Dagli Archivi di Hain. Trascrizione di Documento Ansible, 01-01101-934-2-Gethen: Allo Stabile di Ollul: Rapporto di Genly Ai, Primo Mobile su Gethen/Inverno, Ciclo Hainiano 93, Anno Ecumenico 1490/97.
Farò il mio rapporto come se narrassi una storia, perché mi è stato insegnato, sul mio mondo natale, quand'ero bambino, che la Verità è una questione d'immaginazione. Il più solido dei fatti può soccombere o prevalere, a seconda dello stile in cui è esposto: come quel bizzarro gioiello organico dei nostri mari, che si fa più brillante quando una donna lo indossa e, indossato da un'altra, sbiadisce, si fa opaco e diventa polvere. I fatti non sono più solidi, coerenti e rotondi, e reali, di quanto non lo siano le perle. Entrambi, però, sono sensibili.
La storia non è completamente mia, né sarò io solo a narrarla. In realtà, neppure sono sicuro di chi sia questa storia; voi potrete essere giudici migliori. Ma è tutt'una, e se in certi momenti i fatti parranno cambiare, con una voce cambiata, ebbene, allora voi potrete scegliere il fatto che più vi piace; eppure, nessuno di essi è falso, e si tratta di una sola storia.
Essa comincia nel quarantaquattresimo diurno dell'Anno 1491, che sul pianeta Inverno nella nazione Karhide era Odharhahad Tuwa, o il ventiduesimo giorno del terzo mese di primavera dell'Anno Uno. Qui è sempre l'Anno Uno. Solo la datazione di ogni anno passato e futuro cambia, a ogni Giorno dell'Anno Nuovo, nel modo di contare indietro o avanti, rispetto all'unitario Ora. Così era primavera nell'Anno Uno a Erhenrang, capitale di Karhide, e la mia vita era in pericolo, e io non lo sapevo.
Mi trovavo in una parata. Camminavo subito dietro i gossiwor, e subito davanti al re. Pioveva.
Nubi gravide di pioggia sopra le torri nere, pioggia che cade nelle strade profonde, una nera città battuta dalla tempesta, una città di pietra attraverso la quale una vena d'oro si snoda lentamente. Primi vengono i mercanti, i potentati, e gli artigiani della Città di Erhenrang, fila dopo fila, stupendamente vestiti, e avanzano attraverso la pioggia a loro agio, come pesci nel mare. I loro volti sono intenti e calmi. Non marciano al passo. Questa è una parata senza soldati, neppure imitazioni di soldati.
Poi vengono i lord e i sindaci e i rappresentanti, una persona, o cinque, o quarantacinque, o quattrocento, da ciascun Dominio e Condominio di Karhide, una vasta processione ornata che si muove alla musica di corni di metallo e ceppi cavi d'osso e legno e alla melodia secca, pura dei flauti elettrici. Le diverse bandiere dei grandi Dominii si mescolano in una confusione di colori battuti dalla pioggia con le gialle bandiere che adornano la strada, e le diverse musiche di ciascun gruppo cozzano tra loro e si mescolano e s'intrecciano in molti ritmi echeggianti nella profonda strada di pietra.
Dopo questi, un corpo di giocolieri con lucide, levigate sfere d'oro che lanciano in alto in voli veloci, e prendono al volo, e lanciano di nuovo, da sole o in numero di cinque o sei, facendole ruotare intorno come fontane dorate di lucida abilità di giocolieri. E d'un tratto, come se esse avessero afferrato e trattenuto, letteralmente, la luce, le sfere d'oro risplendono vivide come cristallo: il sole fa capolino tra le nubi.
Dopo i giocolieri, quaranta uomini in giallo, suonatori di gossiwor. Il gossiwor, suonato solo alla presenza del re, produce un ruggito oltraggioso, sconsolato. Quaranta gossiwor suonati insieme scuotono la ragione di chiunque, scuotono le torri di Erhenrang, scuotono le nubi ventose e fanno cadere un ultimo zampillo di pioggia. Se è questa la Musica Reale, non c'è da meravigliarsi se i re di Karhide sono tutti pazzi.
Dopo i gossiwor, la compagnia reale, guardie e funzionari e dignitari della città e della corte, deputati, senatori, cancellieri, ambasciatori, lord e pari del Regno, nessuno di loro al passo o in fila, ma tutti intenti a camminare con grande dignità; e tra loro c'è Re Argaven XV, tunica e camicia e pantaloni bianchi, con gambali di cuoio color zafferano e un copricapo giallo, a punta. Un anello d'oro al dito è il suo ornamento, e l'unico segno della sua carica. Dopo questo gruppo otto individui massicci portano la portantina reale, tempestata di zaffiri gialli, nella quale nessun re è più salito da secoli, un residuo cerimoniale del Passato Lontano. Ai lati della portantina marciano otto guardie armate di «fucili d'assalto,» anch'essi residui di un passato più barbaro, ma non vuoti, essendo carichi di pallottole di ferro mortale. La morte cammina dietro il re. Dietro la morte vengono gli studenti delle Scuole Artigiane, dei Collegi, delle Professioni, e i Focolari del Re, lunghe file di bambini e di giovani in bianco e rosso e giallo e verde; e infine un certo numero di auto, quiete, lente, nere, che chiudono la parata.
La compagnia reale, dove sono anch'io, si raduna su una piattaforma di tronchi freschi, accanto all'incompiuto Arco della Porta del Fiume. L'occasione della parata è data dal completamento di quest'arcata, che completa la nuova Strada e Porto Fluviale di Erhenrang, una grandiosa opera di dragaggio e di costruzione e di viabilità che ha occupato cinque anni, e distinguerà il regno di Argaven XV negli annali di Karhide. Siamo passati, stretti e pigiati, sulla piattaforma, nei nostri abiti vistosi, pesanti e umidi. La pioggia è cessata, il sole brilla su di noi, lo splendido, radiante, traditore sole di Inverno. Osservo, rivolgendomi alla persona che si trova alla mia sinistra:
— Fa caldo. Fa davvero caldo.
La persona alla mia sinistra… un karhidiano tarchiato, bruno, dai capelli lunghi e diritti, che indossa un soprabito pesante, camicia bianca, e pantaloni pesanti, e una catena, al collo, di grossi anelli d'argento, ampi un palmo ciascuno… questa persona, sudando copiosamente, mi dice:
— Proprio così.
Tutt'intorno a noi, che stiamo pigiati sulla nostra piattaforma, si stendono i volti del popolo della città, volti rivolti all'insù, come un fondale di sassi bruni, rotondi, scintillanti di mica per i mille occhi curiosi.
E ora il re sale su una passerella di legno che conduce dalla piattaforma fin sopra la cima dell'arcata, i cui pilastri non ancora uniti torreggiano sopra folla e moli e fiume. Mentre egli sale, la folla si muove e dice in un grande mormorio: «Argaven.» Il re non risponde e non reagisce. Nessuno si aspetta una risposta. I gossiwor lanciano una potente, tonante scarica di suono discordante, e poi tacciono. Silenzio. Il sole brilla su città, fiume, folla e re. I muratori, di sotto, hanno messo in funzione un argano elettrico, e mentre il re sale ancora la chiave di volta dell'arcata sale, accanto a lui, nella sua cinghia, è sollevata, sistemata, e adattata quasi senza rumore, benché sia un blocco pesante una tonnellata, nello spazio vuoto tra i due pilastri, facendone una cosa sola, una cosa unica, un'arcata. Un muratore con secchiello e cazzuola aspetta il sovrano, in cima all'impalcatura; tutti gli altri operai discendono per le scale di corda, come uno sciame di pulci. Il re e il muratore s'inginocchiano, in alto, tra il fiume e il sole, sulla loro porzione d'impalcatura. Prendendo la cazzuola, il re comincia a fissare con la calcina le lunghe giunture della chiave di volta. Non fa solo un gesto simbolico, per restituire subito la cazzuola al muratore, ma si mette al lavoro metodicamente. Il cemento che egli usa è di un colore rosato diverso dal resto della muratura, e dopo aver osservato per cinque o dieci minuti il lavoro dell'industrioso monarca io chiedo alla persona alla mia sinistra:
— Le vostre chiavi di volta sono sempre murate con cemento rosso? — Perché lo stesso colore appare intorno alle chiavi di volta di ciascuna arcata del Vecchio Ponte, che si protende orgoglioso e slanciato sul fiume, a monte rispetto alla nuova arcata.
Asciugandosi il sudore dalla fronte scura l'uomo… uomo, devo dire, avendo già detto lui ed egli… l'uomo risponde:
— Molto tempo fa una chiave di volta veniva sempre fissata con una calcina di ossa tritate miste a sangue. Ossa umane, sangue umano. Senza il vincolo del sangue l'arcata crollerebbe, vedete. Ai nostri giorni, usiamo il sangue degli animali.
Così lui parla spesso, franco eppure prudente, ironico, come se si rendesse conto in ogni momento che io vedo e giudico da alieno: una consapevolezza bizzarra in un membro di una razza così isolata, e un membro di così alto rango. Egli è uno di quegli uomini più potenti del paese; non sono sicuro dell'esatto equivalente storico della sua posizione, visir o primo ministro o consigliere; la parola Karhidi che lo definisce significa «l'Orecchio del Re». Egli è Lord di un Dominio e Lord del Regno, un uomo che muove grandi eventi. Il suo nome è Therem Harth rem ir Estraven.
Il re sembra aver concluso il suo lavoro di muratura, e io mi rallegro; ma attraversando la volta dell'arcata, sulla precaria tela di ragno dell'impalcatura, egli comincia a lavorare sull'altro lato della chiave di volta, che in fondo ha pur sempre due lati. Non serve a nulla essere impazienti, in Karhide. Non si tratta certo di un popolo flemmatico, però i karhidiani sono ostinati, sono pertinaci, finiscono di intonacare le giunzioni. Le folle sul Lungo Sess sono felici di osservare il lavoro del monarca, ma io mi annoio, e ho caldo. Prima d'ora non ho mai avuto caldo, su Inverno; non mi capiterà più, certo; eppure non riesco ad apprezzare l'evento. Sono abbigliato per l'Era Glaciale, e non per il pieno sole, indosso strati e strati di vestiti, fibre vegetali intrecciate, fibre artificiali, pelliccia, pelle, cuoio, un'armatura massiccia contro il freddo, dentro la quale ora sto cuocendo come un ravanello. Per distrarmi guardo le folle e gli altri componenti della parata raccolti intorno alla piattaforma, con le bandiere del loro Dominio e del loro Clan pendenti immobili e vivaci nella luce del sole, e pigramente domando a Estraven qual è quella bandiera e quell'altra e l'altra ancora. Lui conosce tutte le bandiere che gli indico, benché siano a centinaia, alcune di remoti domimi, focolari e tribù della frontiera delle Bufere di Pering e Kermlandia.
— Io sono di Kermlandia — mi dice, quando io esprimo ammirazione per il suo sapere. — Comunque, è il mio lavoro conoscere i Dominii. Essi sono Karhide. Governare questa terra è governare i suoi Lords. Non che questo sia mai stato fatto. Voi conoscete il detto, Karhide non è una nazione, ma una lite difamiglia?
Non lo conosco, e sospetto che sia stato Estraven a coniarlo; ha la sua impronta.
A questo punto un altro membro del kyorremy, la camera alta o parlamento alla cui testa si trova Estraven, spingendo e dando di gomito si fa strada, avvicinandosi a lui, e comincia a parlargli. Questi è il cugino del re Pemmer Harge rem ir Tibe. La sua voce è bassissima quando parla a Estraven, il suo atteggiamento vagamente insolente, il suo sorriso frequente. Estraven, sudando come ghiaccio al sole, resta rigido e freddo come ghiaccio, rispondendo ai mormoni di Tibe a voce alta, in un tono la cui cortesia formale dà all'altro l'aspetto di uno stupido. Io ascolto, mentre guardo il re che prosegue nel suo lavoro di muratura, ma non capisco niente, all'infuori dell'animosità esistente tra Tibe ed Estraven. Non ha niente a che fare con me, in ogni caso, e io sono semplicemente interessato al comportamento di queste persone che governano una nazione, nel senso più antiquato, che regolano le fortune di venti milioni di altre persone. Il potere è diventato una cosa tanto sottile e complessa, nei sistemi assunti dall'Ecumene, che soltanto una mente sottile può vederlo operare; qui esiste, invece, ancora limitato, ancora visibile. In Estraven, per esempio, si avverte il potere dell'uomo come un accrescimento del suo carattere; egli non può fare un gesto vuoto, o pronunciare una parola che non venga ascoltata. Egli lo sa, e il saperlo gli dà una realtà maggiore di quella posseduta dalla maggior parte delle altre persone; una solidità dell'essere, una sostanza, una grandezza umana. Nulla ha più successo del successo. Io non mi fido di Estraven, i cui motivi sono eternamente oscuri; non mi piace; eppure io avverto la sua autorità, e reagisco a essa, con la stessa certezza con la quale avverto il calore del sole, e reagisco a esso.
E proprio mentre penso questo, il sole del mondo si affievolisce, tra nubi che tornano a radunarsi, e presto una pioggia rada e battente scende lungo il fiume, bagnando le folle sul Lungo Fiume, incupendo il cielo. Quando il re discende dall'impalcatura e attraversa di nuovo la passerella, la luce attraversa le nubi per un'ultima volta, e la figura bianca del monarca e la grande arcata si stagliano per un momento, vivide e splendide contro il cielo a sud, nero di tempesta. Le nubi si chiudono. Un vento freddo, tagliente, scende per la Strada del Porto e del Palazzo, il fiume si fa grigio, gli alberi sul Lungo Fiume s'inchinano e rabbrividiscono. La parata è finita. Mezz'ora più tardi già nevica.
Quando l'auto del re si allontanò, prendendo la Strada del Porto e del Palazzo, e le folle cominciarono a muoversi come i ciottoli di un greto mossi da una lenta marea, Estraven si rivolse di nuovo a me e disse:
— Volete cenare con me questa sera, signor Ai?
Accettai, più con sorpresa che con piacere. Estraven aveva fatto molto per me, negli ultimi sei, otto mesi, ma non mi aspettavo né desideravo una simile esibizione di favore personale, come un invito nella sua casa. Harge rem ir Tibe era ancora vicino a noi, e poteva ascoltarci, e capii che nelle intenzioni di Estraven, egli doveva proprio cogliere le nostre parole. Infastidito da quest'aura d'intrigo effemminato, scesi dalla piattaforma e cercai di confondermi nella folla, curvando le spalle e piegando un po' le ginocchia, nel fare questo. Io non sono molto più alto di un normale getheniano, ma la differenza si nota di più tra una folla. Quello è lui, guardate, ecco l'Invitato. Naturalmente questo faceva parte del mio lavoro, ma era una parte che si faceva più dura, e non più facile, con il passare del tempo; sempre più frequentemente desideravo l'anonimo, desideravo confondermi con gli altri, essere uno dei tanti. Bramavo di essere uguale alla folla.
Un paio d'isolati più avanti, lungo la Strada delle Birrerie, svoltai verso i miei alloggi e improvvisamente, là dove la folla s'assottigliava, trovai Tibe, che camminava accanto a me.
— Un evento impeccabile, una perfetta cerimonia — disse il cugino del re, sorridendomi. I suoi denti lunghi, puliti, gialli apparivano e sparivano in un viso giallo che era tutto un fittissimo reticolato, benché egli non fosse vecchio, una ragnatela di rughe minuscole, sottilissime, morbide.
— Un buon augurio per il successo del nuovo Porto — dissi.
— Sì davvero. — Di nuovo i denti.
— La cerimonia della chiave di volta colpisce enormemente…
— Sì davvero. Quella cerimonia è discesa fino a noi dal più lontano passato. Ma senza dubbio Lord Estraven vi ha già spiegato tutto questo.
— Lord Estraven è molto cortese.
Stavo cercando di parlare banalmente, eppure tutto ciò che dicevo a Tibe pareva assumere un doppio significato.
— Oh, molto davvero — disse Tibe. — Davvero, Lord Estraven è famoso per la sua cortesia con gli stranieri. — Sorrise di nuovo, e ogni dente pareva avere un significato, doppio, multiplo, trentadue significati diversi.
— Pochi stranieri sono stranieri quanto me, Lord Tibe. E sono molto riconoscente per la cortesia.
— Sì davvero, sì davvero! E la gratitudine è un sentimento nobile e raro, molto lodato dai poeti. Raro più di qualsiasi altro qui a Erhenrang, senza dubbio perché non la si può praticare. Noi viviamo in un'epoca dura, un'epoca ingrata. Le cose non sono come ai tempi dei nostri nonni, non è vero?
— Questo non posso saperlo, signore, ma ho udito lo stesso lamento su altri mondi.
Tibe mi fissò a lungo, come se avesse voluto stabilire la mia pazzia. Poi mostrò di nuovo i lunghi denti gialli.
— Ah sì! Sì davvero! Continuo a dimenticare che voi venite da un altro pianeta. Ma naturalmente questo non è un argomento che voi possiate mai dimenticare. Benché senza dubbio la vita sarebbe molto più solida e semplice e sicura per voi, qui a Erhenrang, se poteste dimenticarlo, eh? Sì davvero! Ecco qui la mia auto, l'ho lasciata qui ad aspettare, in disparte. Vorrei offrirvi un passaggio fino alla vostra isola*), ma devo rinunciare al privilegio, poiché devo presentarmi alla Casa del Re tra breve, e i parenti poveri devono arrivare in orario, come dice il proverbio, eh? Sì davvero! — disse il cugino del re, salendo sulla sua piccola auto elettrica, scoprendo i denti e fissandomi, al di sopra della spalla, con gli occhi velati da un reticolato di rughe.
Tornai a casa a piedi, nella mia isola. Il giardino che si trovava davanti a essa era rivelato, ora che anche l'ultima neve dell'inverno si era sciolta, e le porte invernali, a tre metri dal suolo, erano chiuse per qualche mese, fino a quando l'autunno non fosse ritornato con la sua neve profonda. Dietro l'angolo, sul lato dell'edificio, nel fango e nel ghiaccio e nella vegetazione primaverile del giardino, precoce e soffice e rigogliosa, una giovane coppia era in piedi, e parlava. Le loro mani destre erano intrecciate. Erano nella prima fase del kemmer. I fiocchi grandi e soffici della neve di primavera danzavano intorno a loro, che erano a piedi nudi nel fango gelido, con le mani intrecciate, occhi solo l'uno per l'altro. Primavera su Inverno.
Feci colazione nella mia isola, e quando i gong della Torre di Remny batterono la Quarta Ora, mi trovavo già nel Palazzo, pronto per la cena. I karhidiani consumano quattro pasti. Non esistono grandi animali da macello, su Inverno, e non esistono prodotti dei mammiferi, come il latte, il burro e il formaggio; i soli cibi ad alto contenuto di proteine, e di carboidrati, sono i diversi generi di uova, pesci, noci, e un tipo di frumento. Una dieta misera per un clima spietato, ed era necessario rifornirsi spesso di carburante. Io mi ero abituato a mangiare, così mi sembrava, ogni dieci minuti o giù di lì. Fu solo assai più tardi, in quell'anno stesso, che io scoprii come i getheniani avessero portato quasi alla perfezione non solo la tecnica di rimpinzarsi perpetuamente, ma anche di digiunare per periodi indefiniti.
La neve continuava a cadere, una blanda tormenta di primavera, molto più piacevole della pioggia implacabile del Disgelo, che era passato da poco. Arrivai al Palazzo, e lo attraversai, nell'oscurità quieta e pallida della nevicata, e smarrii la strada una volta soltanto. Il Palazzo di Erhenrang è una città interna, una distesa racchiusa da mura, e fatta di palazzi, torri, giardini, cortili, chiostri, portici, tettoie e pontili coperti, gallerie scoperte, piccole foreste e torrioni e segrete, il prodotto di secoli di paranoia su vasta scala. Sopra tutto questo si ergevano le fosche, rosse, elaborate mura della Casa Reale, la quale, benché venga usata in perpetuo, viene abitata soltanto dal re. Tutti gli altri, servitori, consiglieri, lords, pari, ministri, parlamentari, guardie e chiunque altro, dormono in un altro palazzo, o fortezza, o custodia, o caserma, o casa, all'interno delle mura del Palazzo. La casa di Estraven, segno dell'altissimo favore del re, era la Dimora Rossa dell'Angolo, costruita 440 anni prima per Harmes, amato kemmeri di Emran III, la cui bellezza viene ancora celebrata, e che i sicari della Fazione Interna rapirono, mutilarono, e resero idiota. Emran III morì quarant'anni dopo, sfogando ancora la sua vendetta sulla sua infelice nazione: Emran dalla Sorte Crudele. La tragedia è così antica che il suo orrore si è in parte dissipato nel tempo, e solo una certa aria di sfiducia e malinconia resta ancora aggrappata alle pietre e alle ombre della casa. Il giardino era piccolo e circondato da pareti; alberi di serem curvi su una piccola piscina sassosa. Nei fasci fievoli di luce che uscivano dalle finestre della casa, riuscii a vedere i fiocchi di neve e i fiocchi bianchi e filiformi delle spore degli alberi scendere sofficemente insieme nell'acqua nera. Estraven mi stava aspettando, in piedi, nel gelo, con il capo scoperto e senza soprabito, intento a osservare la piccola, segreta e incessante discesa di neve e semi nella notte. Mi accolse con un quieto saluto, e mi accompagnò nella casa. Non c'erano altri ospiti.
Questo mi offrì un motivo di meraviglia, ma andammo subito a tavola, e non si parla di lavoro quando si mangia; inoltre, la mia meraviglia si rivolse subito al pasto, che era superbo, e perfino le eterne focacce erano state trasformate magicamente da un cuoco la cui arte lodai con tutto il cuore. Dopo la cena, accanto al fuoco, bevemmo birra calda. Su di un mondo nel quale la più comune delle posate è un piccolo strumento con il quale si rompe il ghiaccio che si è formato sulle vostre bevande tra un sorso e l'altro, la birra calda è una cosa che si impara ad apprezzare.
Estraven era stato un amabile conversatore, a tavola; ora, seduto dall'altra parte del focolare, davanti a me, era quieto e taciturno. Benché già da quasi due anni mi trovassi su Inverno, era ancora lontano il giorno in cui avrei potuto vedere gli abitanti del pianeta attraverso i loro stessi occhi. Io tentavo e tentavo, ma i miei sforzi prendevano la forma di una visione innaturale, quasi una morbosa coscienza di sé, di un getheniano che prima era un uomo, e poi una donna, e questa visione costringeva l'oggetto a entrare in una di queste categorie, così irrilevanti ai loro occhi, e così essenziali ai miei. Così, mentre io sorseggiavo la mia birra amara e fumante, pensai che l'atteggiamento di Estraven a tavola era stato femminile, tutto fascino e tatto e mancanza di vera sostanza, specioso e accorto. Era forse, in realtà, questa femminilità cerimoniosa, arrendevole, che non mi piaceva, in lui, e che mi portava a diffidare? Perché era impossibile pensare a lui come a una donna, quella presenza scura, ironica, potente che era vicino a me nell'oscurità rischiarata dalle luci del focolare, eppure ogni volta che pensavo a lui come a un uomo, provavo un senso di falsità, di impostura; in lui, o nel mio atteggiamento verso di lui? La sua voce era gentile e risonante, ma non profonda, non del tutto una voce di donna, neppure… ma che cosa stava dicendo?
— Sono dolente — stava dicendo, — di aver dovuto rimandare per tanto tempo il piacere di avervi nella mia casa; e almeno sotto questo rispetto, sono felice che tra noi non ci sia più alcuna questione di patronato. — Questo mi diede da riflettere per un poco. Certamente lui era stato il mio patrono, nella corte, fino a quel momento. Intendeva dire, forse, che l'udienza che era riuscito a farmi accordare dal re, per il giorno dopo, mi aveva sollevato a uno stato di uguaglianza con lui?
— Temo di non riuscire a seguirvi — dissi.
A queste parole, lui tacque, evidentemente perplesso a sua volta.
— Ebbene, voi capite — disse, alla fine, — essendo qui… voi capite che io non agisco più in vostro favore e per vostro conto davanti al re, naturalmente.
Parlava come se avesse vergogna di me, e non di sé. Chiaramente c'era un significato nel suo invito, e nel fatto che io l'avessi accettato, un significato che io non avevo colto. Ma il mio errore era stato nei modi, il suo nella morale. Tutto ciò che riuscii a pensare, dapprima, fu che avevo visto giusto fin dall'inizio, nel non fidarmi di Estraven. Lui non era solamente accorto, e non era solamente potente, era anche falso e sleale. Per tutti quei mesi trascorsi a Erhenrang era stato lui ad ascoltarmi, a rispondere alle mie domande, a mandare medici e ingegneri a verificare l'autentica natura aliena del mio fisico e della mia astronave, a presentarmi alle persone che io avevo bisogno di conoscere, e ad elevarmi gradualmente dalla condizione che avevo nel primo anno, un mostro dalla grande immaginazione, al mio presente riconoscimento, quale misterioso Inviato, che stava per essere ricevuto dal re. E ora, avendomi portato sino a quella pericolosa eminenza, improvvisamente e freddamente mi annunciava che ritirava il suo appoggio.
— Mi avete portato a contare su voi…
— È stato fatto male.
— Intendete dire che, nel preparare questa udienza, non avete parlato in favore della mia missione al re, come avevate… — Ebbi il buon senso di fermarmi, prima di pronunciare la parola promesso.
— Non posso.
Ero in collera, ma in lui non incontrai né collera, né scuse.
— Volete dirmi il perché?
Dopo un breve silenzio, egli disse:
— Si. — E poi tacque di nuovo.
Durante la pausa, cominciai a pensare che un alieno inetto e indifeso non avrebbe dovuto chiedere delle ragioni al primo ministro di un regno, soprattutto quando egli non comprende e forse non comprenderà mai le fondamenta del potere e il funzionamento del governo in quel regno. Senza dubbio, questa era totalmente una questione di shifgrethor… prestigio, faccia, posto, la relazione d'orgoglio, l'intraducibile, e dominante principio di tutte le civiltà di Gethen. E se fosse stato questo, io non avrei potuto capire.
— Avete sentito quel che mi ha detto il re alla cerimonia, oggi?
— No.
Estraven si curvò in avanti, quasi sul focolare, prese la brocca di birra dalle calde ceneri, e riempì il mio boccale d'argento. Non disse altro, e cosi io aggiunsi:
— Il re non vi ha parlato al mio cospetto — dissi.
— E neppure al mio — disse lui.
Capii, finalmente che stavo trascurando un altro segnale. Maledizione alla sua obliquità effemminata, pensai. E così pensando, dissi:
— State cercando di dirmi, Lord Estraven, di non godere più il favore del re?
Credo che allora fosse in collera, ma non disse niente che potesse mostrarlo, solo:
— Non sto cercando di dirvi nulla, signor Ai.
— Per Dio, vorrei che lo faceste!
Mi fissò con aria curiosa.
— Bene, allora, mettiamola in questo modo. Ci sono alcune persone, a corte, che, per usare la vostra frase, godono il favore del re, ma che non favoriscono la vostra presenza, né la vostra missione qui.
E così ti stai affrettando a unirti a loro, vendendomi con tanta disinvoltura per salvarti la pelle, pensai, ma era inutile dirlo a parole. Estraven era un cortigiano, un politico, e io ero uno stupido a essermi fidato di lui. Perfino in una società bisessuale gli uomini politici erano spesso qualcosa di meno di un uomo integro. Il suo invito a cena mostrava come egli pensasse che io avrei accettato il suo tradimento con la stessa disinvolta facilità con la quale lui l'aveva commesso. Chiaramente, salvare la faccia era più importante dell'onestà. Così mi costrinsi a dire:
— Sono spiacente che la vostra cortesia nei miei confronti vi abbia provocato dei guai. — Carboni ardenti. Provai un appropriato, piacevole senso di superiorità morale, ma non per molto: lui era troppo imprevedibile.
Sedette, appoggiato allo schienale, in modo che la luce del fuoco si posasse sanguigna sulle sue ginocchia e sulle mani piccole, forti, delicate, e sul boccale d'argento che teneva in pugno, ma lasciasse nelle tenebre il suo viso: un viso scuro perennemente ombreggiato dai folti capelli lisci e lunghi, e dalle folte sopracciglia e dalle lunghe ciglia, e da una oscura mitezza di espressione. Si può leggere il viso di un gatto, di una foca, di una lontra? Alcuni getheniani, pensavo, sono come questi animali, con grandi occhi luminosi, profondi, che non cambiano espressione quando voi parlate.
— Io ho provocato i miei guai — rispose, — con un atto che non aveva nulla a che fare con voi, signor Ai. Voi sapete che Karhide e Orgoreyn hanno una disputa che riguarda un territorio della nostra frontiera, nell'alta Barriera di Settentrione, vicino a Sassinoth. Il nonno di Argaven ha reclamato la Valle di Sinoth in nome di Karhide, e i Commensali non hanno mai riconosciuto la pretesa. Molta neve caduta da una sola nube, e si fa sempre più fitta e più alta. Io ho aiutato certi contadini kharidi che vivono nella Valle a trasferirsi a est, attraverso l'antica frontiera, pensando che la disputa avrebbe potuto risolversi da sola, se la Valle fosse stata lasciata semplicemente agli Orgota, che sono vissuti là per diverse migliaia di anni. Alcuni anni or sono io facevo parte dell'Amministrazione della Barriera di Settentrione, e ho avuto modo di conoscere alcuni di questi contadini. Detesto l'idea che essi possano venire uccisi in un assalto, o inviati nelle Fattorie Volontarie di Orgoreyn. Perché non ovviare l'argomento della disputa?… Ma questa non è un'idea patriottica. In realtà, è un'idea vile e bastarda, e pregiudica lo shifgrethor del re in persona.
Le sue ironie, e questo altalenare di una controversia di frontiera con Orgoreyn, non erano di alcun interesse per me. Ritornai all'argomento che si trovava tra noi. Che mi fidassi o no di lui, avrebbe potuto essermi utile.
— Mi dispiace — dissi, — ma sembra deplorevole che questa questione riguardante pochi contadini possa pregiudicare le possibilità di successo della mia missione presso il re. C'è molto di più, in gioco, di poche miglia di confini nazionali.
— Sì. Molto, molto di più. Ma forse l'Ecumene, che da una frontiera all'altra abbraccia cento anni-luce, sarà paziente con noi per un poco.
— Gli Stabili dell'Ecumene sono uomini molto pazienti, signore. Aspetteremo cento anni, o cinquecento, perché Karhide e tutto il resto di Gethen deliberino e riflettano sulla decisione di unirsi o meno al resto del genere umano. Io parlo soltanto per speranza personale. E per una delusione personale. Confesso di aver pensato che, con il vostro appoggio…
— Anch'io. Bene, i Ghiacciai non sono gelati in una notte… — Le espressioni stereotipate salivano facilmente alle sue labbra, ma la sua mente era altrove. Era cupo e pensieroso. Immaginai che egli mi muovesse insieme alle altre pedine, nel suo gioco per il potere. — Voi siete venuto nel mio paese — disse, alla fine, — in un tempo strano. Le cose cambiano; noi stiamo iniziando una nuova svolta. No, non è tanto questo, quanto il proseguire troppo lontano lungo il cammino che abbiamo percorso. Pensavo che la vostra presenza, la vostra missione, potessero impedirci di sbagliare, offrirci una possibilità completamente nuova. Ma al momento giusto… nel luogo giusto. E tutto eccessivamente rischioso, signor Ai.
Spazientito dalle sue generalizzazioni, dalle vaghe frasi che pronunciava, dissi:
— È implicito nelle vostre parole il concetto che questo non sia il momento giusto. Mi consigliate forse di annullare la mia udienza?
La mia gaffe era ancora peggiore in lingua Kharidi, ma Estraven non sorrise, né fece una smorfia.
— Temo che soltanto il re abbia questo privilegio — disse, in tono blando.
— Oh, Dio, sì. Non intendevo quello. — Mi presi il capo tra le mani, per un momento. Allevato nell'apertissima, libera società della Terra, non avrei mai saputo dominare il protocollo, né l'impassibilità, così apprezzati dai karhidiani. Sapevo bene cos'era un re, la storia stessa della Terra ne è piena, ma non avevo un'esperienza a guidarmi, per farmi avvertire automaticamente il senso del privilegio… non avevo tatto. Sollevai il mio boccale e bevvi un sorso caldo e lungo e amaro. — Bene, dirò al re meno di quanto intendessi dire, quando potevo contare su di voi.
— Bene.
— Perché bene? — domandai.
— Ebbene, signor Ai, voi non siete pazzo. Io non sono pazzo. Ma in fondo, né voi né io siamo re, vedete… Suppongo che intendeste dire ad Argaven, razionalmente, che la vostra missione qui consiste nel tentare di stabilire una alleanza tra Gethen e l'Ecumene. E, razionalmente, egli questo lo sa già; perché, come sapete, io gliel'ho detto. Ho spinto la vostra causa, imponendola alla sua attenzione, esortandolo a considerarla, ho cercato di farlo interessare a voi. È stato fatto male, con una scelta dei tempi ancor peggiore. Ho dimenticato, essendo io stesso troppo interessato, che egli è un re, e non vede le cose razionalmente, ma come un re. Tutto ciò che gli ho detto significa per lui, semplicemente, che il suo potere è minacciato, che il suo regno è un granello di polvere nello spazio, che la sua regalità è uno scherzo per gli uomini che governano cento mondi.
— Ma l'Ecumene non governa, bensì coordina. Il suo potere è precisamente lo stesso dei suoi stati membri, e dei mondi che lo compongono. Alleandosi con l'Ecumene, Karhide diventerà infinitamente più importante, e meno minacciata, di quanto mai lo sia stata.
Estraven non rispose, per un poco. Restò seduto, con lo sguardo fisso sul fuoco, perduto tra le fiamme che scintillavano, sbiadivano e si alzavano, e ammiccavano, riflesse, dal suo boccale d'argento e dalla grande, lucida catena d'argento della sua carica, che teneva sulle spalle. La vecchia casa era silenziosa, intorno a noi. C'era stato un servo che aveva accudito alla nostra cena, ma i karhidiani, non avendo istituzioni di schiavitù o di vincoli personali, assumono i servizi, e non le persone, e i servi ormai se ne erano andati tutti, tornando nelle loro case. Un uomo come Estraven doveva avere delle guardie intorno a lui, da qualche parte, perché l'assassinio è un'istituzione viva e fertile in Karhide, ma io non avevo visto guardie, non avevo udito nulla. Eravamo soli.
Ero solo, con uno straniero, entro le mura di un oscuro palazzo tenebroso, in una strana città cambiata dalla neve, nel cuore dell'Era Glaciale di un pianeta alieno.
Tutto quel che avevo detto, quella notte e dal momento stesso in cui ero arrivato su Inverno, mi parve d'un tratto stupido e incredibile a un tempo. Come potevo attendermi che quest'uomo, o chiunque altro, credesse alle mie favole di altri mondi, altre razze, di un governo vago e benevolo perduto là, lontano, nei recessi dello spazio siderale? Era tutto assurdo, era tutto privo di senso. Io ero apparso in Karhide in una nave di strano tipo, e differivo fisicamente dai getheniani, sotto alcuni aspetti; questo doveva essere spiegato. Ma le mie spiegazioni erano assurde, offensive, incredibili. In quel momento, neppure io vi credevo.
— Io vi credo — disse lo straniero, l'alieno solo con me, e così forte era stato il mio accesso di alienazione personale, che sollevai lo sguardo, confuso e stordito, a fissarlo, sorpreso. — Temo che anche Argaven vi creda. Ma non si fida di voi. In parte perché non si fida più di me. Io ho commesso degli errori, sono stato sconsiderato e imprudente. Non posso chiedere più neppure la vostra fiducia, avendovi messo in pericolo. Ho dimenticato quel che è un re, ho dimenticato che un re, vedendosi con i propri occhi, è Karhide, ho dimenticato che cos'è il patriottismo e che il re è, per necessità, il patriota perfetto. Permettetemi di chiedervi questo, signor Ai: voi sapete, per esperienza diretta, che cos'è il patriottismo?
— No — dissi, scosso dalla forza di quell'intensa personalità che si rivelava, rovesciandosi d'un tratto completamente su di me. — Non credo di saperlo. A meno che per patriottismo non intendiate l'amore per il paese natale, l'amore per la propria patria, per quello che io conosco.
— No, non intendo parlare di amore, quando dico patriottismo. Intendo dire paura. La paura dell'altro. E le sue espressioni sono politiche, non poetiche: odio, rivalità, aggressione. Cresce dentro di noi, quella paura. Cresce dentro di noi, anno dopo anno. Noi abbiamo seguito la nostra strada per troppo tempo, siamo andati troppo oltre. E voi, che venite da un mondo cresciuto al di sopra delle nazioni, divenuto troppo adulto per considerare più le nazioni, ormai da molti secoli, voi che non riuscite quasi a comprendere ciò di cui io sto parlando, voi che venite a indicarci la nuova strada… — Si interruppe. Dopo qualche istante proseguì, di nuovo controllato, di nuovo freddo e cortese: — È a causa della paura che io rifiuto di appoggiare la vostra causa presso il re, ora. Ma non è paura per me, signor Ai. Io non agisco patriotticamente. Esistono, dopotutto, altre nazioni su Gethen.
Non avevo idea di che cosa volesse concludere, di dove volesse arrivare, ma ero certo che non intendeva quello che apparentemente intendeva. Di tutte le anime oscure, enigmatiche, indecifrabili che avevo conosciuto in quella triste, spoglia città, la sua era la più oscura. Non avrei giocato il suo gioco contorto, non mi sarei addentrato nel suo labirinto. Non diedi alcuna risposta. Dopo qualche tempo egli proseguì, in tono prudente:
— Se vi ho ben capito, il vostro Ecumene è dedicato essenzialmente all'interesse generale del genere umano. Ora, per esempio, gli Orgota hanno esperienza nel subordinare gli interessi locali all'interesse generale, mentre Karhide non ha quasi alcuna esperienza. E i Commensali di Orgoreyn sono quasi tutti uomini sani di mente, anche se la loro intelligenza non è grande, mentre il re di Karhide non è soltanto pazzo, ma anche piuttosto stupido.
Era chiaro che Estraven non era fedele a nessuno. Dissi, provando un senso di vago disgusto:
— Deve essere difficile servirlo, se così stanno le cose.
— Non sono sicuro di aver mai servito il re — disse il primo ministro del re. — E neppure di averne mai avuto l'intenzione. Io non sono servo di nessuno. Ogni uomo deve gettare la sua ombra…
I gong della Torre di Remny stavano battendo la Sesta Ora, mezzanotte, e presi quel suono come una scusa per andarmene. Mentre nel corridoio indossavo il mio soprabito, Estraven disse:
— Per il presente ho perduto l'occasione, perché suppongo che voi lascerete Erhenrang… — ma perché lo supponeva?… — Ma confido che possa venire un giorno in cui io potrò farvi di nuovo le mie domande. Ci sono tante cose che io voglio sapere. In particolare, sul vostro modo di parlare con la mente; non avete neppure cominciato a tentare di spiegarmelo.
La sua curiosità pareva autentica, genuina. Aveva la sfrontata improntitudine dei potenti. Anche le sue promesse di aiutarmi erano parse genuine. Risposi di sì, naturalmente, che l'avrei fatto in qualsiasi momento egli avesse voluto, e quella fu la fine della serata. Mi accompagnò fuori, attraverso il giardino, dove la neve era una coltre sottile nella luce della grande luna livida e sanguigna di Gethen. Quando uscimmo rabbrividii, perché era freddo, molto freddo, si era molto al di sotto dello zero; e vedendo questo lui mi chiese, con aria sorpresa e cortese:
— Avete freddo? — Per lui, naturalmente, quella era una mite serata di primavera.
Ero stanco e depresso. Gli dissi:
— Ho freddo da quando sono giunto su questo mondo.
— Come lo chiamate, questo mondo, nella vostra lingua?
— Gethen.
— Non gli avete dato un nome vostro?
— Sì, l'hanno fatto i Primi Investigatori. L'hanno chiamato Inverno.
Ci eravamo fermati sul cancello che dava all'esterno, tra le mura che racchiudevano il giardino. Fuori, il terreno e i tetti del Palazzo erano sagome fosche, cupe, che si ergevano qua e là, a diverse altezze, una massa confusa immersa nel fosco chiarore della neve notturna che scendeva sfarfallando dal cielo plumbeo, dove le nubi erano squarciate là dove galleggiava sanguigna la luna, e quella massa era rischiarata, a intervalli diversi, dalle feritoie dorate, confuse delle finestre. Là in piedi, sotto la stretta arcata, sollevai lo sguardo, chiedendomi se anche quella chiave di volta fosse stata murata con una calcina di ossa e di sangue. Estraven si congedò da me e mi voltò le spalle; non era mai troppo espansivo, nei suoi saluti e nei suoi addii. Io camminai per i cortili e i viali silenziosi del Palazzo, e i miei stivali scricchiolavano sulla neve sottile rischiarata dalla luna, e poi mi diressi verso casa, attraverso le strade profonde della città. Avevo freddo, ero sfiduciato, e ossessionato dalla perfidia, e dalla solitudine, e anche dalla paura.