanto ce lo permettevano le grandi montagne.

Il ghiacciaio era stato sui pendii di queste montagne, nelle centinaia di migliaia di anni nei quali aveva percorso la sua strada avanti e indietro, implacabile, massiccio, là al Nord. C'erano i segni indelebili, impressi sui pendii di granito, lunghi e diritti, come scolpiti da una mano sicura di artista. A volte, potevamo tirare la slitta attraverso quelle graffiature naturali, come se si fosse trattato di strade.

Me la cavai meglio a tirare la slitta; potevo appoggiarmi alle cinghie, e il lavoro teneva caldo il mio corpo. Quando ci fermammo per mangiare, a mezzogiorno, mi sentii gelare, ebbi nausea, e non riuscii a mangiare nulla. Proseguimmo, salendo di nuovo, ora. La pioggia cadeva, e cadeva, e cadeva. Estraven si fermò sotto una grande tettoia naturale di roccia nera, a metà pomeriggio. Aveva rizzato la tenda, prima ancora che io mi fossi liberato dalle cinghie. Mi ordinò di entrare, e di sdraiarmi subito.

— Sto bene — gli dissi.

— No, invece — disse lui. — Entrate.

Obbedii, ma quel tono di voce mi offese. Quando entrò nella tenda, già pronto per trascorrere la notte, mi alzai a preparare la cena, essendo quello il mio turno. Lui mi ordinò, nello stesso tono perentorio, di restare dov'ero, sdraiato, senza muovermi.

— Non c'è bisogno che mi diate degli ordini — dissi.

— Spiacente — disse lui, inflessibile, voltandomi le spalle.

— Non sono malato, lo sapete.

— No, non lo sapevo. Se non me lo direte francamente, dovrò comportarmi a seconda del vostro aspetto. Non avete recuperato la vostra forza, e il tragitto è stato duro. Non so dove siano i vostri limiti.

— Ve lo dirò, quando li avrò raggiunti.

La sua aria di padronanza, di protezione, mi aveva offeso. Lui era più basso di me di una testa buona, e il suo corpo era più simile a quello di una donna che a quello di un uomo, più grasso che muscoli; quando spingevamo assieme la slitta, dovevo rallentare il mio passo per adattarmi al suo, trattenere la mia forza, per non distanziarlo; uno stallone, un cavallo che portava il carico, con un mulo…

— Non siete più malato, allora?

— No. Naturalmente sono stanco. Come voi.

— Sì, come me — disse. — Ero in ansia per voi. Abbiamo da percorrere una lunga strada.

Non aveva avuto alcuna intenzione di offendermi. Non si era dato un tono di superiorità, volutamente. Mi aveva creduto malato, e i malati prendono degli ordini. Lui era sincero, franco, e si aspettava una franchezza reciproca che io non avrei potuto, forse, offrirgli. Lui, dopotutto, non aveva un metro per valutare la mascolinità, la virilità, non aveva archetipi antichi, per complicare il suo orgoglio.

D'altra parte, se lui poteva abbassare tutte le sue barriere, tutti i suoi archetipi di shifgrethor, come, mi rendevo conto, aveva fatto con me, forse avrei potuto eliminare a mia volta gli elementi più competitivi della mia orgogliosa virilità, che lui comprendeva certamente poco, come io comprendevo lo shfigrethor…

— Quanta strada abbiamo percorso, oggi?

Lui si voltò a guardarmi e sorrise un poco, gentilmente:

— Sei miglia — rispose.

Il giorno dopo percorremmo sette miglia, quello successivo dodici, e il terzo giorno finalmente uscimmo dalla pioggia, e dalle nubi, e dalle regioni dove ancora albergava il genere umano, sul pianeta Inverno.

Era il nono giorno del nostro viaggio.

Eravamo a circa milleottocento metri sul livello del mare, ormai, su un alto plateau pieno delle prove di un recente vulcanismo, e di una recente formazione montuosa; eravamo nelle Colline di Fuoco della Catena dei Sembensyens. Il terrapieno si restringeva gradualmente in una valle, che si restringeva a sua volta, per passare tra due enormi costoni rocciosi. Avvicinandoci alla fine del passo, vedemmo che le nubi gravide di pioggia si stavano facendo più sottili e più fragili. Un freddo vento di tramontana le disperse completamente, lasciando nude le vette sopra i costoni rocciosi, a destra e a sinistra, basalto e neve, giochi complicati di neri e di bianco, brillanti sotto il sole improvviso di un cielo terso e abbagliante. Davanti a noi, rese chiare, limpide, e rivelate dallo stesso, grande soffio di vento del nord, si stendevano valli contorte, centinaia di metri più in basso, valli piene di ghiaccio e di macigni. Oltre queste valli si ergeva una grande parete, una parete di ghiaccio, e sollevando i nostri occhi e risalendo fino al bordo della parete, potemmo vedere il Ghiaccio, il Ghiacciaio di Gobrin, accecante, abbacinante, abbagliante e senza orizzonte fino all'estremo nord, e bianco, bianco, di un candore che l'occhio non poteva fissare, non poteva sostenere.

Qua e là, prima delle valli piene di detriti, e prima delle sporgenze e delle curve e dei costoni rocciosi e dei massi dei bordi dell'immenso campo di ghiaccio, si levavano costoni e sporgenze nere; una grande massa torreggiava dal terrapieno, ergendosi fino all'altezza delle vette che si stagliavano in mezzo, come le porte d'accesso di quel mondo bianco, e questa massa nera era cupa e torreggiante, e dal fianco si sollevava pesantemente, lentamente, un filo di fumo lungo un miglio. Più lontano, c'erano altri, tanti ancora: picchi, pinnacoli, guglie nere, neri coni cinerei sul ghiacciaio. Fumo sbuffato da bocche di fuoco che si aprivano nel ghiaccio.

Estraven si fermò dov'era, con le cinghie della slitta come finimenti intorno al suo corpo, accanto a me, e guardò quella magnifica e indescrivibile desolazione.

— Sono felice di essere vissuto per poter vedere questa scena — disse.

Provavo anch'io gli stessi sentimenti. È un bene avere una fine per il viaggio che state compiendo; ma alla fine, è il viaggio che conta.

Non aveva piovuto, là, su quelle distese di pendii che guardavano a nord. Campi di neve si protendevano dal passo. Scendevano lentamente verso le valli di morene. Riponemmo le ruote, montammo di nuovo i pattini della slitta, infilammo gli sci, e partimmo… scendendo, verso nord, avanti, verso quella silenziosa immensità di fuoco e ghiaccio che diceva in enormi lettere di nero e bianco MORTE, MORTE, parole scritte attraverso un intero continente. La slitta scendeva con noi come una piuma, e noi ridemmo, ridemmo di gioia.

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