CAPITOLO DICIOTTESIMO Sul ghiaccio

A volte, quando mi sto addormentando in una stanza buia e silenziosa, per un momento ho una grande e preziosa illusione che mi viene dal passato. La parete di una tenda si solleva sopra il mio viso, non visibile, ma audibile, un piano inclinato di suono sommesso: i sussurri della neve che cade. Non si vede niente. L'irradiazione luminosa della stufa esiste solo come una sfera di calore, un cuore di calore. La debolissima umidità e l'abbraccio stretto del mio sacco a pelo; il suono della neve; appena discernibile, il respiro di Estraven che sta dormendo; tenebre. Niente altro. Noi siamo all'interno, noi due, al riparo, in riposo, al centro di tutte le cose. Fuori, come sempre, giace la grande oscurità, la solitudine fredda della morte.

In quei momenti così fortunati, mentre mi addormento, so al di là di ogni dubbio quale sia il vero centro della mia vita, quel tempo che è passato e perduto e pure è permanente, il momento durevole, il cuore del calore.

Non sto cercando di dire che sono stato felice, durante quelle settimane nelle quali ho spinto e tirato la slitta, attraverso una coltre di ghiaccio, nel cuore dell'inverno. Ero affamato, esausto, e spesso ansioso, e tutto peggiorava mano a mano che si procedeva. Certamente non era un tempo felice. La felicità deve avere qualcosa a che fare con la ragione, e solo la ragione la merita, e la ottiene. Quel che mi era dato era la cosa che non si può meritare, né ottenere, né conservare, e che spesso non si riconosce neppure sul momento; intendo dire la gioia.

Mi svegliavo sempre per primo, di solito prima dell'alba. Il mio ritmo metabolico è lievemente al di sopra della norma getheniana, come la mia altezza e il mio peso; Estraven aveva preso in considerazione queste differenze, nel calcolare le razioni del cibo, nella sua maniera scrupolosa che si poteva considerare sia scientifica che da brava massaia, e fin dall'inizio avevo avuto un paio di once di cibo in più di lui al giorno. Ogni protesta d'ingiustizia cadeva, di fronte alla lampante giustizia di questa distribuzione diseguale. Comunque fosse diviso, il cibo era scarso. Ero affamato, costantemente affamato, ogni giorno affamato. Mi svegliavo perché avevo fame.

Se era ancora buio, accendevo la luce della stufa Chabe, e mettevo un contenitore pieno di neve, raccolta la notte prima, e ormai disciolta, sulla stufa a bollire. Nel frattempo Estraven s'impegnava nella sua abituale battaglia feroce e silenziosa con il sonno, come se avesse lottato con un angelo. Stordito, si metteva a sedere, mi guardava con aria confusa, scuoteva il capo, e si svegliava. Quando eravano vestiti e avevamo indossato le scarpe e avevamo arrotolato i sacchi, la colazione era pronta: una pentola di orsh bollente, e un cubetto di gichy-michy, che l'acqua calda espandeva e faceva diventare una solida massa di cibo. Mangiavamo in silenzio, solennemente, senza lasciar cadere una briciola. La stufa si raffreddava, mentre noi mangiavamo. La riponevamo, con la pentola e le tazze, indossavamo i nostri soprabiti e i cappucci, e uscivamo all'aria aperta. Il gelo di quell'aria era perpetuamente incredibile. Ogni mattina dovevo credere che un gelo simile potesse esistere, e l'esperienza del giorno passato non serviva ad aiutarmi. Se uno fosse uscito prima per tentare di abituarsi, o destarsi del tutto, la seconda uscita sarebbe stata soltanto più dura; se uno era costretto a uscire per i suoi bisogni, la seconda uscita era ancora peggiore.

A volte nevicava; a volte la luce del primo mattino si distendeva, prodigiosamente dorata e azzurrina, attraverso miglia e miglia di ghiaccio senza fine; molto più spesso, la luce era grigia e livida.

Portavamo il termometro nella tenda con noi, di notte, e quando lo portavamo fuori era interessante osservare la lancetta balzare rapidamente sulla destra (i quadranti getheniani si muovevano in senso antiorario, rispetto alla norma terrestre) quasi troppo in fretta perché l'occhio potesse seguirla, registrando una diminuzione di dodici, venticinque, quaranta gradi, fino a quando non si fermava in un punto che stava tra lo zero e i -40°.

Uno di noi chiudeva la tenda, dopo averla smontata, e la piegava, mentre l'altro caricava il resto sulla slitta; la tenda veniva sistemata sopra tutto il resto, ed eravamo pronti, a quel punto, per gli sci e per le cinghie. In quella specie di bardatura che dovevamo sopportare, per tirare la slitta, nelle cinghie e nel resto, c'era poco metallo, ma le cinghie della slitta avevano delle borchie di alluminio, una lega di alluminio che bruciava, in quel freddo, come se fosse stata incandescente. Dovevo fare molta attenzione alle dita, quando la temperatura era al di sotto dei -18°, soprattutto se soffiava il vento, perché un congelamento era incredibilmente facile da subire. I miei piedi non soffrivano mai… e questo è un fattore della massima importanza, in un viaggio invernale nel quale un'ora di esposizione al freddo può, dopotutto, rendere invalido un uomo per una settimana, o per la vita intera. Estraven aveva dovuto calcolare approssimativamente le mie misure, e le scarpe da neve che mi aveva dato erano un po' larghe, ma un altro paio di calze colmava la differenza, ed era doppiamente piacevole.

Infilavamo gli sci, prendevamo le cinghie il più in fretta possibile, tirando e spingendo e dando strattoni liberavamo la slitta, se i pattini si erano saldati con il ghiaccio durante la notte, e partivamo.

Quando nella notte c'era stata una forte nevicata, al mattino dovevamo trascorrere un po' di tempo a disseppellire la tenda e la slitta dalla coltre bianca, prima di partire. Spalare la neve fresca non era molto faticoso, benché grandi cumuli fossero tutt'intorno a noi; ma quei cumuli erano, dopotutto, i soli impedimenti per centinaia di miglia, l'unica cosa che sporgeva dalla superficie livellata del ghiaccio.

Andammo a est, seguendo la bussola. L'usuale direzione del vento era da nord a sud, un vento di tramontana che soffiava dal ghiacciaio. Giorno dopo giorno, quel vento soffiava dalla nostra sinistra, mano a mano che il nostro cammino procedeva. Il cappuccio non era un riparo sufficiente dal vento, e io portavo una maschera facciale per proteggere il naso e la guancia sinistra. Malgrado ciò, l'occhio sinistro un giorno mi si chiuse, gonfio e intorpidito per il gelo, ed ebbi paura di averne perduto l'uso per sempre: anche quando Estraven me lo riaprì, sgelandomelo con l'alito e la lingua, non riuscii a vedere con esso per qualche tempo, così probabilmente, si era congelato qualcosa di più delle ciglia. Nella luce del sole, entrambi indossavamo degli occhiali da neve getheniani, specie di maschere traversali, e nessuno di noi soffrì qualche fenomeno alla vista per il riverbero. Non che ve ne fossero molte opportunità. Il Ghiaccio, come aveva detto Estraven, tende a trattenere la zona delle alte pressioni al di sopra della sua zona centrale, dove migliaia di miglia quadrate di bianco riflettono la luce solare. Però noi non eravamo in questa zona centrale, ma al massimo ai suoi margini, tra essa e la zona delle basse pressioni, quella zona turbolenta piena di precipitazioni e di bufere che il Ghiaccio manda perpetuamente a tormentare le terre subglaciali. Il vento che veniva dal nord portava sereno e tempo asciutto, ma il vento di nord-est o di nord-ovest portava neve, e sollevava la neve già caduta, ghiacciata ma ancor friabile, in accecanti nubi mordenti, come tempeste di sabbia o di polvere nel deserto, oppure, quando la neve sfarfallava intorno, il pulviscolo veniva portato da un vento più basso e teso, e allora tutto diventava bianco, l'aria era bianca, il cielo era bianco, il sole non si vedeva più, le ombre sparivano: e perfino la neve, perfino il Ghiaccio, sparivano sotto i nostri piedi.

Intorno a mezzogiorno ci fermavamo, e tagliavamo alcuni blocchi di ghiaccio, costruendo una parete protettiva, che ci riparava dal vento, quando esso era forte. Allora scaldavamo un po' d'acqua, per affondarvi un cubetto di gichy-michy, e subito si beveva l'acqua bollente, a volte sciogliendovi un po' di zucchero; poi, di nuovo i finimenti della slitta, e di nuovo in cammino.

Parlavamo molto raramente durante la marcia o negli intervalli di mezzogiorno, perché le labbra erano gonfie e dolenti, e quando si apriva la bocca il gelo entrava, facendo dolere terribilmente i denti e la gola e i polmoni; era necessario tenere chiusa la bocca e respirare col naso, almeno quando l'aria era sui trenta o quaranta gradi sotto lo zero. Quando la temperatura si abbassava ulteriormente, l'intero processo di respirazione veniva ancora complicato dal rapido congelamento del vapore acqueo esalato con il respiro; se non si faceva attenzione, le narici si chiudevano, bloccate da frammenti di ghiaccio, e allora, per non soffocare, si respirava una manciata di rasoi taglienti.

In certe condizioni, il nostro respiro congelava istantaneamente, producendo un sottile scoppiettio, come il lontano scoppiettio di fuochi d'artificio, e una caduta di cristalli; ogni alito una piccola tormenta.

Proseguivamo fin quando le nostre energie ci assistevano, o fin quando non si faceva buio, ci fermavamo, alzavamo la tenda, ancoravamo solidamente al ghiaccio la slitta, se c'era la minaccia di un vento troppo forte, e ci preparavamo a passare la notte. In un giorno normale, viaggiavamo per undici o dodici ore, e percorrevamo tra le dodici e le diciotto miglia.

Non sembra una media molto alta, ma le condizioni erano un po' avverse. La crosta di neve ben raramente era buona sia per gli sci che per i pattini della slitta. Quando era leggera e fresca, la slitta correva attraverso di essa, e non sopra; quando era in parte indurita, la slitta si bloccava spesso, ma gli sci no, e questo voleva dire che ci ritrovavamo continuamente tirati, con uno strattone, all'indietro; e quando era perfettamente indurita, spesso si trovava ammucchiata in lunghe onde prodotte dal vento, sastrugi, che in certi punti arrivavano a un'altezza di un metro e mezzo. Dovevamo issare la slitta, faticosamente, su ciascuna di quelle cime, che erano taglienti come rasoi, o presentavano fantastiche cornici di ghiaccio intorno, e poi farla scivolare giù dall'altra parte, e issarla di nuovo, faticosamente, sull'onda successiva: perché quelle onde, apparentemente, non erano mai parallele alla nostra corsa. Avevo immaginato che l'Altopiano del Ghiaccio di Gobrin fosse una sola coltre levigata, come uno stagno ghiacciato, ma centinaia e centinaia di miglia, invece, somigliavano più a un mare bruscamente congelato, nel momento più violento di una grande tempesta.

Il compito di accamparci, assicurarci di tutto e assicurare ogni cosa, toglierci gli indumenti esterni, l'uno con l'altro, tutta la neve che era rimasta aggrappata, e così via, era estenuante. A volte pareva che non ne valesse la pena. Era così tardi, così freddo, e si era così stanchi, che sarebbe stato più semplice distendersi in un sacco a pelo al riparo della slitta, e non disturbarsi a montare la tenda, e tutto il resto. Ricordo come fosse chiaro questo, per me, durante certe serate, e con quale amarezza mi risentivo per l'insistenza metodica, tirannica del mio compagno, il quale voleva che tutto fosse fatto nella maniera corretta, e con la massima cura. In quei momenti l'odiavo, l'odiavo veramente, con un odio che si levava direttamente dal pozzo della morte che giaceva dentro il mio spirito. Odiavo le domande dure, complicate, ostinate, le richieste imperiose, impossibili, faticose che lui mi faceva, perentoriamente, parlando nel nome della vita.

Quando tutto era fatto, potevamo entrare nella tenda, e quasi subito il calore della stufa Chabe poteva sentirsi tutt'intorno, come un grembo protettivo, sicuro, che circondava ogni cosa dolcemente. Una cosa meravigliosa, un prodigio inarrivabile, ecco cosa ci circondava: il calore. La morte e il freddo erano altrove, fuori.

Anche l'odio veniva lasciato fuori. Mangiavamo, e bevevamo, e dopo aver mangiato e bevuto, cominciavamo a parlare. Quando il gelo era terribile, estremo, perfino l'eccellente isolamento offerto dalla tenda non poteva tenerlo fuori, e noi stavamo distesi nei nostri sacchi a pelo, tenendoci il più vicino possibile alla stufa. Una sottile peluria di brina si formava sulla parete interna della tenda. Aprire la porta-valvola significava lasciar entrare una zaffata di gelo che istantaneamente si condensava, riempiendo la tenda di un turbine nebuloso di pulviscolo di neve. Quando c'era una tormenta, aghi di aria gelida penetravano dalla sottilissima bocca di aerazione, che era perfettamente protetta, con un sistema elaborato che era quanto di meglio Gethen avesse saputo creare, e che pure era insufficiente a fermare quelle sottilissime emanazioni del vento esterno; e un'impalpabile polvere di farfalle nevose rendeva nebbiosa l'aria. In quelle notti, la bufera produceva un rumore tremendo, incredibile, e non potevamo conversare con la voce, a meno che non ci mettessimo a urlare, accostando le nostre teste fino a toccarci. In altre notti c'era silenzio, un grande, grandissimo silenzio, quel silenzio che si immagina debba essere esistito prima che le stelle cominciassero a formarsi, o quel silenzio che si immagina debba esistere quando tutto sarà perito, quando l'universo si sarà consumato, e non ci sarà altro che il freddo e il silenzio e il vuoto della morte.

Un'ora dopo il nostro pasto della sera, Estraven abbassava la stufa, se questo era fattibile, e spegneva l'emissione della luce. Facendo questo, mormorava una breve e affascinante invocazione, quasi una preghiera, le sole parole rituali che io avessi mai appreso dell'Handdara: «Sia dunque lode alle tenebre e alla Creazione incompiuta, — diceva, e allora cadevano le tenebre. Dormivamo. Al mattino, bisognava ricominciare tutto da capo.

Lo facemmo per cinquanta giorni.

Estraven teneva aggiornato il suo diario, benché durante le settimane trascorse sul Ghiaccio egli scrivesse raramente più di un'annotazione sul tempo e sulla distanza che avevamo percorso quel giorno. Tra queste annotazioni, di quando in quando si fa menzione dei suoi pensieri, o di parte delle nostre conversazioni, ma non c'è una parola che riguardi la conversazione più profonda, tra di noi, che ha occupato il nostro riposo, tra la cena e il sonno, in molte notti del primo mese passato sul Ghiaccio, mentre avevamo ancora energia sufficiente per parlare, e in certi giorni che abbiamo trascorso prigionieri delle bufere, nella tenda. Gli avevo detto che non era proibito, ma non previsto, l'uso del linguaggio paraverbale su un pianeta non-Alleato, e gli avevo chiesto di celare quanto gli avevo insegnato al suo popolo, almeno fino a quando io non avessi potuto discutere ciò che avevo fatto con i miei colleghi dell'astronave. Lui aveva acconsentito, e ha mantenuto la parola. Non ha mai detto, o scritto, nulla che riguardasse quelle nostre silenziose conversazioni.

Il linguaggio mentale era la sola cosa che io avessi da offrire a Estraven, di tutta la mia civiltà, di tutta la mia realtà aliena nella quale lui era così profondamente interessato. Potevo parlare e descrivere interminabilmente; ma era questo tutto ciò che avevo da offrirgli. In realtà, forse si tratta dell'unica cosa importante che noi abbiamo da offrire a Inverno. Ma non posso dire che la gratitudine fosse il motivo che mi spingeva a infrangere la Legge dell'Embargo Culturale. Non gli stavo saldando un debito. Certi debiti non si pagano mai. Estraven e io, semplicemente, eravamo arrivati a un punto nel quale dividevamo tutto quel che avevamo, e che fosse meritevole di essere diviso.

Immagino che si scoprirà che un rapporto sessuale sia possibile tra getheniani bisessuati e gli esseri umani di tipo hainiano, con un solo sesso, benché questi rapporti debbano essere inevitabilmente sterili. Questo rimane da dimostrare; Estraven e io non provammo nulla, all'infuori, forse, di un punto assai più sottile. La cosa più vicina a una crisi, che i nostri desideri sessuali ci portarono, avvenne in una notte nei primi tempi del viaggio, la nostra seconda notte sul Ghiaccio. Avevamo trascorso tutto il giorno a lottare e a muoverci avanti e indietro, nella regione dei grandi crepacci che si stendeva a est delle Colline di Fuoco. Eravamo stanchi quella sera, ma euforici, certi che una rotta sicura e diritta si sarebbe aperta davanti a noi, ben presto. Ma dopo la cena Estraven si era fatto sempre più taciturno, e aveva bruscamente interrotto i miei discorsi. Alla fine gli avevo detto, dopo un diretto rimprovero:

— Harth, se ho detto di nuovo qualcosa di sbagliato, vi prego di dirmi di che si tratta.

Lui aveva taciuto.

— Ho commesso qualche errore di shifgrethor. Mi dispiace; non posso imparare. Non ho mai capito neppure, in realtà, il significato della parola.

— Shifgrethor? Deriva da un antico sinonimo di ombra.

Eravamo rimasti entrambi in silenzio per qualche tempo, e poi lui mi aveva guardato direttamente, con uno sguardo sicuro, e gentile. Il suo viso, nella luce rossigna, era dolce, vulnerabile, e remoto, come il viso di una donna che vi guardi dal profondo dei suoi pensieri, senza parlare.

E allora avevo capito di nuovo, e definitivamente, quello che avevo avuto sempre paura di capire, di vedere, e avevo finto di non vedere in lui: che lui era una donna, almeno quanto era un uomo. Ogni bisogno di spiegare le sorgenti di quella paura era scomparso con la paura; e io ero rimasto, finalmente, con un'accettazione di lui come era. Fino ad allora lo avevo rifiutato, lo avevo respinto, gli avevo rifiutato la sua stessa realtà. Aveva avuto ragione, completamente ragione, nel dire che lui, l'unica persona su Gethen che mi avesse creduto, che avesse avuto una totale fiducia in me, fosse anche l'unica persona su Gethen alla quale io non avevo creduto, non avevo dato la mia fiducia. Perché lui era il solo che mi aveva interamente accettato come un essere umano: che mi aveva apprezzato personalmente, e mi aveva offerto una completa lealtà personale: e che di conseguenza aveva chiesto a me un uguale grado di riconoscimento, di accettazione. E io non ero stato disposto a dargli questo. Avevo avuto paura. Non avevo voluto dare la mia fiducia, la mia amicizia a un uomo che era una donna, a una donna che era un uomo.

Mi aveva spiegato, semplicemente e rigidamente, che lui era in kemmer, e che aveva cercato di evitarmi, entro i limiti nei quali uno di noi poteva evitare l'altro.

— Non devo toccarvi — mi aveva detto, con enorme fatica; dicendo questo, aveva distolto lo sguardo.

Gli avevo risposto:

— Capisco. Sono completamente d'accordo.

Perché mi sembrava, e credo che sembrasse anche a lui, che fosse dalla tensione sessuale che esisteva tra di noi, ora ammessa e compresa, ma non soddisfatta, che la grande e improvvisa sicurezza di amicizia tra noi fosse sorta: un'amicizia della quale ciascuno di noi aveva un enorme bisogno, nell'esilio, e che era stata già tanto dimostrata, nei giorni e nelle notti del nostro amaro, difficile viaggio, che avrebbe già potuto essere chiamata, allora come più tardi, amore. Ma era dalle differenze che esistevano tra noi, non dalle affinità o dalle somiglianze, ma dalla differenza, che quell'amore veniva: ed esso era un ponte, l'unico ponte, che attraversava ciò che ci divideva. Per noi, incontrare la sessualità avrebbe significato incontrarci di nuovo come alieni. Ci eravamo toccati, nell'unico modo in cui potevamo toccarci. Avevamo lasciato la cosa a questo punto. Non so se abbiamo avuto ragione.

Abbiamo parlato ancora, quella notte, e ricordo di aver faticato molto a rispondere coerentemente, quando lui mi aveva chiesto che cos'erano le donne. Eravamo stati entrambi molto rigidi e prudenti tra noi, nei due giorni successivi. Un amore profondo tra due persone comprende, dopotutto, il potere e l'occasione di fare un male profondo. Prima di quella notte, mai avevo pensato di poter ferire, o far soffrire, Estraven.

Ora che le barriere erano cadute, la limitazione, secondo i miei termini, della nostra conversazione, della comprensione reciproca sembrava intollerabile, almeno a me. Lo stesso modo di parlare, tra noi, il non usare i nostri nomi, il darci ancora quel «voi» che aveva un senso a Erhenrang, ma non qui, erano altrettanti ostacoli che avvertivo, nella nostra nuova intimità. Ben presto, due o tre notti più tardi, avevo detto al mio compagno, nel finire la cena… un festino speciale, con molto zucchero e porridge di kadik, per festeggiare un percorso di venti miglia in un giorno…

— La primavera scorsa, quella notte, nella Dimora Rossa dell'Angolo, mi avevate detto che avreste voluto saperne di più, sul linguaggio paraverbale del quale vi avevo parlato.

— Sì, infatti.

— Volete vedere se io posso insegnarvi a parlare in quel linguaggio?

Lui aveva riso.

— Volete cogliermi a mentire.

— Se mai mi avete mentito, è stato molto, molto tempo fa, e in un altro paese.

Lui era una persona onesta, ma raramente era diretto, nei suoi modi. Questo lo aveva solleticato, e così aveva detto.

— In un altro paese potrei dirvi delle altre menzogne. Ma pensavo che vi fosse proibito d'insegnare la vostra scienza mentale a… ai nativi, finché noi non fossimo entrati nell'Ecumene.

— Non proibito. Non si fa. Io lo farò, però, se non vi dispiace. E se potrò riuscirci. Io non sono un Istruttore.

— Esistono dei maestri particolari per questa capacità?

— Sì. Non su Alterra, dove c'è un'altissima percentuale di sensibilità naturale, e… si dice… le madri parlano mentalmente ai loro bambini non ancora nati. Non so cosa rispondano i bambini. Ma la maggior parte di noi ha dovuto imparare, come se fosse stata una lingua straniera. O meglio, come se fosse stata la nostra lingua natale, ma imparata molto, molto tardi.

Credo che lui avesse capito i motivi che mi spingevano all'offerta d'insegnargli quella capacità, e desiderava imparare con tutte le sue forze. Iniziammo perciò a studiare, lui, e a insegnare, io. Cercai di ricordare meglio che potevo il periodo della mia Istruzione, e quello che avevo appreso, e come e quando lo avevo appreso, all'età di dodici anni. Gli dissi di liberare la mente, di sgombrarla da ogni pensiero, di lasciarla nel buio. Questo lo fece, senza dubbio, con maggiore prontezza e completezza di quanto mai io avessi potuto farlo; era un adepto dell'Handdara, dopotutto. E poi gli parlai con la mente, nella maniera più chiara che mi era possibile. Nessun risultato. Tentammo di nuovo. Dato che non si può comunicare con la mente, fino a quando una comunicazione non è stata ricevuta, fino a quando la potenzialità telepatica non è stata sensibilizzata da una ricezione chiara, fui costretto a cercare per primo di raggiungerlo. Cercai di farlo, tentai per più di mezz'ora, concentrandomi fino a quando non mi sentii la mente stanca. Lui sembrava abbattuto.

— Pensavo che su di me sarebbe stato facile — confessò. Eravamo entrambi stanchissimi, e rimandammo così il nuovo tentativo alla notte successiva.

I nostri tentativi successivi non furono coronati da un maggiore successo. Cercai di trasmettere un pensiero a Estraven, mentre lui dormiva, ricordando quel che mi aveva detto il mio Istruttore sul verificarsi di «messaggi nel sonno» tra le popolazioni non telepatiche, ma neppure questo sistema funzionò.

— Forse la mia specie manca della capacità di farlo — mi disse. — Ci sono sufficienti indizi e voci e sospetti, nel nostro mondo, da averci indotti a creare una parola per definire questo potere, ma non conosco alcun esempio dimostrato di telepatia, tra di noi.

— Così è stato per il mio popolo, per migliaia di anni. Pochi Sensitivi naturali, che non comprendevano il loro talento, e non avevano nessuno a cui trasmettere, o da cui ricevere. Tutti gli altri, telepatici latenti, nel migliore dei casi. Ve l'ho già detto: eccettuato il caso di colui che è nato Sensitivo, la capacità, benché abbia una fase fisiologica, è psicologica, un prodotto della civiltà, un effetto collaterale dell'uso della mente. I giovanissimi, e i deboli di mente, i malati, e i membri di società non evolute o regredite, non possono parlare mentalmente. Prima di tutto, la mente deve esistere su un certo piano di complessità. Voi non potete creare degli aminoacidi da atomi d'idrogeno; prima di questo, la complessità delle strutture deve aumentare e di molto. È la stessa situazione. Il pensiero astratto, rapporti sociali complessi e variati, intricati aggiustamenti culturali, percezione estetica ed etica, tutti questi elementi devono raggiungere un certo livello prima che le connessioni possano essere fatte… prima che la potenzialità possa essere almeno toccata.

— Forse noi getheniani non abbiamo raggiunto quel livello.

— Lo avete oltrepassato e di molto. Ma è in gioco anche la fortuna. Come nella creazione di aminoacidi… O, per portare l'analogia sul piano culturale… si tratta solo di analogie, ma sono illuminanti… il metodo scientifico, per esempio, l'uso di tecniche concrete, sperimentali, nella scienza. Esistono popoli nell'Ecumene che possiedono un'alta cultura, una società complessa, filosofie, arti, strutture etiche e morali, un grande stile e un'alta perfezione in tutti questi campi; eppure non hanno mai imparato a pesare accuratamente un sasso. Possono impararlo, naturalmente. Solo che per mezzo milione di anni non l'hanno mai fatto… Esistono dei popoli che non hanno sviluppato affatto le forme più alte di matematica, sono rimasti alle forme più semplici di matematica applicata. Ciascuno di questi uomini è in grado di comprendere il calcolo, ma nessuno di loro lo fa, né l'ha mai fatto. Per essere sinceri, il mio stesso popolo, i terrestri, ignorava l'uso dello zero, fino a circa tremila anni fa.

— Questo fece battere le palpebre a Estraven, per lo stupore.

— In quanto a Gethen, sono curioso di scoprire se anche tutti gli altri popoli dell'Ecumene possiedono la capacità di compiere Profezie… vorrei sapere se anche questo fa parte dell'evoluzione della mente… se voi ce ne insegnerete le tecniche.

— Pensate che si tratti di una realizzazione utile?

— L'accuratezza della profezia? Be', naturalmente!…

— Dovrete arrivare a credere che si tratti di una cosa inutile, per poterla praticare.

— La vostra dottrina Handdara mi affascina, Harth, ma a volte arrivo a chiedermi se non si tratti soltanto del paradosso sviluppato fino a diventare un sistema di vita…

Tentammo di nuovo il linguaggio della mente. Non avevo trasmesso mai, in passato, ripetutamente, a un non-ricevente totale. L'esperienza era spiacevole. Cominciai a capire quel che doveva provare un ateo che prega. Alla fine Estraven sbadigliò, e disse:

— Sono sordo, sordo come una roccia. Faremo meglio a dormire.

Io assentii.

Lui spense la luce, mormorò la sua breve lode delle tenebre; affondammo nei nostri sacchi a pelo, e dopo un minuto o due lui stava scivolando nel sonno, come un nuotatore affonda nell'acqua nera. Sentii il suo sonno come se fosse il mio: il legame telepatico era là, e ancora una volta lo chiamai telepaticamente, assonnato, chiamandolo per nome:

Therem!

Lui dovette sollevarsi di scatto, perché la sua voce giunse fino a me nel buio, forte, improvvisa:

— Arek! sei tu?

No: Genly Ai. Questo è il linguaggio della mente.

Trattenne il respiro. Silenzio. A tentoni, lo sentii, stava cercando qualcosa, vicino alla stufa Chabe. Accese la luce. Mi fissò, con gli occhi scuri pieni di paura.

— Sognavo — disse. — Pensavo di essere a casa…

— Ero io, che parlavo con la mente.

— Mi avete chiamato… Era mio fratello. Era la sua voce, che ho udito. È morto. Mi avete chiamato… Mi avete chiamato Therem? Io… Questo è più terribile di quanto avessi pensato. — Scosse il capo, come un uomo che voglia scuoter via il ricordo di un incubo, e poi si prese il viso tra le mani.

— Harth, mi dispiace, mi dispiace molto…

Senza alzare il viso, mi disse:

— No, chiamami per nome. Se tu puoi parlare nel mio cranio, con la voce di un morto, allora, allora mi puoi chiamare per nome! Lui forse mi avrebbe chiamato Harth? Mi avrebbe dato del voi! Oh, adesso capisco perché non si può mentire, in questo linguaggio della mente. È una cosa terribile… Va bene. Va bene, parlami ancora.

— Aspetta.

— No. Avanti!

Sollevò il capo, e mi fissò con il suo sguardo spaventato, ardente, e io parlai di nuovo mentalmente:

Therem, amico mio, non c'è nulla da temere, tra di noi.

Continuò a fissarmi, così pensai che egli non avesse capito; ma aveva capito.

— Ah, ma c'è molto, invece — disse.

Dopo qualche tempo, controllandosi, egli disse, con calma:

— Hai parlato nella mia lingua.

— Ebbene, tu non conosci la mia.

— Hai detto che ci sarebbero state delle parole, lo so… Eppure l'immaginavo come… una comprensione…

— L'empatia è un'altra cosa, benché non sia priva di collegamenti. È stata l'empatia a stabilire la connessione tra noi, questa notte. Ma nel linguaggio mentale vero e proprio, i centri della parola del cervello sono attivati, come…

— No, no, no. Dimmelo dopo, questo. Perché hai parlato con la voce di mio fratello? — La sua voce era tesa.

— A questo non posso e non so rispondere. Non lo so. Parlami di lui.

Nusuth… Il mio fratello della carne, Arek Harth rem ir Estraven. Era di un anno maggiore di me. Sarebbe diventato Lord di Estre. Noi… io ho lasciato la casa, sai, per amor suo. È morto da quattordici anni.

Rimanemmo entrambi in silenzio per qualche tempo. Io non potevo sapere, né chiedergli, cosa si nascondeva dietro le sue parole: gli era costato troppo dire quel poco che aveva detto.

Alla fine gli dissi:

— Parlami con la mente, Therem. Chiamami per nome.

Sapevo che poteva farlo. Il rapporto c'era, o, come avrebbero detto gli esperti, le fasi erano consonanti, e naturalmente fino a quel momento non aveva idea di come alzare volontariamente la barriera. Se fossi stato un Ascoltatore, avrei potuto sentirlo pensare.

— No — disse lui. — Mai. Non ancora…

Ma nessuna forza di emozione, timore, terrore, avrebbe potuto trattenere per molto tempo quella mente insaziabile, rivolta sempre più avanti. Quando ebbe spento di nuovo la luce, improvvisamente lo udii balbettare, nel mio udito interiore: «… Genry…» Perfino parlando con la mente non era in grado di pronunciare bene la «elle».

Risposi subito. Nel buio, egli fece un suono inarticolato di paura, che aveva una lievissima sfumatura di soddisfazione.

— Basta, basta — disse, a voce alta; e dopo qualche tempo finalmente ci addormentammo.

Per lui non fu mai facile. Non che gli mancasse il talento, o che non potesse sviluppare le tecniche, ma la cosa lo turbava profondamente, e non riusciva a darla per scontata. Rapidamente imparò ad alzare le barriere, ma credo che non fosse mai certo di poter contare su di esse. Forse noi tutti ci eravamo comportati così, quando i primi Istruttori erano ritornati, centinaia di anni prima, dal Mondo di Rokanan, per insegnarci quella che venne chiamata «Ultima Arte». Forse un getheniano, essendo singolarmente completo, sente il dialogo telepatico come una violazione di questa condizione completa, una breccia nell'integrità che per lui è difficile, molto difficile tollerare. Forse si trattava del carattere stesso di Estraven, nel quale il candore e la riservatezza erano entrambi forti: ogni parola che lui diceva si levava da un profondo silenzio. Udiva la mia voce, nel dialogo telepatico, come la voce di un morto, la voce di suo fratello. Io non sapevo che cosa, oltre all'amore e alla morte, esistesse tra lui e quel fratello, ma sapevo che, ogni volta che io gli parlavo telepaticamente, qualcosa in lui sobbalzava, si ritraeva, come se io avessi toccato una ferita non ancora rimarginata. Così quell'intimità della mente stabilita tra noi due era un legame, certo, ma un legame oscuro e austero, che non tanto ammetteva altra luce (come mi ero aspettato) bensì mostrava le misure e dimensioni delle tenebre.

E giorno dopo giorno, faticosamente, lentamente, avanzavamo, verso est, sulla immensa pianura di ghiaccio. Il punto mediano, nel tempo, del nostro viaggio, secondo il programma, e cioè il trentacinquesimo giorno, Odorny Anner, ci trovò indietro, rispetto al punto mediano nello spazio. Secondo il misuratore della slitta, noi avevamo realmente viaggiato per quattrocento miglia, ma probabilmente solo tre quarti di quella distanza valevano come reale avanzata, e potevamo valutare solo approssimativamente quanto fosse il nostro vero ritardo, e quanto ancora rimaneva da percorrere. Avevamo speso giorni, miglia, razioni nella nostra lunga fatica per salire sul Ghiaccio. Estraven non era preoccupato quanto me, dalle centinaia di miglia che ancora si stendevano davanti a noi.

— La slitta è più leggera — mi disse, quel giorno. — Verso la fine sarà ancora più leggera; e potremo diminuire le razioni, se sarà necessario. Abbiamo mangiato molto bene, lo sai.

Pensai che facesse dell'ironia, ma avrei dovuto saperlo, che non era così.

Nel quarantesimo giorno e nei due successivi, fummo bloccati da una tormenta. Durante quelle lunghe ore di inattività nella tenda, Estraven dormì quasi in continuazione, e non mangiò nulla, pur bevendo orsh o acqua zuccherata, alle ore dei pasti. Insisté perché io mangiassi, anche se usando metà razioni.

— Non hai esperienza di digiuno — mi disse.

Fui umiliato da queste parole.

— Quanta ne puoi avere, tu… Lord di un Dominio, e Primo Ministro?…

— Genry, noi pratichiamo il digiuno e la privazione dal cibo finché non siamo degli esperti in questo campo. Mi è stato insegnato il digiuno quando ero bambino, a casa, a Estre, e poi dagli Handdarata nella Fortezza di Rotherer. A Erhenrang ho perduto la pratica, è vero, ma ho ricominciato ad addestrarmi a Mishnory… Fa' come ti dico, amico mio; so quel che faccio.

Era vero. Sia per me che per lui.

Ci furono altri quattro giorni di gelo pungente, con temperature mai superiori ai quindici gradi sotto lo zero, e poi venne un'altra tormenta, che portata da un vento d'uragano ci giunse addosso da oriente. Pochi minuti dopo le prime violente folate, la neve giunse così fitta, sulle ali del vento, che non riuscii più a vedere Estraven, il quale era a meno di due metri da me. Avevo voltato le spalle a lui e alla slitta e alla neve appiccicosa, soffocante, accecante, per riprendere fiato, e quando un attimo dopo mi voltai, lui non c'era più. La slitta era scomparsa. Non c'era nulla, là. Feci qualche passo, nella direzione in cui slitta ed Estraven si erano trovati, e cercai a tentoni. Gridai, e non riuscii a udire la mia stessa voce. Ero sordo e solo in un universo solido, reso solido da minuscoli granelli di neve pungente, grigia, implacabile. Fui preso dal panico e cominciai ad avanzare a tentoni, chiamando freneticamente con la mente:

Therem!

Proprio sotto la mia mano, inginocchiato, Estraven mi disse:

— Avanti, aiutami a montare la tenda.

Lo feci, e non feci il minimo accenno, mai, al mio momento di panico. Non ce ne fu bisogno.

Questa tormenta durò per due giorni; così furono cinque i giorni perduti, e ce ne sarebbero stati altri. Nimmer e Anner sono i mesi delle grandi bufere.

— Cominciamo a fare delle parti molto sottili, vero? — dissi una notte, misurando la nostra razione di gichy-michy, e affondandola nell'acqua bollente.

Lui mi guardò. Il suo viso largo, fermo, mostrava la perdita di peso nelle ombre profonde sotto gli zigomi, gli occhi erano infossati e la bocca era gonfia e screpolata. Dio solo sa quale fosse il mio aspetto, se quello di Estraven era così. Lui sorrise:

— Con fortuna ce la faremo, e senza fortuna non ce la faremo.

Era quello che aveva detto fin dall'inizio. Con tutte le mie ansie, con il mio senso di compiere un ultimo disperato tentativo, una partita con la morte, e così via, non ero stato sufficientemente realistico da credergli. E perfino adesso io pensavo, Certo, dopo avere lavorato così duramente…

Ma il Ghiaccio non sapeva come e quanto duramente avessimo lavorato. E perché avrebbe dovuto saperlo? La proporzione è rispettata.

— Come va la tua fortuna, Therem? — dissi, alla fine.

Lui non sorrise, a queste parole. E non rispose. Solo, dopo qualche tempo, disse:

— Ho pensato a tutti loro, laggiù.

Laggiù, per noi, significava ormai il sud, il mondo che si stendeva sotto l'altopiano di ghiaccio, la regione della terra, degli uomini, delle strade, delle città, tutte cose che era diventato difficile immaginare esistessero realmente.

— Tu sai che ho avvertito il re di quello che ti accadeva, il giorno in cui sono partito da Mishnory. Gli ho mandato a dire ciò che mi aveva detto Shusgis, che tu saresti stato mandato alla Fattoria Pulefen. Allora non sono riuscito a stabilire con chiarezza il mio intento, ma ho semplicemente seguito il mio impulso. Da allora, ho meditato su quell'impulso. Può accadere qualcosa di simile a quanto ti dirò ora: il re vedrà una possibilità di giocare lo shifgrethor. Tibe lo consiglierà di non farlo, ma Argaven dovrebbe essersi già stancato un poco di Tibe, ormai, e potrà ignorare il suo consiglio. Farà delle indagini. Dov'è l'Inviato, l'ospite di Karhide?… Mishnory mentirà. È morto di febbre nera quest'autunno, è davvero molto deprecabile. … Allora come mai noi siamo informati dalla nostra Ambasciata che egli si trova nella Fattoria Pulefen? … non si trova là, andate voi stessi a cercarlo. … No, no, naturalmente no, accettiamo la parola dei Commensali di Orgoreyn… Ma poche settimane dopo questi scambi di domande e risposte, l'Inviato appare in Nord Karhide, dopo essere evaso dalla Fattoria Pulefen. Costernazione a Mishnory; indignazione a Erhenrang. I Commensali perdono la faccia, perché vengono colti in flagrante menzogna. Tu sarai un tesoro, un fratello di focolare per troppo tempo. Dovrai chiamare subito la tua Nave stellare, alla prima occasione che riuscirai ad avere. Porta la tua gente in Karhide, e completa la tua missione, immediatamente, prima che Argaven abbia avuto il tempo di vedere in te il possibile nemico, prima che Tibe o qualche altro consigliere spaventi il re ancora una volta, giocando sulla sua pazzia. Se lui fa il patto con te, lo manterrà. Romperlo vorrebbe dire spezzare anche il suo shifgrethor. I sovrani di Harge mantengono le loro promesse. Ma devi agire in fretta, e fare discendere presto la Nave.

— Lo farò, se riceverò anche il più piccolo segno di benvenuto.

— No: perdona il consiglio che ti do ora, ma non devi aspettare il benvenuto. Ti sarà dato il benvenuto, penso. Così pure alla Nave. Karhide è stato profondamente umiliato, gravemente umiliato, nell'ultimo mezzo-anno. Tu offrirai ad Argaven l'occasione per girare le tavole. Credo che egli saprà afferrare l'occasione.

— Bene. Ma tu, nel frattempo…

— Io sono Estraven il Traditore. Io non ho assolutamente nulla a che fare con te.

— All'inizio.

— All'inizio — ammise lui.

— Potrai nasconderti, se ci sarà pericolo, all'inizio?

— Oh sì, certamente.

Il nostro cibo era pronto e tacemmo. Mangiare era così importante, così bello ed essenziale, in quella situazione, che noi non parlavamo più, mentre mangiavamo; il tabù era adesso nella sua forma completa, forse nella forma originale, non veniva pronunciata una parola fino a quando l'ultima briciola non era consumata. Quando il pasto fu finito, egli disse:

— Ebbene, spero di avere visto giusto. Tu vorrai… tu vorrai… tu vorrai perdonarmi…

— Per avermi dato un consiglio diretto? — dissi, perché esistevano certe cose che finalmente ero arrivato a comprendere. — Naturalmente sì, Therem. Davvero, e come puoi dubitarne? Lo sai che non ho uno shifgrethor da abbassare. — Questo lo divertì, ma era ancora pensieroso.

— Perché — disse, alla fine, — perché sei venuto solo… perché sei stato mandato qui solo? Ogni cosa, anche dopo dipenderà dall'arrivo di quella nave. Perché tutto è stato reso così difficile per te, e per noi?

— È l'usanza dell'Ecumene, e questa usanza è fondata su diversi motivi. Anche se, in realtà, comincio a domandarmi se mai io abbia capito questi motivi. Pensavo che fosse per voi, che io dovessi venire da solo, così evidentemente solo, così vulnerabile, al punto che in me stesso non fosse possibile raffigurare alcuna minaccia, che la mia presenza non potesse alterare alcun equilibrio: non un'invasione, ma soltanto un messaggero. Ma c'è qualcosa di più; la spiegazione non è così limitata. Da solo, io non posso cambiare il vostro mondo. Ma posso venire cambiato da esso. Da solo, io devo ascoltare, e non parlare soltanto. Da solo, la relazione che alla fine io stabilisco, se ci riesco, non è impersonale e non è solo politica: è individuale, è personale, è più e meno che politica, allo stesso tempo. Non Noi e Loro; non Io e il Pianeta; ma Io e Te. Non politica, non pragmatica, ma mistica. In un certo senso l'Ecumene non è un corpo politico, ma un corpo mistico. Esso considera gli inizi di estrema importanza. Gli inizi, e i mezzi. La dottrina dell'Ecumene è esattamente l'opposto della dottrina secondo la quale il fine giustifica i mezzi. Si procede, perciò, in maniere sottili, e lente, e strane, rischiose; si agisce a somiglianza dell'evoluzione, che è, in un certo senso, il modello… Così sono stato mandato solo, per il vostro bene? O per il mio? Non lo so. Sì, questo ha reso le cose più difficili. Ma io potrei chiederti, con lo stesso profitto, perché voi getheniani non avete mai trovato conveniente costruire dei veicoli volanti. Rubando un piccolo aeroplano, io e te ci saremmo risparmiati molte difficoltà!

— Come potrebbe mai venire in testa a un uomo ragionevole la possibilità di volare? — disse con fermezza Estraven. Era una reazione giusta, su di un mondo dove nessuna creatura vivente aveva le ali, e perfino gli angeli della Gerarchia Yomesh del Santo non volano, ma galleggiano soltanto, senz'ali, scendendo mollemente sulla terra, come morbidi fiocchi di neve, come i semi portati dal vento di quel mondo senza fiori.

Verso la metà di Nimmer, dopo molto vento e molto freddo pungente, per diversi giorni ci trovammo in un tempo clemente. L'aria era meno perturbata. Se c'era bufera, era a sud, laggiù, e noi del luogo nella tormenta, all'interno della tormenta, avevamo soltanto una foschia perenne, senza vento. Dapprima la foschia fu sottile, così che l'aria parve vagamente radiante, di una luce solare uguale, senza sorgente visibile, riflessa da nubi e neve a un tempo, dall'alto e dal basso. Di notte, il maltempo era ritornato ad addensarsi. Tutta la lucentezza era scomparsa, senza lasciare niente. Eravamo usciti dalla tenda, e ci eravamo trovati nel nulla. Niente. Slitta e tenda erano là, Estraven era in piedi accanto a me, ma né lui né io avevamo un'ombra. C'era una luce spenta, livida, tutt'intorno, ovunque. Quando camminammo sulla neve rassodata, nessuna ombra mostrò le impronte. Non lasciavamo traccia. Non lasciavamo più traccia. Slitta, tenda, lui, io; niente altro, niente di niente. Non c'era sole, non c'era cielo, non c'era orizzonte, non c'era mondo. Un vuoto biancastro, nel quale sembravamo sospesi. L'illusione era così completa, che faticai a mantenere l'equilibrio. I miei orecchi interiori furono usati per confermare quello che i miei occhi registravano, sulla mia posizione; gli occhi non trovavano nulla; avrei potuto essere cieco. Tutto andò bene quando si trattò di caricare la slitta, ma in viaggio, senza niente davanti, niente da guardare, niente che l'occhio potesse toccare, tutto ciò fu all'inizio sgradevole e poi estenuante. Eravamo sugli sci, su una superficie liscia e favorevole al viaggio, neve granulosa, ghiacciata, senza sastrugi, e solida… questo ero certo… per millecinquecento, duemila metri sotto i nostri piedi. Avrebbe dovuto essere tutto molto bello. Un momento buono, uno dei migliori del viaggio. Ma continuammo a rallentare, a cercare a tentoni la strada attraverso la pianura completamente libera da qualsiasi ostacolo, e ci volle un intenso sforzo di volontà per accelerare, per ritrovare una velocità normale, abituale, nella nostra marcia. Ogni lievissima variazione della superficie veniva con un sobbalzo violento… come nel salire le scale, il gradino inaspettato o il gradino aspettato ma assente… perché non potevamo vedere davanti a noi; non c'era alcuna ombra a mostrarlo. Sciammo alla cieca, con gli occhi aperti. Un giorno dopo l'altro, nulla cambiava, era sempre così, e noi cominciammo ad abbreviare i nostri percorsi giornalieri, perché a mezzogiorno entrambi stavamo già sudando e tremando per la tensione e la fatica. Arrivai a sperare che venisse la neve, che venisse la tormenta, che venisse qualcosa, qualsiasi cosa; ma un mattino dopo l'altro, uscivamo dalla tenda e ci ritrovavamo nel vuoto, il tempo bianco, quello che Estraven chiamava la Non-ombra.

Un giorno, verso mezzogiorno, Odorny Nimmer, il sessantunesimo giorno del viaggio, quell'impalpabile, cieco nulla intorno a noi cominciò a muoversi, a sussultare, a scorrere, e ad agitare invisibili tentacoli. Pensai che fosse uno scherzo giocato dai miei occhi, come già era accaduto spesso, e prestai scarsa attenzione al fievole, assurdo movimento dell'aria, fino a quando, improvvisamente, riuscii a scorgere per un istante uno squarcio del sole fioco, piccolo, spento, che stava sopra di noi. E abbassando lo sguardo dal sole, guardando avanti, direttamente, vidi un'enorme forma nera uscire dal vuoto, minacciosa, e venire verso di noi. Tentacoli neri si dimenarono in alto, tesi, cercando qualcosa. Mi fermai bruscamente dov'ero, facendo sussultare Estraven sugli sci, perché stavamo entrambi tirando la slitta.

— Che cos'è?

Fissò le nere forme mostruose nascoste nella nebbia, e alla fine disse:

— Le rocce… devono essere le Rocce di Esherhoth. — E continuò a sciare. Eravamo miglia e miglia distanti dalle cose, che mi erano parse appena più in là della distanza del mio braccio. Quando il tempo bianco si trasformò in una nebbia bassa e fitta, e poi finalmente si rasserenò, le vedemmo chiaramente, distintamente, prima del tramonto: nunatak, grandi pinnacoli scoscesi e aguzzi e scomposti di roccia che sporgevano dal ghiaccio, rocce delle quali non si vedeva più di quanto si vede di un iceberg in mare: fredde montagne affogate nel ghiaccio, morte da eoni immemorabili.

Ci indicarono che eravamo a nord della nostra strada più breve, se potevamo fidarci delle pessime indicazioni della pessima mappa che era tutto quel che avevamo. Il giorno dopo, per la prima volta, deviammo un po' a sud-est.

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